da Secchia (1973), Lotta
antifascista e giovani generazioni, La Pietra
trascrizione e conversione in html a cura del CCDP
Secchia
Introduzione: Il 30°
anniversario della Resistenza
Con le manifestazioni in ricordo degli scioperi di Torino e di Milano del marzo
1943 sono iniziate le celebrazioni del trentesimo anniversario della
Resistenza.
Quegli scioperi scoppiati non a caso il 5 marzo 1943 segnarono una svolta
decisiva nella lotta contro il fascismo che accusò il colpo (1), furono
la scesa in campo della classe operaia in modo possente e decisivo. Poiché, se
è vero che durante il ventennio fascista non erano mancati scioperi, fermate di
lavoro, agitazioni, si era sempre trattato di movimenti locali e parziali
riguardanti alcune fabbriche, ora in questa, ora in quest'altra città. Essi
ferivano la «legalità» fascista, ma non
riuscirono mai a spezzarla, come la spezzarono gli scioperi del marzo 1943.
Senza sottovalutare il duro, lungo, difficile lavoro di chi li aveva organizzati
(2), non si possono vedere quegli scioperi al di
fuori del quadro degli sviluppi della situazione internazionale, delle
battaglie sui vari fronti e delle loro ripercussioni in Italia.
Non si può ignorare o dimenticare che la vittoria definitiva di Stalingrado
porta la data del 2 febbraio 1943 e che un mese dopo scoppiano gli scioperi di
Torino e di Milano. Lo riconobbe perfino Mussolini che, nel suo discorso al
Direttorio fascista riunito il 17 aprile, disse:
«Quanto è accaduto è sommamente
deplorevole. Questo episodio sommamente antipatico [si riferisce agli scioperi
di Torino e Milano] che ci ha fatto ripiombare di colpo vent'anni addietro,
bisogna inquadrarlo nell'insieme della situazione internazionale e cioè nel
fatto che l'avanzata dei russi pareva ormai irresistibile e che quindi il
"baffone" (così è chiamato negli ambienti operai Stalin) sarebbe
arrivato presto a "liberare" l'Italia». (3)
L'«Unità» del 31 gennaio 1943 portava a piena pagina il titolo: « Le grandi vittorie dell'Esercito Rosso avvicinano il momento del crollo
hitlero-fascista». E l'«Unità» del 20 febbraio, sempre in prima pagina,
titolava: «L'Esercito Rosso
lottando per la liberazione dell'URSS
lotta per la libertà di tutti i popoli oppressi». L'articolo di fondo
incita «tutti a partecipare al
Fronte Nazionale d'Azione per muovere
all'attacco e organizzare senza indugio la lotta aperta contro il fascismo».
Infine l'«Unità " del 28 febbraio (cinque giorni prima dello scoppio degli
scioperi di Torino) porta sull'intera pagina il titolo: «Commemoriamo il XXV anniversario
dell'Esercito Rosso iniziando in Italia
la lotta armata per la pace e la libertà».
I primi mesi del 1943 segnarono
per l'Italia l'ora della riscossa. Dopo le vittorie dell'Esercito Rosso sul
Fronte Orientale, la distruzione dell'Armir, i successi delle armate
anglo-americane in Tunisia, le menzogne della stampa fascista non riuscivano
più a celare la realtà agli italiani. La resa dei conti per Mussolini e i suoi
complici si avvicinava.
L'inizio dei possenti bombardamenti della Raf su numerose città e centri vitali
del nostro paese faceva pesare più direttamente su tutta la popolazione gli
orrori della guerra e toccare con mano la dura realtà della disastrosa e infame politica del fascismo. Il
bagliore degli incendi illuminava tragicamente le notti delle nostre città
bombardate (il fascismo non aveva potuto predisporre neppure una efficace
difesa e un adeguato sfollamento delle popolazioni). Ogni giorno aumentava la
fuga dalle organizzazioni fasciste: dal 28 ottobre 1942 all'11 marzo 1943 oltre
due milioni di italiani (secondo i dati ufficiali) non avevano rinnovato la
tessera del partito fascista, gli iscritti alla Gioventù del Littorio erano
scesi da nove milioni a quattro milioni, le iscritte ai fasci femminili da
oltre un milione a 350 mila, e così via.
Questa fuga in massa di coloro che volenti o nolenti erano stati irreggimentati
nelle organizzazioni fasciste indicava chiaramente che gli italiani aprivano
gli occhi, non avevano più paura, e che il terrore dell'Ovra non riusciva più a
contenere la ribellione. La caldaia era in ebollizione.
