da Lenin, Opere Complete,
vol. 23, Editori Riuniti, Roma, 1965, pp.. 103-118
trascrizione e conversione in html a cura del CCDP
Lenin
L'imperialismo e la scissione del socialismo
Scritto nell'ottobre 1916.
Pubblicato per la prima volta
in Sbornik Sotsialdemokrata, n. 2, dicembre 1916.
Firmato: N. Lenin.
Esiste un legame fra l'imperialismo e la vittoria mostruosamente ignobile
riportata dall'opportunismo (in veste di socialsciovinismo) sul movimento
operaio in Europa?
Questo è il problema fondamentale del socialismo contemporaneo. E, dopo che
nella stampa del nostro partito abbiamo completamente stabilito: anzitutto, il
carattere imperialistico della nostra epoca e dell'attuale guerra e, inoltre,
l'indissolubile legame storico del socialsciovinismo con l'opportunismo, nonché
il loro identico contenuto ideologico e politico, si può e si deve passare
all'analisi di questa questione fondamentale.
E' necessario cominciare dalla definizione più precisa e completa possibile
dell'imperialismo. L'imperialismo è uno stadio storico particolare del
capitalismo. Questa particolarità ha tre aspetti: l'imperialismo è 1) il
capitalismo monopolistico; 2) il capitalismo parassitario o in putrefazione; 3)
il capitalismo agonizzante. La sostituzione del monopolio alla libera
concorrenza è il tratto economico fondamentale, l'essenza
dell'imperialismo.
Il monopolismo si manifesta sotto cinque aspetti principali: 1) i cartelli, i
sindacati e i trusts; la concentrazione della produzione ha raggiunto il grado
che genera questi gruppi monopolistici di capitalisti; 2) la situazione
monopolistica delle grandi banche: da tre a cinque banche gigantesche dirigono
tutta la vita economica dell'America, della Francia, della Germania; 3) la
conquista delle fonti di materie prime da parte dei trusts e
dell'oligarchia finanziaria (il capitale finanziario è il capitale industriale
monopolistico che si è fuso con il capitale bancario); 4) la spartizione
(economica) del mondo tra i cartelli internazionali è cominciata. Questi
cartelli internazionali che posseggono tutto il mercato mondiale e se lo
spartiscono «amichevolmente» - finché una guerra non lo ridivida - sono già più
di cento! L'esportazione del capitale, come fenomeno particolarmente
caratteristico, a differenza dell'esportazione delle merci nell'epoca del
capitalismo non monopolistico, è legata strettamente alla spartizione economica
e politico-territoriale del mondo; 5) la spartizione territoriale del mondo
(colonie) è terminata.
L'imperialismo, come fase suprema del capitalismo, in America e in Europa, e in
seguito anche in Asia, si è formato completamente tra il 1898 e il 1914. Le
guerre ispanoamericana (1898), anglo-boera (1899-1902), russo-giapponese (1904-1905)
e la crisi economica dell'Europa (nel 1900) : ecco le pietre miliari più
importanti della nuova epoca della storia mondiale.
Che l'imperialismo sia il capitalismo parassitario o in putrefazione appare, in
primo luogo, nella tendenza all'imputridimento che distingue ogni
monopolio in regime di proprietà privata dei mezzi di produzione. La differenza
tra la borghesia imperialistica democratica repubblicana e quella reazionaria
monarchica scompare appunto perché tanto l'una che l'altra imputridiscono ancor
prima di morire (il che non esclude affatto lo sviluppo sorprendentemente
rapido del capitalismo in singoli rami dell'industria, in singoli paesi, in
singoli periodi). In secondo luogo, l'imputridimento del capitalismo si
manifesta con la formazione di un enorme strato di rentiers, di
capitalisti che vivono del «taglio delle cedole». In quattro paesi
imperialistici progrediti: Inghilterra, America del nord, Francia e Germania,
il capitale in titoli giunge a 100-150 miliardi di franchi: il che
significa un reddito annuo non inferiore ai 5-8 miliardi per ciascun paese. In
terzo luogo, l'esportazione del capitale è parassitismo elevato al quadrato. In
quarto luogo, «il capitale finanziario aspira alla supremazia e non alla
libertà».
La reazione politica su tutta la linea è propria dell'imperialismo.
Venalità, corruzione in proporzioni gigantesche, truffe di ogni genere. In
quinto luogo, lo sfruttamento delle nazioni oppresse, indissolubilmente legato
alle annessioni, e particolarmente lo sfruttamento delle colonie, da parte di
un pugno di «grandi» potenze, trasforma sempre più il mondo «civile» in un
parassita che vive sul corpo di centinaia di milioni di uomini dei popoli non
civili. Il proletariato di Roma antica viveva a spese della società. La società
odierna vive a spese del proletariato contemporaneo. Marx ha dato particolare
rilievo a questa profonda osservazione di Sismondi (1). L'imperialismo
muta alquanto le cose. Lo strato privilegiato del proletariato delle potenze
imperialistiche vive parzialmente a spese di centinaia di milioni di uomini dei
popoli non civili.
