Tratto da Stalin - Opere scelte Vol. 1- Laboratorio Politico
Testo messo a disposizione da Edizioni La Città del Sole conversione in html a cura del CCDP
Stalin
I La nazione
II Il movimento nazionale
III Impostazione del problema
IV L’autonomia culturale nazionale
V Il Bund, il suo nazionalismo, il
suo separatismo
VI I caucasiani e la conferenza dei
liquidatori
Il periodo della controrivoluzione ha portato in Russia non soltanto «tuoni e
fulmini», ma anche delusione nel movimento, sfiducia nelle forze comuni. Si era
creduto in un «avvenire luminoso» e tutti avevano lottato uniti, senza tener
conto della nazionalità: le questioni comuni innanzitutto! Poi si insinuò negli
animi il dubbio e la gente incominciò a dividersi in scompartimenti nazionali:
ognuno conti solo su di sé! La «questione nazionale» innanzitutto!
Al tempo stesso, si produceva un importante rivolgimento nella vita economica
del paese. Il 1905 non era passato invano: le sopravvivenze del regime feudale
nelle campagne ricevettero un altro colpo. Una serie di buoni raccolti dopo la
carestia e l’ascesa industriale che seguì diedero nuovo impulso al capitalismo.
La differenziazione nelle campagne e l’incremento delle città, lo sviluppo del
commercio e delle vie di comunicazione fecero un grande passo avanti. Ciò è
particolarmente vero per le regioni periferiche. Ma tutto questo non poteva non
accelerare il processo di consolidamento economico delle nazionalità della
Russia. Queste ultime dovevano mettersi in movimento...
Il «regime costituzionale», instaurato in quel periodo, agiva nello stesso
senso, favorendo il risveglio delle nazionalità. Lo sviluppo dei giornali e in
generale dell’attività editoriale, una certa libertà di stampa e di organizzazione
culturale, lo sviluppo dei teatri popolari, ecc., contribuirono senza dubbio al
rafforzamento dei «sentimenti nazionali». La Duma (1), con
la sua campagna elettorale e con i suoi gruppi politici, offrì nuove
possibilità al rianimarsi delle singole nazioni, una nuova e vasta arena per la
loro mobilitazione.
E l’ondata di nazionalismo bellicoso che si scatenò dall’alto e tutta una serie
di azioni repressive da parte dei «detentori del potere», che facevano scontare
alle regioni periferiche il loro «amore per la libertà», scatenarono una
contro-ondata di nazionalismo dal basso, che talora si trasformava in
grossolano sciovinismo. Il rafforzarsi del sionismo tra gli ebrei, lo
svilupparsi dello sciovinismo in Polonia, del panislamismo fra i tartari, il
rafforzarsi del nazionalismo tra gli armeni, i georgiani, gli ucraini, la
generale propensione della gente comune per l’antisemitismo, tutti questi sono
fatti di dominio pubblico.
L’ondata di nazionalismo avanzava con forza crescente, minacciando di
travolgere le masse operaie. E quanto più si affievoliva il movimento di
liberazione, tanto più rigogliosi sbocciavano i fiori del nazionalismo.
In quel momento difficile un alto compito incombeva alla socialdemocrazia: far
fronte al nazionalismo, preservare le masse dall’«epidemia» generale. Infatti
la socialdemocrazia, e solamente essa, poteva far questo, opponendo al
nazionalismo l’arma provata dell’internazionalismo, l’unità e l’indivisibilità
della lotta di classe. E quanto più impetuosamente avanzava l’ondata del
nazionalismo, tanto più forte avrebbe dovuto risuonare la voce della
socialdemocrazia per la fratellanza e l’unità dei proletari di tutte le
nazionalità della Russia. Occorreva perciò una particolare fermezza nei
socialdemocratici delle regioni periferiche, che si urtavano direttamente con
il movimento nazionalista.
Ma non tutti i socialdemocratici si dimostrarono all’altezza del compito e meno
degli altri i socialdemocratici delle regioni periferiche. Il Bund (2), che prima sottolineava i problemi generali, ha cominciato
ora a mettere in primo piano i suoi scopi particolari, puramente
nazionalistici: ed è andato tanto oltre da proclamare la «celebrazione del
sabato» e il «riconoscimento del gergo» punti principali della sua campagna
elettorale. Al Bund ha tenuto dietro il Caucaso: una parte dei
socialdemocratici del Caucaso, che prima avevano respinto, insieme ai restanti
socialdemocratici del Caucaso, l’«autonomia culturale nazionale», ora la pongono
come una rivendicazione attuale. Non parliamo neppure della conferenza dei
liquidatori (3), che, in maniera diplomatica, ha sancito i
tentennamenti nazionalistici.
Ma da questo risulta che le vedute della socialdemocrazia russa sulla questione
nazionale non sono ancora chiare per tutti i socialdemocratici.
È necessario, evidentemente, un esame serio e completo della questione
nazionale. È necessario un lavoro concorde ed instancabile dei
socialdemocratici conseguenti per dissipare le nebbie del nazionalismo, da
qualunque parte provengano.
I. La nazione
Che cos’è la nazione?
La nazione è, innanzitutto, una comunità, una determinata comunità di persone.
È una comunità non di razza nè di stirpe. L’attuale nazione italiana è stata formata
da romani, germani, etruschi, greci, arabi, ecc. La nazione francese è stata
costituita da galli, romani, britanni, germani, ecc. Lo stesso va detto degli
inglesi, dei tedeschi e degli altri popoli, che si sono costituiti in nazioni
con genti di diverse razze e stirpi.
La nazione non è dunque una comunità di razza nè di stirpe, ma una comunità di
persone, formatasi storicamente.
D’altra parte, non c’è dubbio che i grandi stati di Ciro o di Alessandro non
possono esser chiamati nazioni, sebbene si siano formati anch’essi
storicamente, si siano formati con stirpi e razze diverse. Non erano nazioni,
ma conglomerati casuali e debolmente legati di gruppi che si disgregavano o si
costituivano secondo i successi o le sconfitte di questo o quel conquistatore.
La nazione non è dunque un conglomerato casuale nè effimero, ma una stabile
comunità di persone.
Ma non ogni comunità stabile costituisce una nazione. L’Austria e la Russia
sono anch’esse comunità stabili, tuttavia nessuno le chiama nazioni. In che
cosa si differenzia una comunità nazionale da una comunità statale? Fra l’altro
in questo, che una comunità nazionale non è concepibile senza lingua comune,
mentre per una comunità statale la lingua comune non è indispensabile. La
nazione ceca in Austria e quella polacca in Russia non sarebbero possibili se
ciascuna di esse non avesse una lingua comune, mentre all’integrità della
Russia e dell’Austria non fa ostacolo l’esistenza, nel loro seno, di tutta una
serie di lingue. Mi riferisco, naturalmente, alle lingue popolari parlate, e
non a quelle ufficiali della burocrazia.
La lingua comune è dunque uno dei tratti caratteristici della nazione.
Questo non vuol certo dire che nazioni diverse parlino sempre e dovunque lingue
diverse o che tutti coloro che parlano una stessa lingua costituiscano
necessariamente una sola nazione. Una lingua comune per ogni nazione, ma non
necessariamente lingue diverse per nazioni diverse! Non c’è nazione in cui si
parlino nello stesso tempo lingue diverse, ma questo non vuol dire però che non
vi possano essere due nazioni che parlino la stessa lingua! Gli inglesi e i
nordamericani parlano la stessa lingua, e tuttavia non costituiscono una sola
nazione. Lo stesso si deve dire dei norvegesi e dei danesi, degli inglesi e
degli irlandesi.
Ma perché, per esempio, gli inglesi e i nordamericani non costituiscono una
nazione, nonostante la lingua comune?
Prima di tutto perché non vivono insieme, ma in territori diversi. La nazione
si forma soltanto come risultato di rapporti prolungati e regolari, come
risultato di una vita comune di generazione in generazione. Ma una lunga vita
in comune non è possibile se non su un territorio comune. Gli inglesi e gli
americani prima abitavano un solo territorio, l’Inghilterra, e costituivano una
sola nazione. Poi, una parte degli inglesi si trasferì dall’Inghilterra in un
nuovo territorio, in America, e lì, sul nuovo territorio, col passar del tempo,
costituì la nuova nazione dell’America del Nord. Territori diversi hanno
condotto alla formazione di nazioni diverse.
Il territorio comune è dunque uno dei tratti caratteristici della nazione.
Ma non basta. Il territorio comune, di per sé, non dà ancora la nazione.
Occorre, inoltre, un vincolo economico interno che saldi le singole parti della
nazione in un tutto unico. Tra l’Inghilterra e l’America del Nord non c’è un
tale vincolo e perciò esse costituiscono due nazioni diverse. Ma anche gli
stessi nordamericani non meriterebbero il nome di nazione, se le diverse parti
dell’America del Nord non fossero legate fra loro in un tutto economico, grazie
alla divisione del lavoro tra loro, allo sviluppo delle vie di comunicazione,
ecc.
Prendiamo, per esempio, i georgiani. I georgiani prima della riforma vivevano
su un territorio comune e parlavano la stessa lingua, eppure non costituivano,
a rigor di termini, una sola nazione, perché, divisi in tutta una serie di
principati staccati l’uno dall’altro, non potevano vivere una vita economica
comune, da secoli si facevano la guerra e si danneggiavano reciprocamente,
aizzando gli uni contro gli altri persiani e turchi. L’unione effimera e
casuale di principati, che talvolta qualche re fortunato riusciva a realizzare,
nel migliore dei casi si limitava al lato amministrativo superficiale e si
rompeva ben presto per il capriccio dei principi e per l’indifferenza dei
contadini. E non poteva essere diversamente, dato lo sminuzzamento economico
della Georgia... La Georgia, come nazione, è nata solo nella seconda metà del
secolo XIX, quando la fine della servitù della gleba e lo sviluppo della vita
economica del paese, lo sviluppo delle vie di comunicazione e il sorgere del
capitalismo introdussero una divisione del lavoro tra le regioni della Georgia,
scossero definitivamente la economia chiusa dei principati, collegandoli in un
tutto unico.
Lo stesso si deve dire delle altre nazioni, che hanno superato lo stadio del
feudalesimo e nelle quali si è sviluppato il capitalismo.
La comunanza della vita economica, la coesione economica sono dunque uno degli
elementi caratteristici della nazione.
Ma neanche questo basta. Oltre a tutto ciò che si è detto, bisogna prendere
anche in considerazione le caratteristiche della conformazione spirituale delle
persone unite nella nazione. Le nazioni si distinguono l’una dall’altra non
solo per le loro condizioni di vita ma anche per la formazione intellettuale,
che si esprime nelle caratteristiche della cultura nazionale. Se l’Inghilterra,
gli Stati Uniti e l’Irlanda, che parlano un’unica lingua, costituiscono
nondimeno tre differenti nazioni, ciò è dovuto in misura non indifferente alla
particolare conformazione psichica che si è creata in esse col succedersi delle
generazioni, per effetto delle diverse condizioni di esistenza.
Certo, la conformazione psichica in sé, o, come altrimenti viene chiamata, il
«carattere nazionale», è per l’osservatore qualche cosa di inafferrabile, ma
nella misura in cui si esprime in una cultura originale, comune alla nazione, è
percepibile e non può essere ignorata.
Inutile dire che il «carattere nazionale» non è qualche cosa di fissato una
volta per sempre, ma muta col mutare delle condizioni di vita; però, in quanto
esiste in ogni dato momento, imprime il suo suggello alla fisionomia della
nazione.
La comune conformazione psichica, che si esprime nella cultura comune, è dunque
uno dei tratti caratteristici della nazione.
In tal modo, abbiamo esaurito tutte le caratteristiche della nazione.
La nazione è una comunità stabile, storicamente formatasi, che ha la sua
origine nella comunità di lingua, di territorio, di vita economica e di
conformazione psichica che si manifesta nella comune cultura.
Con ciò è evidente che la nazione, come ogni altro fenomeno storico, sottostà
alla legge del mutamento; ha la propria storia, il proprio principio e la
propria fine.
È necessario sottolineare che nessuna delle caratteristiche indicate, presa
isolatamente, è sufficiente a definire la nazione. Anzi, basta che manchi una
sola di queste caratteristiche, perché la nazione cessi di essere tale.
Si possono immaginare popolazioni che abbiano un «carattere nazionale» comune,
e tuttavia non si può dire che costituiscano una nazione, se non sono collegate
economicamente, se vivono su territori differenti, se parlano lingue diverse,
ecc. Tali sono, per esempio, i russi, i galiziani, gli americani, i georgiani,
gli ebrei del Caucaso, che non costituiscono a nostro avviso un’unica nazione.
Si possono immaginare popolazioni che abbiano un territorio comune e una comune
vita economica; e tuttavia esse non costituiscono una nazione se non hanno
lingua e «carattere nazionale» comuni. Tali sono, per esempio, i tedeschi e i
lettoni del Baltico.
Infine, i norvegesi e i danesi parlano la stessa lingua, ma non costituiscono
una nazione, perché mancano gli altri caratteri.
Solo se tutti i caratteri esistono congiuntamente, si ha la nazione.
Può sembrare che il «carattere nazionale» non sia uno dei caratteri ma l’unico
carattere essenziale della nazione e che tutti gli altri siano, propriamente,
condizioni dello sviluppo della nazione, e non suoi tratti caratteristici. Sostengono
quest’opinione, per esempio, i teorici socialdemocratici della questione
nazionale ben noti in Austria, R. Springer (4) e,
particolarmente, O. Bauer (5).
Esaminiamo la loro teoria della nazione.
Secondo lo Springer, «la nazione è un’unione di persone che pensano nello
stesso modo e parlano nello stesso modo ». La nazione è una «comunità culturale
di gruppi di contemporanei, non legata alla “terra”» (il corsivo è nostro).
È dunque un’unione di persone che pensano e parlano nello stesso modo, per
quanto siano separate le une dalle altre e dovunque vivano.
Il Bauer si spinge più oltre.
«Che cos’è la nazione? — domanda. — È forse la comunità di lingua che unisce le
persone in una nazione? Ma gli inglesi e gli irlandesi... parlano la stessa
lingua, senza costituire, tuttavia, un unico popolo; gli ebrei non hanno
affatto una lingua comune, e nondimeno costituiscono una nazione».
Che cos’è dunque una nazione?
«La nazione è una relativa comunità di carattere».
Ma, in questo caso, che cos’è il carattere, il carattere nazionale?
Il carattere nazionale è «la somma dei caratteri che distinguono le persone di
una nazionalità da quelle di un’altra, il complesso delle qualità fisiche e
spirituali che distinguono una nazione dall’altra».
Il Bauer, naturalmente, sa che il carattere nazionale non cade dal cielo, e
perciò soggiunge:
«Il carattere delle persone non è determinato da nient’altro che dal loro
destino»... «la nazione non altro che la comunanza del destino», determinata, a
sua volta, «dalle condizioni nelle quali le persone producono i loro mezzi di
esistenza e ripartiscono i prodotti del loro lavoro».
In tal modo, siamo giunti alla definizione più «completa», come si esprime il
Bauer, della nazione.
«La nazione è un insieme di persone unite da un carattere comune sulla base del
comune destino».
Dunque: carattere nazionale comune sulla base del comune,destino, senza un
nesso necessario con la comunanza di territorio, di lingua e di vita economica.
Ma che cosa rimane in questo caso della nazione? Di quale comunità nazionale si
può parlare, trattandosi di persone separate economicamente l’una dall’altra,
che popolano territori diversi e che di generazione in generazione parlano
lingue diverse?
Il Bauer parla degli ebrei come di una nazione, sebbene «non abbiano affatto
una lingua comune»; ma di quale «destino comune» e di quale legame nazionale si
può parlare, per esempio, per gli ebrei georgiani, daghestani, russi e
americani, che sono completamente staccati gli uni dagli altri, abitano in
territori diversi e parlano lingue diverse?
Gli ebrei cui ho accennato vivono senza dubbio una vita economica e politica
comune con i georgiani, i daghestani, i russi e gli americani, in una atmosfera
culturale comune con loro; questo non può non lasciare la sua impronta sul loro
carattere nazionale; se qualcosa di comune è rimasto loro, è la religione, la
comune origine e qualche residuo del carattere nazionale. Tutto questo è certo.
Ma come si può sostenere seriamente che dei riti religiosi fossilizzati e dei
residui psicologici che vanno dileguandosi influiscano sul «destino» dei
suddetti ebrei più fortemente del vivo ambiente economico-sociale e culturale
che li circonda? Eppure solo con una simile ipotesi si può parlare degli ebrei
in generale come di un’unica nazione.
In che cosa si distingue allora la nazione di Bauer dallo «spirito nazionale»,
mistico e autosufficiente degli spiritualisti?
Il Bauer pone una barriera insormontabile fra il «tratto caratteristico» della
nazione (il carattere nazionale) e le «condizioni» di vita, scindendo l’uno
dalle altre. Ma che cos’è il carattere nazionale, se non il riflesso delle
condizioni di vita, se non l’essenza delle impressioni ricevute dall’ambiente
circostante? Come limitarci al solo carattere nazionale, isolandolo e
staccandolo dal terreno che lo ha generato?
E poi, in che cosa precisamente si distingueva la nazione inglese da quella
nordamericana alla fine del secolo XVIII e al principio del XIX, quando
l’America del Nord si chiamava ancora «Nuova Inghilterra»?