Le leggi sulla mobilitazione civile e sulla militarizzazione degli operai che
sottoponevano i lavoratori a uno sfruttamento bestiale, il carovita in continuo
aumento e i bombardamenti che talvolta colpivano le officine erano tutti
elementi i quali, aggravando la situazione, creavano facile terreno a
organizzare quelle lotte e quegli scioperi che malgrado l'impegno e gli sforzi
non si erano potuti organizzare prima.
Infatti, se fin dal giugno 1941 Palmiro Togliatti con i suoi appelli quotidiani
da radio Mosca aveva indicato agli italiani la via da seguire, incitandoli alla
ribellione, agli scioperi e alla lotta; se fin dai primi mesi del 1942 lanciava
appelli alla lotta armata e alla guerriglia partigiana, è soltanto nel marzo
1943 che scoppiarono i grandi scioperi di Torino e di Milano.
L'epica battaglia di Stalingrado, conclusasi il 2 febbraio alle ore 16 con la
completa distruzione della VI Armata tedesca e con la capitolazione di Von
Paulus, non fu soltanto, come tutti gli storici riconoscono, la più grande
battaglia della Seconda guerra mondiale, ma mutò le sorti stesse del conflitto,
fu il segnale decisivo che percorse da un capo all'altro l'Europa.
Il 5 marzo gli operai della FIAT, guidati dai loro comitati segreti, iniziarono
lo sciopero. La notizia si diffuse con la velocità del fulmine in tutti gli
altri stabilimenti della città e della regione. Nei giorni successivi lo
sciopero si allargò ad altre fabbriche. Al sesto giorno Mussolini,
nell'impossibilità di piegare la decisa volontà dei lavoratori e degli
antifascisti, cercò di far soffocare il movimento con la violenza. Fu come
buttare benzina sul fuoco. Dal 16 marzo ai primi di aprile lo sciopero si
estese rapidamente a tutti i
centri principali del Piemonte, ad Asti e nel Biellese (4),
a Milano e in Lombardia, minacciando di dilagare negli stabilimenti della
Liguria, della Venezia Giulia e dell'Emilia.
Le celebrazioni degli scioperi di Torino e di Milano del marzo 1943 segnano
dunque a buon motivo l'inizio del trentennale della Resistenza anche perché
indicano che quando gli operai scendono in campo uniti, la loro lotta acquista
un peso decisivo. Se gli scioperi di Torino e di Milano (organizzati dai
comunisti, ma vi parteciparono operai di ogni corrente politica e senza
partito, lavoratori anziani e giovani delle nuove generazioni cresciute negli
anni del fascismo) non furono decisivi per l'abbattimento immediato del regime,
gli assestarono un durissimo colpo; essi furono una di quelle «spallate», come si dice, con le quali si mutano le situazioni. Ebbero i loro limiti, perché quegli
scioperi non andarono oltre Torino, Milano e alcune località del Piemonte e
della Lombardia: perché forte fu la repressione seguitane (oltre 900 gli
arrestati) e perché, come ha
scritto Roberto Battaglia:
«Nel resto d'Italia manca ancora la possibilità di organizzare le masse
popolari nell'urto decisivo,
infinitamente minore è il peso della classe operaia, i gruppi antifascisti
agiscono ancora in superficie e non in profondità. Tanto che si può affermare
che già agli albori della Resistenza, si riveli in tutta la sua gravità il
problema storico del dislivello e dello squilibrio tra le due Italie». (5)
Tuttavia non se ne può
sottovalutare l'importanza ed è giusto considerarli come l'inizio della
Resistenza, anche se a quegli scioperi seguì una «stasi» e fu chiaro
che, per abbattere il fascismo, occorreva allargare l'unità ad altre forze
politiche, occorreva che altri si muovessero.
* * *
Nei prossimi mesi seguiranno altre celebrazioni del trentennale: il 25 luglio,
, l'8 settembre e così via. Ma diciamo subito che il trentennale della
Resistenza non può limitarsi a «celebrazioni», quantunque queste siano
necessarie non soltanto per ricordare le lotte del passato, senza le quali non
esisterebbe o sarebbe assai diverso il presente, ma anche per trarre gli
insegnamenti che sempre le grandi lotte lasciano.
Le celebrazioni del trentennale
della Resistenza devono consistere soprattutto nell'azione per allargare
l'unità, per rendere efficace e permanente la lotta contro il fascismo.