Si comprende allora perché l'imperialismo sia il capitalismo agonizzante,
che trapassa nel socialismo: il monopolio, che sorge dal
capitalismo, è già l'agonia del capitalismo, è l'inizio del suo trapasso
in socialismo. La gigantesca socializzazione del lavoro da parte
dell'imperialismo (che gli apologeti, gli economisti borghesi, chiamano
«integrazione») ha lo stesso significato.
Nel dare questa definizione dell'imperialismo, ci mettiamo in completa
contraddizione con K. Kautsky, il quale si rifiuta di vedere nell'imperialismo
una «fase del capitalismo» e definisce l'imperialismo come la politica
«preferita» dal capitale finanziario, come la tendenza dei paesi «industriali»
ad annettere i paesi «agricoli» (2). Questa definizione di
Kautsky è teoricamente del tutto falsa. La particolarità dell'imperialismo è
proprio il dominio non del capitale industriale, ma di quello
finanziario; è proprio la tendenza all'annessione non soltanto dei paesi
agricoli, ma di qualsiasi paese. Kautsky stacca la politica
dell'imperialismo dalla sua economia, stacca il monopolismo nella politica dal
monopolismo nell'economia, per sgomberare la via al suo triviale riformismo
borghese del genere del «disarmo», dell' «ultraimperialismo» e altre
sciocchezze simili. Il senso e lo scopo di questa menzogna teorica consistono
unicamente nel nascondere le più profonde contraddizioni
dell'imperialismo e nel giustificare in questo modo la teoria dell'«unità» con
gli apologeti dell'imperialismo, con i social-sciovinisti e opportunisti
dichiarati.
Di questa rottura di Kautskv col marxismo abbiamo già parlato a sufficienza sia
nel Sotsialdemokrat che nel Kommunist. I nostri kautskiani russi,
i fautori del Comitato di organizzazione, capeggiati da Axelrod e Spectator,
non esclusi Martov e in gran parte Trotski, hanno preferito passare sotto
silenzio la questione del kautskismo come tendenza. Essi non hanno osato
difendere quello che Kautsky ha scritto durante la guerra; se la sono cavata
ora con la pura e semplice esaltazione di Kautsky (Axelrod, nel suo opuscolo
tedesco, che il Comitato d'organizzazione aveva promesso di pubblicare
in russo), ora con la citazione di lettere private di Kautsky (Spectator),
dov'egli afferma di appartenere all'opposizione e cerca gesuiticamente di
ridurre al nulla le sue dichiarazioni sciovinistiche.
Notiamo che, nella sua «concezione» dell'imperialismo, - che equivale al suo
abbellimento, - Kautsky fa un passo indietro non soltanto rispetto al Capitale
finanziario di Hilferding (per quanto lo stesso Hilferding cerchi attualmente
di difendere a spada tratta sia Kautsky che 1'«unità» con i
socialsciovinisti!), ma anche nei confronti del socialliberale J.A.
Hobson. Quest'economista inglese, che non ha la minima pretesa al titolo di
marxista, dà una definizione dell'imperialismo molto più profonda e ne svela le
contraddizioni in un suo libro del 1902 (3). Ecco che cosa
scrive quest'autore (nel quale si possono trovare quasi tutte le banalità
pacifistiche e «conciliatrici» di Kautsky) sulla questione particolarmente
importante del carattere parassitario dell'imperialismo.
Secondo Hobson, due ordini di circostanze indebolivano la potenza degli imperi
antichi: 1) il «parassitismo economico» e 2) il reclutamento degli eserciti tra
le popolazioni soggette. «La prima circostanza rientra nei costumi del
parassitismo economico, per cui lo Stato dominante sfrutta le sue province, le
sue colonie e i paesi soggetti per arricchire la classe dominante e corrompere
le proprie classi inferiori, tenendole cosi a freno.» Sulla seconda circostanza
Hobson scrive: «Uno dei sintomi più singolari della cecità dell'imperialismo
[sulle labbra del socialliberale Hobson questo ritornello sulla «cecità» degli
imperialisti suona meglio che su quelle del «marxista» Kautsky] è l'avventatezza
con cui la Gran Bretagna, la Francia e altre nazioni imperialistiche si mettono
su questa via. In essa l'Inghilterra si è inoltrata più di ogni altra. La
maggior parte delle battaglie con cui conquistammo l'impero indiano furono
combattute da eserciti formati da indigeni. In India, e ultimamente anche in
Egitto, i grandi eserciti permanenti sono comandati da inglesi; quasi tutte le
guerre per la conquista dell'Africa, fatta eccezione per la parte meridionale,
sono state combattute, per noi, dagli indigeni».
La prospettiva della spartizione della Cina dà origine al seguente
apprezzamento economico di Hobson: «La maggior parte dell'Europa occidentale
potrebbe allora assumere l'aspetto e il carattere ora posseduti soltanto da
alcuni luoghi, cioè l'Inghilterra meridionale, la Riviera e le località
dell'India e della Svizzera più visitate dai turisti e abitate da gente ricca.
