da
Secchia (1973), Il Partito comunista italiano e la guerra di Liberazione,
Feltrinelli, Milano, 1975, pp. 1-7
trascrizione e conversione in html a cura del CCDP
Secchia
Una parentesi: carcere e
confino
Questo capitolo, diverso dagli altri, a carattere memorialistico e in parte
autobiografico, è scritto per riempire un vuoto: non posso testimoniare
sull'attività del PCI dal 1931 al 1943 poiché in tale periodo mi trovavo in
carcere e poi al confino.
Arrestato a Torino il 3 aprile 1931, rimasi insieme a molti altri prigioniero
del nemico sino al 18 agosto 1943. Ripresi l'attività e la lotta il giorno
stesso in cui con Longo, Scoccimarro ed altri compagni arrivai a Roma da
Ventotene. Da questo momento riprenderò la mia testimonianza sulle lotte del PCI
e della classe operaia. Non ho ritenuto opportuno entrare nel merito della vita
e dell'azione del PCI dall'aprile 1931 all'agosto 1943, anni per i quali non
potrei portare una testimonianza diretta e sarei costretto a lavorare
esclusivamente su documenti di archivio e ad affidarmi al racconto di terzi.
In carcere ed al confino abbiamo tuttavia "vissuto" e, nei limiti
impostici dalla situazione, abbiamo cercato di fare il massimo possibile per
seguire l'azione che il PCI andava sviluppando in Italia ed all'estero per
portarvi anzi un, sia pure modesto, contributo. Almeno un capitolo, su questi
anni di prigionia, lo ritengo di una qualche utilità per ricollegare le due
rive, per gettare un ponte dal confino alla "vera" vita.
Trascorsi quasi tutto il 1931, sino a dicembre, nelle carceri di Torino, in una
cella, solo ed a "grande isolamento." L'istruttoria terminò
abbastanza rapidamente; gli arrestati erano numerosi, quasi tutti erano stati
pedinati per più giorni, alcuni durante settimane prima della cattura; altri,
tratti in inganno dalla polizia, inesperti delle sue astuzie e dei suoi
tranelli, avevano sia pure involontariamente coinvolto compagni di lavoro e di
partito; inoltre insieme ad onesti operai e militanti comunisti si erano
infiltrati nell'organizzazione anche alcuni provocatori. (1)
A dicembre fui trasferito insieme a Paolo Baroncini, Mario Gazzotti,Gordiano Pacquola ed altri ottimi compagni a
Roma, a Regina Coeli. Qui, dopo qualche giorno, fui messo in compagnia di
Antonio Budicin (2) e poi di nuovi compagni. Conobbi Gino
Menconi (3), Eugenio Reale, Gennaro Rippa. Numerosi erano i
compagni di Modena e di Bologna, quasi tutti giovani, pieni d'entusiasmo,
braccianti poverissimi, in condizioni di famiglia misere, disgraziate. Uno di
essi aveva il padre cieco, rimasto solo in casa, senza mezzi: eppure quei
giovani resistevano alle lusinghe delle autorità ed alle pressioni che le
famiglie, spinte dal bisogno, talvolta esercitavano su di loro per indurli alla
domanda di grazia. Tener duro era la parola d'ordine. Nessuno doveva, per
nessun motivo, fare domanda di grazia.
Il VI braccio di Regina Coeli rigurgitava di detenuti politici, in grande
maggioranza comunisti; dormivano su pagliericci stesi a terra, pigiati, tre,
quattro ed anche cinque per cella. Ogni giorno un gruppo veniva processato.
L'annuncio veniva dato al mattino di buon'ora dal gran sferragliare di
serrature, i chiamati venivano portati all'ufficio matricola del carcere,
ammanettati e incatenati erano tradotti, in un furgone; dai carabinieri nei
sotterranei del "Palazzaccio" (il tribunale di Roma) in attesa
dell'apertura dell'udienza, nella famosa aula IV. Ritornavano al carcere nel
pomeriggio, verso sera, allegri, come da una festa, con sulle spalle da dieci a
venti anni di reclusione ciascuno.