Non già, certamente, nel carattere nazionale, perché i nordamericani erano
originari dell’Inghilterra, avevano portato con sé in America oltre alla lingua
inglese anche il carattere nazionale inglese e, certamente, non potevano
perderlo così facilmente, benché sotto l’influsso di nuove condizioni, dovesse
svilupparsi in loro un carattere particolare. E tuttavia, nonostante la
maggiore o minore comunanza di carattere, essi costituivano già, allora, una
nazione distinta dall’Inghilterra! Evidentemente, la «Nuova Inghilterra» come
nazione si distingueva allora dall’Inghilterra come nazione non per un
particolare carattere nazionale, o non tanto per il carattere nazionale, quanto
per l’ambiente, le condizioni di vita diverse da quelle dell’Inghilterra.
È quindi chiaro che in realtà non esiste un unico tratto caratteristico della
nazione. Esiste solo una somma di tratti caratteristici, dei quali, quando si
paragonino le nazioni, risalta con maggior rilievo ora l’uno (il carattere
nazionale), ora l’altro (la lingua), ora un terzo (il territorio, le condizioni
economiche). La nazione rappresenta l’incontro di tutti i tratti caratteristici
presi insieme.
Il punto di vista di Bauer, che identifica la nazione col carattere nazionale,
distacca la nazione dalla realtà e la converte in una forza misteriosa, per sé
stante. Ne risulta non una nazione viva ed operante, ma un che di mistico, di
inafferrabile e di trascendente. Perché, ripeto, che cos’è, per esempio, questa
nazione ebraica, che si compone di ebrei georgiani, daghestani, russi,
americani e altri, questa nazione i cui membri non si comprendono l’un l’altro
(parlano lingue diverse), vivono in diverse parti del globo, non si vedono mai
tra loro, non agiscono mai congiuntamente, nè in tempo di pace, nè in tempo di
guerra?
No, la socialdemocrazia non stabilisce il suo programma nazionale per queste
«nazioni» che esistono solo sulla
carta. Essa può tener conto soltanto delle nazioni effettive, che agiscono e si
muovono e costringono perciò a tener conto di loro.
Il Bauer, evidentemente, confonde la nazione, che è una categoria storica, con
la stirpe, che è una categoria etnografica.
Del resto lo stesso Bauer, evidentemente, sente la debolezza della propria
posizione. Pur affermando decisamente, all’inizio del suo libro, che gli ebrei
sono una nazione, alla fine si corregge, affermando che «la società capitalistica generalmente non
dà loro [agli ebrei] la possibilità di continuare a esistere come nazione» e li
assimila ad altre nazioni. A quanto pare, ciò è dovuto al fatto che «gli ebrei
non hanno una zona delimitata di colonizzazione», mentre una zona di questo
genere l’hanno, per esempio, i cechi, che debbono, secondo il Bauer, continuare
a esistere come nazione. In una parola: ciò è dovuto alla mancanza di
territorio.
Con questo ragionamento, il Bauer voleva dimostrare che l’autonomia nazionale
non può essere una rivendicazione degli operai ebrei, ma con questo ha
confutato inavvertitamente la sua stessa teoria, la quale nega che il
territorio comune sia uno dei tratti caratteristici della nazione.
Ma Bauer va più in là. All’inizio del suo libro dichiara precisamente che «gli
ebrei non hanno affatto una lingua comune e costituiscono, nondimeno, una
nazione» . Ma non è ancor giunto a pagina 130 che già cambia posizione e
dichiara altrettanto precisamente: «È
certo che nessuna nazione è possibile senza lingua comune» (il corsivo è
nostro).
Il Bauer qui voleva dimostrare che «la lingua è lo strumento più importante dei
rapporti fra gli uomini», ma con questo inavvertitamente ha anche dimostrato
una cosa che non si proponeva di dimostrare, e precisamente l’inconsistenza
della sua teoria della nazione, che nega l’importanza della lingua comune.
In questo modo si confuta da sé una teoria cucita col filo idealistico.
II. Il movimento nazionale
La nazione non è soltanto una categoria storica, ma una categoria storica di
un’epoca determinata, l’epoca del capitalismo ascendente.
Il processo di liquidazione del feudalesimo e di sviluppo del capitalismo è al
tempo stesso un processodi unificazione delle popolazioni in
nazione. Così, per esempio, sono andate le cose nell’Europa occidentale. Gli
inglesi, i francesi, i tedeschi, gli italiani e altri si sono fusi in nazione
durante l’ascesa vittoriosa del capitalismo, che trionfava sul frazionamento
feudale.
Ma nell’Europa occidentale la formazione delle nazioni significava al tempo
stesso la loro trasformazione in stati nazionali indipendenti. La nazione
inglese, francese e le altre sono al tempo stesso lo stato inglese e così via.
L’Irlanda, rimasta fuori di questo processo, non cambia il quadro generale.
In maniera piuttosto diversa sono andate le cose nell’Europa orientale. Mentre
in Occidente le nazioni si sviluppavano in stati, in Oriente si formavano stati
plurinazionali, stati composti di parecchie nazionalità. Tali
l’Austria-Ungheria e la Russia. In Austria i tedeschi, più progrediti dal punto
di vista politico, si assunsero il compito di unificare le varie nazionalità in
un solo stato. In Ungheria si dimostrarono più adatti a organizzare lo stato i
magiari, nucleo delle nazionalità ungheresi ed unificatori dell’Ungheria. In
Russia, il compito di unificare le nazionalità fu assunto dai grandirussi, che
avevano alla loro testa una burocrazia militare aristocratica, forte e
organizzata, formatasi storicamente.
Così sono andate le cose in Oriente.
Questo modo particolare di formazione degli stati poteva aver luogo solo nel
quadro di un feudalesimo non ancor liquidato, nel quadro di un capitalismo
debolmente sviluppato, in cui le nazionalità, ricacciate in secondo piano, non
erano ancora riuscite a consolidarsi economicamente in nazioni unificate.
Ma il capitalismo incomincia a svilupparsi anche negli stati dell’Europa
orientale. Si sviluppano commerci e vie di comunicazione. Sorgono grandi città.
Le nazioni si consolidano economicamente. Irrompendo nella vita tranquilla
delle nazionalità oppresse, il capitalismo le desta e le mette in movimento. Lo
sviluppo della stampa e del teatro, l’attività del Reichsrat (in Austria) e
della Duma (in Russia) contribuiscono al rafforzamento dei «sentimenti
nazionali». Gli intellettuali che sorgono si compenetrano dell’«idea nazionale»
ed agiscono nello stesso senso...
Ma destandosi a vita indipendente, le nazioni oppresse non si uniscono ormai
più in stati nazionali indipendenti: esse incontrano sul loro cammino una
fortissima opposizione da parte degli strati dirigenti delle nazioni dominanti,
che già da tempo sono alla testa dello stato. Sono arrivate troppo tardi!...
Così si costituiscono in nazione i cechi, i polacchi, ecc., in Austria; i
croati, ecc., in Ungheria; i lettoni, i lituani, gli ucraini, i georgiani, gli
armeni, ecc., in Russia. Quella che era un’eccezione nell’Europa occidentale
(l’Irlanda) è divenuta la regola in Oriente.
In Occidente, l’Irlanda aveva reagito alla sua situazione eccezionale con un
movimento nazionale. In Oriente, le nazioni risvegliate dovevano reagire nello
stesso modo.
Così si sono formate le circostanze che hanno spinto alla lotta le giovani
nazioni dell’Europa orientale.
La lotta, per essere esatti, è incominciata e si è accesa non tra intere
nazioni, ma tra le classi dirigenti delle nazioni dominanti e di quelle
oppresse.
Abitualmente, conducono la lotta o la piccola borghesia cittadina della nazione
oppressa contro la grande borghesia della nazione dominante (cechi e tedeschi),
o la borghesia agricola della nazione oppressa contro l’aristocrazia fondiaria
della nazione dominante (gli ucraini in Polonia), o tutta la borghesia
«nazionale» delle nazioni oppresse contro la nobiltà che è al governo della
nazione dominante (Polonia, Lituania, Ucraina e Russia).
La borghesia è la protagonista.
La questione fondamentale per la giovane borghesia è il mercato. Vendere le
proprie merci ed uscire vittoriosa dalla concorrenza con la borghesia di
un’altra nazionalità, questo il suo scopo. Di qui il suo desiderio di
assicurarsi un «proprio» mercato «nazionale». Il mercato è la prima scuola dove
la borghesia impara il nazionalismo.
Ma la questione, di solito, non si limita al mercato. Alla lotta prende parte
la burocrazia semifeudale-semiborghese della nazione dominante con il suo
metodo di «tirare e non mollare». La borghesia della nazione dominante, grande
o piccola che sia, ha la possibilità di avere il sopravvento «più rapidamente»,
«in modo più decisivo» sui suoi concorrenti. Si uniscono le «forze» e...
incomincia contro la borghesia «allogena» tutta una serie di misure restrittive
che degenerano in persecuzioni. La lotta passa dal campo commerciale al campo
politico. Restrizioni alla libertà di spostamento, limitazioni all’uso della
lingua, limitazioni al diritto di voto, riduzione delle scuole, limitazioni nel
campo religioso, ecc., si rovesciano addosso alla concorrente. Certo, queste misure
non sono dirette a favorire soltanto gli interessi delle classi borghesi della
nazione dominante, ma anche, più specificamente, i fini di casta, per così
dire, della burocrazia, che esercita il potere. Ma dal punto di vista dei
risultati ciò non cambia nulla: in questo caso, le classi borghesi e la
burocrazia vanno a braccetto, sia che si tratti dell’Austria-Ungheria, sia che
si tratti della Russia.
Stretta da tutte le parti, la borghesia della nazione oppressa si mette
naturalmente in movimento. Essa fa appello ai «fratelli del basso popolo» e
incomincia ad inneggiare alla «patria» spacciando la propria causa particolare
come causa di tutto il popolo. Essa recluta il suo esercito di «compatrioti»,
nell’interesse della... «patria». E il «basso popolo» non resta sempre sordo
agli appelli e si raccoglie intorno alla bandiera della borghesia: le
persecuzioni contro la borghesia opprimono anche il popolo e suscitano il suo
malcontento.
Così incomincia il movimento nazionale.
La forza del movimento nazionale dipende dalla misura in cui vi partecipano i
larghi strati della nazione, il proletariato e i contadini.
Il proletariato si metterà o no sotto la bandiera del nazionalismo borghese,
secondo il grado di sviluppo delle contraddizioni di classe, secondo la sua
coscienza e organizzazione. Un proletariato cosciente ha la propria bandiera
provata, e non ha motivo di mettersi sotto la bandiera della borghesia.
Per quanto riguarda i contadini, la loro partecipazione al movimento nazionale
dipende prima di tutto dal carattere della repressione. Se le repressioni
toccano gli interessi della «terra», come è accaduto in Irlanda, le grandi
masse contadine passano immediatamente sotto la bandiera del movimento
nazionale.
D’altra parte, se, per esempio in Georgia, non esiste un nazionalismo antirusso
di una qualche importanza, ciò è dovuto innanzi tutto al fatto che laggiù non
vi sono proprietari fondiari russi o grande borghesia russa, che potrebbero
alimentare tale nazionalismo tra le masse. In Georgia esiste un nazionalismo
antiarmeno, perché qui c’è ancora una grande borghesia armena, la quale,
opprimendo la piccola borghesia georgiana, non ancora consolidatasi, la orienta
verso il nazionalismo antiarmeno.
In dipendenza di questi fattori, il movimento nazionale o assume un carattere
di massa, sviluppandosi sempre più (Irlanda, Galizia), oppure si trasforma in
una catena di piccole scaramucce, degenerando in scandali e in «lotte» per le
insegne dei negozi (come in alcune cittadine della Boemia).
Il contenuto del movimento nazionale non può certo essere uguale dappertutto.
Esso è unicamente determinato dalle diverse rivendicazioni nelle quali si
esprime. In Irlanda, il movimento ha un carattere agrario, in Boemia un
carattere “ linguistico”; qui si rivendica l’eguaglianza di diritti civili e la
libertà di culto, là si esigono «propri» funzionari o una propria Dieta. Nelle
diverse rivendicazioni non di rado si manifestano vari tratti che
caratterizzano la nazione in generale (lingua, territorio, ecc.). È degno
d’attenzione il fatto che in nessun caso si avanzano rivendicazioni concernenti
il «carattere nazionale» generale del Bauer. E si capisce: il «carattere
nazionale» di per sé è inafferrabile e,
come ha giustamente osservato J. Strasser, la politica non vi ha niente a che
fare. Queste, in generale, le forme e il carattere del movimento nazionale.
Da ciò che si è detto risulta chiaramente che la lotta nazionale, nel quadro
del capitalismo ascendente, è una lotta delle classi borghesi tra loro.
Talvolta la borghesia riesce ad attirare il proletariato nel movimento
nazionale, ed allora la lotta nazionale assume, esteriormente, un carattere
«popolare», ma solo esteriormente. Nella sua essenza, la lotta resta sempre
borghese, vantaggiosa e utile soprattutto per la borghesia.
Ma da ciò non consegue affatto che il proletariato non debba lottare contro la
politica di oppressione nazionale.
Le limitazioni alla libertà di trasferirsi da un luogo all’altro, la privazione
del diritto di voto, le limitazioni all’uso della lingua, la soppressione di
scuole ed altre persecuzioni colpiscono gli operai altrettanto, se non più,
della borghesia. Una situazione simile non può che ritardare il processo di
libero sviluppo delle forze spirituali nel proletariato delle nazioni oppresse.
Non si può parlare seriamente di pieno sviluppo delle facoltà spirituali
dell’operaio tartaro o ebreo, quando non gli si dà la possibilità di usare la
lingua materna nelle adunanze e nelle conferenze, quando gli si chiudono le
scuole.
Ma la politica delle persecuzioni nazionalistiche è pericolosa per la causa del
proletariato anche da un altro punto di vista. Essa distoglie l’attenzione di
larghi strati della popolazione dai problemi sociali, dai problemi della lotta
di classe, per dirigerla verso i problemi nazionali, verso i problemi «comuni»
al proletariato e alla borghesia. E ciò crea un terreno che si presta alla
falsa predicazione della «armonia d’interessi», favorisce la tendenza a mettere
in ombra gli interessi di classe del proletariato, l’asservimento spirituale
degli operai. Così si crea un ostacolo serio alla causa dell’unione dei
proletari di tutte le nazionalità. Se una parte notevole degli operai polacchi
è rimasta finora spiritualmente asservita ai nazionalisti borghesi, è rimasta
finora fuori del movimento operaio internazionale, ciò è dovuto soprattutto al
fatto che la tradizionale politica antipolacca dei «governanti» crea il terreno
per tale asservimento e fa sì che difficilmente gli operai possano liberarsene.
Ma la politica di repressione non si limita a questo. Dal «sistema»
dell’oppressione passa non di rado al «sistema» dell’istigazione, all’odio tra
le nazioni, al «sistema» dei massacri e dei pogrom. Naturalmente, quest’ultimo
sistema non è possibile sempre e ovunque, ma dove è possibile, quando mancano
le libertà elementari, assume spesso proporzioni terribili, minacciando di
annegare nel sangue e nelle lacrime la causa dell’unione degli operai. Il
Caucaso e la Russia meridionale offrono non pochi esempi. Divide et impera:
questo il fine della politica di istigazione all’odio. E nella misura in cui
riesce, questa politica rappresenta per il proletariato il peggiore dei mali,
l’ostacolo più serio alla causa dell’unione degli operai di tutte le
nazionalità di uno stato.
Ma gli operai sono interessati ad unire tutti i loro compagni in un solo
esercito internazionale, a liberarli rapidamente e definitivamente
dall’asservimento spirituale alla borghesia e a dar pieno e libero sviluppo
alle energie spirituali dei loro fratelli, a qualunque nazione appartengano.
Perciò gli operai si battono e si batteranno contro la politica di oppressione
delle nazioni in ogni sua forma, dalla più raffinata alla più grossolana, come
pure contro la politica di istigazione all’odio in tutti i suoi aspetti.
Perciò la socialdemocrazia di tutti i paesi proclama il diritto delle nazioni
all’autodecisione.
Diritto all’autodecisione, cioè: solo la nazione stessa ha il diritto di
decidere il proprio destino, nessuno ha il diritto di intromettersi a forza
nella vita di una nazione, di distruggerne le scuole e altreistituzioni,
di abolirne le usanze e i costumi, di vietarne la lingua, di menomarne i
diritti.
Questo non significa certo che la socialdemocrazia sosterrà indistintamente
tutte le usanze e le istituzioni di una nazione. Lottando contro la violenza
esercitata ai danni di una nazione, essa difenderà solo il diritto della
nazione a decidere il proprio destino e condurrà nel tempo stesso un’agitazione
contro le usanze e le istituzioni dannose di questa nazione, affinché i lavoratori
possano liberarsene.
Il diritto all’autodecisione significa che la nazione può organizzarsi secondo
il proprio desiderio. Essa ha il diritto di organizzare la propria esistenza
secondo i principi dell’autonomia. Essa ha il diritto di stabilire rapporti
federativi con altre nazioni o di separarsi completamente da esse. La nazione è
sovrana e tutte le nazioni hanno eguali diritti.
Ciò non significa naturalmente che la socialdemocrazia debba difendere
qualsiasi rivendicazione di una nazione. Una nazione ha il diritto di tornare
anche ai vecchi ordinamenti, ma questo non significa ancora che la
socialdemocrazia sottoscriva una decisione di questo genere, presa da una
qualunque istituzione nazionale. I doveri della socialdemocrazia, che difende
gli interessi del proletariato, e i diritti della nazione, che è composta di
diverse classi, sono due cose diverse.