Si avrebbe un piccolo gruppo di ricchi aristocratici, che traggono le loro
rendite e i loro dividendi dal lontano Oriente, accanto a un gruppo alquanto
più numeroso di impiegati e commercianti e ad un gruppo ancora maggiore di
domestici, lavoratori dei trasporti e operai delle industrie per la lavorazione
dei manufatti. Allora scomparirebbero i più importanti rami di industrie, e gli
alimenti e i semilavorati affluirebbero come tributo dall'Asia o dall'Africa».
«Ecco quale possibilità sarebbe offerta da una più vasta lega delle potenze
occidentali, da una federazione europea delle grandi potenze. Essa non solo non
spingerebbe innanzi l'opera della civiltà mondiale, ma potrebbe presentare il
gravissimo pericolo di un parassitismo occidentale, quello di permettere
l'esistenza di un gruppo di nazioni industriali più progredite, le cui classi
elevate riceverebbero, dall'Asia e dall'Africa, enormi tributi e, mediante
questi, si procurerebbero grandi masse di impiegati e di servitori, che non
sarebbero occupati nella produzione in grande di derrate agricole o di articoli
industriali, ma nel servizio personale o in lavori industriali di second'ordine,
sotto il controllo della nuova aristocrazia finanziaria. Coloro per i quali
queste teorie [bisognava dire: prospettive] sono da ritenersi come indegne di
essere prese in considerazione dovrebbero meditare di più sulle condizioni
economiche e sociali di quelle zone dell'odierna Inghilterra meridionale che
già sono cadute in questo stato. Essi dovrebbero immaginarsi quale immensa
estensione acquisterebbe tale sistema, quando la Cina fosse assoggettata al
controllo economico di analoghi gruppi di finanzieri, di "investitori di
capitale" [rentiers] e dei loro impiegati politici, industriali e
commerciali, intenti a pompare profitti dal più grande serbatoio potenziale che
mai il mondo abbia conosciuto, per consumarli in Europa. Certo la situazione è
troppo complessa e il giuoco delle forze mondiali è troppo difficile perché
questa o una qualsiasi altra previsione del futuro, in un senso unico, possa
essere considerata come la più probabile. Ma le tendenze che dominano
attualmente l'imperialismo dell'Europa occidentale agiscono nel senso anzidetto
e, se non incontrano una forza opposta che le avvii verso un'altra direzione,
lavorano appunto perché il processo abbia lo sbocco accennato».
Il social-liberale Hobson non vede che questa «resistenza» può essere opposta soltanto
dal proletariato rivoluzionario e soltanto sotto forma di una
rivoluzione sociale. Non per nulla è un socialliberale! Ma fin dal 1902 ha
affrontato in modo del tutto giusto anche la questione dell'importanza degli
«Stati Uniti d'Europa» (ne prenda nota il kautskiano Trotski!) e di tutto
quello che i kautskiani ipocriti dei diversi paesi cercano di velare,
cioè: che gli opportunisti (i socialsciovinisti) collaborano con la
borghesia imperialistica proprio nello sforzo che tende a creare un'Europa
imperialistica sulle spalle dell'Asia e dell'Africa; che gli opportunisti
rappresentano oggettivamente una parte della piccola borghesia e di alcuni
strati della classe operaia, comprati con i mezzi del sovrapprofitto
imperialistico e trasformati in cani di guardia del capitalismo, in corruttori
del movimento operaio.
Abbiamo accennato più volte, non soltanto in articoli, ma anche in risoluzioni
del nostro partito, a questo profondissimo legame economico tra la borghesia
imperialistica e l'opportunismo che oggi ha vinto (ma resisterà a lungo?) nel
movimento operaio. Da questo abbiamo dedotto, fra l'altro, l'inevitabilità
della scissione con il socialsciovinismo. I nostri kautskiani hanno preferito
eludere l'argomento! Martov, ad esempio, già nelle sue conferenze ha messo in
circolazione un sofisma, che nelle Izvestia zagranicnovo sekretariata OK
(n. 4, 10 aprile 1916) è espresso nella seguente forma:
«... La situazione della socialdemocrazia rivoluzionaria sarebbe molto brutta,
anzi addirittura disperata, se i gruppi di operai, che più si avvicinano agli
"intellettuali" per il loro sviluppo intellettuale e che sono i più
qualificati, si allontanassero fatalmente dalla socialdemocrazia per andare
verso l'opportunismo ...».
Per mezzo della sciocca parolina «fatalmente» e di un certo «giochetto» si elude
il fatto che determinati strati di operai sono passati
all'opportunismo e alla borghesia imperialistica! Ma i sofisti del Comitato
d'organizzazione non cercano che di eludere questo fatto! Essi tentano
di cavarsela con 1'«ottimismo ufficiale», di cui oggi fanno pompa il kautskiano
Hilferding e molti altri: le condizioni oggettive, si dice, garantiscono
l'unità del proletariato e la vittoria della tendenza rivoluzionaria! Noi, si
dice, siamo «ottimisti» nei riguardi del proletariato!
Ma in realtà tutti questi kautskiani, Hilferding, i fautori del Comitato
d'organizzazione, Martov e soci sono ottimisti... nei riguardi dell'opportunismo.
Sta qui la sostanza!