Il 5 dicembre 1931 furono processati 30 nazionalisti sloveni: le condanne forti
caddero sullo studente Zorko Jelincich di Plezzo (Gorizia) venti anni di
reclusione, sull'avv. Augusto Sfiligoj di Dobra (Gorizia) dieci anni, e
sull'insegnante Antonio Rutar di Tolmino dieci anni; tutti gli altri ebbero
cinque anni di reclusione. Il 10 dicembre fu la volta di Claudio Melloni di
Sala Bolognese e Angelo Leris di Treviglio (Milano) e di un gruppo di giovani
comunisti milanesi. L'11 dicembre toccò a Berto Alberti da Cesena con altri
giovani; nello stesso giorno Antonio Cicalini, un "esperto" della
cospirazione, attivissimo militante e dirigente del partito, fu condannato a
otto anni e sette mesi di reclusione, e cosi via, ogni giorno, sino al 18
dicembre. Dopo aver festeggiato le ricorrenze natalizie, il Tribunale speciale
riprese le sue fatiche condannando il 9 gennaio 1932 Celso Ghini, Ferdinando
Maggioni, Desiderio Cugini e altri dirigenti e attivisti della Federazione
giovanile comunista, complessivamente a ottant'anni di reclusione. Il 25
gennaio furono condannati Battista Santhià a diciassette, Sante Vincenzi (4) a dodici anni di reclusione ed una decina di altri, tra i
quali lo studente in medicina romeno Daniele Sinreich, a tre anni di carcere.
Il 27 gennaio Eugenio Reale e Gennaro Rippa furono condannati rispettivamente a
dieci e otto anni di reclusione, ed il 28 venne il mio turno insieme con Paolo
Baroncini, Mario Gazzotti, Gordiano Pacquola rispettivamente a diciassette anni
e nove mesi, quindici e quattordici anni di reclusione.
Uno degli avvocati di "fiducia" di alcuni degli imputati minori, un
certo Antoci, ex frate, ex socialista, agente provocatore al servizio
dell'Ovra, all'inizio della sua "difesa" richiamò l'attenzione del
Tribunale sulla necessità di dividere, egli disse, gli imputati in due
categorie: gli sfruttati e gli sfruttatori. Gli sfruttatori saremmo stati noi
(i rivoluzionari di professione) Secchia, Baroncini, Pacquola, che venivano in
Italia "ad ingannare dei poveri operai parlando loro di rivoluzione, di
lotta per il socialismo" ed al tempo stesso ingannavano l'Internazionale
comunista facendo credere che in Italia esistesse un partito, un'organizzazione
comunista, mentre invece si trattava soltanto di poveracci, di piccoli gruppi
di disoccupati, di operai illusi ed. ingannati. Non lasciai che l'ex-frate
terminasse il suo sproloquio, lo Investii di male parole: pagliaccio,
"socialfascista," ecc.
Il furfante smise di parlare, e l'attenzione del presidente del tribunale, che
fingeva di non essersi accorto di nulla, venne richiamata dal PM. L'avvocato
era stato offeso e si rifiutava di proseguire. Il presidente ordinò la mia
espulsione dall'aula. Tre o quattro carabinieri mi sollevarono in malo modo, e
mi portarono via di peso. Ma appena fuori, mi lasciarono e, quasi scusandosi
per avere eseguito un ordine, ostentando davanti ai superiori una certa
brutalità, mi dissero: "ma voi non dovete arrabbiarvi, questi ex
socialisti, oggi fascisti, sono tutti così, vogliono farsi perdonare il loro
passato."
I carabinieri che per mesi e mesi assistevano ai processi del Tribunale
speciale venivano "conquistati" da questi giovani che ogni giorno,
spavaldamente, gridavano la loro fede davanti ai giudici in camicia nera e
finivano per simpatizzare con noi.
Prima dell'incidente con l'avvocato, nel momento in cui ero stato chiamato a
rispondere alla domanda del presidente del tribunale su qual era la mia professione,
avevo risposto, con suo grande scandalo: "rivoluzionario
professionale". Ed alla sua richiesta se avevo qualcosa da dire in mia
difesa, avevo dichiarato: mi assumo intera la responsabilità dell'azione svolta
dal Partito comunista in Italia dal 1926 ad oggi. Personalmente ho partecipato
a quest'attività nel modo più ampio che mi è stato possibile, lottando con
tutte le mie energie per l'abbattimento del regime fascista-capitalista [...].
A questo punto il presidente mi aveva interrotto e, con un urlo, mandato al mio
posto tra gli imputati, ma senza farmi cacciare via, come avvenne poi in
seguito alla provocazione di quell'avvocato.