Pur lottando per il diritto delle nazioni all’autodecisione, la
socialdemocrazia si prefigge di metter fine alla politica di oppressione delle
nazioni, di renderla impossibile, e con ciò di evitare la lotta fra le nazioni,
di attenuarla, di ridurla al minimo.
È sostanzialmente questo che distingue la politica del proletariato cosciente
da quella della borghesia, che cerca di approfondire e di estendere la lotta
nazionale, di protrarre e di acuire il movimento nazionale.
Appunto per questo il proletariato cosciente non può mettersi sotto la bandiera
«nazionale» della borghesia.
Appunto per questo la politica cosiddetta «nazional-evoluzionistica»
preconizzata dal Bauer non può diventare la politica del proletariato. Il
tentativo del Bauer di identificare la sua politica «nazional-evoluzionistica»
con la politica «della classe operaiacontemporanea» è un tentativo di adattare
la lotta di classe degli operai alla lotta della nazione.
I destini del movimento nazionale, essenzialmente borghese, sono naturalmente
legati al destino della borghesia. La caduta definitiva del movimento nazionale
è possibile solo con la caduta della borghesia. Solo nel regno nel socialismo
può essere instaurata la pace completa. Ma ridurre al minimo la lotta
nazionale, scalzarne le radici, renderla meno nociva per il proletariato è
possibile anche nell’ambito del capitalismo. Ne fanno fede, se non altro, gli
esempi della Svizzera e dell’America. A tale scopo è necessario democratizzare
il paese e dare alle nazioni la possibilità di un libero sviluppo.
III. Impostazione del
problema
Una nazione ha il diritto di decidere liberamente il suo destino. Ha il diritto
di organizzarsi come le aggrada, naturalmente senza calpestare i diritti delle
altre nazioni. Questo è fuori discussione.
Ma come precisamente dovrà organizzarsi, quali forme dovrà avere la sua futura
costituzione, se si prendono in considerazione gli interessi della grande
maggioranza della nazione e anzitutto del proletariato?
La nazione ha il diritto di organizzarsi in forma autonoma. Ha anche il diritto
di staccarsi dallo stato di cui fa parte. Ma ciò non significa ancora che debba
farlo in qualsiasi circostanza, che l’autonomia o la separazione siano, sempre
e dovunque, utili alla nazione, cioè alla sua maggioranza, alla popolazione
lavoratrice. I tartari della Transcaucasia, come nazione, possono riunirsi,
supponiamo, in una loro Dieta, e, sottomettendosi all’influenza dei loro bey e
mullah, possono restaurare nel loro paese i vecchi ordinamenti, decidere la
separazione dallo stato. Secondo il principio dell’autodecisione, hanno pieno
diritto di farlo. Ma sarebbe conforme agli interessi dei lavoratori della
nazione tartara? Può forse la socialdemocrazia considerare con indifferenza il
fatto che i bey e i mullah trascinano al loro seguito le masse per la soluzione
della questione nazionale? Non deve forse la socialdemocrazia intromettersi
nella questione e influire in un determinato modo sulla volontà della nazione?
Non deve forse intervenire con un piano completo per una soluzione del problema
che sia più vantaggiosa per le masse tartare?
Ma qual è la decisione più conforme agli interessi delle masse lavoratrici?
L’autonomia, la federazione o la separazione?
Tutti questi sono problemi la cui decisione dipende dalle condizioni storiche
concrete nelle quali si trova la nazione data.
Anzi, le condizioni, come ogni altra cosa, mutano, e una decisione, giusta in
un dato momento, può palesarsi assolutamente sbagliata in un altro momento.
Verso la metà del secolo XIX Marx era
per la separazione della Polonia russa, e aveva ragione, perché allora si
trattava di liberare una cultura superiore da una inferiore, che l’annientava.
E la questione esisteva allora non solo in teoria, accademicamente, ma in
pratica, nella vita stessa...
Alla fine del secolo XIX i marxisti polacchi si esprimono già contro la
separazione della Polonia, ed anch’essi hanno ragione, perché negli ultimi
cinquant’anni sono avvenuti profondi mutamenti nel senso di un ravvicinamento
economico e culturale della Russia e della Polonia. Inoltre in questo periodo
la questione della separazione si trasforma da argomento pratico in argomento
di dispute accademiche che preoccupano forse soltanto gli intellettuali
emigrati. Ciò non esclude, s’intende, la possibilità di certe circostanze
interne ed estere, nelle quali il problema della separazione della Polonia
possa ridiventare un problema d’attualità.
Ne consegue che la soluzione della questione nazionale è possibile solo in
relazione alle condizioni storiche, considerate nel loro sviluppo.
Le condizioni economiche, politiche e culturali, nelle quali si trova una data
nazione, sono l’unica chiave per deciderecome precisamente essa debba organizzarsi,quali
forme debba assumere la sua futura costituzione. È possibile, quindi, che per
ogni nazione occorra dare al problema una particolare soluzione. Se c’è un caso
nel quale sia necessario impostare dialetticamente un problema, questo caso è
proprio quello della questione nazionale.
Perciò dobbiamo decisamente pronunciarci contro un metodo molto diffuso, ma
anche molto sommario, che ha la sua origine nel Bund di «risolvere» la
questione nazionale. Alludiamo al facile metodo di ispirarsi alla
socialdemocrazia dell’Austria e del Sud slavo, che ha già risolto la questione
nazionale e dalla quale i socialdemocratici russi dovrebbero semplicemente
prendere in prestito la soluzione. Con ciò si presupporrebbe che tutto ciò che
è giusto, diciamo così, per l’Austria, sia tale anche per la Russia. Si
dimentica la cosa più importante, e nel nostro caso decisiva: le condizioni
storiche concrete in Russia, in generale, e nella vita di ogni singola nazione
nei confini della Russia, in particolare.
Ascoltiamo, per esempio, il noto bundista Kossovski:
«Al IV Congresso del Bund, quando si è esaminata la prima parte della questione
(si tratta della questione nazionale. G. St.), la proposta di un congressista
di risolverla nello spirito della risoluzione del partito socialdemocratico del
Sud slavo ha suscitato l’approvazione generale».
In conclusione, «il congresso si è pronunciato alla unanimità» per...
l’autonomia nazionale.
E questo è tutto! Nessuna analisi della realtà russa, nessun esame delle
condizioni di vita degli ebrei in Russia: prima si prende a prestito la
risoluzione del partito socialdemocratico del Sud slavo, poi si «approva» e poi
«si accetta all’unanimità» questa risoluzione. Così i bundisti pongono e
«risolvono» la questione nazionale in Russia...
Fra l’altro, l’Austria e la Russia presentano condizioni assolutamente diverse.
Con questo si spiega anche perché la socialdemocrazia austriaca, che a Brünn (6) (1899) approvò un programma nazionale nello spirito della
risoluzione del partito socialdemocratico del Sud slavo (per la verità, con
alcuni emendamenti insignificanti), non affronta affatto la questione, per così
dire, alla russa e, naturalmente, non la risolve alla russa.
Prima di tutto, l’impostazione della questione. Come formulano il problema i
teorici austriaci dell’autonomia culturale nazionale, i commentatori del
programma nazionale di Brünn e della risoluzione del partito socialdemocratico
del Sud slavo, Springer e Bauer?
«Non rispondiamo qui — dice lo Springer — alla questione se sia possibile, in
generale, uno stato plurinazionale e se le nazionalità austriache, in
particolare, debbano formare un’unica entità politica; considereremo risolte
queste questioni. Per chi non è d’accordo sull’accennata possibilità e
necessità, la nostra conclusione, naturalmente, sarà infondata. La nostra tesi
è: certe nazioni sono obbligate a condurre un’esistenza comune; quali forme
giuridiche danno loro la possibilità di vivere nel modo migliore?» (il corsivo
è di Springer).
Così, l’integrità statale dell’Austria è il punto di partenza.
Il Bauer dice la stessa cosa: «Noi partiamo dal presupposto che le nazionalità
dell’Austria restino nella stessa unione statale in cui vivono oggi e ci
domandiamo quali debbano essere, nel quadro di questa unione, i rapporti delle
nazioni tra loro e di tutte loro verso lo stato».
Di nuovo: l’integrità dell’Austria è il primo dovere.
Può la socialdemocrazia russa porre la questione in questo modo? No, non lo
può. E non lo può perché fin dall’inizio è partita dal principio
dell’autodecisione delle nazioni, in virtù del quale la nazione ha il diritto
alla separazione. Perfino il bundista Goldblatt, al secondo congresso della
socialdemocrazia della Russia, riconobbe che quest’ultima non poteva ripudiare
il punto di vista dell’autodecisione. Ecco che cosa diceva allora il Goldblatt:
«Contro il diritto di autodecisione non si può obiettare nulla. Nel caso che
una nazione lotti per l’indipendenza non è possibile opporvisi. Se la Polonia
non vuole contrarre un “matrimonio legale” con la Russia, non tocca a noi
ostacolarla».
Le cose stanno così; ma ne consegue che i punti di partenza dei
socialdemocratici russi e austriaci non solo non sono simili, ma sono
addirittura opposti. Dopo di che, si può forse parlare della possibilità di
prendere a prestito dagli austriaci il programma nazionale?
Ancora: gli austriaci pensano di realizzare «la libertà delle nazionalità»
lentamente, per via di piccole riforme. Proponendo l’autonomia culturale
nazionale come soluzione pratica, essi non contano affatto su un cambiamento
radicale, su un movimento democratico di liberazione; questo non rientra nella
loro prospettiva. Invece i marxisti russi, non avendo motivo di contare sulle
riforme, legano la questione della «libertà delle nazionalità» a un probabile
mutamento radicale, a un movimento democratico di liberazione. E questo cambia
sostanzialmente la questione per quanto riguarda il probabile destino delle
nazioni in Russia.
«Certo — dice il Bauer — è difficile pensare che l’autonomia nazionale sia il
risultato di una grande decisione, di un’azione audace, decisiva. L’Austria
andrà verso la sua autonomia nazionale passo passo, con un processo lento e
penoso, con una lotta difficile, in conseguenza della quale la legislazione e
il governo si troveranno in una condizione di paralisi cronica. No, non per
mezzo di un grande atto legislativo, ma con numerose leggi parziali emanate per
le diverse regioni, per le diverse comunità, si creerà il nuovo ordinamento
giuridico-statale».
La stessa cosa afferma lo Springer:
«So benissimo che istituzioni di questo genere (gli organi dell’autonomia
nazionale. G. St.) non si creeranno nè in un anno nè in un decennio. La sola
riorganizzazione dell’ amministrazione prussiana ha richiesto un lungo periodo
di tempo... Alla Prussia sono occorsi due decenni per stabilire definitivamente
le sue istituzioni amministrative fondamentali. Non si creda perciò che io non
sappia quanto tempo e quante difficoltà occorreranno per l’Austria».
Tutto ciò è chiaro. Ma possono i marxisti russi non legare la questione
nazionale alle «azioni audaci, decisive»? Possono contare su riforme parziali,
su numerose leggi parziali, come mezzo per conquistare «la libertà delle
nazionalità»? E se non possono e non debbono far questo, non è forse chiaro che
i metodi di lotta e le prospettive degli austriaci e dei russi sono
completamente diversi?
Come si può, in tale situazione, limitarsi all’autonomia nazionale degli
austriaci, unilaterale e parziale? Una delle due: o coloro che vogliono
prendere a prestito il programma nazionale degli austriaci non contano su
«azioni audaci e decisive», oppure ci contano, ma «non sanno quel che si
fanno».
Infine la Russia e l’Austria si trovano di fronte a problemi di attualità del
tutto diversi e per conseguenza anche il modo di risolvere la questione
nazionale dev’essere diverso. L’Austria vive in regime parlamentare e nelle
condizioni attuali non è possibile un’evoluzione senza il parlamento. Ma la
vita parlamentare e l’attività legislativa in Austria non di rado sono
completamente interrotte dai conflitti acuti dei partiti nazionali. Questo
spiega anche la crisi politica cronica di cui l’Austria soffre da tempo. In
conseguenza, la questione nazionale in Austria è il perno della vita politica,
è questione vitale! Non c’è quindi da meravigliarsi che in Austria gli uomini
politici socialdemocratici si sforzino di risolvere, in una maniera o
nell’altra, prima di tutto la questione dei conflitti nazionali, naturalmente
sulla base del parlamentarismo già esistente, con mezzi parlamentari...
Non così in Russia. In Russia, prima di tutto, «grazie a Dio non c’è
parlamento». In secondo luogo, e questo è importante, l’asse della vita
politica della Russia non è la questione nazionale, ma la questione agraria.
Perciò i destini della questione russa e, quindi, anche della «liberazione»
delle nazioni, sono legati alla soluzione della questione agraria, cioè alla
distruzione dei residui feudali, cioè alla democratizzazione del paese. Questo
spiega perché in Russia la questione nazionale si presenti non come una
questione a sé stante e decisiva, ma come una parte del problema più generale e
più importante della liberazione del paese dal feudalesimo.
«La sterilità del parlamento austriaco — scrive lo Springer — deriva
esclusivamente dal fatto che ogni riforma genera in seno ai partiti nazionali
delle contraddizioni, che ne minano la coesione, e perciò i capi dei partiti
rifuggono attentamente da tutto ciò che sa di riforma. Il progresso
dell’Austria è concepibile in generale solo nel caso che alle nazioni siano
date posizioni legali imprescrittibili; ciò le esonera dalla necessità di
mantenere nel parlamento veri e propri distaccamenti di combattimento e dà loro
la possibilità di consacrarsi alla soluzione dei problemi economici e sociali».
Lo stesso dice il Bauer:
«La pace nazionale è innanzi tutto necessaria allo stato.Lo stato non può
assolutamente tollerare che l’attività legislativa venga interrotta per una
stupidissima questione di lingua, per ogni minima controversia di persone
eccitate, in un posto qualunque entro i confini nazionali, per ogni nuova
scuola».
Tutto ciò è chiaro. Ma non è meno chiaro che in Russia la questione nazionale
si pone su di un piano completamente diverso. In Russia non è la questione
nazionale, ma la questione agraria che decide delle sorti del progresso. La
questione nazionale é una questione subordinata.
Così, una diversa impostazione della questione, diverse prospettive e diversi
metodi di lotta, diversi compiti immediati. Non è forse evidente che in questa
situazione solo dei topi di biblioteca che «risolvono» la questione nazionale
fuori del tempo e dello spazio possono prendere esempio dall’Austria e pensare
di prenderne in prestito il programma?
Ancora una volta: le condizioni storiche concrete, come punto di partenza;
l’impostazione dialettica della questione, come unica impostazione giusta:
questa è la chiave per la soluzione della questione nazionale.
IV. L’autonomia culturale
nazionale
Abbiamo parlato sopra dell’aspetto formale del programma nazionale austriaco,
dei fondamenti metodologici in forza dei quali i marxisti russi non possono
puramente e semplicemente seguire l’esempio della socialdemocrazia austriaca e
farne proprio il programma.
Ora parleremo del programma stesso, della sua sostanza.
Qual’è il programma nazionale dei socialdemocratici austriaci?
Si compendia in due parole: autonomia culturale nazionale.
Ciò significa, in primo luogo, che si deve dare l’autonomia, per esempio, non
alla Boemia-Moravia o alla Polonia, abitate prevalentemente da cechi e da
polacchi, ma ai cechi e ai polacchi in generale, indipendentemente dal
territorio, indipendentemente dalla zona dell’Austria in cui risiedono.
Perciò quest’autonomia si chiama nazionale e non territoriale.
Ciò significa, in secondo luogo, che cechi, polacchi, tedeschi, ecc.,
disseminati nelle varie regioni dell’Austria, si organizzano in gruppi
nazionali personalmente, come singoli individui, e come tali entrano a far
parte dello stato austriaco. L’Austria non rappresenta in questo caso un’unione
di province autonome,ma un’unione di nazionalità autonome,
costituite indipendentemente dal territorio.
Questo significa, in terzo luogo, che le istituzioni nazionali, che devono
esser create a tale scopo dai polacchi, cechi, ecc., non si occuperanno di
problemi «politici», ma solo di problemi «culturali». I problemi specificamente
politici saranno di competenza del parlamento austriaco (Reichsrat).
Perciò questa autonomia si chiama anche culturale, culturale nazionale.
Ed ecco il testo del programma approvato dalla socialdemocrazia austriaca al
Congresso di Brünn del 1899.
Dopo aver rammentato che «i dissensi nazionali in Austria ostacolano il
progresso politico», che «una soluzione definitiva del problema nazionale... è
prima di tutto una necessità culturale», «la soluzione è possibile solo in una
società effettivamente democratica, organizzata sulla base del suffragio
universale, diretto ed uguale», il programma continua:
«Il mantenimento e lo sviluppo delle particolarità nazionali dei popoli dell’Austria è possibile solo con
la piena eguaglianza di diritti e con la fine di qualsiasi oppressione. Perciò
deve essere anzitutto abolito il sistema del centralismo burocratico statale e
così pure devono essere aboliti i privilegi feudali dei singoli territori. A
queste condizioni e solamente a queste condizioni si potrà instaurare in
Austria un ordine nazionale, invece di un disordine nazionale, e precisamente
sulle basi seguenti:
1) l’Austria deve essere trasformata in uno stato che rappresenti l’unione
democratica delle nazionalità;
2) al posto dei territori storici della corona devono essere create delle
corporazioni nazionali autonome delimitate, in ognuna delle quali la
legislazione e l’amministrazione siano nelle mani di camere nazionali elette a
suffragio universale, diretto e eguale;
3) le regioni autonome di una stessa nazione formano insieme un’unica unità
nazionale, che decide le sue questioni nazionali in piena autonomia;
4) i diritti delle minoranze nazionali verranno garantiti da una legge
particolare, emanata dal parlamento imperiale».