Il proletariato è una creatura del capitalismo, del capitalismo mondiale, e non
soltanto europeo, non soltanto imperialistico. Su scala mondiale, cinquant'anni
prima o cinquant'anni dopo, - su questa scala la questione è secondaria,
- il «proletariato» «sarà» certamente unito, e nelle sue file trionferà «inevitabilmente»
la socialdemocrazia rivoluzionaria. Non si tratta di questo, signori
kautskiani, ma del fatto che voi ora, nei paesi imperialistici
dell'Europa, vi comportate da lacchè degli opportunisti, i quali sono estranei
al proletariato come classe, i quali sono i servi, gli agenti, i veicoli
dell'influenza borghese; e, se il movimento operaio non se ne libererà,
resterà un movimento operaio borghese. La vostra predica sull'«unità»
con gli opportunisti, con i Legien e i David, i Plekhanov o i Ckhenkeli e i
Potresov, ecc. tende oggettivamente ad asservire gli operai alla
borghesia imperialistica per mezzo dei suoi migliori agenti nel movimento
operaio. La vittoria della socialdemocrazia rivoluzionaria su scala mondiale è
assolutamente inevitabile, ma essa prosegue e proseguirà, si ha e si avrà
soltanto contro di voi, segnerà il trionfo su di voi.
Le due tendenze, direi perfino i due partiti, del movimento operaio
contemporaneo, che si sono così palesemente scisse in tutto il mondo dal 1914
al 1916, furono già studiate da Engels e da Marx in Inghilterra per decine
di anni, all'incirca dal 1859 al 1892.
Né Marx né Engels sono vissuti fino all'epoca imperialistica del capitalismo
mondiale, che comincia non prima del 1898-1900. Ma, già a partire dalla seconda
metà del secolo XIX, la particolarità dell'Inghilterra era che in essa si
trovavano per lo meno due tratti caratteristici fondamentali
dell'imperialismo: 1) colonie sterminate e 2) profitti monopolistici (per
effetto della posizione monopolistica dell'Inghilterra sul mercato mondiale).
Sotto entrambi gli aspetti la Gran Bretagna era allora un'eccezione fra i paesi
capitalistici; Engels e Marx, analizzando questa eccezione, dimostrarono in
modo assolutamente chiaro e preciso il suo legame con la vittoria (temporanea)
dell'opportunismo nel movimento operaio inglese.
Nella sua lettera a Marx del 7 ottobre 1858 Engels parla dell'«effettivo
progressivo imborghesimento del proletariato inglese, di modo che questa
nazione, che è la più borghese di tutte, sembra voglia portare le cose al punto
da avere un'aristocrazia borghese e un proletariato borghese accanto alla
borghesia. In una nazione che sfrutta il mondo intero, ciò è in certo qual modo
spiegabile» (4). Nella lettera a Sorge del 21 settembre
1872 Engels comunica che Hales ha sollevato un grande scandalo nel Consiglio
federale dell'Internazionale e ha fatto dare un voto di biasimo a Marx perché
questi aveva detto che «i capi del movimento operaio inglese si sono venduti».
Marx scrive a Sorge il 4 agosto 1874: «Per quanto riguarda gli operai delle
città di qui [d'Inghilterra], non ci resta che da dolerci che tutta la banda
dei capi non sia capitata in parlamento. Questa sarebbe la giusta via per
liberarsi di tale canaglia». Engels nella lettera a Marx dell'11 agosto 1881
parla delle «pessime trade unions inglesi, che si lasciano guidare da uomini
che sono venduti alla borghesia o per lo meno pagati da essa» (5).
Nella lettera a Kautsky del 12 settembre 1882 Engels scrive: «Mi chiedete che
cosa pensano gli operai inglesi sulla politica coloniale? Lo stesso di quel che
pensano sulla politica in generale. Qui non c'è un partito operaio; ci sono
soltanto conservatori e liberalradicali, e gli operai usufruiscono tranquillamente
con essi del monopolio coloniale dell'Inghilterra e del suo monopolio sul
mercato mondiale».
Il 7 dicembre 1889 Engels scrive a Sorge: «... Quel che c'è qui [in
Inghilterra] di più ripugnante è "la rispettabilità" [respectability]
borghese penetrata nella carne e nel sangue degli operai. Perfino Tom Mann,
ch'io considero il migliore fra di loro, ama raccontare che andrà a colazione
dal lord mayor. E soltanto paragonandoli coi francesi ci si può convincere
quanto sia benefica l'influenza della rivoluzione». Nella lettera del 19 aprile
1890 scrive: «Il movimento [della classe operaia in Inghilterra] marcia in
avanti sotto la superficie, abbraccia strati sempre più vasti, e
anzitutto fra la massa più oscura [corsivo di Engels] che finora non
s'era mossa; non è ormai lontano il giorno in cui questa massa ritroverà sé
stessa, in cui le sarà chiaro che appunto essa rappresenta la massa
colossale in moto». Il 4 marzo 1891: «Con l'insuccesso del sindacato dei
lavoratori del porto, che si è sciolto, le "vecchie" trade unions
conservatrici, ricche e appunto perciò pusillanimi, restano sole sul
campo di battaglia». Il 14 settembre 1891: al congresso delle trade unions
tenutosi a Newcastle sono stati battuti i vecchi membri delle trade unions,
nemici della giornata di otto ore, «ed i giornali borghesi riconoscono la
sconfitta del partito operaio borghese» (il corsivo è sempre di Engels).