Ad uno ad uno, si fecero poi espellere dall'aula anche gli altri miei compagni:
Baroncini, Gazzotti, Pacquola, che dopo aver gridato davanti ai giudici:
"Viva il Partito comunista, viva l'Internazionale comunista", mi
vennero a raggiungere nel sotterraneo del Palazzaccio, dove nel pomeriggio
vennero a leggerci il verdetto pronunciato dal tribunale in nostra assenza.
A sera, in furgone cellulare, fummo riportati a Regina Coeli dove rientrammo
soddisfatti come fossimo reduci decorati sul campo.
In attesa di essere trasferiti nelle case penali cui saremmo stati assegnati,
con Battista Santhià ed Eugenio Reale decidemmo di scrivere un foglio col
titolo l'Unità. Lo dedicammo al IV Congresso del
partito di cui Santhià ci aveva fatto ampia relazione. Forse l'iniziativa era
superflua, ma pensammo che poteva servire a dimostrare a quei giovani, in
attesa di giudizio, che il partito era forte ed anche in carcere eravamo in
grado di pubblicare l'Unità; in altro modo non ci sarebbe stato possibile parlare con tutti
i detenuti del braccio per orientare, incoraggiare, persuadere che la verità e
la vittoria stavano dalla nostra parte.
All'aria (cosi era chiamata l'ora del passeggio) ci incontravamo con sei, al
massimo otto compagni, ma erano sempre gli stessi ogni giorno: se volevamo far
circolare più largamente le idee occorreva ricorrere allo scritto. Riuscimmo a
sottrarre due pennini, con dell'aceto macerammo delle bustine nere
(sovraccoperte delle cartine da sigarette) e ne ricavammo l'inchiostro, con
della cera demmo forma ad una specie di calamaio; dei fogli bianchi strappati
nelle prime e ultime pagine di alcuni libri abbastanza grandi ci fornirono la
carta per un giornaletto di piccolo formato. Riempii, scrivendo in stampatello,
due intere pagine con il sovrattitolo in grande l'Unità, organo del Partito comunista, ed in
calce: tipografia di Regina Coeli, redazione: i soliti ignoti.
Trasmisi il foglio ad Eugenio Reale che provvide a riprodurne altre due copie.
Passarono di cella in cella e fecero il giro di tutto il braccio. Dopo alcuni giorni ne facemmo un secondo
numero. Questa volta non andò liscia, durante una perquisizione mattutina ne
trovarono una copia in un materasso. I compagni non parlarono, dissero di non
saperne nulla. Il braccio fu messo in allarme, seguirono perquisizioni,
interrogatori; minacce. Io e Reale fummo chiamati dal direttore che ci accusò
direttamente. Disse che aveva interrogato diversi detenuti, letti i fascicoli
di molti, giungendo alla conclusione che soltanto uno di noi due poteva aver
scritto quei foglio. "Neppur io, aggiunse, sarei capace di farlo",
del che non dubitavamo. Negammo, prove non ce n'erano e ci rimandò in cella (5).
Dopo alcuni giorni partii, accompagnato beninteso dai carabinieri, per Lucca,
la casa penale dov'ero stato destinato per scontare la condanna.
Le carceri di S. Giorgio a Lucca sono state ricavate adattando un vecchio
convento. Attorno ad un cortile
quadrato dal caratteristico porticato, parte essenziale dell'architettura di
tutti i conventi, si ergevano da tre lati le pareti del reclusorio con le
immancabili finestre a "bocca di lupo". Di giorno i detenuti erano
sistemati in alcuni scantinati, che ricevevano scarsa luce da piccoli
finestrini a fior di terra sul cortile: tre o quattro locali, che avevano più
del magazzino e della cantina che del camerone. In ognuno di questi
"antri" venivano rinchiusi dalle 9 del mattino alle 16,30 del
pomeriggio da venticinque a trenta detenuti.