Il programma termina con un appello alla solidarietà di tutte le nazioni
dell’Austria .
Non è difficile accorgersi che in questo programma sono rimaste alcune tracce
di «territorialismo», ma nel complesso esso è una formulazione dell’autonomia
nazionale. Non per nulla lo Springer, il primo agitatore della autonomia
culturale nazionale, l’accoglie con entusiasmo. Anche Bauer è per questo programma e lo definisce una vittoria teorica dell’autonomia nazionale; solo
nell’interesse di una maggior chiarezza egli propone di sostituire l’articolo 4
con una formulazione più precisa, che esprima la necessità di «costituire in
seno ad ogni regione autonoma le minoranze nazionali in corporazioni di diritto
pubblico», per la direzione degli affari scolastici e degli altri affari
culturali.
Tale il programma nazionale della socialdemocrazia austriaca.
Esaminiamone i fondamenti scientifici.
Vediamo come la socialdemocrazia austriaca giustifica l’autonomia culturale
nazionale da essa propugnata.
Consultiamo i suoi teorici, Springer e Bauer.
All’origine dell’autonomia nazionale troviamo il concetto di nazione come
unione di individui, indipendentemente da un territorio determinato.
«La nazionalità — secondo Springer — non ha nessun rapporto effettivo col
territorio, le nazioni sono unioni personali autonome».
Anche il Bauer parla della nazione come di una «unione di individui», alla
quale non è attribuita una sovranità esclusiva in una regione determinata.
Ma gli individui che compongono la nazione non vivono sempre in una massa
compatta, spesso si dividono in gruppi, e in questa forma si disperdono in
altri organismi nazionali. Il capitalismo li spinge in diverse province e città
in cerca di guadagno. ma trasferendosi in territori nazionali estranei e
sostituendovi una minoranza, questi gruppi subiscono, da parte delle
maggioranze nazionali del luogo, restrizioni quanto alla lingua, alla scuola,
ecc. Di qui i conflitti nazionali. Di qui 1’«insufficienza» dell’autonomia
territoriale. L’unica via d’uscita da tale situazione, secondo lo Springer e il
Bauer, è quella di organizzare le minoranze di ogni nazionalità disseminate
nelle varie parti dello stato in una unione nazionale interclassista. Secondo
loro, soltanto una tale unione potrebbe difendere gli interessi culturali delle
minoranze nazionali, soltanto essa è atta a metter fine ai dissensi nazionali».
«È necessario — dice lo Springer — dare alle nazionalità una giusta
organizzazione, fissarne i diritti e i doveri». Certo, «è facile fare una
legge, ma avrà essa tutta l’efficacia che ci s’aspettava»?... «Se si vuole fare
una legge per le nazioni, prima di tutto bisogna creare le nazioni stesse»....
«Se non si costituiscono le nazionalità non è possibile creare un diritto
nazionale ed eliminare i dissensi nazionali».
Nello stesso senso parla il Bauer quando propone, come «rivendicazione della
classe operaia», «l’organizzazione delle minoranze in corporazioni di diritto
pubblico sulla base del principio personale».
Ma come organizzare le nazioni? Come definire se un individuo appartiene ad una
nazione o ad un’altra?
«Quest’appartenenza — dice lo Springer — si definisce per mezzo di certificati
nazionali; tutti coloro che vivono in una regione devono dichiarare la loro
appartenenza ad una nazione o ad un’altra».
«Il principio personale — afferma il Bauer — presuppone che la popolazione si
divida per nazionalità sulla base di libere dichiarazioni dei cittadini
maggiorenni», e perciò «si devono preparare i registri nazionali».
E ancora:
«Tutti i tedeschi — dice il Bauer — che vivono in distretti omogenei dal punto
di vista nazionale, e inoltre tutti i tedeschi iscritti nei registri nazionali
dei distretti misti costituiscono la nazione tedesca ed eleggono il Consiglio
nazionale».
Lo stesso va detto dei cechi, dei polacchi, ecc.
«Il Consiglio nazionale — secondo lo Springer — è un parlamento culturale
nazionale al quale spetta di fissare i principi e approvare i mezzi necessari
per difendere la scuola nazionale, la letteratura, l’arte e la scienza
nazionali, per fondare accademie, musei, gallerie, teatri, ecc.».
Tali dunque sono l’organizzazione della nazione e la sua istituzione centrale.
Creando questi istituti interclassisti, il partito socialdemocratico austriaco
aspira, secondo il Bauer, a «rendere la cultura nazionale... patrimonio di tutto il popolo e ad unire con questo mezzo
che è l’unico possibile, tutti i membri della nazione in una comunità culturale
nazionale» (il corsivo è nostro).
Si può pensare che questo riguardi soltanto l’Austria. Ma il Bauer non è
d’accordo. Egli afferma nettamente che l’autonomia nazionale è obbligatoria
anche per quegli altri stati che siano composti, come l’Austria, di parecchie
nazionalità.
«Alla politica nazionale delle classi abbienti, alla politica di conquista del
potere in uno stato plurinazionale, il proletariato di tutte le nazioni
contrappone — secondo il Bauer — la sua esigenza dell’autonomia nazionale».
Inoltre, confondendo inavvertitamente l’autodecisione delle nazioni con
l’autonomia nazionale, il Bauer continua:
«Così, l’autonomia nazionale, l’autodecisione delle nazioni, diventa
inevitabilmente il programma costituzionale del proletariato di tutte le
nazioni, che vivono in stati plurinazionali».
Ma il Bauer va ancora più in là. Egli è profondamente convinto che le «unioni
nazionali» interclassiste «costituite» da lui e dallo Springer saranno come il
prototipo della futura società socialista. Egli sa infatti che
«l’organizzazione socialista della società... dividerà l’umanità in comunità
delimitate secondo la nazionalità», che in regime socialista si creerà «un
raggruppamento della umanità in società nazionali autonome», che «in tal modo
la società socialista rappresenterà sicuramente un quadro variopinto di unioni
nazionali personali e di corporazioni territoriali», e che, per conseguenza,
«il principio socialista della nazionalità è la più alta sintesi del principio
nazionale e dell’autonomia nazionale».
E mi pare che basti...
Questa la giustificazione dell’autonomia nazionale culturale nei lavori del
Bauer e dello Springer.
Prima di tutto, balza agli occhi la confusione del tutto incomprensibile e
assolutamente ingiustificata tra autodecisione delle nazioni e autonomia
nazionale. Una delle due: o il Bauer non ha capito che cos’è l’autodecisione,
ovvero lo ha capito, ma per una qualche ragione ne restringe il significato.
Perché non c’è dubbio che: a) l’autonomia culturale nazionale presuppone
l’integrità dello stato plurinazionale, mentre l’autodecisione esce dai limiti
di tale integrità; b) l’autodecisione dà alla nazione tutti integralmente i
diritti, mentre l’autonomia nazionale le dà soltanto i diritti «culturali».
Questo in primo luogo.
In secondo luogo, è molto probabile che in avvenire si produca un tal concorso
di circostanze interne ed esterne, per cui una nazionalità o un’altra decida di
uscire dallo stato plurinazionale, per esempio dall’Austria: al Congresso di
Brünn i socialdemocratici ruteni hanno affermato di esser pronti a riunire le «due
parti» del loro popolo in un tutto unico. Allora, che ne sarà dell’autonomia
nazionale, «inevitabile per il proletariato di tutte le nazioni»?
Che cos’è questa «soluzione» del problema che imprigiona meccanicamente le
nazioni nel letto di Procuste dell’integrità dello stato?
E ancora. L’autonomia nazionale è in contraddizione con tutto il processo di
sviluppo delle nazioni. Essa dà la parola d’ordine d’organizzare le nazioni; ma
è possibile saldarle artificialmente, se la vita, se lo sviluppo economico separa
da esse interi gruppi e li sparpaglia in varie regioni? Non v’è dubbio che agli
inizi del capitalismo le nazioni si uniscono. Ma è anche certo che nelle fasi
superiori del capitalismo comincia un processo di dispersione delle nazioni, un
processo di separazione dalle rispettive nazioni di tutta una serie di gruppi
che partono in cerca di lavoro e poi si trasferiscono definitivamente in
un’altra regione dello stato; in questo modo essi sciolgono i loro vecchi
legami, ne allacciano dei nuovi nella nuova residenza, assimilano di
generazione in generazione nuove usanze e nuovi gusti e forse anche una nuova
lingua. Ci si domanda: è forse possibile unire in una sola unione nazionale
questi gruppi, che si differenziano a tal segno l’uno dall’altro? Dove trovare
gli anelli miracolosi, grazie ai quali si possa unificare ciò che non è
unificabile? È concepibile «fondere in una sola nazione», per esempio, i
tedeschi del Baltico e quelli della Transcaucasia? Ma se tutto questo è
inconcepibile e impossibile, in che cosa differisce allora l’autonomia
nazionale dalle utopie dei vecchi nazionalisti, che tentavano di far girare
all’indietro la ruota della storia?
Ma l’unità della nazione non è compromessa soltanto dall’emigrazione, è anche
compromessa all’interno in seguito all’acuirsi della lotta di classe. Agli
inizi del capitalismo si può ancora parlare di una «comunità culturale» del
proletariato e della borghesia. Ma con lo sviluppo della grande industria e
l’acuirsi della lotta di classe, la «comunità» comincia a sparire. Non è
possibile parlare seriamente di «comunità culturale», quando padroni e operai
di una sola e stessa nazione non si comprendono più tra di loro... Di quale «
comune destino» si può parlare, quando la borghesia vuole la guerra e il
proletariato dichiara «guerra alla guerra»? Come organizzare con questi
elementi contrastanti un’unione nazionale interclassista? Si può, per
conseguenza, parlare di «unione di tutti i membri di una nazione in una
comunità nazionale culturale»? Non risulta forse chiaro che l’autonomia
nazionale è in contrasto con tutto l’andamento della lotta di classe?
Ma ammettiamo pure per un momento che la parola d’ordine «organizzare la
nazione» sia realizzabile. Tutto sommato è comprensibile che dei parlamentari
borghesi nazionalisti tentino di «organizzare» la nazione per ottenere un
maggior numero di voti. Ma da quando in qua i socialdemocratici hanno
incominciato ad «organizzare» le nazioni, a «costituire» le nazioni, a «creare»
le nazioni?
Che socialdemocratici son codesti, che in un’epoca di estrema acutizzazione
della lotta di classe organizzano unioni nazionali interclassiste?
Finora la socialdemocrazia austriaca,
come ogni altra, aveva un compito: organizzare il proletariato. Ma questo
compito, evidentemente, è «sorpassato». Ora lo Springer e il Bauer indicano un
«nuovo» compito, un compito più interessante: «creare», «organizzare» la
nazione.
Del resto la logica impone che chi ha accettato l’autonomia nazionale debba
accettare anche questo «nuovo» compito; ma accettare questo compito significa
abbandonare la posizione classista e mettersi sulla via del nazionalismo.
L’autonomia culturale nazionale dello Springer e del Bauer è una forma
raffinata di nazionalismo.
E non è certo un caso che il programma nazionale della socialdemocrazia
austriaca faccia obbligo di preoccuparsi «della conservazione e dello sviluppo
delle particolarità dei popoli nazionali». Si pensi soltanto: «conservare»
delle «particolarità nazionali» come quella dell’autoflagellazione dei tartari
della Transcaucasia nella festa dello Sciakhsei-Vakhsei, «sviluppare» delle
«particolarità nazionali» come quella dei georgiani del «diritto della
vendetta»!...
Un paragrafo di questo genere sarebbe al suo posto in un programma
sfacciatamente nazionalistico-borghese; e se è stato incluso nel programma dei
socialdemocratici austriaci, vuol dire che l’autonomia nazionale tollera tali
cose, non vi si oppone.
Ma l’autonomia nazionale, inadatta per la società presente, è ancora meno
adatta per la futura società socialista.
La profezia del Bauer circa la «divisione dell’umanità in delimitate società
nazionali» è confutata da tutto il processo di sviluppo dell’umanità
contemporanea. Le barriere nazionali non si rafforzano, ma si distruggono e
cadono. Fin dalla metà del secolo scorso, Marx diceva che «l’isolamento e gli
antagonismi nazionali dei popoli vanno via via scomparendo», che «il dominio
del proletariato li farà scomparire ancora di più». Lo sviluppo ulteriore
dell’umanità, con il gigantesco sviluppo della produzione capitalistica, con il
mescolarsi delle nazionalità e con l’unificazione delle genti in territori
sempre più estesi, dà una conferma decisiva alla teoria di Marx.
Il desiderio del Bauer di rappresentare la società socialista come «un quadro
variopinto di unioni nazionali individuali e di corporazioni territoriali» è un
timido tentativo di trasformare la concezione marxista del socialismo in una
concezione bakunista riformata. La storia del socialismo insegna che tutti i
tentativi di questo genere racchiudono in sé gli elementi del loro inevitabile
fallimento.
Non parliamo neppure del cosiddetto «principio socialista delle nazionalità»
esaltato dal Bauer, che si risolve, a nostro parere, nel sostituire il
principio socialista della lotta di classe col «principio» borghese «della
nazionalità». Se l’autonomia nazionale parte da un principio così equivoco,
bisogna riconoscere che può soltanto nuocere al movimento operaio.
È vero che questo nazionalismo non è molto
limpido, perché è abilmente mascherato con frasi socialiste, ma esso è
tanto più nocivo al proletariato. Si può sempre aver ragione di un nazionalismo
aperto: non è difficile riconoscerlo. Molto più difficile è lottare contro un
nazionalismo mascherato e irriconoscibile sotto la sua maschera. Coprendosi con
la corazza del socialismo, esso è meno vulnerabile e più vitale. Vivendo poi
tra gli operai, avvelena l’atmosfera, diffondendo le idee nefaste della
diffidenza reciproca e della separazione degli operai delle diverse
nazionalità.
Ma non soltanto per questo l’autonomia nazionale è nociva. Essa prepara il
terreno non solo per la divisione delle nazioni, ma anche per il frazionamento
del movimento operaio unico. L’idea dell’autonomia nazionale crea le premesse
psicologiche per la divisione del partito unico degli operai in diversi
partiti, costituiti sulla base della nazionalità. Dopo i partiti, si disgregano
i sindacati e si giunge al completo frazionamento. Così un movimento di classe
unitario si scinde in rivoli nazionali distinti.
L’Austria, la patria dell’«autonomia nazionale», offre gli esempi più tristi di
questo fenomeno. Il partito socialdemocratico austriaco, un tempo unico, ha
cominciato dal 1897 (Congresso di Wimberg) a scindersi in vari partiti. Dopo il
Congresso di Brünn (1899) che votò per l’autonomia nazionale, la scissione si è
accentuata ancor più. Infine si è giunti a tal punto che, invece di un unico
partito internazionale, esistono ora sei partiti nazionali, fra i quali il
Partito socialdemocratico ceco non vuole aver niente a che fare con la socialdemocrazia
tedesca.
Ma ai partiti sono legati i sindacati. In Austria, sono gli stessi operai
socialdemocratici che svolgono l’attività principale, sia nei partiti che nei
sindacati. Perciò c’era da temere che il separatismo nel partito avrebbe condotto
al separatismo nei sindacati, che anche i sindacati si sarebbero scissi. E così è
avvenuto: anche i sindacati si sono divisi secondo le nazionalità. Ora si
arriva spesso al punto che gli operai cechi sabotano lo sciopero degli operai
tedeschi o partecipano alle elezioni amministrative a fianco dei borghesi cechi
contro gli operai tedeschi.
Si vede dunque che l’autonomia culturale nazionale non risolve la questione
nazionale. Anzi l’acutizza e la complica, creando un terreno favorevole alla
rottura dell’unità del movimento operaio, alla divisione degli operai secondo
la nazionalità, al rafforzamento degli attriti nelle loro file. Questi sono i
frutti dell’autonomia nazionale.
V. Il Bund, il suo
nazionalismo, il suo separatismo
Abbiamo detto sopra che il Bauer, pur
riconoscendo necessaria l’autonomia nazionale per i cechi i polacchi, ecc., si
esprime nondimeno contro l’autonomia per gli ebrei. Alla domanda: «Deve la
classe operaia rivendicare l’autonomia per il popolo ebraico?», i1 Bauer
risponde che «l’autonomia nazionale non può essere una rivendicazione degli
operai ebrei». La ragione, secondo il Bauer, è che «la società capitalistica
non permette loro (agli ebrei. G. St.) di mantenersi come nazione».
In breve, la nazione ebraica cessa di esistere, dunque non c’è motivo di
rivendicarne l’autonomia. Gli ebrei si vanno assimilando.
Quest’opinione sul destino degli ebrei come nazione non è nuova. Marx l’enunciò
sin dalla metà del secolo scorso, riferendosi soprattutto agli ebrei tedeschi.
