da
Secchia (1973), Il Partito comunista italiano e la guerra di Liberazione,
Feltrinelli, Milano, 1975, pp. 201-205
trascrizione e conversione in html a cura del CCDP
Secchia
Le
masse scendono in lotta
Il 15 novembre 1943 si ha il primo sciopero generale sotto l'occupazione
tedesca in tutte le officine metallurgiche di Torino. Ne seguiranno altri a
Genova, a Milano ed in tante altre località durante l'inverno e sino alla fine
della guerra di liberazione, sino all'insurrezione di aprile (vedi n. 3, pp.
205 sgg.).
La Resistenza italiana, a differenza di quella di altri paesi, fu
caratterizzata dall'intrecciarsi delle lotte delle masse operaie lavoratrici
con le azioni militari dei partigiani. Le une sostenevano ed erano presupposto
per lo sviluppo delle altre.
La lotta di classe fu elemento-forza, propulsore, che diede slancio allo
sviluppo della lotta di liberazione nazionale. In ogni epoca la lotta nazionale
ha sempre avuto un carattere di classe, ed in ogni periodo storico sono stati
determinati uomini, determinate classi sociali che hanno rappresentato gli
interessi della nazione.
Vi furono uomini e gruppi politici, anche in seno ai CLN, che avevano dei dubbi
sulla possibilità di condurre con successo la lotta di liberazione nazionale se
al tempo stesso i partiti dei lavoratori favorivano e davano impulso allo
svilupparsi della lotta di classe, all'organizzazione degli scioperi e delle
agitazioni nelle fabbriche e nei cantieri.
Al contrario noi comunisti pensavamo che era possibile dare una giusta impostazione
ed imprimere slancio possente alla lotta di liberazione nazionale solo se al
tempo stesso si portava avanti con forza la difesa degli interessi immediati,
economici, sociali e quelli più generali delle classi lavoratrici. Non abbiamo
mai accantonato (il che d'altronde sarebbe stato impossibile) né sottovalutato
la lotta di classe: essa si esprimeva non soltanto nell'azione contro
l'occupante tedesco, ma contro i grandi industriali
"collaborazionisti" del nazifascismo. Questa fu la linea politica,
l'indirizzo costante della direzione del PCI per l'Alta Italia, profondamente
persuasi com'eravamo che gli interessi della classe operaia non erano in
contrasto con quelli della nazione.
Tutti gli scioperi politici organizzati durante la Resistenza partivano ed
avevano come base rivendicazioni economiche. Essi erano indirizzati contro i
nazifascisti ed i grandi industriali "collaborazionisti". La lotta
per il pane, per il salario, contro lo sfruttamento, in difesa della dignità
diventa al tempo stesso lotta nazionale per la cacciata dell'invasore tedesco e
la sconfitta del fascismo. Gli operai ed i lavoratori erano stimolati
all'azione dalle condizioni stesse della loro esistenza, ma a sua volta la
spinta della lotta di classe muoveva e trascinava ogni giorno un numero sempre
maggiore di uomini a partecipare alla lotta di liberazione.
Le rivendicazioni economiche erano messe avanti sia per "coprire",
per quanto possibile, gli scioperanti dalla reazione tedesco-fascista, sia
perché esse toccavano tutti gli strati di lavoratori, da quelli che stavano
all'avanguardia sino alla parte più arretrata, meno progredita, che non
s'interessava di politica, ma voleva difendere il proprio diritto alla vita.
Sarebbe però un errore ritenere che, poiché alla base dell'agitazione e della
propaganda per gli scioperi stavano le rivendicazioni economiche, gli operai
fossero portati ad agire soltanto perché mossi da interessi economici.