Dopo aver depositato in ufficio il poco danaro, gli oggetti personali e la
valigia in magazzino, dovetti (come avveniva per ogni nuovo arrivato) svestirmi
completamente: "nudo alla meta". Si veniva palpati, braccia alzate,
dovevamo inchinarci, gambe divaricate, aprire la bocca, tutto veniva investigato. Seguivano la rapatura a zero e la
"vestizione" del novizio: una casacca a zebra di rozza stoffa pesante
a grosse righe (era la divisa invernale, d'estate sarebbe stata sostituita da
un'altra confezionata con ruvida tela bianca a strisce rosse), gli zoccoli ai
piedi al posto delle scarpe. Un numero a quattro cifre, impresse abbastanza in
grande su di una targhetta di tela verde, cucita ben visibile sulla giubba,
assumeva il posto del nome e cognome: 5849 il mio, e, come d'altronde tutti gli
altri, suonava benissimo. Si dice che tutte queste "procedure" siano
state appositamente studiate per far sentire la pena, l'umiliazione, il
castigo. Può darsi, ma a noi comunisti non facevano né caldo né freddo se si
toglie il senso di fastidio e il pericolo di buscarsi un raffreddore.
Infagottato nella nuova divisa, mi venne assegnata la "dote": una
gavetta, un catino, un bicchiere, un boccale in alluminio, un cucchiaio ed una
forchetta in legno, un asciugamano, una camicia, un paio di mutande in ruvida
tela, un paio di calze alla militare, un nastro color tabacco soprannominato
cravatta da mettersi al collo come usano gli adepti di certe confraternite
religiose, due lenzuola rattoppate, una coperta da campo per il letto. Messa
tutta la roba entro la coperta, avanti... marsc. Con una mano sostenevo quella
sorta di sacco in spalla e con l'altra reggevo i pantaloni che, privati della
cinghia e
non confezionati su
misura, manifestavano una forte inclinazione a calarsi per conto loro.
Attraverso ad androni e corridoi arrivai davanti ad un cancello, la guardia lo
apri e mi ci rinchiuse. Mi trovai all'interno di un camerone piuttosto oscuro
dove una ventina di uomini urlavano e gesticolavano; difficile tra il fumo e la
semioscurità riconoscere qualcuno e comprendere qualcosa in quella babelica
confusione. A poco a poco cominciai a distinguere dei volti e scorsi in fondo
allo stanzone un gruppo di otto o dieci persone sedute a terra, le gambe
incrociate, intente a far qualcosa; non si erano neppure accorte, tanto era il
rumore, del nuovo arrivato. Mi avvicinai e riconobbi nel detenuto che stava
seduto in mezzo al gruppo, Antonio Cicalini: con un libro in mano, stava
gridando ad alta voce per farsi udire dai pochi che, accanto a lui, lo
ascoltavano, teneva una lezione di francese.
A quell'epoca i detenuti politici erano ancora in compagnia dei condannati per
reati comuni; quest'ultimi, anche se in genere avevano rispetto e talvolta
ammirazione per i "politici," non accettavano alcuna disciplina. Non
riuscimmo mai a persuaderli a concederci almeno una o due ore al giorno di
"silenzio", nel corso delle quali ci fosse possibile studiare e tenere
delle lezioni senza esser costretti ad urlare. Impossibile! Alla sera verso le
17, quando ognuno di noi era trasferito in una cella da solo per trascorrere la
notte, eravamo storditi.
Abbracciai i compagni che già conoscevo: Antonio Cicalini, Desiderio Cugini,
Battista Tettamanti; fui presentato a dei nuovi con i quali strinsi amicizia
fraterna: Leo Valiani (allora si chiamava Weiczen), Francesco Scotti, Augusto
Sfiligoj, Bruno Visentin, Claudio Melloni.
Il "collettivo" funzionava bene, i compagni studiavano durante la
giornata in gruppo: storia d'Italia, del movimento operaio e socialista ed in
particolare del partito comunista, economia politica, lingue, ecc. La spesa per
il "sopravvitto" non era fatta individualmente, ma mettendo assieme
quel poco che avevamo, amministrato comunitariamente. Ad ognuno secondo i
propri bisogni. Il regolamento autorizzava a spendere sino a cinque lire al
giorno a testa, ma eravamo assai lontani da tale possibilità. Facendo cassa
unica tra chi riceveva da casa più soldi e chi ne riceveva meno, riuscivamo a
spendere da quaranta a cinquanta centesimi al giorno (qualcosa di più
accordavamo agli ammalati), il che era sufficiente per un uovo al burro, una razione di mortadella,
di formaggio, o
di qualche altra cosa. Il "cambusiere"
(l'amministratore) era in gamba e con poca pecunia sapeva offrirci cene variate
nelle quali abbondava l'insalata col tonno, difficilmente rintracciabile tra le
molte foglie di lattuga.
