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da Secchia (1973), Il Partito comunista italiano e la guerra di Liberazione, Feltrinelli, Milano, 1975, pp. 1-7
trascrizione e conversione in html a cura del CCDP



Secchia

Una parentesi: carcere e confino



Questo capitolo, diverso dagli altri, a carattere memorialistico e in parte autobiografico, è scritto per riempire un vuoto: non posso testimoniare sull'attività del PCI dal 1931 al 1943 poiché in tale periodo mi trovavo in carcere e poi al confino.

Arrestato a Torino il 3 aprile 1931, rimasi insieme a molti altri prigioniero del nemico sino al 18 agosto 1943. Ripresi l'attività e la lotta il giorno stesso in cui con Longo, Scoccimarro ed altri compagni arrivai a Roma da Ventotene. Da questo momento riprenderò la mia testimonianza sulle lotte del PCI e della classe operaia. Non ho ritenuto opportuno entrare nel merito della vita e dell'azione del PCI dall'aprile 1931 all'agosto 1943, anni per i quali non potrei portare una testimonianza diretta e sarei costretto a lavorare esclusivamente su documenti di archivio e ad affidarmi al racconto di terzi.

In carcere ed al confino abbiamo tuttavia "vissuto" e, nei limiti impostici dalla situazione, abbiamo cercato di fare il massimo possibile per seguire l'azione che il PCI andava sviluppando in Italia ed all'estero per portarvi anzi un, sia pure modesto, contributo. Almeno un capitolo, su questi anni di prigionia, lo ritengo di una qualche utilità per ricollegare le due rive, per gettare un ponte dal confino alla "vera" vita.

Trascorsi quasi tutto il 1931, sino a dicembre, nelle carceri di Torino, in una cella, solo ed a "grande isolamento." L'istruttoria terminò abbastanza rapidamente; gli arrestati erano numerosi, quasi tutti erano stati pedinati per più giorni, alcuni durante settimane prima della cattura; altri, tratti in inganno dalla polizia, inesperti delle sue astuzie e dei suoi tranelli, avevano sia pure involontariamente coinvolto compagni di lavoro e di partito; inoltre insieme ad onesti operai e militanti comunisti si erano infiltrati nell'organizzazione anche alcuni provocatori. (1)

A dicembre fui trasferito insieme a Paolo Baroncini, Mario Gazzotti,
Gordiano Pacquola ed altri ottimi compagni a Roma, a Regina Coeli. Qui, dopo qualche giorno, fui messo in compagnia di Antonio Budicin (2) e poi di nuovi compagni. Conobbi Gino Menconi (3), Eugenio Reale, Gennaro Rippa. Numerosi erano i compagni di Modena e di Bologna, quasi tutti giovani, pieni d'entusiasmo, braccianti poverissimi, in condizioni di famiglia misere, disgraziate. Uno di essi aveva il padre cieco, rimasto solo in casa, senza mezzi: eppure quei giovani resistevano alle lusinghe delle autorità ed alle pressioni che le famiglie, spinte dal bisogno, talvolta esercitavano su di loro per indurli alla domanda di grazia. Tener duro era la parola d'ordine. Nessuno doveva, per nessun motivo, fare domanda di grazia.