Guai se il trentennale della Resistenza dovesse consistere soltanto nella moltiplicazione
degli studi, delle conferenze, delle celebrazioni, nella erezione di statue e
monumenti, nella consegna di decorazioni. Iniziative e rituali che pure ci
vogliono, ma che non hanno il peso necessario per mutare l'attuale situazione,
per affrontare i pericoli di involuzione reazionaria, per estirpare le radici
del fascismo. Tanto più, e lo abbiamo detto altre volte, che queste
celebrazioni, per il loro carattere necessariamente unitario, finiscono spesso
con l'essere sagre di discorsi retorici per onorare i morti e condannare i
vivi; discorsi nei quali, facendo dolce violenza alla storia, si parla di una
Resistenza alla quale tutti indistintamente avrebbero partecipato e di una
unità che non fu quella effettiva e reale, con i suoi limiti e con le sue
contraddizioni interne.
Nelle celebrazioni « ufficiali» della Resistenza, lo abbiamo esperimentato, non
manca nessuno! L'Italia ufficiale e popolare, quella laica e religiosa. Persino
i gesuiti di «Civiltà Cattolica», in occasione del trascorso ventennale,
sentirono il bisogno di essere presenti. Naturalmente celebrarono la Resistenza
a modo loro, scrivendo che essa:
«è stata una lotta fratricida che
ha lasciato degli strascichi dolorosi nell'animo degli italiani, una ferita non
ancora rimarginata; una guerra civile combattuta con spaventosa violenza che ha
portato le tre parti in lotta (partigiani, tedeschi e fascisti) ad efferatezze,
ad eccidi, a rappresaglie e vendette terribili». (6)
Ilbene e il male, il torto e la ragione, l'umanità e la
barbarie stavano, secondo i reverendi padri, da entrambe le parti: vittime e
carnefici, oppressi e oppressori, tutti vengono accomunati in uno stesso
destino.
Non di rado i circoli dirigenti e di governo monopolizzano o quasi le manifestazioni,
quanto meno le più ufficiali. Sulle piazze, nei teatri e alla televisione essi
cercano di presentare una Resistenza evirata, deformata, senza principi, senza
obiettivi e senza programmi sociali, come un grande movimento patriottico al
quale tutti avrebbero partecipato.
La televisione brilla nella sua opera di discriminazione e di deformazioni.
Certo le trasmissioni che da qualche tempo vengono dedicate alla Resistenza
costituiscono qualche cosa di nuovo, un passo avanti rispetto all'aperta
denigrazione che veniva fatta negli anni della guerra fredda. Ma la lettura del
brani, la scelta delle lettere o delle ultime parole dei condannati a morte è
sempre operata con sapiente discriminazione (i comunisti non vi figurano né
come ideologia né come persone, salvo qualche rara volta, di sfuggita e ai
margini). Si mira per lo più a mettere in luce l'eroismo, le sofferenze, il
sacrificio e il pensiero rivolto a Dio, quasi mai si illuminano e si precisano
gli ideali sociali e di classe per cui i caduti lottavano.
Molti discorsi celebrativi e molte
trasmissioni televisive abbondano di questa retorica del sacrificio, dell'eroe
senza volto, così lontano e così diverso dai vivi appunto perché è morto.
Nell'esaltazione astratta della «forza d'animo» e della «nobiltà» dei caduti
appare chiaro l'intento di svuotare la Resistenza della sua realtà, ignorandone
gli ideali ed il programma.
«Sarebbe assai grave se nel campo
della Resistenza - scriveva Roberto Battaglia - prevalessero sul piano
internazionale le concezioni di tipo occidentale, per cui si va dalla
concezione patriottica alla concezione etico religiosa sostenuta dai cattolici
secondo cui tutti i partigiani sono buoni purché siano morti. E questo è
sostanzialmente il nocciolo: l'idea dei martiri non è della Resistenza, ma è
un'idea cattolica; è l'idea, cioè, che le cose importanti sono i martiri e non
sono i risultati per cui quei martiri sono caduti». (7)
Non possiamo certo prestarci a
simili deformazioni della verità e della storia. Senza dubbio le celebrazioni
ci devono essere e quanto più unitarie e larghe possibile; i morti devono
essere onorati e ricordati, ma ricordando gli ideali per i quali essi
combatterono e caddero, e rinnovando quindi l'impegno di continuare la lotta
per realizzarli.