Che questi pensieri di Engels, ripetuti per decine d'anni, fossero espressi da
lui anche pubblicamente, nella stampa, lo dimostra la sua prefazione alla
seconda edizione della Situazione della classe operaia in Inghilterra (1892)
(6). Qui si parla dell' «aristocrazia della classe
operaia», della «minoranza privilegiata degli operai» in contrapposizione alla
«vasta massa operaia». Soltanto una «piccola minoranza privilegiata e
protetta» della classe operaia otteneva «vantaggi durevoli» dalla posizione
privilegiata dell'Inghilterra nel periodo dal 1848 al 1868; «la grande massa
nel migliore dei casi ottenne soltanto un miglioramento transitorio». «Con il
crollo del monopolio [industriale dell'Inghilterra], la classe operaia inglese
perderà la sua posizione privilegiata.» I membri delle «nuove» trade unions,
dei sindacati degli operai non qualificati, hanno un «vantaggio
incommensurabile: i loro spiriti sono ancora terreno vergine, completamente
liberi dai "rispettabili" pregiudizi borghesi tradizionali, che
confondono la mente dei "vecchi unionisti" meglio sistemati». Quelli
che «in Inghilterra riuscivano fino a ieri a spacciarsi per rappresentanti
degli operai» sono coloro «ai quali si perdona la loro qualità di operai perché
essi stessi sarebbero ben lieti di affogarla nell'oceano del loro liberalismo».
Abbiamo riportato di proposito stralci abbastanza ampi di dichiarazioni fatte
direttamente da Marx e da Engels, affinché i lettori possano studiarle nel loro
complesso. E necessario studiarle, vale la pena di meditarci sopra
attentamente. Poiché sta qui il nocciolo della tattica del movimento
operaio che ci viene dettata dalle condizioni oggettive dell'epoca
dell'imperialismo.
Kautsky anche qui ha tentato «d'intorbidare le acque» e di sostituire al
marxismo l'idillica conciliazione con gli opportunisti. Nella polemica con i
socialimperialisti aperti e ingenui (del genere di Lensch), che giustificano la
guerra condotta dalla Germania poiché porta alla distruzione del monopolio
dell'Inghilterra, Kautsky «corregge» questa evidente falsità per mezzo
di un'altra, non meno evidente. Al posto della falsità cinica ne mette una
melliflua! Il monopolio industriale dell'Inghilterra è stato spezzato
già da molto tempo, egli dice, è stato distrutto già da molto tempo; in esso
non vi è più nulla da distruggere.
In che consiste la falsità di quest'argomento?
In primo luogo si passa sotto silenzio il monopolio coloniale
dell'Inghilterra. Eppure, come abbiamo visto, fin dal 1882, 34 anni or sono,
Engels l'indicò in modo del tutto chiaro! Se il monopolio industriale
dell'Inghilterra è distrutto, il problema del monopolio coloniale non soltanto
è rimasto, ma si è straordinariamente complicato, poiché tutta la terra è stata
già divisa! Per mezzo della sua soave menzogna, Kautsky fa passare di
contrabbando la meschina idea pacifistica, borghese, filistea, opportunistica
secondo la quale «non vi è alcuna ragione di far guerra». Al contrario, ora i capitalisti
non soltanto hanno una ragione per far la guerra, ma non possono non farla,
se vogliono conservare il capitalismo, poiché senza una spartizione forzata delle
colonie i nuovi paesi imperialistici non possono avere quei privilegi
dei quali usufruiscono le potenze imperialistiche più vecchie (e meno forti).
In secondo luogo, perché il monopolio dell'Inghilterra spiega la vittoria
(temporanea) dell'opportunismo in Inghilterra? Perché il monopolio dà un sovrapprofitto,
cioè un'eccedenza di profitto, superiore al profitto capitalistico abituale,
normale in tutto il mondo. Di questo sovrapprofitto i capitalisti possono
sacrificare una piccola parte (e persino assai considerevole!) per corrompere i
propri operai, per creare una specie di alleanza (ricordate le famose
«alleanze» delle trade unions inglesi con i loro padroni, descritte dai Webb),
un'unione degli operai di una data nazione con i propri capitalisti contro
gli altri paesi. II monopolio industriale dell'Inghilterra è stato distrutto
già alla fine del XIX secolo. Questo è incontestabile. Ma come è
avvenuta questa distruzione? Forse in modo che sia sparito ogni monopolio?