Il VI braccio di Regina Coeli rigurgitava di detenuti politici, in grande maggioranza comunisti; dormivano su pagliericci stesi a terra, pigiati, tre, quattro ed anche cinque per cella. Ogni giorno un gruppo veniva processato. L'annuncio veniva dato al mattino di buon'ora dal gran sferragliare di serrature, i chiamati venivano portati all'ufficio matricola del carcere, ammanettati e incatenati erano tradotti, in un furgone; dai carabinieri nei sotterranei del "Palazzaccio" (il tribunale di Roma) in attesa dell'apertura dell'udienza, nella famosa aula IV. Ritornavano al carcere nel pomeriggio, verso sera, allegri, come da una festa, con sulle spalle da dieci a venti anni di reclusione ciascuno.
Il 5 dicembre 1931 furono processati 30 nazionalisti sloveni: le condanne forti caddero sullo studente Zorko Jelincich di Plezzo (Gorizia) venti anni di reclusione, sull'avv. Augusto Sfiligoj di Dobra (Gorizia) dieci anni, e sull'insegnante Antonio Rutar di Tolmino dieci anni; tutti gli altri ebbero cinque anni di reclusione. Il 10 dicembre fu la volta di Claudio Melloni di Sala Bolognese e Angelo Leris di Treviglio (Milano) e di un gruppo di giovani comunisti milanesi. L'11 dicembre toccò a Berto Alberti da Cesena con altri giovani; nello stesso giorno Antonio Cicalini, un "esperto" della cospirazione, attivissimo militante e dirigente del partito, fu condannato a otto anni e sette mesi di reclusione, e cosi via, ogni giorno, sino al 18 dicembre. Dopo aver festeggiato le ricorrenze natalizie, il Tribunale speciale riprese le sue fatiche condannando il 9 gennaio 1932 Celso Ghini, Ferdinando Maggioni, Desiderio Cugini e altri dirigenti e attivisti della Federazione giovanile comunista, complessivamente a ottant'anni di reclusione. Il 25 gennaio furono condannati Battista Santhià a diciassette, Sante Vincenzi (4) a dodici anni di reclusione ed una decina di altri, tra i quali lo studente in medicina romeno Daniele Sinreich, a tre anni di carcere. Il 27 gennaio Eugenio Reale e Gennaro Rippa furono condannati rispettivamente a dieci e otto anni di reclusione, ed il 28 venne il mio turno insieme con Paolo Baroncini, Mario Gazzotti, Gordiano Pacquola rispettivamente a diciassette anni e nove mesi, quindici e quattordici anni di reclusione.

Uno degli avvocati di "fiducia" di alcuni degli imputati minori, un certo Antoci, ex frate, ex socialista, agente provocatore al servizio dell'Ovra, all'inizio della sua "difesa" richiamò l'attenzione del Tribunale sulla necessità di dividere, egli disse, gli imputati in due categorie: gli sfruttati e gli sfruttatori. Gli sfruttatori saremmo stati noi (i rivoluzionari di professione) Secchia, Baroncini, Pacquola, che venivano in Italia "ad ingannare dei poveri operai parlando loro di rivoluzione, di lotta per il socialismo" ed al tempo stesso ingannavano l'Internazionale comunista facendo credere che in Italia esistesse un partito, un'organizzazione comunista, mentre invece si trattava soltanto di poveracci, di piccoli gruppi di disoccupati, di operai illusi ed. ingannati. Non lasciai che l'ex-frate terminasse il suo sproloquio, lo Investii di male parole: pagliaccio, "socialfascista," ecc.
Il furfante smise di parlare, e l'attenzione del presidente del tribunale, che fingeva di non essersi accorto di nulla, venne richiamata dal PM. L'avvocato era stato offeso e si rifiutava di proseguire. Il presidente ordinò la mia espulsione dall'aula. Tre o quattro carabinieri mi sollevarono in malo modo, e mi portarono via di peso. Ma appena fuori, mi lasciarono e, quasi scusandosi per avere eseguito un ordine, ostentando davanti ai superiori una certa brutalità, mi dissero: "ma voi non dovete arrabbiarvi, questi ex socialisti, oggi fascisti, sono tutti così, vogliono farsi perdonare il loro passato."

I carabinieri che per mesi e mesi assistevano ai processi del Tribunale speciale venivano "conquistati" da questi giovani che ogni giorno, spavaldamente, gridavano la loro fede davanti ai giudici in camicia nera e finivano per simpatizzare con noi.

Prima dell'incidente con l'avvocato, nel momento in cui ero stato chiamato a rispondere alla domanda del presidente del tribunale su qual era la mia professione, avevo risposto, con suo grande scandalo: "rivoluzionario professionale". Ed alla sua richiesta se avevo qualcosa da dire in mia difesa, avevo dichiarato: mi assumo intera la responsabilità dell'azione svolta dal Partito comunista in Italia dal 1926 ad oggi. Personalmente ho partecipato a quest'attività nel modo più ampio che mi è stato possibile, lottando con tutte le mie energie per l'abbattimento del regime fascista-capitalista [...].