Gran parte degli operai e dei lavoratori sapeva molto bene a quali rischi
andava incontro scioperando e sabotando la produzione. Il terrorismo tedesco e
fascista faceva sentire il suo peso ed esercitò la sua influenza, seppure in
misura diversa, durante tutto il periodo della guerra di liberazione. Salario,
cottimi, ore di lavoro, una maggior quantità di viveri e di combustibili erano
cose importanti, ma non al punto di spingere la parte più avanzata dei
lavoratori a mettere a repentaglio la vita, ad arrischiare la deportazione per
ottenere un aumento di salario di poche lire od una razione in più di pessimo
olio. Se ciò facevano è perché essi erano mossi non soltanto da necessità
economiche ma da motivi ideali, sociali e nazionali, da profondi sentimenti di
odio contro il fascismo, di amore per la libertà e l'indipendenza da
conquistare; in molti casi era l'aspirazione al socialismo. Motivi economici,
politici e ideali s'intrecciavano e fondevano in un'unica spinta, come tanti
rivoli sfocianti in un grande fiume.
Il fatto che la classe operaia arrivasse ad esercitare la sua funzione
dirigente nella lotta di liberazione nazionale partendo dalla difesa dei suoi
interessi e delle sue aspirazioni dimostra come la lotta nazionale fosse cosa
profondamente reale, inseparabile dalle condizioni stesse di esistenza dei
lavoratori. Difendendo le proprie posizioni ed affermando se stessa, la classe
operaia, alla testa dei lavoratori, affermava gli interessi del popolo e di
tutta la nazione. Essa diede alla Resistenza italiana non solo uno slancio
possente, un'impronta progressiva che la caratterizzano e la distinguono in
modo più marcato da quella di altri paesi.
In Italia la Resistenza è stata antifascista, e più che altrove è stata lotta
contro quei gruppi del grande capitale che avevano dato vita al fascismo,
sostenuto la sua politica, portato il paese alle guerre di aggressione ed alla
catastrofe. Pertanto più che altrove la Resistenza ha avuto un carattere di
classe (è stata lotta nazionale e al tempo stesso lotta sociale), e per il suo
contenuto e perché la classe operaia ne fu la principale forza dirigente.
E' dalla classe operaia, dai partiti e dagli uomini che la rappresentavano che
vennero le parole d'ordine più avanzate, le proposte, le indicazioni e le
soluzioni più giuste, quelle che meglio corrispondevano agli interessi di tutto
il popolo e della nazione. Anche durante la Resistenza le classi lavoratrici
lottarono contro i gruppi del capitale finanziario, contro il grande capitale,
lottarono per conquistare la libertà per tutti i cittadini, per gli operai, per
i contadini, per le classi oppresse in primo luogo, lottarono per dare vita ad
un regime politico e sociale nuovo che realizzasse profonde riforme di
struttura ed una vera, effettiva, nuova democrazia.
Lottarono per estirpare le radici del fascismo, liquidare i più iniqui
privilegi del capitale e della grande proprietà. Furono i rappresentanti della
classe operaia e dei lavoratori che in seno ai CLN proposero e sostennero
quelle rivendicazioni programmatiche che esprimevano le profonde aspirazioni
popolari. Aspirazioni ed obiettivi che non corrispondevano certo alla volontà
ed ai disegni di tutti i movimenti che più o meno direttamente parteciparono
alla Resistenza. Le aspirazioni al profondo, radicale rinnovamento economico e
sociale per le quali si battevano gli operai, la parte più avanzata dei
contadini, dei lavoratori, degli intellettuali progressivi non costituivano
certo tutta la realtà italiana. Altre classi, altri partiti agivano in quella
situazione in seno e al di fuori della Resistenza, con obiettivi diversi e
contrastanti, mirando ad una liberazione solo per opera degli anglo-americani,
mirando alla restaurazione del capitalismo, al ritorno ad un regime di
democrazia conservatrice. Di qui la discordia nell'unità, di qui la lotta
continua in seno ai CLN per fare trionfare determinate soluzioni e portare
tutto il movimento il più avanti possibile.
Inizialmente i CLN rimasero indifferenti di fronte agli scioperi, non assunsero
una posizione di attiva solidarietà e di appoggio; tale atteggiamento
corrispondeva ad una diversa concezione dell'azione da condurre per rafforzare
la Resistenza e la guerra di liberazione.