Se così fosse, la «teoria» conciliatrice (con l'opportunismo) di Kautsky
potrebbe avere una certa giustificazione. Ma l'importante è che le cose non
stanno così. L'imperialismo è il capitalismo monopolistico. Ogni
cartello, ogni trust, ogni sindacato, ogni banca di proporzioni gigantesche è
un monopolio. Il sovrapprofitto non è sparito, ma è rimasto. Lo sfruttamento di
tutti gli altri paesi da parte di un paese privilegiato, ricco
finanziariamente, è rimasto e si è rafforzato. Un pugno di paesi ricchi, - sono
quattro in tutto, se si parla di una ricchezza «moderna»,indipendente e
veramente gigantesca: l'Inghilterra, la Francia, gli Stati Uniti d'America e la
Germania, - questo pugno di paesi ha sviluppato i monopoli in proporzioni
immense; esso riceve sovrapprofitti che ammontano a centinaia di
milioni, se non di miliardi; «vive alle spalle» di centinaia di milioni di
abitanti degli altri paesi; lotta nel proprio seno per la spartizione di un
bottino particolarmente ricco, particolarmente grasso, particolarmente
tranquillo.
È questa l'essenza economica e politica dell'imperialismo, le cui profondissime
contraddizioni sono da Kautsky offuscate, invece di esser messe a nudo.
La borghesia di una «grande» potenza imperialistica può corrompere economicamente
gli strati superiori dei «propri» operai, sacrificando a questo scopo anche più
d'un centinaio di milioni di franchi all'anno, poiché il sovrapprofitto
ammonta, probabilmente, a circa un miliardo. E la questione di sapere come
viene divisa questa piccola elemosina tra gli operaiministri, gli «operaideputati»
(si ricordi la meravigliosa analisi di questo concetto fatta da Engels), gli
operai che partecipano ai comitati dell'industria di guerra, gli
operaifunzionari, gli operai organizzati in ristretti sindacati di categoria,
gli impiegati, ecc. ecc. è già una questione secondaria.
Dal 1848 al 1868, e anche più tardi, la sola Inghilterra usufruiva del
monopolio; è per ciò che in essa per decine d'anni l'opportunismo poté
vincere; non esistevano altri paesi che possedessero colonie ricchissime
o che disponessero del monopolio industriale.
L'ultimo trentennio del XIX secolo segnò il passaggio alla nuova epoca
dell'imperialismo. Del monopolio usufruisce il capitale finanziario non
di una, ma di alcune grandi potenze, il cui numero è limitatissimo. (In
Giappone e in Russia il monopolio della forza militare, il territorio immenso o
il particolare vantaggio di predare le altre nazionalità, la Cina, ecc. in
parte completano e in parte sostituiscono il monopolio del capitale finanziario
contemporaneo.) Deriva da questa differenza che il monopolio dell'Inghilterra sia
riuscito a rimanere incontestato per decenni. Il monopolio del
capitale finanziario viene oggi rabbiosamente conteso: è cominciata l'epoca
delle guerre imperialistiche. Una volta la classe operaia di un solo
paese poteva venir comprata, corrotta per decine d'anni. Ora questo sarebbe
inverosimile e perfino impossibile; però, strati meno numerosi (di
quelli dell'Inghilterra del 1848.1868) della «aristocrazia operaia» possono
essere e sono corrotti da ogni «grande» potenza imperialistica. A quei
tempi, un «partito operaio borghese», secondo l'espressione veramente
profonda di Engels, poteva formarsi in un solo paese, poiché un solo paese
aveva il monopolio, ma in compenso per lungo tempo. Oggi, il «partito
operaio borghese» è inevitabile e tipico di tutti i paesi
imperialistici; e tuttavia, a causa della loro lotta accanita per la
spartizione del bottino, è improbabile che un tale partito possa trionfare a
lungo in una serie di paesi. Infatti, i trusts, l'oligarchia finanziaria, il
carovita, ecc., mentre permettono di corrompere piccoli gruppi di
aristocrazia operaia, d'altra parte opprimono, schiacciano, rovinano, torturano
sempre più la massa del proletariato e del semiproletariato.
Da un lato, c'è la tendenza della borghesia e degli opportunisti a trasformare
un pugno di nazioni più ricche e privilegiate in «eterni» parassiti sul corpo
della rimanente umanità, a «riposare sugli allori» dello sfruttamento dei
negri, degli indiani, ecc., tenendoli sottomessi con l'aiuto del militarismo
più moderno, dotato di un'eccellente tecnica di sterminio. Dall'altro lato, c'è
la tendenza delle masse, che sono oppresse più di prima e subiscono
tutti i tormenti delle guerre imperialistiche, a liberarsi da questo giogo, ad
abbattere la borghesia. Nella lotta fra queste due tendenze si svolgerà ora
inevitabilmente la storia del movimento operaio, poiché la prima tendenza non è
casuale, ma economicamente «motivata». La borghesia ha già generato, nutrito,
si è assicurati i «partiti operai borghesi» dei socialsciovinisti in tutti
i paesi. La differenza tra un partito del tutto formato, come ad esempio quello
di Bissolati in Italia, che è un vero partito socialmperialistico, e, diciamo,
il quasi partito, semiformato, dei Potresov, Gvozdev, Bulkin. Ckheidze,
Skobelev e soci, è una differenza inessenziale. L'importante è che la scissione
economica, che separa lo strato dell'aristocrazia operaia per avvicinarlo alla
borghesia, è maturata e si è avverata; quanto alla forma politica, questo fatto
economico, questo spostamento nei rapporti fra le classi, la troverà senza
particolare «fatica».