A questo punto il presidente mi aveva interrotto e, con un urlo, mandato al mio posto tra gli imputati, ma senza farmi cacciare via, come avvenne poi in seguito alla provocazione di quell'avvocato.
Ad uno ad uno, si fecero poi espellere dall'aula anche gli altri miei compagni: Baroncini, Gazzotti, Pacquola, che dopo aver gridato davanti ai giudici: "Viva il Partito comunista, viva l'Internazionale comunista", mi vennero a raggiungere nel sotterraneo del Palazzaccio, dove nel pomeriggio vennero a leggerci il verdetto pronunciato dal tribunale in nostra assenza.
A sera, in furgone cellulare, fummo riportati a Regina Coeli dove rientrammo soddisfatti come fossimo reduci decorati sul campo.

In attesa di essere trasferiti nelle case penali cui saremmo stati assegnati, con Battista Santhià ed Eugenio Reale decidemmo di scrivere un foglio col titolo l'Unità. Lo dedicammo al IV Congresso del partito di cui Santhià ci aveva fatto ampia relazione. Forse l'iniziativa era superflua, ma pensammo che poteva servire a dimostrare a quei giovani, in attesa di giudizio, che il partito era forte ed anche in carcere eravamo in grado di pubblicare l'Unità; in altro modo non ci sarebbe stato possibile parlare con tutti i detenuti del braccio per orientare, incoraggiare, persuadere che la verità e la vittoria stavano dalla nostra parte.

All'aria (cosi era chiamata l'ora del passeggio) ci incontravamo con sei, al massimo otto compagni, ma erano sempre gli stessi ogni giorno: se volevamo far circolare più largamente le idee occorreva ricorrere allo scritto. Riuscimmo a sottrarre due pennini, con dell'aceto macerammo delle bustine nere (sovraccoperte delle cartine da sigarette) e ne ricavammo l'inchiostro, con della cera demmo forma ad una specie di calamaio; dei fogli bianchi strappati nelle prime e ultime pagine di alcuni libri abbastanza grandi ci fornirono la carta per un giornaletto di piccolo formato. Riempii, scrivendo in stampatello, due intere pagine con il sovrattitolo in grande l'Unità, organo del Partito comunista, ed in calce: tipografia di Regina Coeli, redazione: i soliti ignoti.

Trasmisi il foglio ad Eugenio Reale che provvide a riprodurne altre due copie. Passarono di cella in cella e fecero il giro di tutto il braccio. Dopo alcuni giorni ne facemmo un secondo numero. Questa volta non andò liscia, durante una perquisizione mattutina ne trovarono una copia in un materasso. I compagni non parlarono, dissero di non saperne nulla. Il braccio fu messo in allarme, seguirono perquisizioni, interrogatori; minacce. Io e Reale fummo chiamati dal direttore che ci accusò direttamente. Disse che aveva interrogato diversi detenuti, letti i fascicoli di molti, giungendo alla conclusione che soltanto uno di noi due poteva aver scritto quei foglio. "Neppur io, aggiunse, sarei capace di farlo", del che non dubitavamo. Negammo, prove non ce n'erano e ci rimandò in cella (5).
Dopo alcuni giorni partii, accompagnato beninteso dai carabinieri, per Lucca, la casa penale dov'ero stato destinato per scontare la condanna.

Le carceri di S. Giorgio a Lucca sono state ricavate adattando un vecchio convento. Attorno ad un cortile quadrato dal caratteristico porticato, parte essenziale dell'architettura di tutti i conventi, si ergevano da tre lati le pareti del reclusorio con le immancabili finestre a "bocca di lupo". Di giorno i detenuti erano sistemati in alcuni scantinati, che ricevevano scarsa luce da piccoli finestrini a fior di terra sul cortile: tre o quattro locali, che avevano più del magazzino e della cantina che del camerone. In ognuno di questi "antri" venivano rinchiusi dalle 9 del mattino alle 16,30 del pomeriggio da venticinque a trenta detenuti.