Kautsky la ripeté nel 1903, riferendosi agli ebrei russi. Ora la ripete il
Bauer, riferendosi agli ebrei austriaci, con questa differenza, però, che egli
nega non il presente, ma l’avvenire della nazione ebraica.
Egli spiega l’impossibilità per gli ebrei di mantenersi come nazione col fatto
che «gli ebrei non hanno un territorio delimitato di colonizzazione». Però
questa spiegazione, fondamentalmente vera, non contiene tutta la verità. Sta di
fatto, innanzi tutto, che non esiste uno strato considerevole di ebrei
stabilmente legato alla terra, che consolidi naturalmente la nazione
costituendone non solo l’ossatura, ma anche il mercato «nazionale». Su cinque o
sei milioni di ebrei russi, solo il tre o quattro per cento sono legati in un
modo o nell’altro all’agricoltura; il novantasei per cento sono occupati nel
commercio, nell’industria, in uffici urbani e in generale vivono nelle città,
ed inoltre, sparpagliati per la Russia, non costituiscono la maggioranza in
nessun governatorato.
In tal modo, infiltrati in regioni di altra nazionalità, gli ebrei formano
minoranze nazionali, che servono soprattutto le nazioni «straniere» in qualità
di industriali, commercianti o liberi professionisti, uniformandosi,
naturalmente, alle «nazioni straniere» per la lingua, ecc. Tutto ciò, dato il
crescente mescolarsi delle nazionalità, caratteristico nelle forme sviluppate
dal capitalismo, porta all’assimilazione degli ebrei. L’eliminazione
dell’obbligo di vivere in determinate «zone di residenza» non può che accelerarla.
Per conseguenza, la questione dell’autonomia nazionale per gli ebrei russi
assume un carattere alquanto strano: si propone l’autonomia per una nazione di
cui si nega l’avvenire, di cui resta ancora da provare l’esistenza!
Nondimeno il Bund si è messo su questa posizione strana e incerta, approvando
nel suo VI Congresso (1905) un «programma nazionale» ispirato all’autonomia
nazionale.
Due circostanze hanno spinto il Bund a questo.
La prima è l’esistenza del Bund come organizzazione degli operai socialdemocratici
ebrei, e soltanto ebrei. Ancora prima del 1897, gruppi socialdemocratici che
lavoravano tra gli operai ebrei si erano prefissi di creare «una particolare
organizzazione operaia ebraica». Nel 1897 crearono quest’organizzazione,
unendosi nel Bund. Questo accadde quando la socialdemocrazia della Russia non
esisteva ancora, di fatto, come un tutto unico.
Da allora il Bund è cresciuto e si è esteso ininterrottamente, distinguendosi
sempre di più sullo sfondo dei giorni grigi della socialdemocrazia della
Russia... Ma eccoci all’inizio del secolo XX. Ha inizio un movimento operaio di
massa. La socialdemocrazia polacca si sviluppa e attrae gli operai ebrei nella
lotta di massa. La socialdemocrazia della Russia si sviluppa ed attira a sé gli
operai «bundisti». La cornice nazionale del Bund, priva di una base
territoriale, diventa angusta. Il Bund si trova di fronte a un dilemma: o
dissolversi nell’ondata generale internazionale, o difendere la propria
esistenza indipendente di organizzazione extraterritoriale. Il Bund sceglie
quest’ultima soluzione.
Così viene creata la «teoria» del Bund come «unico rappresentante del
proletariato ebraico».
Ma giustificare in un modo più o meno «semplice» questa strana «teoria» era
impossibile. Occorreva darle una veste «di princìpi», una giustificazione «di
principio». Questa veste fu l’autonomia culturale nazionale. Il Bund si
aggrappò ad essa, prendendola a prestito dalla socialdemocrazia austriaca. Se
gli austriaci non avessero avuto questo programma, il Bund lo avrebbe inventato,
per giustificare «in linea di principio» la sua esistenza indipendente.
In tal modo, dopo un timido tentativo fatto nel 1901 (IV Congresso), il Bund
adottò definitivamente nel 1905 il suo «programma nazionale» (VI Congresso).
La seconda circostanza è la particolare situazione degli ebrei, che formano
minoranze nazionali separate in seno a maggioranze nazionali compatte di intere
province. Abbiamo già detto che tale situazione mina l’esistenza degli ebrei
come nazione, li sospinge sulla via dell’assimilazione. Ma questo è un processo
oggettivo. Soggettivamente, nella mente degli ebrei, suscita una reazione e fa
sorgere il problema della garanzia dei loro diritti di minoranza nazionale, il
problema della garanzia contro l’assimilazione. Propugnando la vitalità della
«nazionalità» ebraica, il Bund non poteva non sostenere il punto di vista della
«garanzia»; e, presa una posizione di questo genere, non poteva non accogliere
l’autonomia nazionale, perché. se doveva aggrapparsi ad una qualsiasi autonomia,
poteva aggrapparsi soltanto all’autonomia nazionale, cioè culturale nazionale.
Di un’autonomia territoriale-politica degli ebrei non si poteva neanche
parlare, in quanto essi erano privi di un territorio unito e definito.
È caratteristico che il Bund abbia sottolineato fin dall’inizio il carattere
nazionale dell’autonomia come garanzia dei diritti delle minoranze nazionali,come
garanzia del «libero sviluppo» delle nazioni. Non a caso il rappresentante del
Bund al Congresso della socialdemocrazia della Russia, Golblatt, definì
l’autonomia nazionale come «istituzione che garantisce loro (alle nazioni. G.
St.) la piena libertà di sviluppo culturale». I sostenitori delle idee del Bund
sono entrati nel gruppo socialdemocratico alla quarta Duma, avanzando la stessa
proposta.
Così il Bund ha assunto la strana posizione dell’autonomia nazionale degli
ebrei.
Abbiamo esaminato sopra l’autonomia nazionale in generale. L’esame ci ha
dimostrato che l’autonomia nazionale conduce al nazionalismo. Vedremo più
avanti che il Bund è già arrivato a questo punto. Ma il Bund considera
l’autonomia nazionale anche da un punto di vista particolare: quello della
garanzia dei diritti delle minoranze nazionali. Esaminiamo la questione anche
da questo punto di vista particolare. Ciò è tanto più necessario, in quanto la
questione delle minoranze nazionali, e non solo delle minoranze ebraiche, ha
una grande importanza per la socialdemocrazia.
Dunque: «istituzioni che garantiscano» alle nazioni «la piena libertà di
sviluppo culturale» (il corsivo è nostro. G. St.).
Ma che cosa sono mai tali «istituzioni che garantiscano», ecc.?
Prima di tutto il «consiglio nazionale» di Springer-Bauer, una specie di Dieta
per gli affari culturali.
Ma possono queste istituzioni garantire «la piena libertà di sviluppo
culturale» delle nazioni? Può una qualsiasi Dieta per gli affari culturali
garantire le nazioni dalle persecuzioni nazionalistiche?
Il Bund ritiene di sì.
Ma la storia dice il contrario.
Nella Polonia russa c’è stata una volta una Dieta, una Duma politica, ed essa,
certo, si è sforzata di garantire la libertà di «sviluppo culturale» dei
polacchi; però non solo non vi è riuscita, ma al contrario è caduta essa stessa
nell’impari lotta contro le condizioni politiche generali della Russia.
In Finlandia esiste da molto tempo una
Dieta che si sforza anch’essa di difendere dagli «attentati» la nazionalità
finnica, ma tutti possono vedere se riesce a fare gran che in questo senso.
Certo, c’è differenza tra Dieta e Dieta e non è così facile sbarazzarsi della
Dieta finlandese, organizzata democraticamente, come ci si è sbarazzati di
quella polacca aristocratica. Ma, comunque, l’elemento decisivo non è
rappresentato dalla Dieta, ma dall’ordinamento generale della Russia: se oggi
in Russia esistessero gli stessi ordinamenti politico-sociali brutalmente
asiatici, come nel passato, come negli anni della soppressione della Dieta
polacca, le cose andrebbero peggio per la Dieta finlandese. Del resto, la
politica di «attentati» contro la Finlandia si sviluppa e non si può dire che
abbia subito sconfitte.
Se così stanno le cose per antiche istituzioni formatesi storicamente, come le
Diete politiche, tanto meno potranno garantire il libero sviluppo nazionale
delle Diete recenti, e per giunta deboli come le Diete «culturali». Il problema
non sta evidentemente nelle «istituzioni», ma negli ordinamenti generali del
paese. Se nel paese non c’è democrazia, non c’è neppure garanzia di «piena
libertà di sviluppo culturale» delle nazionalità. Si può dire con sicurezza che
quanto più un paese è democratico, tanto minori sono gli «attentati» alla
«libertà delle nazionalità» e tanto maggiori le garanzie contro gli
«attentati».
La Russia è un paese semiasiatico e perciò la politica di «attentati» assume
non di rado le forme più brutali, le forme di pogrom. Inutile dire che le
«garanzie» in Russia, sono ridotte ai minimi termini.
La Germania è già Europa, con maggiore o minor libertà politica. Non c’è da
meravigliarsi se la politica di «attentati» non vi assume mai la forma di
pogrom.
In Francia, si capisce, vi sono «garanzie» ancora maggiori, perché la Francia è
più democratica della Germania.
Non parliamo poi della Svizzera, dove, grazie all’alto livello di democrazia,
anche se borghese, le nazionalità, minoranze o maggioranze che siano, vivono
liberamente.
Dunque il Bund è su una falsa strada, quando afferma che le «istituzioni» di
per sé possono garantire il pieno sviluppo culturale delle nazionalità.
Si potrebbe osservare che lo stesso Bund considera la democratizzazione della
Russia come condizione preliminare per la «creazione di istituzioni» e per la
garanzia della libertà. Ma ciò non è esatto. Dal Resoconto dell’VIII Conferenza
del Bund risulta che questo pensa di
ottenere le «istituzioni» sulla base
degli ordinamenti attuali in Russia, per mezzo di una «riforma» della
comunità ebraica.
«La comunità — diceva a questa conferenza uno dei capi del Bund — può diventare
il nucleo della futura autonomia culturale nazionale. L’autonomia culturale
nazionale è una forma di self-service, di servigio reso dalla nazione a se
stessa, una forma di soddisfacimento delle rivendicazioni nazionali. La forma
della comunità nasconde lo stesso contenuto. Sono anelli di una stessa catena,
tappe di una sola evoluzione».
Partendo da questa premessa, la conferenza ha deciso che bisogna lottare «per
una riforma della Comunità ebraica e per la sua trasformazione in una
istituzione laica», organizzata democraticamente, da ottenersi per vie legali
(il corsivo è nostro. G. St.).
È chiaro che il Bund considera come condizione e garanzia non la
democratizzazione della Russia, ma la futura «istituzione laica» degli ebrei,
ottenuta mediante la «riforma della comunità ebraica», per così dire per via
«legislativa», attraverso la Duma delle esigenze nazionali. La forma della
comunità nasconde lo stesso contenuto. Sono anelli di una sola catena, tappe di
una sola evoluzione».
Ma abbiamo già visto che le «istituzioni», se manca un ordinamento democratico
di tutto lo stato, non possono servire di per sé come «garanzie».
E allora, come fare nel futuro ordinamento democratico? Non occorreranno anche
in regime di democrazia speciali «istituzioni culturali che garantiscano»,
ecc.? Come stanno le cose, a questo riguardo, per esempio, nella democratica
Svizzera?
Esistono in Svizzera speciali istituzioni culturali del tipo del «consiglio
nazionale» di Springer? No, non ne esistono. E non ne soffrono gli interessi
culturali, per esempio, degli italiani, che sono in Svizzera una minoranza? Non
se ne sente parlare.
Ed è comprensibile: la democrazia in Svizzera rende superflua qualsiasi
«istituzione» nazionale particolare, «che garantisca», ecc.
Impotenti oggi, dunque, e superflue domani: tali sono le istituzioni per
l’autonomia culturale nazionale, tale è l’autonomia nazionale.
Ma essa è ancor più nociva quando si riferisce a una «nazione» la cui esistenza
e il cui avvenire sono dubbi. In simili casi, i sostenitori dell’autonomia
nazionale sono costretti a difendere e a conservare tutte le particolarità
della «nazione», e non solo quelle utili, ma anche quelle dannose, pur di
«salvare la nazione» dall’assimilazione, pur di «conservarla».
Il Bund doveva inevitabilmente mettersi su questa strada pericolosa. E in
realtà ci si è messo. Ci riferiamo alle note risoluzioni delle ultime conferenze
del Bund sul «sabato», sul «gergo», ecc.
La socialdemocrazia rivendica il diritto della lingua materna per tutte le
nazioni, ma il Bund non si contenta di questo; esso esige che si difenda «con
particolare fermezza» il «diritto della lingua ebraica» (il corsivo è nostro.
G. St.); e inoltre, nelle elezioni alla IV Duma dà «la preferenza a quello tra
loro (cioè tra gli elettori diretti) che si impegni a difendere il diritto
della lingua ebraica».
Non il diritto generale di usare la lingua materna, ma il diritto particolare
di usare la lingua ebraica, il gergo! Gli operai delle diverse nazionalità si
devono battere prima di tutto per la propria lingua: gli ebrei per l’ebraica, i
georgiani per la georgiana, ecc. La lotta per il diritto comune di tutte le nazioni
è una questione di secondo ordine. Voi potete anche non riconoscere a tutte le
nazioni oppresse il diritto all’uso della lingua materna; ma se avete
riconosciuto il diritto all’uso del gergo, sappiate che il Bund voterà per voi,
che il Bund vi «preferirà».
Ma in che cosa differisce dunque il Bund
dai nazionalisti borghesi?
La socialdemocrazia vuol ottenere un giorno settimanale di riposo obbligatorio,
ma il Bund non se ne accontenta ed esige che «per via legislativa» sia
«garantito al proletariato ebraico il diritto di festeggiare anche un altro
giorno».
C’è da credere che il Bund farà «un
passo avanti» ed esigerà il diritto di celebrare tutte le antiche feste
ebraiche. E se, per disgrazia del Bund, gli operai ebrei si fossero liberati
dai pregiudizi e non desiderassero celebrarle, il Bund, con la sua agitazione
per «il diritto del sabato», rammenterebbe loro il sabato, coltiverebbe in
loro, per così dire, «lo spirito del sabato»...
È perciò del tutto comprensibile che all’VIII conferenza del Bund siano stati
pronunziati «dei discorsi infuocati» per rivendicare «ospedali ebraici»,
giustificando questa rivendicazione con la affermazione che «il malato si sente
meglio tra i suoi», che «l’operaio ebreo si sentirebbe a disagio tra gli operai
polacchi e si sentirebbe invece bene tra i bottegai ebrei».
Conservare tutto ciò che è ebraico, conservare tutte le particolarità nazionali
degli ebrei, anche quelle notoriamente dannose per il proletariato, isolare gli
ebrei da tutto ciò che non è ebraico, costruire perfino ospedali speciali, ecco
dove è arrivato il Bund!
Il compagno Plekhanov aveva mille volte ragione quando diceva che il Bund «adatta il socialismo al nazionalismo».
Certo, V. Kossovski e i bundisti che gli assomigliano possono accusare
Plekhanov di «demagogia» — la carta sopporta tutto — ma per chi conosce
l’attività del Bund non è difficile comprendere che queste brave persone hanno
semplicemente paura di dire la verità sul proprio conto e si mascherano con
parole grosse contro la «demagogia»...
Ma una volta presa una posizione simile sulla questione nazionale, il Bund
doveva naturalmente mettersi sulla via dell’isolamento degli operai ebrei anche
nel campo organizzativo, sulla via delle curie nazionali in seno alla
socialdemocrazia. Tale è infatti la logica dell’autonomia nazionale.
Elettivamente, dalla teoria della «rappresentanza unica» il Bund passa alla
teoria della «delimitazione nazionale» degli operai. Esso esige dalla
socialdemocrazia russa che «introduca nella sua struttura organizzativa la «delimitazione
secondo le nazionalità». Dalla «delimitazione» fa poi «un passo avanti» verso
la teoria dell’«isolamento». Non per nulla all’VIII Conferenza del Bund si son
sentiti discorsi come questo: «l’esistenza della nazione è nell’isolamento».
Il federalismo organizzativo cela in sé elementi di disgregazione e di
separatismo. Il Bund marcia verso il separatismo.
E del resto, in verità, non saprebbe più dove andare. La sua stessa esistenza
di organizzazione non territoriale lo spinge sulla via del separatismo. Il Bund
non ha un territorio determinato, si appoggia a territori «altrui», mentre la
socialdemocrazia polacca, lettone e russa, con le quali si trova incontatto,
sono collettività territoriali-internazionali. Il risultato è che ogni
ampliamento di queste collettività rappresenta un «guaio» per il Bund, un
restringersi del suo campo di azione. Una delle due: o tutta la
socialdemocrazia della Russia si riorganizzerà sulle basi del nazionalismo
federale, e allora il Bund avrà la possibilità di «assicurarsi» il proletariato
ebraico; oppure resterà in vigore il principio territoriale internazionale di
queste collettività, e il Bund allora dovrà riorganizzarsi secondo i principi
dell’internazionalismo, come avviene nella socialdemocrazia polacca e lettone.
Questo spiega perché fin dal principio
il Bund abbia chiesto la «riorganizzazione della socialdemocrazia della Russia
su basi federative».