II CLNAI votò bensì un ordine del giorno di solidarietà con il forte movimento
degli operai torinesi del novembre-dicembre 1943, ma nulla fece per dare un
aiuto concreto al movimento stesso ed al suo sviluppo.
I rappresentanti di taluni partiti in seno ai CLN sostenevano che gli scioperi,
toccando e ferendo determinati interessi, avrebbero indebolito l'unità
nazionale e allontanato dai CLN determinate forze capitalistiche che in quel
momento erano disposte ad aiutare la guerra di liberazione nazionale.
Respingemmo
decisamente quegli argomenti e sostenemmo che anziché frenare avevamo il dovere
di dare slancio all'organizzazione degli scioperi sino ad arrivare allo
sciopero generale politico in tutta l'Italia occupata dai tedeschi, sino ad
arrivare allo sciopero insurrezionale.
Criticammo apertamente la posizione assunta da certi CLN, l'unità per noi non
era un'arca sacra, un altare davanti al quale si dovessero sacrificare gli interessi
della classe operaia e dei lavoratori.
Il CLN, se vuole veramente essere il centro dirigente della guerra di
liberazione nazionale, deve essere in grado non solo di solidarizzare, ma di
organizzare, aiutare, sostenere, potenziare al massimo le lotte della classe
operaia; dev'essere in grado di estendere queste lotte e di farvi partecipare
gli altri strati della popolazione. [...] E' necessario e urgente che i CLN
diventino veri organi di combattimento, organi dirigenti della guerra di
liberazione nazionale (1).
Senza negare che vi sono stati qua e là degli scioperi relativamente
"spontanei", la maggior parte degli scioperi e delle agitazioni fu
organizzata.
Inizialmente i tedeschi avevano lasciato in vita le commissioni interne, così
come esse erano sorte dopo il 25 luglio; in tal modo tentavano di avere nelle
mani degli strumenti per controllare e tenere a freno le masse operaie. Demmo
la direttiva ai comunisti ed a tutti gli operai di sciogliere le commissioni
interne, di rifiutarsi di farne parte, di non partecipare alla loro elezione.
Era evidente che i tedeschi ed i fascisti, riconoscendo le commissioni interne,
avrebbero reso responsabili gli operai che ne facevano parte di quanto accadeva
all'interno della fabbrica, del ritmo di produzione, delle proteste delle
maestranze, dei sabotaggi: le commissioni interne avrebbero dovuto essere dei
veri e propri organismi di "collaborazione" col padrone e con i
nazifascisti.
Proponemmo agli operai di nominare invece in ogni fabbrica un comitato segreto
di agitazione a carattere unitario. Compito di ogni comitato di agitazione era
di occuparsi dei bisogni e delle rivendicazioni degli operai, di organizzare le
agitazioni, dirigere gli scioperi, rafforzare la lotta contro gli industriali
"collaborazionisti" e contro i tedeschi ed i fascisti.
Di fronte a questa giusta posizione non mancarono qua e là atteggiamenti
opportunisti che, sotto la mascheratura di posizioni intransigenti ed
estremiste, pretendevano che le commissioni interne continuassero ad esistere
perché "esse rappresentavano una conquista della classe operaia".
Respingemmo decisamente tale posizione: vi sono conquiste che ad un dato
momento hanno carattere progressivo e rivoluzionario, suscettibili di
trasformarsi in una situazione diversa in strumenti di collaborazione col
nemico di classe.
Nella loro grande maggioranza i lavoratori compresero la direttiva del PCI. Nel
volgere di pochi giorni le commissioni interne, malgrado le lusinghe e le
minacce dei tedeschi e dei fascisti, diedero le dimissioni; nelle principali
fabbriche sorsero i comitati segreti di agitazione, organismi unitari che da
quel momento si porranno come compito principale l'organizzazione degli
scioperi e delle agitazioni contro gli invasori tedeschi ed i traditori
fascisti.