Dopo aver depositato in ufficio il poco danaro, gli oggetti personali e la valigia in magazzino, dovetti (come avveniva per ogni nuovo arrivato) svestirmi completamente: "nudo alla meta". Si veniva palpati, braccia alzate, dovevamo inchinarci, gambe divaricate, aprire la bocca, tutto veniva investigato. Seguivano la rapatura a zero e la "vestizione" del novizio: una casacca a zebra di rozza stoffa pesante a grosse righe (era la divisa invernale, d'estate sarebbe stata sostituita da un'altra confezionata con ruvida tela bianca a strisce rosse), gli zoccoli ai piedi al posto delle scarpe. Un numero a quattro cifre, impresse abbastanza in grande su di una targhetta di tela verde, cucita ben visibile sulla giubba, assumeva il posto del nome e cognome: 5849 il mio, e, come d'altronde tutti gli altri, suonava benissimo. Si dice che tutte queste "procedure" siano state appositamente studiate per far sentire la pena, l'umiliazione, il castigo. Può darsi, ma a noi comunisti non facevano né caldo né freddo se si toglie il senso di fastidio e il pericolo di buscarsi un raffreddore.

Infagottato nella nuova divisa, mi venne assegnata la "dote": una gavetta, un catino, un bicchiere, un boccale in alluminio, un cucchiaio ed una forchetta in legno, un asciugamano, una camicia, un paio di mutande in ruvida tela, un paio di calze alla militare, un nastro color tabacco soprannominato cravatta da mettersi al collo come usano gli adepti di certe confraternite religiose, due lenzuola rattoppate, una coperta da campo per il letto. Messa tutta la roba entro la coperta, avanti... marsc. Con una mano sostenevo quella sorta di sacco in spalla e con l'altra reggevo i pantaloni che, privati della cinghia
e non confezionati su misura, manifestavano una forte inclinazione a calarsi per conto loro.

Attraverso ad androni e corridoi arrivai davanti ad un cancello, la guardia lo apri e mi ci rinchiuse. Mi trovai all'interno di un camerone piuttosto oscuro dove una ventina di uomini urlavano e gesticolavano; difficile tra il fumo e la semioscurità riconoscere qualcuno e comprendere qualcosa in quella babelica confusione. A poco a poco cominciai a distinguere dei volti e scorsi in fondo allo stanzone un gruppo di otto o dieci persone sedute a terra, le gambe incrociate, intente a far qualcosa; non si erano neppure accorte, tanto era il rumore, del nuovo arrivato. Mi avvicinai e riconobbi nel detenuto che stava seduto in mezzo al gruppo, Antonio Cicalini: con un libro in mano, stava gridando ad alta voce per farsi udire dai pochi che, accanto a lui, lo ascoltavano, teneva una lezione di francese.
A quell'epoca i detenuti politici erano ancora in compagnia dei condannati per reati comuni; quest'ultimi, anche se in genere avevano rispetto e talvolta ammirazione per i "politici," non accettavano alcuna disciplina. Non riuscimmo mai a persuaderli a concederci almeno una o due ore al giorno di "silenzio", nel corso delle quali ci fosse possibile studiare e tenere delle lezioni senza esser costretti ad urlare. Impossibile! Alla sera verso le 17, quando ognuno di noi era trasferito in una cella da solo per trascorrere la notte, eravamo storditi.

Abbracciai i compagni che già conoscevo: Antonio Cicalini, Desiderio Cugini, Battista Tettamanti; fui presentato a dei nuovi con i quali strinsi amicizia fraterna: Leo Valiani (allora si chiamava Weiczen), Francesco Scotti, Augusto Sfiligoj, Bruno Visentin, Claudio Melloni.
Il "collettivo" funzionava bene, i compagni studiavano durante la giornata in gruppo: storia d'Italia, del movimento operaio e socialista ed in particolare del partito comunista, economia politica, lingue, ecc. La spesa per il "sopravvitto" non era fatta individualmente, ma mettendo assieme quel poco che avevamo, amministrato comunitariamente. Ad ognuno secondo i propri bisogni. Il regolamento autorizzava a spendere sino a cinque lire al giorno a testa, ma eravamo assai lontani da tale possibilità. Facendo cassa unica tra chi riceveva da casa più soldi e chi ne riceveva meno, riuscivamo a spendere da quaranta a cinquanta centesimi al giorno (qualcosa di più accordavamo agli ammalati), il che era sufficiente
per un uovo al burro, una razione di mortadella, di formaggio, o di qualche altra cosa. Il "cambusiere" (l'amministratore) era in gamba e con poca pecunia sapeva offrirci cene variate nelle quali abbondava l'insalata col tonno, difficilmente rintracciabile tra le molte foglie di lattuga.