Nel l906, cedendo all’ondata unitaria
che veniva dalla base, esso scelse la via di mezzo, entrando nella socialdemocrazia
della Russia. Ma come vi è entrato? Mentre la socialdemocrazia polacca e
lettone vi sono entrate per lavorare tranquillamente insieme, il Bund vi è
entrato allo scopo di lottare per la federazione. Il dirigente del Bund, Medem,
così parlava allora:
«Noi vi andiamo non per un idillio, ma per la lotta. Non c’è idillio, e
soltanto i Manilov (7) possono sperarlo nel prossimo futuro.
Il Bund deve entrare nel partito, armato dalla testa ai piedi».
Sarebbe un errore attribuire queste parole alla cattiva volontà di Medem. Non
si tratta di cattiva volontà, ma della posizione particolare del Bund, a causa
della quale esso non può non lottare contro la socialdemocrazia della Russia,
edificata sulle basi dell’internazionalismo. Lottando contro di essa, il Bund,
naturalmente, ha danneggiato gli interessi dell’unità. Si è infine arrivati al
punto che esso ha rotto formalmente con la socialdemocrazia della Russia,
violando lo statuto e unendosi, nelle elezioni alla IV Duma, con i nazionalisti
polacchi contro i socialdemocratici polacchi.
Il Bund, evidentemente, ha creduto che la rottura fosse la miglior garanzia per
la sua indipendenza.
Così il «principio» della «delimitazione organizzativa» ha avuto come
conseguenza il separatismo e la rottura completa.
Polemizzando con la vecchia “Iskra” a proposito del federalismo, il Bund tempo
fa scriveva:
«L’“Iskra” vuole convincerci che i rapporti federativi del Bund con la
socialdemocrazia della Russia indeboliranno necessariamente i nostri reciproci
legami. Non possiamo confutare questa opinione richiamandoci alla esperienza
della Russia, per la semplice ragione che la socialdemocrazia della Russia non
è una associazione federativa. Ma possiamo richiamarci all’esperienza
straordinariamente istruttiva della socialdemocrazia in Austria, che ha preso
un carattere federativo in base alle decisioni del Congresso del 1897».
Queste parole sono state scritte nel 1902.
Ma ora siamo nel 1913. Abbiamo adesso l’«esperienza» della Russia e
l’«esperienza della socialdemocrazia dell’Austria»
Che cosa ci dicono l’una e l’altra?
Cominciamo dall’esperienza «straordinariamente interessante della
socialdemocrazia austriaca».
Nel 1896 in Austria c’era ancora un solo partito socialdemocratico. In
quell’anno i cechi per primi chiedono al Congresso Internazionale di Londra una
rappresentanza separata e la ottengono. Nel 1897, al Congresso di Vienna
(Wimberg), il partito unico viene formalmente liquidato e si crea in sua vece
un’unione federativa di sei «gruppi socialdemocratici» nazionali. In seguito,
questi «gruppi» si trasformano in
partiti indipendenti. A poco a poco questi partiti rompono i legami tra loro.
Dopo i partiti si scinde il gruppo parlamentare, si formano dei «circoli» nazionali.
Ai partiti tengono dietro i sindacati e si dividono anche essi per nazionalità.
Il movimento si estende perfino alle cooperative: i separatisti cechi invitano
gli operai a frazionarle. Non parliamo neppure del fatto che l’azione
separatista indebolisce nei lavoratori il sentimento di solidarietà,
spingendoli non di rado sulla via del crumiraggio.
Così, l’«esperienza straordinariamente istruttiva della socialdemocrazia
austriaca» è contro il Bund, per la vecchia “Iskra” (8). Il
federalismo nel partito austriaco ha portato al più vergognoso separatismo,
alla rottura dell’unità del movimento operaio.
Abbiamo visto sopra che la «pratica in Russia» dice la stessa cosa. I
separatisti del Bund, come i cechi, hanno rotto con la comune socialdemocrazia
della Russia. Per quanto riguarda i sindacati, i sindacati del Bund, essi fin
dal principio furono organizzati sulla base della nazionalità, cioè separati
dagli operai delle altre nazionalità.
Isolamento completo, rottura completa, ecco quello che insegna la «pratica
russa» del federalismo.
Non c’è da meravigliarsi che un tale stato di cose si ripercuota sugli operai
affievolendone il senso di solidarietà, demoralizzandoli, e che la
demoralizzazione penetri anche nel Bund. Alludiamo agli urti sempre più
frequenti tra operai ebrei e polacchi a causa della disoccupazione. Ecco quali
discorsi si sentivano in proposito alla IX Conferenza del Bund:
«Noi consideriamo gli operai polacchi che ci soppiantano, come autori di
pogrom, come provocatori, non sosteniamo i loro scioperi ma li sabotiamo. In
secondo luogo, all’imposizione risponderemo con l’imposizione: in risposta al
divieto fatto agli operai ebrei di entrare nelle fabbriche, non permetteremo
che gli operai polacchi si avvicinino ai telai... Se non prenderemo questa
lotta nelle nostre mani, i nostri operai seguiranno gli altri» (il corsivo è
nostro. G. St.).
Così si parla della solidarietà alla conferenza del Bund.
Come «delimitazione» e «isolamento» non è possibile andare oltre. Il Bund ha
raggiunto il suo scopo: esso divide gli operai delle diverse nazionalità sino a
spingerli al conflitto, al crumiraggio Non potrebbe essere diversamente: «se
non prenderemo questa lotta nelle nostre mani, i nostri operai seguiranno gli
altri».
Disorganizzazione del movimento operaio, demoralizzazione nelle file della
socialdemocrazia: ecco a che cosa conduce il federalismo del Bund.
L’idea dell’autonomia culturale nazionale e l’atmosfera che questa genera si è
dunque dimostrata ancor più nociva in Russia che in Austria.
VI. I caucasiani e la
conferenza dei liquidatori
Abbiamo parlato dei tentennamenti di una parte dei socialdemocratici del
Caucaso, che non hanno resistito alla «epidemia» nazionalistica. Questi
tentennamenti si sono manifestati nel fatto che i suddetti socialdemocratici
hanno seguito — per quanto sembri strano — le orme del Bund, proclamando
l’autonomia culturale nazionale.
Autonomia regionale per tutto il Caucaso e autonomia culturale nazionale per le
nazioni che fanno parte del Caucaso:
così formulano la loro rivendicazione questi socialdemocratici, che, sia detto
tra parentesi, son legati ai liquidatori russi.
Ascoltiamo uno dei loro capi, il noto N (9).
«Tutti sanno che il Caucaso si distingue profondamente dalle province centrali,
sia per la composizione etnica della popolazione, sia per il territorio e per
l’economia agricola. Lo sfruttamento e lo sviluppo materiale di queste regioni
esigono lavoratori del luogo, che conoscano le particolarità locali e siano
abituati al clima e alle coltivazioni locali. È necessario che tutte le leggi
che perseguono il fine di sfruttare il territorio della regione siano emanate
sul posto e siano applicate da forze locali. Per conseguenza, l’emanazione
delle leggi concernenti i problemi locali sarà di competenza dell’organo
centrale dell’autoamministrazione del Caucaso... In questa maniera, le funzioni
dell’organo centrale del Caucaso consisteranno nell’ emanare leggi dirette allo
sfruttamento economico del territorio locale, allo sviluppo materiale della
regione».
Dunque: autonomia regionale del Caucaso.
Se si prescinde dalla motivazione addotta da N., alquanto confusa e incoerente,
bisogna riconoscere che la sua conclusione è giusta. L’autonomia regionale del
Caucaso, operante nella cornice della costituzione generale dello stato — cosa
che anche N. non nega — è effettivamente necessaria, data la particolare
conformazione e le condizioni di vita del Caucaso stesso. Lo ha riconosciuto
anche la socialdemocrazia della Russia, che al II Congresso si è pronunciata
per «l’autoamministrazione regionale in quelle regioni periferiche, che per le
loro condizioni di esistenza e per la composizione della popolazione
differiscono dalle regioni propriamente russe».
Il Martov, nel mettere in discussione questo punto al II Congresso, lo
giustificò dicendo che «l’immensità della Russia e l’esperienza del nostro
governo centralizzato ci danno motivo di ritener necessaria e opportuna
l’esistenza di un’amministrazione regionale per grandi territori come la
Finlandia, la Polonia, la Lituania e il Caucaso».
Ne consegue che per autoamministrazione regionale bisogna intendere autonomia
regionale.
Ma N. va più in là. Secondo lui, l’autonomia regionale del Caucaso abbraccia
«soltanto un lato della questione».
«Finora abbiamo parlato soltanto dello sviluppo materiale della vita locale. Ma
allo sviluppo economico del paese contribuisce non solo l’attività economica,
ma anche quella spirituale-culturale... «Una nazione forte nel campo della
cultura è forte anche nella sfera economica...». «Ma lo sviluppo culturale di
una nazione è possibile solo nella lingua nazionale... Perciò tutte le
questioni relative alla lingua materna sono questioni culturali nazionali. Sono
queste le questioni dell’istruzione, dell’amministrazione della giustizia,
della chiesa, della letteratura, dell’arte, della scienza, del teatro, ecc.. Se
la questione dello sviluppo materiale del paese unisce le nazioni, i problemi
nazional-culturali le separano, chiudono ciascuna di esse nel suo proprio
recinto. L’attività economica è legata ad un territorio ben definito». «Non
così i problemi culturali nazionali. Essi non sono legati ad un territorio
determinato, ma all’esistenza di una determinata nazione. Le sorti della lingua
georgiana interessano ugualmente tutti i georgiani, dovunque essi vivano.
Sarebbe dar prova di grande ignoranza dire che la cultura georgiana riguarda
solo i georgiani che vivono nella Georgia. Prendiamo per esempio la chiesa
armena. Alla amministrazione dei suoi affari prendono parte gli armeni di
diverse località e di diversi stati. In questo caso il territorio non ha
nessuna importanza. Un altro esempio: alla creazione di un museo georgiano sono
interessati tanto il georgiano di Tiflis quanto quello di Bakù, di Kutais, di
Pietroburgo, ecc. Ciò significa che l’amministrazione e la direzione di tutti
gli affari culturali nazionali deve essere lasciata alle nazioni interessate.
Noi proclamiamo l’autonomia culturale nazionale delle nazionalità del Caucaso».
Insomma, siccome la cultura non è il territorio e il territorio non è la
cultura, è necessaria l’autonomia culturale nazionale. Questo è tutto quello
che N. sa dire in favore di quest’ultima.
Non ritorneremo qui ancora una volta sull’autonomia nazional-culturale in
genere: ne abbiamo già rilevato il carattere negativo. Vorremmo soltanto
osservare che l’autonomia culturale nazionale, inutile in generale, è ancor più
insensata e assurda dal punto di vista delle condizioni del Caucaso.
Ed ecco perché.
L’autonomia culturale nazionale presuppone nazionalità più o meno sviluppate,
con una cultura ed una letteratura progredite. Senza queste condizioni,
l’autonomia perde ogni significato e si trasforma in un’assurdità. Ma nel
Caucaso c’è tutta una serie di popolazioni con una cultura primitiva, con una
lingua propria, ma senza una propria letteratura; una serie di popolazioni, per
giunta, che sono in un periodo di transizione; che in parte si assimilano, in
parte invece si sviluppano ulteriormente. Come applicare a queste popolazioni
l’autonomia culturale nazionale? Come comportarsi con queste popolazioni? Come
«organizzarle» in unioni culturali nazionali separate, che sono indubbiamente
il presupposto dell’autonomia culturale nazionale?
Come regolarsi con i mingreli, con gli abkhasi, con gli adzeri, con gli svani,
con i lezghini e altri, che parlano lingue diverse, ma non hanno una
letteratura propria? A quali nazioni attribuirli? È possibile «organizzarli» in
unioni nazionali? Intorno a quali «questioni culturali» è possibile
«organizzarli»?
Come regolarsi con gli osseti, dei quali i transcaucasici si vanno assimilando
ai georgiani (ma sono ancora lontani dall’essersi assimilati), e i ciscaucasici
in parte si assimilano ai russi e in parte si sviluppano ancora, dando origine
ad una propria letteratura? Come «organizzarli» in una sola unione nazionale?
A quale unione nazionale assegnare gli adzeri, che parlano la lingua georgiana,
ma sono di cultura turca e professano la religione musulmana? Non si dovrebbe
«organizzarli» separatamente dai georgiani sulla base delle questioni religiose
e insieme ai georgiani sulla base delle altre questioni culturali? E i
cobuleti? E gli ingusci? E gli inghiloizi?
Che cos’è quest’autonomia che esclude dall’elenco tutta una serie di
nazionalità?
No, questa non è una soluzione della questione nazionale, questo è il parto di
una fantasia oziosa.
Ma ammettiamo pure l’inammissibile e supponiamo che l’autonomia culturale
nazionale del nostro N. venga realizzata. A che cosa condurrà? A quali
risultati? Prendiamo, per esempio, i tartari della Transcaucasia con la loro
bassissima percentuale di persone che sappiano leggere e scrivere, con le loro
scuole, a capo delle quali stanno gli onnipotenti mullah, con la loro cultura
impregnata di spirito religioso... Non è difficile comprendere che «organizzarli»
in un’unione culturale nazionale significa mettere alla loro testa i
mullah reazionari, significa creare una
nuova fortezza per l’asservimento spirituale delle masse tartare al loro
peggiore nemico.
Da quando in qua i socialdemocratici portano acqua al mulino dei reazionari?
È possibile che i liquidatori del Caucaso non avessero nulla di meglio da
«proclamare» che i tartari della Transcaucasia dovessero essere confinati in
un’unione culturale nazionale destinata ad asservire le masse ai peggiori
reazionari?
No, questa non è una soluzione della questione nazionale.
La questione nazionale nel Caucaso può esser risolta solo nel senso di attirare
le nazioni e le popolazioni arretrate nell’alveo comune di una cultura
superiore. Solo questa soluzione può essere progressiva e può essere accettata
dalla socialdemocrazia. L’autonomia regionale del Caucaso può essere accettata
perchè trascina le nazioni arretrate nel generale sviluppo culturale, le aiuta
a uscire dal loro guscio angusto di piccole nazionalità, le spinge in avanti e
facilita il loro accesso ai benefici di una cultura più alta. Invece
l’autonomia culturale nazionale agisce in senso addirittura opposto, perchè
rinchiude le nazioni nel vecchio guscio, le incatena ai gradini più bassi dello
sviluppo culturale, impedisce loro di innalzarsi ai gradi più elevati della
cultura.
In questo modo l’autonomia nazionale paralizza i lati positivi dell’autonomia
regionale, li riduce a zero.
Appunto per questo è inutile anche quel tipo misto di autonomia proposto da N.,
consistente nel combinare l’autonomia culturale nazionale con quella regionale.
Questa combinazione contro natura non migliora la situazione, ma la peggiora,
perchè, oltre ad ostacolare lo sviluppo delle nazioni arretrate, trasforma
anche l’autonomia regionale in un’arena di scontri tra le nazioni organizzate
nelle unioni nazionali.
Così l’autonomia nazional-culturale, inutile in generale, si trasformerebbe nel
Caucaso in un insensato tentativo reazionario.
Questa è l’autonomia culturale nazionale,di N. e dei suoi amici caucasiani.
Il futuro mostrerà se i liquidatori caucasiani faranno ancora «un passo avanti» e seguiranno le orme del
Bund anche nella questione organizzativa. Finora nella storia della
socialdemocrazia il federalismo organizzativo ha sempre preceduto
l’inclusione,dell’autonomia nazionale nel programma.
I socialdemocratici austriaci hanno applicato il federalismo organizzativo fin
dal 1897 e solo due anni dopo (1899) hanno approvato l’autonomia nazionale. I
bundisti hanno parlato esplicitamente di autonomia nazionale per la prima volta
nel 1901, mentre avevano applicato il federalismo organizzativo fin dal 1897.
I liquidatori caucasiani hanno incominciato dalla fine, dall’autonomia
nazionale. Se vorranno spingersi più avanti sulle orme del Bund, dovranno
distruggere preventivamente tutto l’attuale edificio organizzativo, costruito
alla fine del secolo scorso sulle basi dell’internazionalismo.
Ma se è stato facile approvare l’autonomia nazionale, che per ora non è
compresa dagli operai, altrettanto difficile sarà distruggere un edificio
costruito nel corso di anni e anni, amato ed esaltato dagli operai di tutte le
nazionalità del Caucaso. Basterà accingersi a quest’impresa degna di Erostrato,
perchè gli operai aprano gli occhi e comprendano l’essenza nazionalistica
dell’autonomia culturale nazionale.
Se i caucasiani risolvono la questione nazionale seguendo i metodi abituali,
attraverso i dibattiti orali e la discussione sulla stampa, la conferenza dei
liquidatori di tutta la Russia (10) ha escogitato un metodo
del tutto eccezionale. Un metodo facile e semplice. Ascoltate:
«Udita la comunicazione della delegazione del Caucaso... sulla necessità di
avanzare la rivendicazione della autonomia culturale nazionale, la conferenza,
senza pronunziarsi sulla sostanza della rivendicazione, constata che tale
interpretazione del punto del programma, che riconosce ad ogni nazionalità il
diritto di autodecisione, non è in contrasto col preciso significato del
programma stesso».
E così, prima «non si pronuncia sulla sostanza» della questione, e poi
«constata». Metodo originale...
Che cosa mai «constata» questa conferenza originale?
Che la «rivendicazione» dell’autonomia culturale nazionale «non è in contrasto
col preciso significato» del programma, che riconosce il diritto delle nazioni
all’autodecisione.