Sulla base economica qui indicata le istituzioni politiche del capitalismo
contemporaneo - la stampa, il parlamento, le associazioni, i congressi, ecc. -
creano per gli impiegati e gli operai riformisti e patriottici, rispettosi e
sottomessi, elemosine e privilegi politici corrispondenti alle elemosine
e ai privilegi economici. Posticini redditizi e tranquilli in un ministero e nel comitato dell'industria di
guerra, nel parlamento e nelle varie commissioni, nelle redazioni di «solidi»
giornali legali o nelle amministrazioni di sindacati operai non meno solidi e
«obbedienti alla borghesia»: ecco con che cosa la borghesia imperialistica
attira e premia i rappresentanti e i seguaci dei «partiti operai borghesi».
Il meccanismo della democrazia politica agisce nella medesima direzione. Nel
nostro secolo non si può fare a meno delle elezioni, non si può fare a meno
delle masse; e nell'epoca della stampa e del parlamentarismo è impossibile
trascinare le masse al proprio seguito senza un sistema largamente ramificato,
metodicamente applicato, solidamente attrezzato, di lusinghe, menzogne, truffe,
di giochetti con paroline popolari e alla moda, di promesse - fatte a destra e
a sinistra - di ogni sorta di riforme e di ogni sorta di benefici per gli
operai, purché essi rinuncino alla lotta rivoluzionaria per abbattere la
borghesia. Definirei lloydgeorgiano questo sistema, dal nome di uno dei suoi
più avanzati e abili rappresentanti nel paese classico del «partito operaio
borghese», dal nome del ministro inglese Lloyd George. Uomo d'affari di
prim'ordine, nella sua qualità di borghese, vecchio filibustiere della
politica, oratore popolare capace di tenere qualsiasi discorso, perfino
r-r-rivoluzionario, ad un pubblico di operai e capace di far approvare
considerevoli elemosine agli operai obbedienti sotto forma di riforme sociali
(assicurazioni, ecc.), Lloyd George serve magnificamente la borghesia (7), e la serve appunto fra gli operai, esercita la sua
influenza appunto fra il proletariato, là dove è più necessario e più
difficile sottomettere moralmente le masse.
Ma è forse grande la differenza tra Lloyd George e gli Scheidemann, i Legien,
gli Henderson e gli Hyndman, i Plekhanov, i Renaudel, ecc.? Si obietterà che,
fra gli ultimi, alcuni torneranno al socialismo rivoluzionario di Marx. Questo
è possibile. Ma si tratta di un'infima differenza di grado, se si considera la
questione sul piano politico, cioè su una scala di massa. Singole persone tra
gli attuali capi del socialsciovinismo possono ritornare al proletariato. Ma la
corrente socialsciovinistica o (che è lo stesso) opportunistica non può
né sparire né «ritornare» al proletariato rivoluzionario. Là dove il marxismo è
popolare tra gli operai questa corrente politica, questo «partito operaio
borghese», giurerà e spergiurerà nel nome di Marx. Non si può proibirglielo,
come non si può proibire a una ditta commerciale di adoperare una qualsiasi
etichetta, una qualsiasi insegna, un mezzo pubblicitario qualsiasi. Nel corso
della storia si è sempre visto che i nemici hanno tentato, dopo la morte dei
capi rivoluzionari, popolari tra le classi oppresse, di appropriarsi i loro
nomi per ingannare queste classi.
È un fatto che i «partiti operai borghesi», come fenomeno politico, sono stati
già creati in tutti i paesi capitalistici progrediti, che senza una
lotta decisa e implacabile, su tutta la linea, contro questi partiti o - fa lo
stesso - gruppi, correnti, ecc. non si può neanche parlare di lotta contro
l'imperialismo, di marxismo, di movimento operaio socialista. Il gruppo
Ckheidze (8), il Nasce dielo, il Golos
trudà in Russia e quelli del Comitato d'organizzazione all'estero non sono
che varianti di uno di tali partiti. Non abbiamo alcuna ragione di
credere che questi partiti possano scomparire prima della rivoluzione
sociale. Al contrario, quanto più questa rivoluzione sarà vicina, quanto più
potentemente essa divamperà, quanto più bruschi e vigorosi saranno i passaggi e
gli sbalzi nel suo processo di sviluppo, tanto più grande sarà la funzione che
assumerà nel movimento operaio l'impeto del torrente rivoluzionario di massa
contro quello opportunistico piccoloborghese. Il kautskismo non è una tendenza
indipendente, perché non ha radici nella massa o nello strato privilegiato
passato alla borghesia. Ma il pericolo del kautskismo consiste nel fatto che
esso, utilizzando l'ideologia del passato, si studia di rappacificare il
proletariato e difendere la sua unità con il «partito operaio borghese», di
accrescere così il prestigio di questo partito. Le masse non seguono già più i
socialsciovinisti dichiarati: Lloyd George è stato fischiato in Inghilterra
nelle assemblee operaie, Hyndman ha abbandonato il partito, i Renaudel e gli
Scheidemann, i Potresov e i Gvozdev sono protetti dalla polizia. La difesa
velata dei socialsciovinisti da parte dei kautskiani è quanto c'è di più
pericoloso.