Disponevamo, oltreché della biblioteca del carcere non molto ricca, anche di un centinaio di libri personali; ma mancava la letteratura ma
rxista. Studiammo i mezzi più diversi per procurarcela.

L'affare di Basilea risaliva al principio del 1932. Eravamo a Lucca allora, asciugavamo le lenzuola coi nostri corpi, tutte le sere, che quello è paese celebre per la sua umidità oltre che per le cento campane delle sue chiese. Venivamo dall'isolamento di Regina Coeli o dalle carceri di segregazione e Botte (Pietro Secchia) aveva deciso di procurarci un cambiamento di cibo intellettuale: un po' di libri di Marx, di Lenin, di Jaurès, dei Webb, dopo tanto Giordano Bruno, Kant, Hegel e Benedetto Croce. Scrisse a un compagno di Basilea, che nei registri carcerari figurava come suo fratello, di mandarci quei tali volumi, naturalmente truccati, per cui Lo sviluppo del capitalismo in Russia di Lenin avrebbe avuto addosso la copertina dei Fratelli Karamazov di Dostojewski e via dicendo. Inutile dire che nella rilegatura dei libri, quelli di fuori potevano opportunamente riporre ritagli di articoli di attualità. Superfluo aggiungere che .queste cose non si potevano scrivere apertamente al fratello di Basilea, ma solo simpatizzate.

Il "simpatico" poteva essere l'aspirina ed allora Botte scriveva al fratello: "sono spesso raffreddato, ho la febbre, prendo un'aspirina tutte le sere". Ma il fratello non mangiava la foglia e rispondeva assai serio: "sta attento, curati, la salute è il più gran bene" e non pensava a rilevare la scrittura simpatica. Botte tornava alla carica e quello replicava: "non demoralizzarti, fatti forte". Sicché non rimaneva che scrivergli in tutte lettere: "fatti furbo". Allora comprese, fece il necessario e ricevemmo i libri agognati. Fu un periodo di cuccagna, che durò sino a Ferragosto. Quel giorno l'Ovra invase il carcere, ci portò via tutti i libri, proibì di riceverne altri dal di fuori e concentrò a Civitavecchia i presunti principali colpevoli.
Cos'era successo? Quelli di Basilea si erano fatti forti e galletti al punto da trascurare le più ovvie precauzioni e ci mandarono un pacco di libri avvolto in un giornale antifascista francese. La censura postale, curata dall'Ovra, scoprì tutto. Lo stesso accadde anche in altre carceri. A Civitavecchia ci vollero scioperi della fame, diretti da Botte, per riconquistare il diritto di comperare dei libri. Inizialmente ci avevano dato solo le opere complete di Giovanni Gentile come per dirci "ne avete abbastanza per tutta la durata della detenzione" (6).

Le cose erano effettivamente andate così. Il compagno di Basilea (che fingeva di essere mio fratello) incaricato dal partito di mantenere i collegamenti con diverse carceri (7), stupito della facilità con la quale ricevevamo, anche se truccata superficialmente, letteratura marxista, ritenne che a Lucca avessimo addirittura stabilito un accordo con gli addetti alla censura del carcere e avvolse i libri di uno dei pacchi che periodicamente ci spediva, in alcuni giornali antifascisti che si pubblicavano in Francia. Il pacco, aperto da un milite fascista addetto alla posta ferroviaria: fu trasmesso per competenza all'Ovra che decise l'irruzione nel carcere. Quando già la polizia era penetrata nella casa di pena, il comandante del carcere, che la sapeva lunga, corse da noi e fatta stendere una coperta a terra, ci disse: "su, fate in fretta, datemi qui tutti i libri proibiti che avete", e fece portare via il fagotto da due carcerieri. Il comandante non aveva l'animo dello sbirro anche se più che favorire noi, egli mirava a coprire
ogni responsabilità della direzione carceraria. Noi gli consegnammo una parte dei libri "proibiti", non tutti, dal momento che ignoravamo se ce li avrebbe restituiti. D'altronde eravamo quasi certi che gli agenti dell'Ovra non erano in grado di scoprire quali opere si celavano sotto i titoli innocenti le truccature ben fatte. Infatti gli agenti non scoprirono nulla, ma ci sequestrarono egualmente molti libri soltanto perché portavano dei titoli come La rivoluzione francese del Michelet, o la Rivoluzione di Napoli del Cuoco, e così via.