Esaminiamo questa tesi.
Il punto sull’autodecisione parla dei diritti delle nazioni. Secondo questo
punto, le nazioni hanno diritto non solo all’autonomia, ma anche alla
separazione. Si tratta dell’autodecisione politica. Chi volevano ingannare i
liquidatori, tentando di interpretare a rovescio questo diritto di
autodecisione politica delle nazioni, da tanto tempo affermato da tutta la
socialdemocrazia internazionale?
O forse i liquidatori vogliono farla franca ricorrendo a un sofisma: non è
vero, dicono, che l’autonomia culturale nazionale «non è in contrasto» con i
diritti delle nazioni? Cioè, se tutte le nazioni di un determinato stato si
accordano per organizzarsi secondo i princìpi dell’autonomia culturale
nazionale, esse (cioè quel certo numero di nazioni) hanno tutto il diritto di
farlo e nessuno può costringerle per forza ad un’altra forma di vita politica.
Questo è nuovo e intelligente. Perchè non aggiungere anche che, in linea generale,
le nazioni hanno il diritto di mutare la loro costituzione, di sostituirla con
un regime dispotico, di tornare ai vecchi ordinamenti, perchè le nazioni e
soltanto le nazioni stesse hanno il diritto di decidere il loro destino?
Ripetiamo: in questo senso, nè l’autonomia culturale nazionale nè qualsiasi
forma di reazione nazionale «è in contrasto» con i diritti delle nazioni.
Non voleva dir questo l’onorata conferenza?
No, non voleva dir questo. Essa afferma esplicitamente che l’autonomia
culturale nazionale «non è in contrasto» non già con i diritti delle nazioni,
ma «col significato preciso del programma». Non si è parlato dei diritti delle
nazioni, ma del programma.
Il perchè è chiaro. Se una qualsiasi nazione avesse interpellato la conferenza
dei liquidatori, la conferenza avrebbe potuto senz’altro constatare che la
nazione ha diritto all’autonomia culturale nazionale. Invece, la conferenza è
stata interpellata non da una nazione, ma da una «delegazione» di
socialdemocratici del Caucaso; di cattivi socialdemocratici, in verità, ma ad
ogni modo socialdemocratici. Ed essi non hanno interpellato la conferenza sui
diritti delle nazioni, ma le hanno chiesto se l’autonomia culturale nazionale
non è in contraddizione coi princìpi della socialdemocrazia, e se non è «in
contrasto» «col significato preciso» del programma socialdemocratico.
Dunque, i diritti delle nazioni e il «significato preciso» del programma
socialdemocratico non sono la stessa cosa.
Evidentemente ci sono rivendicazioni che, pur non essendo in contrasto coi
diritti delle nazioni, possono esserlo col «significato preciso» del programma.
Un esempio. Nel programma dei socialdemocratici c’è un punto sulla libertà di
culto. Secondo questo punto, ogni gruppo di persone ha il diritto di praticare
qualsiasi religione: il cattolicesimo, l’ortodossia, ecc. La socialdemocrazia
combatterà ogni forma di repressione religiosa, combatterà le persecuzioni
contro ortodossi, cattolici e protestanti. Ma questo significa forse che il
cattolicesimo, il protestantesimo, ecc., «non sono in contrasto col significato
preciso» del programma? No, non significa questo. La socialdemocrazia
protesterà sempre contro le persecuzioni anticattoliche e antiprotestanti,
difenderà sempre il diritto delle nazioni a praticare qualsiasi religione, ma
nel tempo stesso, partendo da una giusta comprensione degli interessi del
proletariato, condurrà un’agitazione sia contro il cattolicesimo che contro il
protestantesimo e contro l’ortodossia, allo scopo di preparare il trionfo della
concezione socialista.
E farà questo perchè il protestantesimo, il cattolicesimo, l’ortodossia, ecc.,
sono indubbiamente «in contrasto col preciso significato» del programma, cioè contro gli interessi
giustamente intesi del proletariato.
Lo stesso si deve dire dell’autodecisione. Le nazioni hanno il diritto di
organizzarsi come desiderano, hanno il diritto di conservare qualsiasi loro
istituzione nazionale nociva o utile, e nessuno può (non ne ha il diritto!)
intervenire con la violenza nella vita di una nazione. Ma questo non significa
ancora che la socialdemocrazia non lotterà e non condurrà un’agitazione contro
le istituzioni nazionali nocive, contro le rivendicazioni nazionali inadeguate.
Al contrario, la socialdemocrazia ha l’obbligo di condurre questa agitazione e
di influire sulla volontà delle nazioni in modo che le nazioni si organizzino
nella forma meglio rispondente agli interessi del proletariato. Appunto per
questo, pur lottando per il diritto delle nazioni all’autodecisione, condurrà
nello stesso tempo un’agitazione, per esempio, contro la separazione dei
tartari e contro l’autonomia culturale nazionale delle nazioni del Caucaso,
perchè sia l’una che l’altra, pur non essendo in contrasto con i diritti di
quelle nazioni, sono tuttavia in contrasto «col significato preciso» del
programma, cioè contro gli interessi del proletariato del Caucaso.
Evidentemente i «diritti delle nazioni» e il «significato preciso» del
programma sono due cose completamente diverse. Mentre il «significato preciso»
del programma esprime gli interessi del proletariato, scientificamente
formulati nel programma di quest’ultimo, i diritti delle nazioni possono
esprimere gli interessi di qualsiasi classe: della borghesia,
dell’aristocrazia, del clero, ecc., secondo la forza e l’influenza di queste
classi. Là i doveri,del marxista, qui i diritti delle nazioni che comprendono
varie classi. I diritti delle nazioni ed i princìpi della socialdemocrazia
possono essere o non essere «in contrasto», nello stesso modo che la piramide
di Cheope può essere o non essere in contrasto con la famosa conferenza dei
liquidatori. Si tratta semplicemente di cose che non possono essere messe a
confronto.
Ma ne consegue che l’onorata conferenza ha confuso nella maniera più
ingiustificabile due cose completamente diverse. Ne è risultato non una
risoluzione sulla questione nazionale, ma un’assurdità, in virtù della quale i
diritti delle nazioni e i princìpi della socialdemocrazia «non sono in
contrasto» gli uni con gli altri e per conseguenza ogni rivendicazione della
nazione può essere compatibile con gli interessi del proletariato e quindi
nessuna rivendicazione delle nazioni, che aspirano all’autodecisione, può
«essere in contrasto col preciso significato» del programma!
Povera logica...
Sulla base di quest’assurdità è nata la decisione ormai celebre della
conferenza dei liquidatori, secondo cui la rivendicazione dell’autonomia
culturale nazionale «non è in contrasto col preciso significato» del programma.
Ma la conferenza dei liquidatori non ha violato soltanto le leggi della logica.
Sanzionando l’autonomia culturale nazionale, essa è venuta meno anche al suo
dovere verso la socialdemocrazia della Russia. Essa ha falsato nella maniera
più aperta il «significato preciso» del programma, perchè è noto che il II Congresso,
che approvò il programma, respinse decisamente l’autonomia culturale nazionale.
Ecco quello che si disse a questo proposito al II Congresso:
«Goldblatt (bundista): ... Ritengo necessario creare istituzioni particolari
che garantiscano la libertà di sviluppo culturale delle nazionalità e perciò
propongo di aggiungere al § 8: “e la creazione di istituzioni che garantiscano
la piena libertà di sviluppo culturale” (questa, com’è noto, è la formulazione
data dal Bund all’autonomia culturale nazionale. G. St.).
Martynov rileva che le istituzioni generali devono essere organizzate in
maniera tale che siano garantiti anche gli interessi particolari. Non è
possibile creare nessuna istituzione particolare che garantisca la libertà di
sviluppo culturale delle nazionalità.
Jegorov: Sul problema delle nazionalità dobbiamo accogliere solo le proposte
negative vale a dire: noi siamo contro qualsiasi costrizione ai danni delle
varie nazionalità. Ma come socialdemocratici diciamo che non è affar nostro se
determinate nazionalità si sviluppano in quanto tali. Si tratta di un processo
spontaneo.
Koltsov: I delegati del Bund si offendono sempre quando si parla del loro
nazionalismo. Eppure, l’emendamento proposto dal delegato del Bund ha un
carattere nettamente nazionalistico. Ci si chiedono misure nettamente
aggressive per sostenere perfino quelle nazionalità che vanno scomparendo ».
... In conclusione, «l’emendamento di Goldblatt viene respinto dalla
maggioranza con tre voti contrari».
È dunque chiaro che la conferenza dei liquidatori si è messa «in contrasto» col
significato preciso del programma. Essa ha violato il programma.
I liquidatori tentano ora di giustificarsi, riferendosi al congresso di
Stoccolma, che avrebbe sanzionato l’autonomia culturale nazionale. Così Vl.
Kossovski scrive:
«Come è noto, secondo l’accordo raggiunto al Congresso di Stoccolma, il Bund è
stato autorizzato a conservare il suo programma nazionale (fino alla soluzione
della questione nazionale al congresso generale del partito). Questo congresso
ha riconosciuto che l’autonomia culturale nazionale, in ogni caso, non è in
contraddizione col programma generale del partito».
Ma i tentativi dei liquidatori sono vani. Il Congresso di Stoccolma non ha per
nulla pensato di sanzionare il programma del Bund, ha solo consentito a
lasciare aperta temporaneamente la questione. Il bravo Kossovski non ha avuto
il coraggio di dire tutta la verità. Ma i fatti parlano da soli.
«Galin propone un emendamento: “La questione del programma nazionale rimane
aperta perchè non è stata esaminata dal Congresso” (50 voti a favore, 32 contro).
Una voce: Che cosa vuol dire: aperta?
Presidente: Se diciamo che la questione nazionale rimane aperta, ciò significa
che il Bund può mantenere fino al prossimo congresso la propria decisione su
questa questione» (il corsivo è nostro. G. St.).
Come vedete, il congresso «non esaminò» neppure la questione del programma
nazionale del Bund; semplicemente, la lasciò «aperta», dando al Bund stesso
facoltà di decidere le sorti del proprio programma fino al seguente congresso
generale. In altri termini: il Congresso di Stoccolma si è disinteressato della
questione e non ha dato un giudizio sull’autonomia nazionale, nè in un senso nè
nell’altro.
Invece la conferenza dei liquidatori entra nel merito della questione in una
maniera ben precisa, dichiara accettabile l’autonomia culturale nazionale e la
sanziona in nome del programma del partito.
La differenza salta agli occhi.
In tal modo la conferenza dei liquidatori, malgrado tutte le astuzie, non ha
fatto progredire neppure di un passo la questione nazionale.
Scodinzolare davanti al Bund ed ai nazional-liquidatori del Caucaso: ecco tutto
quello di cui si è dimostrata capace.
VII. La questione nazionale in Russia
Ci rimane da indicare una soluzione positiva della questione nazionale.
Noi partiamo dalla premessa che la questione può essere risolta solo
connettendola strettamente al momento che attraversa la Russia.
La Russia vive in un periodo di transizione, in cui non si è ancora stabilizzata
una «normale» vita «costituzionale» e non si è ancora risolta la crisi
politica. Ci attendono giorni di tempeste e di «complicazioni». Di qui il
movimento, quello in corso e quello incombente, che ha come obiettivo la
democratizzazione completa.
Anche la questione nazionale deve essere esaminata in relazione a questo
movimento.
Dunque, democratizzazione completa del paese come fondamento e condizione della
soluzione della questione nazionale.
Nel risolvere la questione nazionale bisogna tener conto non solo della
situazione interna, ma anche di quella estera. La Russia si trova tra l’Europa
e l’Asia, tra l’Austria e la Cina. Lo sviluppo della democrazia in Asia è
inevitabile. Lo sviluppo dell’imperialismo in Europa non è un fenomeno casuale.
In Europa il capitale non ha più spazio sufficiente e si riversa in altri
paesi, cercando nuovi mercati, manodopera a buon prezzo, nuove zone
d’investimento. Ma ciò porta a complicazioni estere, alla guerra. Nessuno può
dire se la guerra balcanica sia la fine e non il principio di complicazioni. È
possibilissimo un concorso di circostanze interne ed estere per cui una
determinata nazionalità in Russia ritenga necessario porre e risolvere la
questione della sua indipendenza. E non è certo compito dei marxisti creare degli
ostacoli ad una simile eventualità.
Ne consegue che i marxisti russi non rinunzieranno al diritto delle nazioni
all’autodecisione.
Dunque, il diritto di autodecisione come elemento indispensabile per la
soluzione della questione nazionale.
Ancora. Come regolarsi con le nazioni che per una ragione o per l’altra
preferiranno restare entro uno stato unico?
Abbiamo visto che l’autonomia culturale nazionale non serve. Prima di tutto è
artificiosa, non naturale, perchè presuppone che siano incluse artificialmente
in una sola nazione persone che la vita, la vita effettiva, ha separato e
disperso nelle varie regioni periferiche dello stato. In secondo luogo, fa
deviare verso il nazionalismo, perchè presuppone il principio del
«raggruppamento» delle persone in curie nazionali, il principio della
«organizzazione» delle nazioni, il principio della «conservazione» e dello sviluppo delle «particolarità nazionali»,
e ciò non conviene affatto alla socialdemocrazia. Non a caso al Reichsrat i
separatisti moravi, dopo essersi staccati dai deputati socialdemocratici
tedeschi, si sono uniti con i deputati borghesi della Moravia in un unico
«circolo» moravo, per così dire. E non a caso i separatisti russi del Bund si
sono impantanati nel nazionalismo, esaltando il «sabato» e il «gergo». Nella
Duma non vi sono ancora deputati del Bund, ma nel campo di azione del Bund c’è
una comunità ebraica clerical-reazionaria, nelle cui «istituzioni dirigenti» il
Bund realizza, per il momento, 1’«unione» degli ebrei, operai e borghesi.
Questa è la logica dell’autonomia culturale nazionale.
L’autonomia nazionale non risolve dunque la questione.
Qual è allora la via d’uscita?
L’unica soluzione giusta è l’autonomia regionale, l’autonomia di determinate
unità, come la Polonia, la Lituania, l’Ucraina, il Caucaso, ecc.
La superiorità dell’autonomia regionale sta innanzi tutto nel fatto che, grazie
ad essa, non si ha a che fare con un’entità fittizia, senza territorio, ma con
una popolazione determinata che vive in un determinato territorio.
Inoltre, essa non divide la popolazione per nazioni, non consolida barriere
nazionali; al contrario, spezza queste barriere ed unisce la popolazione per
aprire la strada ad un raggruppamento di altro genere, al raggruppamento di
classe. Infine, offre la possibilità di utilizzare nel modo migliore le
ricchezze naturali della regione e di sviluppare le forze produttive senza
attendere le decisioni del centro comune, funzioni, tutte queste, estranee
all’autonomia culturale nazionale.
Dunque: autonomia regionale, come elemento necessario per la soluzione della
questione nazionale.
È fuor di dubbio che nessuna regione costituisce un’unità nazionale compatta,
perchè in ogni regione esistono delle minoranze nazionali. Tali gli ebrei in
Polonia, i lettoni in Lituania, i russi nel Caucaso, i polacchi in Ucraina,
ecc. Si può temere, perciò, che le minoranze vengano oppresse dalle maggioranze
nazionali. Ma i timori hanno un fondamento solo nel caso in cui il paese
conservi i vecchi ordinamenti. Date al paese una democrazia completa e i timori
perderanno ogni ragion d’essere.
C’è chi propone di collegare le minoranze sparse in una sola unione nazionale.
Ma le minoranze non hanno bisogno di un’unione artificiale, bensì di diritti
reali nel luogo dove vivono. Che cosa può offrir loro una tale unione, se non
esiste democrazia completa? Oppure: che bisogno c’è di unione nazionale, se
esiste una democrazia completa?
Che cosa particolarmente mette in agitazione le minoranze nazionali?
Le minoranze nazionali sono malcontente non perchè non esista un’unione
nazionale, ma perchè non esiste il diritto di usare la lingua materna.
Concedete loro il diritto di usare la lingua materna e il malcontento sparirà
da sè.
Le minoranze sono malcontente non perchè non esiste un’unione artificiosa, ma
perchè non esiste una loro scuola. Concedete loro questa scuola e il
malcontento perderà ogni ragione d’essere.
Le minoranze sono malcontente non perchè non esista un’unione nazionale, ma
perchè non esiste la libertà di coscienza (libertà di culto), di trasferimento,
ecc. Concedete loro queste libertà ed esse non saranno più malcontente.
Dunque, uguaglianza nazionale di diritti in tutti i suoi aspetti (lingua,
scuola, ecc.) come elemento necessario per la soluzione della questione
nazionale. Occorre una legge generale dello stato, emanata sulla base di una
completa democratizzazione del paese, che proibisca senza eccezioni tutte le
forme di privilegi nazionali e qualsiasi oppressione o limitazione dei diritti
delle minoranze nazionali.
In questo, e solo in questo, può consistere la garanzia effettiva, e non solo
sulla carta, dei diritti delle minoranze.