Disponevamo, oltreché della biblioteca del carcere non molto ricca, anche di un
centinaio di libri personali; ma mancava la letteratura marxista. Studiammo i mezzi più diversi per
procurarcela.
L'affare di Basilea risaliva al principio del 1932. Eravamo a Lucca allora,
asciugavamo le lenzuola coi nostri corpi, tutte le sere, che quello è paese
celebre per la sua umidità oltre che per le cento campane delle sue chiese.
Venivamo dall'isolamento di Regina Coeli o dalle carceri di segregazione e
Botte (Pietro Secchia) aveva deciso di procurarci un cambiamento di cibo
intellettuale: un po' di libri di Marx, di Lenin, di Jaurès, dei Webb, dopo
tanto Giordano Bruno, Kant, Hegel e Benedetto Croce. Scrisse a un compagno di
Basilea, che nei registri carcerari figurava come suo fratello, di mandarci
quei tali volumi, naturalmente truccati, per cui Lo sviluppo del capitalismo in Russia di
Lenin avrebbe avuto addosso la copertina dei Fratelli Karamazov di
Dostojewski e via dicendo. Inutile dire che nella rilegatura dei libri, quelli
di fuori potevano opportunamente riporre ritagli di articoli di attualità. Superfluo
aggiungere che .queste cose non si potevano scrivere apertamente al fratello di
Basilea, ma solo simpatizzate.
Il "simpatico" poteva essere l'aspirina ed allora Botte scriveva al
fratello: "sono spesso raffreddato, ho la febbre, prendo un'aspirina tutte
le sere". Ma il fratello non mangiava la foglia e rispondeva assai serio:
"sta attento, curati, la salute è il più gran bene" e non pensava a
rilevare la scrittura simpatica. Botte tornava alla carica e quello replicava:
"non demoralizzarti, fatti forte". Sicché non rimaneva che scrivergli
in tutte lettere: "fatti furbo". Allora comprese, fece il necessario
e ricevemmo i libri agognati. Fu un periodo di cuccagna, che durò sino a
Ferragosto. Quel giorno l'Ovra invase il carcere, ci portò via tutti i libri,
proibì di riceverne altri dal di fuori e concentrò a Civitavecchia i presunti
principali colpevoli.
Cos'era successo? Quelli di Basilea si erano fatti forti e galletti al punto da
trascurare le più ovvie precauzioni e ci mandarono un pacco di libri avvolto in
un giornale antifascista francese. La censura postale, curata dall'Ovra, scoprì
tutto. Lo stesso accadde anche in altre carceri. A Civitavecchia ci vollero
scioperi della fame, diretti da Botte, per riconquistare il diritto di
comperare dei libri. Inizialmente ci avevano dato solo le opere complete di
Giovanni Gentile come per dirci "ne avete abbastanza per tutta la durata
della detenzione" (6).
Le cose erano effettivamente andate così. Il compagno di Basilea (che fingeva
di essere mio fratello) incaricato dal partito di mantenere i collegamenti con
diverse carceri (7), stupito della facilità con la quale
ricevevamo, anche se truccata superficialmente, letteratura marxista, ritenne
che a Lucca avessimo addirittura stabilito un accordo con gli addetti alla
censura del carcere e avvolse i libri di uno dei pacchi che periodicamente ci
spediva, in alcuni giornali antifascisti che si pubblicavano in Francia. Il
pacco, aperto da un milite fascista addetto alla posta ferroviaria: fu
trasmesso per competenza all'Ovra che decise l'irruzione nel carcere. Quando
già la polizia era penetrata nella casa di pena, il comandante del carcere, che
la sapeva lunga, corse da noi e fatta stendere una coperta a terra, ci disse:
"su, fate in fretta, datemi qui tutti i libri proibiti che avete", e
fece portare via il fagotto da due carcerieri. Il comandante non aveva l'animo
dello sbirro anche se più che favorire noi, egli mirava a coprire ogni responsabilità della direzione
carceraria. Noi gli consegnammo una parte dei libri "proibiti", non
tutti, dal momento che ignoravamo se ce li avrebbe restituiti. D'altronde
eravamo quasi certi che gli agenti dell'Ovra non erano in grado di scoprire
quali opere si celavano sotto i titoli innocenti le truccature ben fatte.
Infatti gli agenti non scoprirono nulla, ma ci sequestrarono egualmente molti
libri soltanto perché portavano dei titoli come La rivoluzione francese del
Michelet, o la Rivoluzione di Napoli del
Cuoco, e così via.