L'incidente di Lucca non era stato il solo: in altre carceri, come a Padova a Castelfranco, a Viterbo (qui avevano trovato persino delle copie del quotidiano russo La Pravda) erano accaduti analoghi infortuni ed il ministero dell'Interno decise di "concentrare" la maggior parte dei detenuti politici a Civitavecchia, dove da qualche tempo aveva fatto costruire (all'interno del recinto del vecchio penitenziario) alcuni nuovi padiglioni con grandi finestroni, senza le "bocche da lupo", dotati di lavandino e gabinetto con acqua corrente. Dal punto di vista igienico e della salute le condizioni dei "politici" sarebbero state indubbiamente migliori; ma assai più severa sarebbe stata la disciplina, amministrata da un direttore specializzato assai, probabilmente al diretto servizio dell'Ovra, un certo Doni. Costui, che aveva la pretesa di essere un fascista modello, divenne leggendario per la sua malvagità soprattutto verso i politici. Freddo, apparentemente corretto ed impassibile, ma implacabile, rigido sempre nella forma e nella sostanza. Vano illudersi di poter ottenere da lui una qualsiasi concessione, anche minima, che non fosse contemplata dal regolamento. Si opponeva sino all'ultimo all'invio dei detenuti gravemente ammalati nelle carceri un po' migliori, dove potessero ricevere una qualche cura. Il detenuto politico, specie se comunista, doveva morire in galera. Riceveva ad udienza dietro ad un tavolo posto su di un rialzo, una specie di cattedra; al suo fianco teneva un imponente, ringhioso cane lupo, la prudenza non è mai troppa; dei due il più indisponente non era di certo il cane.


[…]

Note

1) "L'anno scorso durante gli arresti avvenuti a Torino, tre compagni, di cui uno era funzionario legale [si chiamavano funzionari legali quei comunisti che provenivano dall'estero ma, sconosciuti alla polizia, operavano con la loro vera identità] appena arrestati si offrirono essi stessi per fare il compromesso e furono causa della caduta di vari funzionari tra i quali il compagno Botte (Secchia). Di questi tre compagni, uno solo al processo è stato assolto, gli altri sono stati condannati, uno a due e l'altro a cinque anni e fin'ora non ci risulta siano stati rilasciati" dal Rapporto sulla situazione organizzativa del PCI al 1° luglio 1932, Istituto Gramsci, APC.

2) Antonio Budicin di Rovigo (Istria), operaio meccanico, condannato dal Tribunale speciale il 27 febbraio 1932 a 10 anni e 8 mesi di reclusione.

3) Gino Menconi, dottore in economia, condannato a 17 anni di reclusione, trucidato dai tedeschi durante la Resistenza. Medaglia d'oro al VM alla memoria.

4) Sante Vincenzi di Reggio Emilia, catturato e trucidato poche ore prima della Liberazione di Bologna, medaglia d'oro al VM alla memoria.

5) Due mesi dopo fui chiamato dal direttore della casa penale di Lucca che mi lesse una sorta di istruttoria e di sentenza pronunciata senza che io fossi stato interrogato. Il direttore di Regina Coeli, dopo aver fatto fare la perizia calligrafica, mi aveva denunciato al Tribunale speciale. Il perito calligrafo così concludeva il lungo reperto scritto sull'esame: "[...] pur non potendosi affermare con certezza che si tratti della calligrafia del Secchia, vi si riscontrano parecchie rassomiglianze". Il TS aveva pero dichiarato il non luogo a procedere. Non si poteva condannare un detenuto per reato di stampa antifascista, consumato in carcere, si trattava di trasgressione disciplinare. Così il ministero dell'Interno aveva provveduto a farmi infliggere tre mesi di isolamento, la punizione più grave prevista dal regolamento carcerario. "Attenzione alla penna, Secchia", aveva bonariamente commentato il direttore della casa penale di Lucca, che doveva essere un buon diavolo, forse un pretore in pensione.

6) Leo Valiani, Tutte le strade conducono a Roma, Firenze, La Nuova Italia, 1947, p. 60.

7) Adamo Zanelli (Giovanni) di Forlì, morto il 6 ottobre 1970.