Uno dei sofismi più diffusi del kautskismo è quello di riferirsi alle «masse».
Noi, vedete, non vogliamo staccarci dalle masse e dalle organizzazioni di massa!
Ma riflettete al modo in cui Engels ha impostato questo problema. Le
«organizzazioni di massa» delle trade unions inglesi del XIX secolo seguivano
il partito operaio borghese. Ma non per questo Marx e Engels cercavano
un'intesa con questo partito e, anzi, lo smascheravano. Essi non dimenticavano,
in primo luogo, che le organizzazioni delle trade unions abbracciavano
direttamente solo una minoranza del proletariato. Sia nell'Inghilterra
d'allora che nella Germania d'oggi non più di un quinto del proletariato è
iscritto alle organizzazioni. Non si può pensare seriamente che in regime
capitalistico sia possibile far entrare nelle organizzazioni la maggioranza dei
proletari. In secondo luogo, - ed è questo l'essenziale, - non si tratta tanto
del numero dei membri dell'organizzazione, quanto dell'importanza reale,
oggettiva della sua politica: rappresenta essa le masse, serve le masse, tende
cioè a liberarle dal capitalismo, o rappresenta invece gli interessi della
minoranza, la sua conciliazione con il capitalismo? Proprio quest'ultima
conclusione era vera per l'Inghilterra del XIX secolo, ed è vera oggi per la
Germania e altri paesi.
Engels distingue tra il «partito operaio borghese» delle vecchie trade
unions, la minoranza privilegiata, e la «massa inferiore», la
maggioranza effettiva; rivolge ad essa, che non è contagiata dalla
«rispettabilità borghese», i suoi appelli. Ecco qual è il fondo della tattica
marxista!
Non possiamo - e nessuno lo può - calcolare quale sia precimente la parte del
proletariato che segue e seguirà ancora i socialsciovinisti e gli opportunisti.
Questo lo dimostrerà soltanto la lotta, lo deciderà definitivamente soltanto la
rivoluzione socialista. Ma sappiamo con precisione che i «difensori della
patria» nella guerra imperialistica rappresentano solamente una
minoranza. E perciò il nostro dovere, se vogliamo rimanere socialisti, è di
andare più in basso e più in profondità, verso le masse reali:
ecco l'importanza della lotta contro l'opportunismo e tutto il contenuto di
questa lotta. Smascherando gli opportunisti e i socialsciovinisti, che in
realtà tradiscono e fanno mercato degli interessi delle masse, che difendono i
privilegi temporanei della minoranza degli operai, che propagano l'influenza e
le idee borghesi, che sono in realtà gli alleati e gli agenti della borghesia,
noi educhiamo le masse a conoscere i loro veri interessi politici, a lottare
per il socialismo e per la rivoluzione, attraverso tutte le lunghe e tormentose
peripezie delle guerre e delle tregue imperialistiche.
Spiegare alle masse l'inevitabilità e la necessità della scissione
dall'opportunismo, educarle alla rivoluzione con la lotta implacabile contro di
esso, tener conto dell'esperienza della guerra per svelare tutte le turpitudini
della politica operaia nazionalliberale e non per nasconderle: ecco l'unica
linea marxista del movimento operaio mondiale.
In un prossimo articolo cercheremo di condensare i principali tratti
caratteristici di questa linea, opponendola al kautskismo.
Note:
1) Marx-Elgels, Il 1848 in Germania e in Francia, Roma,
Edizioni Rinascita, 1948, p. 253
2) «L'imperialismo è il prodotto del capitalismo industriale
altamente sviluppato. Esso consiste nella tendenza di ogni nazione industriale
capitalistica a soggiogare e annettersi una quantità sempre più grande di
regioni agricole, senza considerare quale sia la nazione che li popola»
(Kautsky, nella Neue Zeit, 11 settembre 1914).
3) J. A. Hobson, Imperialism, London, 1902.
4) Marx-Elgels, Carteggio, Roma, Edizioni Rinascita,
1951, v. III, p. 238
5) Ibidem, v. VI, p. 328
6) Friedrich Engels, La situazione della classe operaia in
Inghilterra, Roma, Edizioni Rinascita, 1955, pp. 24-29
7) Poco tempo fa, in una rivista inglese, ho letto l'articolo di
un tory avversario politico di Lloyd George: Lloyd George visto da un tory. La
guerra ha aperto gli occhi a questo avversario, facendogli capire quale ottimo
commesso della borghesia sia questo Lloyd George! E i tories si sono
riconciliati con lui!
8) Cioè il gruppo menscevico alla IV Duma, capeggiato da N.S.
Ckheidze. Durante la prima guerra mondiale il gruppo menscevico alla Duma,
assumendo posizioni centriste, appoggiò di fatto la politica dei
socialsciovinisti russi, Nel 1916 il gruppo era composto da M.I. Skobelev, I.N.
Tuliakov, V.I. Khaustov, N.S. Ckheidze, A.I. Ckhenkeli.