Spetta ai comunisti -dicevano le nostre direttive - promuovere la
formazione di questi comitati di agitazione clandestini, esserne gli animatori,
farli sorreggere da tutta la maestranza, affinché siano in grado di assolvere
ai loro compiti che vanno dalle rivendicazioni immediate, quotidiane, al
compito politico supremo: la preparazione dell'azione armata per la cacciata
dei tedeschi, per la radicale eliminazione del fascismo (2).
Gli scioperi andarono
via via aumentando di giorno in giorno, sino ad arrivare allo sciopero generale
in tutta l'Alta Italia dell'1-8 marzo 1944, ed in, seguito sino alle giornate
dell'insurrezione nazionale del 18-25 aprile 1945.
Non è il caso di seguire mese per mese ognuno di questi scioperi, con la loro
forza, i loro risultati positivi ed anche con i difetti, i limiti, gli errori
che di volta in volta vennero sottolineati ed apertamente criticati sia dai
dirigenti delle organizzazioni locali, sia dalla direzione del partito su La Nostra
Lotta. Benché ci
trovassimo nel fuoco di una guerra dura e senza risparmi di colpi, di fronte ad
un nemico che usava tutte le armi, deciso a sfruttare ogni nostra debolezza,
adoperammo largamente il bisturi della critica e dell'autocritica. Abitudine
che dopo la liberazione andòprogressivamente
scomparendo con la giustificazione che non bisogna offrire argomenti
all'avversario.
Gli scioperi - lo ripetiamo - non furono, salvo eccezioni, "spontanei
": al contrario ci volle un grande impegno di energie per organizzarli.
Non corrisponde affatto alla realtà il quadro fantasioso che oggi taluni, che
non hanno conosciuto quel periodo, né partecipato a quelle lotte, si fanno di
una classe operaia e di masse lavoratrici che premevano dal basso per fare gli
scioperi, per la "lotta continua" di fronte ad una direzione
comunista che interveniva per frenare, limitare, deviare la lotta.
È vero precisamente il contrario, il che è anche ovvio e naturale. Per noi era
piuttosto facile elaborare direttive politiche ed organizzative per la
preparazione degli scioperi, degli attentati gappisti, per lo sviluppo di
grandi lotte di massa e più ampie battaglie partigiane. Ben più arduo e
difficile era il compito di chi quelle direttive doveva applicare, tradurre in
azione. Gli operai, ed in primo luogo i nostri compagni, che nelle città e
nelle fabbriche dovevano applicare quelle nostre direttive, ben sapevano che
ogni sciopero, anche quando terminava vittoriosamente, era seguito da arresti,
deportazioni e fucilazioni; sapevano di dover pagare, duramente pagare.
In queste lotte di massa, così come nel condurre la guerriglia partigiana,
commettemmo certamente degli errori, vi furono debolezze, alle volte esitazioni
anche da parte dei partiti più avanzati dello schieramento democratico che
sempre dovettero fare i conti con forze contrastanti, anche in seno ai CLN, e
con una complessa, dura e difficile realtà. Ma non ci trovammo mai al seguito
delle masse, non commettemmo mai l'errore di essere un freno: soltanto tenevamo
conto delle difficoltà che le masse operaie incontravano ad applicare talune
nostre direttive per un'azione più ardita, più ampia e più avanzata. Non
chiudevamo certo gli occhi di fronte alle obiezioni, alle osservazioni che ci
venivano dalla base, non eravamo indifferenti di fronte al costo, alle perdite:
il che ci portava ad elaborare direttive d'azione corrispondenti alle
possibilità di realizzazione, non campate in aria. Non dovevano dare
l'impressione di essere elaborate da degli incompetenti o da dei visionari. Le
direttive furono sempre d'incitamento a fare di più, ad andare più avanti.
[…]
Note
1) Pietro Secchia, La battaglia degli operai torinesi, in La Nostra lotta, dicembre 1943, n. 6.
2) La fabbrica fulcro della lotta contro i tedeschi,
contro i fascisti e contro gli industriali profittatori, in La
Nostra lotta, novembre 1943, n. 3-4.