Si può contestare o non contestare l’esistenza di un legame logico tra il
federalismo organizzativo e l’autonomia culturale nazionale. Ma non si può
contestare il fatto che quest’ultima crei un’atmosfera propizia per un
federalismo sfrenato, che si trasforma in rottura completa, in separatismo. Se
i cechi in Austria e i bundisti in Russia, dopo aver incominciato con
l’autonomia ed esser passati alla federazione, hanno finito col cadere nel
separatismo, non c’è dubbio che in questa faccenda abbia avuto una parte
grandissima l’atmosfera nazionalistica che l’autonomia culturale nazionale
diffonde naturalmente. Non è un caso che l’autonomia nazionale e la federazione
organizzativa vadano a braccetto. È anzi naturale. L’una e l’altra rivendicano
un raggruppamento sulla base della nazionalità. L’una e l’altra presuppongono
un’organizzazione sulla base della nazionalità. L’analogia è fuori dubbio. La
differenza consiste solo in questo, che in base alla prima si divide lapopolazione
in generale, in base alla seconda si dividono gli operai socialdemocratici.
Sappiamo a che cosa conduce il raggruppamento degli operai per nazionalità:
distruzione del partito operaio unico, scissione dei sindacati in base alle
nazionalità, acutizzazione degli attriti nazionali, crumiraggio nazionale,
demoralizzazione completa nelle file della socialdemocrazia: questi sono i
risultati del federalismo organizzativo. La storia della socialdemocrazia in
Austria e l’attività del Bund in Russia lo dimostrano eloquentemente.
L’unico mezzo per evitare tutto questo è l’organizzazione secondo i princìpi
dell’internazionalismo.
Unificare sul posto gli operai di tutte le nazionalità della Russia in
collettività uniche e compatte, unificare queste collettività in un unico
partito: questo è il compito.
Va da sè che una tale organizzazione di partito non esclude ma presuppone una
larga autonomia regionale all’interno del partito unico.
L’esperienza del Caucaso dimostra quanto sia conveniente un’organizzazione di
questo genere. Se i caucasiani sono riusciti a superare gli attriti nazionali
tra gli operai armeni e tartari, se sono riusciti a proteggere la popolazione
da eventuali massacri e sparatorie, se oggi, a Bakù, in questo caleidoscopio di
gruppi nazionali, non sono più possibili conflitti nazionali, se là si è
riusciti a convogliare gli operai nell’alveo unico di un movimento potente, in
tutto questo ha avuto una parte non indifferente l’organizzazione internazionale
della socialdemocrazia del Caucaso.
Il tipo dell’organizzazione non influisce soltanto sul lavoro pratico. Esso
imprime un suggello indelebile su tutta la vita intellettuale dell’operaio.
L’operaio vive la vita della sua organizzazione, in essa si sviluppa
intellettualmente e si educa. Recandosi nella sua organizzazione ed
incontrandovisi sempre con i suoi compagni di altre nazionalità, partecipando
insieme a loro a una lotta comune sotto la direzione di una collettività
comune, egli si compenetra profondamente dell’idea che gli operai sono, prima
di tutto, membri di un’unica famiglia di classe, membri di un unico esercito
socialista. E questo non può non avere un’immensa importanza educativa per
larghi strati della classe operaia.
Perciò l’organizzazione di tipo internazionale è la scuola dei sentimenti di
fraternità, della più grande propaganda dell’internazionalismo.
Non si può dire la stessa cosa per l’organizzazione sulla base della
nazionalità. Organizzandosi sulla base della nazionalità, gli operai si
chiudono nel loro guscio nazionale, divisi l’uno dall’altro da barriere
organizzative. Si mette in rilievo non ciò che vi è di comune tra gli operai,
ma ciò che li distingue l’uno dall’altro. Qui l’operaio è prima di tutto membro
della sua nazione: è ebreo, polacco, ecc. Non c’è da meravigliarsi se il
federalismo nazionale nell’organizzazione alimenta negli operai lo spirito del
particolarismo nazionale.
Perciò il tipo di organizzazione nazionale è la scuola della ristrettezza e del
particolarismo nazionale.
Abbiamo così davanti a noi due tipi di organizzazione differenti in linea di
principio: il tipo della unità internazionale e il tipo della «separazione»
organizzativa degli operai secondo le nazionalità.
Finora, i tentativi di conciliare questi due tipi non hanno avuto successo. Lo
statuto conciliatore della socialdemocrazia austriaca, elaborato a Wimberg nel
1897, è rimasto campato in aria. Il partito austriaco è andato in pezzi,
trascinando dietro di sè i sindacati. La «conciliazione» si è dimostrata, oltre
che utopistica, anche dannosa. Aveva ragione lo Strasser, quando affermava che
«il separatismo ha riportato la sua prima vittoria al Congresso di Wimberg». La
stessa cosa è accaduta in Russia. La «conciliazione» col federalismo del Bund,
tentata al Congresso di Stoccolma (11), è terminata con un
fallimento completo. Il Bund ha rotto il compromesso di Stoccolma. Già
all’indomani di Stoccolma il Bund diveniva un ostacolo al processo di fusione
degli operai delle varie località in un’unica organizzazione che abbracciasse
gli operai di tutte le nazionalità. E il Bund ha persistito ostinatamente nella
sua tattica separatista malgrado che nel 1907 e nel 1908 la socialdemocrazia
della Russia avesse ripetutamente chiesto che si realizzasse finalmente l’unità
dal basso tra gli operai di tutte le nazionalità. Il Bund, che aveva
incominciato con l’autonomia nazionale organizzativa, è passato di fatto alla
federazione, per finire poi con la rottura completa, con il separatismo. Rompendo
con la socialdemocrazia della Russia, ha portato nelle sue file confusione e
disorganizzazione. Basti ricordare il caso Iaghello (12).
Perciò la strada della «conciliazione», dev’essere abbandonata, come utopistica
e nociva.
Una delle due: o il federalismo del Bund, e allora la socialdemocrazia della
Russia si organizzerà secondo i princìpi della «divisione» degli operai secondo
la nazionalità; o l’organizzazione di tipo internazionale, e allora il Bund si
riorganizzerà secondo i princìpi dell’autonomia territoriale, a somiglianza
della socialdemocrazia del Caucaso, della Lettonia e della Polonia, aprendo la
strada all’unione immediata degli operai ebrei con gli operai delle altre
nazionalità della Russia.
Non c’è via di mezzo: i princìpi vincono, ma non «si conciliano».
Dunque: il principio dell’unione internazionale degli operai, come elemento
indispensabile per la soluzione della questione nazionale.
Vienna, gennaio 1913 (13).
Pubblicato per la prima volta nella Prosvestcenie, nn. 3-5, marzo-maggio 1913.
Firmato: K. Stalin.
Note:
1. Assemblea elettiva concessa dallo zar il 17
ottobre 1905 (chiamata Duma di Witte o legislativa, per distinguerla dalla
precedente Duma di Bulyghin, puramente consultiva e fallita prima ancora di
essere convocata, per il boicottaggio attivo dei bolscevichi. La Duma di Witte
non era eletta a suffragio universale, ma a suffragio ristretto e con gli
elettori divisi in quattro "curie" (proprietari fondiari, borghesia,
contadini, operai), con la prevalenza assicurata alle prime due curie. I
bolscevichi boicottarono anche questa Duma , che fu sciolta dopo 72 giorni. Due
anni dopo, il 20 febbraio 1907, venne convocata una seconda Duma legislativa,
che fu sciolta dallo zar con un colpo di Stato il 3 giugno dello stesso anno.
La terza Duma (detta Duma di Stolypin) fu eletta alla fine del 1907 con una
nuova legge elettorale che assicurava il predominio dei partiti più reazionari.
Alla quarta Duma, che fu eletta nell'autunno del 1912 e che durò fino alla
Rivoluzione del 1917, i bolscevichi parteciparono come gruppo indipendente dal
gruppo parlamentare socialdemocratico.
2. Unione generale degli operai ebrei di Lituania, Polonia e
Russia, costituitasi nel settembre 1897 al Congresso di Vilna. Aderì nel 1898
al Partito Operaio Socialdemocratico Russo, assumendo negli anni successivi un
atteggiamento sempre più nazionalistico. Chiese al P.O.S.D.R. che il partito
fosse riorganizzato su basi federative, ma la richiesta fu respinta al II Congresso
del P.O.S.D.R. (1903) in conformità alle posizioni espresse da Lenin. Uscito
dal partito, il Bund vi fu riammesso nel 1906, continuando a sviluppare la sua
propaganda nazionalista e schierandosi sempre, sulle fondamentali questioni
politiche ed organizzative, dalla parte dei menscevichi e dei liquidatori.
Durante la prima guerra mondiale e nel corso della Rivoluzione di febbraio del
1917, il Bund lottò contro i bolscevichi, disgregandosi a poco a poco. Nel
1921, alla conferenza di Minsk, i bundisti di sinistra deliberarono l'adesione
al Partito bolscevico.
3. Furono chiamati "liquidatori" quei menscevichi i
quali, negli anni di reazione che seguirono alla sconfitta della rivoluzione
russa del 1905, si lasciarono vincere dallo scetticismo e dal panico, negarono
che fosse possibile una nuova ascesa della rivoluzione e abbandonarono le
parole d'ordine rivoluzionarie, sostenendo che era necessario liquidare le
organizzazioni illegali del partito per utilizzare soltanto le forme di lotta e
le forme organizzative legali permesse dallo zarismo. I principali esponenti di
questa tendenza furono, in quegli anni, Fiodor Dan, Pavel Axelrod e Alexandr
Potresov.
4. Rudolf Springer. Pseudonimo di Karl Renner (1870-1950), giurista e uomo
politico austriaco, uno dei principali esponenti dell'austro-marxismo. Nel
corso della sua lunga vita, ricoprì numerose cariche pubbliche e svolse
un'ampia attività pubblicistica strettamente legata alla sua attività politica.
Nel 1919-20 fu Cancelliere e dal 1945 al 1950 Presidente della Repubblica
Austriaca. Sulla questione nazionale, oltre al saggio citato da Stalin, scrisse
Was ist
die Nationale Autonomie?(Che
cos'è l'autonomia nazionale?), Vienna 1913. Altre sue opere: Staat und
Parlament(Stato e
Parlamento), Vienna 1901; Die soziale Funktion der Rechtsinstitute, besonders
des Eigentums(La
funzione sociale degli istituti giuridici, in particolare della proprietà),
Vienna 1904; Marxismus, Krieg und lnternational(Marxismo, guerra ed Internazionale), Vienna 1917; Staatswirtscbaft, Weltwirtschaft und Sozialismus(Economia statale, economia mondiale
e socialismo), Berlino 1929.
5. Otto Bauer(1882-1938), teorico e dirigente della socialdemocrazia
austriaca e della II Internazionale, fu uno dei principali esponenti
dell'austromarxismo. Dopo il crollo della monarchia asburgica, ricoprì prima la
carica di Sottosegretario di Stato e poi quella di Ministro degli Esteri
(1918-1919). Fu il principale artefice del prevalere della linea centrista
austro marxista nel Partito socialista austriaco, per il quale redasse il nuovo
programma approvato dal Congresso di Linz (1926). Su di lui principalmente pesa
la responsabilità di non aver risposto con la piena mobilitazione del partito,
delle masse e delle milizie operaie armate di Vienna (Scbutzbund) alle
crescenti illegalità dei movimenti di destra, che culminarono con la sanguinosa
repressione condotta dal cancelliere Dollfuss contro l'insurrezione proletaria
del febbraio 1934 nella capitale austriaca. Dopo lo scioglimento del Partito
socialista ad opera del governo, Bauer abbandonò 1'Austria nel 1934 e si
trasferì prima in Cecoslovacchia e poi a Parigi. Fra le sue opere (oltre al
saggio sulla questione nazionale citato da Stalin): Die russische Revolution und das
europaische Proletariat(La
rivoluzione russa e il proletariato europeo), Vienna 1917; Der Weg zum Sozialismus(La via al socialismo), Vienna 1919;
Bolschewismus
oder Sozialdemokratie? (Bolscevismo o socialdemocrazia?), Vienna
1920; Die
osterreichisce Revolution(La
rivoluzione austriaca), Vienna 1923; Der Kampf um die Macht(La lotta per il potere), Vienna
1924; Der
Aufstand der osterreichischen Arbeiter (L'insurrezione dei
lavoratori austriaci), Vienna- Praga 1934; Zwischen zwei Weltkriegen?(Fra due guerre mondiali?),
Bratislava 1936.
6. Dal 24 al 29 settembre 1899 si tenne a Brünn (l'attuale Brno in Moravia) un congresso
della socialdemocrazia austriaca, nel quale fu ampiamente dibattuta la
questione nazionale. Due furono le tesi in contrasto: la prima rivendicava
l'autonomia territoriale delle varie realtà nazionali che componevano lo Stato
austriaco, il quale avrebbe dovuto trasformarsi in uno Stato federale; la
seconda sosteneva semplicemente l'autonomia culturale-nazionale. Il Congresso
approvò la prima tesi, ma senza introdurre nel programma del partito il
riconoscimento del diritto di autodecisione delle nazioni fino alla
separazione.
7. Personaggio del grande romanzo di Nikolaj Gogol Le anime
morte(1842). Il
nome di Manilov, agiato proprietario terriero di provincia dal temperamento
indolente e sognatore, diventò proverbiale in Russia per indicare un
particolare atteggiamento psicologico, chiamato appunto
"manilovismo".
8. L' "Iskra" ("La scintilla") fu il primo
giornale marxista illegale per tutta la Russia. Fondata da Lenin nel 1900
all'estero e diffusa clandestinamente in Russia, svolse un ruolo di eccezionale
importanza nella creazione del partito marxista rivoluzionario della classe
operaia, conducendo una serrata battaglia politica e ideologica contro
l'economicismo e il primitivismo organizzativo. Dopo il II Congresso del
P.O.S.D.R., tenutosi a Londra nel 1903, passò (a partire dal n. 52) nelle mani
dei menscevichi e fu chiamata dai bolscevichi "nuova Iskra" per
distinguerla dalla "vecchia Iskra" leninista (nn. 1-51).
9. Pseudonimo di Noè Giordania, capo del menscevichi georgiani.
Dopo il 1917, negli anni del guerra civile, fu per breve tempo capo della
Repubblica menscevica della Georgia, che ebbe fine il 27 febbraio 1921.
10. Nell'agosto 1912 si tenne a Vienna (su iniziativa di
Trotzki, che ne fu il principale organizzatore) una conferenza alla quale
parteciparono i liquidatori, il Bund, i socialdemocratici lettoni e una parte
dei socialdemocratici caucasiani, i quali si allearono (formando quel- lo che
fu chiamato il "blocco d'agosto") per disconoscere e contrastare le
conclusioni della Conferenza di Praga del gennaio 1912, nella quale i
bolscevichi si erano costituiti in partito indipendente, espellendo i
menscevichi. li "blocco d'agosto", in conseguenza della politica
conciliatrice ed opportunista da esso condotta sui principali problemi del
partito e della rivoluzione, si disgregò nel 1914.
11. È il IV Congresso del P.O.S.D.R., tenutosi a Stoccolma
nell'aprile del 1906, che sancì la temporanea, e solo formale, riunificazione
dei bolscevichi e del menscevichi. A quel Congresso prese parte anche il Bund.
12. Deputato di Varsavia alla IV Duma, in rappresentanza del
Partito Socialista Polacco. Contro la volontà degli elettori socialdemocratici
polacchi, portò avanti una politica di blocco del P.S.P. con i bundisti e i
nazionalisti borghesi.
13. Questo fondamentale saggio di Stalin, scritto tra la fine
del 1912 e il principio del 1913 a Vienna, fu pubblicato per la prima volta nel
1913 nei nn. 3-5 della rivista teorica bolscevica "Prosvestcenie"
("L'istruzione"), a firma K. [Koba] Stalin e col titolo La
questione nazionale e la socialdemocrazia. (Koba era allora il nome di battaglia di Stalin). L'anno dopo
fu ripubblicato in volume dalla Casa Editrice "Priboi" ("L'ondata")
di Pietroburgo, col titolo La questione nazionale e il marxismo. Ebbe poi numerose edizioni, sia
separatamente che in varie raccolte di scritti di Stalin e fu tradotto nelle
principali lingue, con ampia diffusione non solo in Russia ma su scala
internazionale.
La permanenza di Stalin a Vienna fu il più lungo soggiorno all'estero della sua
vita di militante e dirigente comunista. Era trascorso un anno dal gennaio
1912, nel quale la Conferenza di Praga del Partito Operaio Socialdemocratico
Russo, espellendo i menscevichi dall'organizzazione, aveva dato vita a un
"partito di tipo nuovo", il partito bolscevico, leninista. Ed erano
trascorsi pochi mesi dalla pubblicazione (il 22 aprile 1912) del primo numero
della "Pravda", il quotidiano bolscevico di massa, di cui Stalin era
redattore. Il saggio di Stalin fu molto apprezzato da Lenin. Nella seconda metà
del febbraio 1913 Lenin così scriveva, da Cracovia, a Massimo Gorki:
"Sulla questione del nazionalismo sono pienamente d'accordo con voi che bisogna
occuparsene un po' più seriamente. Da noi ci si è messo un magnifico georgiano,
e ora sta scrivendo per il "Prosvestcenie" un lungo articolo, dopo
aver raccolto tutti i materiali austriaci e d'altra provenienza". Un mese
dopo, in due lettere indirizzate alla redazione del
"Sozial-demokrat", definiva "molto buono" il saggio di
Stalin e dichiarava "Koba ha fatto in tempo a scrivere un lungo articolo
(per tre numeri di "Prosvestcenie") sulla questione nazionale. Bene!
Bisogna lottare per la verità contro i separatisti e gli opportunisti del Bund
e i liquidatori".