L'incidente di Lucca non era stato il solo: in altre carceri, come a Padova a
Castelfranco, a Viterbo (qui avevano trovato persino delle copie del quotidiano
russo La
Pravda) erano
accaduti analoghi infortuni ed il ministero dell'Interno decise di
"concentrare" la maggior parte dei detenuti politici a Civitavecchia,
dove da qualche tempo aveva fatto costruire (all'interno del recinto del
vecchio penitenziario) alcuni nuovi padiglioni con grandi finestroni, senza le
"bocche da lupo", dotati di lavandino e gabinetto con acqua corrente.
Dal punto di vista igienico e della salute le condizioni dei
"politici" sarebbero state indubbiamente migliori; ma assai più
severa sarebbe stata la disciplina, amministrata da un direttore specializzato
assai, probabilmente al diretto servizio dell'Ovra, un certo Doni. Costui, che
aveva la pretesa di essere un fascista modello, divenne leggendario per la sua
malvagità soprattutto verso i politici. Freddo, apparentemente corretto ed
impassibile, ma implacabile, rigido sempre nella forma e nella sostanza. Vano
illudersi di poter ottenere da lui una qualsiasi concessione, anche minima, che
non fosse contemplata dal regolamento. Si opponeva sino all'ultimo all'invio
dei detenuti gravemente ammalati nelle carceri un po' migliori, dove potessero
ricevere una qualche cura. Il detenuto politico, specie se comunista, doveva
morire in galera. Riceveva ad udienza dietro ad un tavolo posto su di un
rialzo, una specie di cattedra; al suo fianco teneva un imponente, ringhioso
cane lupo, la prudenza non è mai troppa; dei due il più indisponente non era di
certo il cane.
[…]
Note
1)
"L'anno scorso durante gli arresti avvenuti a Torino, tre compagni, di cui
uno era funzionario legale [si chiamavano funzionari legali quei comunisti che
provenivano dall'estero ma, sconosciuti alla polizia, operavano con la loro
vera identità] appena arrestati si offrirono essi stessi per fare il
compromesso e furono causa della caduta di vari funzionari tra i quali il
compagno Botte (Secchia). Di questi tre compagni, uno solo al processo è stato
assolto, gli altri sono stati condannati, uno a due e l'altro a cinque anni e
fin'ora non ci risulta siano stati rilasciati" dal Rapporto sulla
situazione organizzativa del PCI al 1° luglio 1932, Istituto Gramsci, APC.
2) Antonio Budicin di Rovigo (Istria), operaio
meccanico, condannato dal Tribunale speciale il 27 febbraio 1932 a 10 anni e 8
mesi di reclusione.
3)
Gino Menconi, dottore in economia, condannato a 17 anni di reclusione,
trucidato dai tedeschi durante la Resistenza. Medaglia d'oro al VM alla
memoria.
4)
Sante Vincenzi di Reggio Emilia, catturato e trucidato poche ore prima della
Liberazione di Bologna, medaglia d'oro al VM alla memoria.
5)
Due mesi dopo fui
chiamato dal direttore della casa penale di Lucca che mi lesse una sorta di
istruttoria e di sentenza pronunciata senza che io fossi stato interrogato. Il
direttore di Regina Coeli, dopo aver fatto fare la perizia calligrafica, mi
aveva denunciato al Tribunale speciale. Il perito calligrafo così concludeva il
lungo reperto scritto sull'esame: "[...] pur non potendosi affermare con
certezza che si tratti della calligrafia del Secchia, vi si riscontrano
parecchie rassomiglianze". Il TS aveva pero dichiarato il non luogo a
procedere. Non si poteva condannare un detenuto per reato di stampa
antifascista, consumato in carcere, si trattava di trasgressione disciplinare.
Così il ministero dell'Interno aveva provveduto a farmi infliggere tre mesi di
isolamento, la punizione più grave prevista dal regolamento carcerario.
"Attenzione alla penna, Secchia", aveva bonariamente commentato il
direttore della casa penale di Lucca, che doveva essere un buon diavolo, forse
un pretore in pensione.
6) Leo Valiani, Tutte le strade conducono a Roma, Firenze, La Nuova Italia, 1947, p.
60.
7) Adamo Zanelli (Giovanni) di Forlì, morto il 6 ottobre 1970.