I giovani oggi vogliono sapere, ma non vogliono essere ingannati. Essi devono
sapere che la Resistenza non fu né un fenomeno religioso né la pura e semplice
manifestazione di uno spirito di sublime sacrificio da parte di un popolo né
soltanto un grande movimento di lotta contro lo straniero o di rivolta per la
salvezza dell'onore e della dignità umana. Non è lecito ignorare gli ideali, le
classi, i partiti, le forze sociali che furono il nerbo della Resistenza. È
giusto cogliere l'elemento unitario che mosse gli antifascisti, ma si deforma e
si nega la Resistenza quando si tace del suo programma che venne poi riassunto
in formule giuridiche nella Costituzione, rimasta ancora oggi per gran parte
inattuata. Gli uomini della Resistenza non hanno lottato soltanto per cacciare
i tedeschi e battere i fascisti, lasciando poi le cose come prima. Essi hanno lottato per dare all'Italia un
altro ordinamento. un regime di nuova ed effettiva democrazia, fondato sulla
libertà e sulla giustizia. Essi si sono battuti per un rinnovamento totale della nostra vita nazionale,
per ricostruire dalle fondamenta la struttura del Paese.
Il28 agosto 1924 Antonio Gramsci,
in un articolo su «Lo Stato Operaio» intitolato «Il destino di Matteotti»,
scriveva:
«Esiste una crisi della società italiana, una crisi che trae origine dai
fattori stessi di cui questa società è costituita e dai loro irrimediabili
contrasti.
Da una parte vi è uno Stato che non si regge perché gli manca l'adesione delle
grandi masse, gli manca una classe dirigente che sia capace di conquistare
questa adesione; dall'altra vi è una massa di milioni di lavoratori i quali si
sono venuti risvegliando lentamente alla vita politica e chiedono di prendere
parte attiva, vogliono diventare la base di uno Stato nuovo in cui si incarnino
le loro volontà.
Vi è da una parte un sistema economico che non riesce più a soddisfare i
bisogni elementari della grande maggioranza dei lavoratori perché costruito per
soddisfare interessi particolari ed esclusivistici di alcune ristrette
categorie privilegiate; vi sono d'altra parte centinaia e migliaia di
lavoratori che non possono più vivere se questo sistema non viene modificato
dalle basi. Da quarant'anni la società italiana sta cercando invano il modo di
uscire da questi dilemmi».
Sono trascorsi quasi cinquant'anni da quando Gramsci scriveva queste
parole, eppure si direbbero scritte oggi.
Molte cose sono cambiate da allora, lo sappiamo, ed è perfino ingenuo e
superfluo ricordarlo. I paesi socialisti abbracciano oggi gran parte del mondo,
i movimenti rivoluzionari hanno vinto in paesi dell'Asia, dell'America Latina,
dell'Africa. L'oppressione e la schiavitù colonialista sono in gran parte
scomparse: viviamo nell'epoca della bomba atomica, dei voli spaziali, della
televisione, dell'elettronica. Molti passi avanti sono stati fatti anche in
Italia dalla classe operaia, dai lavoratori, dai giovani, dalle donne, dal
paese nel suo complesso. Molte cose sono state cambiate perché il fascismo come
regime di dittatura è stato abbattuto, le libertà democratiche sono state
riconquistate, perché c'è stata la Resistenza che esercita tutt'ora il suo
peso. L'antifascismo è tutt'ora una forza che raccoglie gran parte degli
italiani e anche milioni di giovani i quali, pur non avendolo direttamente conosciuto
nella sua barbarie, hanno appreso cos'è il fascismo dalle tradizioni
famigliari, da letture e studi. Purtroppo - questo è l'aspetto sommamente negativo - lo apprendono anche dai tentativi che esso fa per risorgere con
gli stessi metodi, con la stessa violenza, appoggiato da quegli stessi ceti e
gruppi più retrivi del grande capitale che già cinquant'anni or sono lo
finanziarono, lo organizzarono e lo sostennero, e con la complicità, 1'omertà,
la tolleranza di certi gruppi rimasti o infiltratisi negli organismi dello
Stato che non sono ancora stati democratizzati.
Accentuare la lotta contro il fascismo, allargare l'unità nella lotta per
realizzare profonde riforme della società attuale, unendo giovani e anziani,
operai e studenti, contadini e intellettuali, portando avanti molteplici
iniziative di lotta nelle città, nelle fabbriche, nelle campagne, nelle scuole,
in Parlamento, questo dev'essere l'obbiettivo principale nel corso del
trentesimo anniversario della Resistenza.
Marzo 1973
PIETRO SECCHIA
Note
1)Scriveva
Farinacci a Mussolini 1'1 aprile 1943: «Ho vissuto, stando naturalmente
nell'ombra, le manifestazioni
degli operai di Milano. Ne sono rimasto profondamente amareggiato come fascista
e come italiano. Non siamo stati capaci né di prevenire né di reprimere ed
abbiamo infranto il principio di autorità del nostro regime. [...] Se ti dicono
che il movimento ha assunto un aspetto esclusivamente economico, ti dicono una
menzogna. Il contegno degli operai di Abiategrasso di fronte a Cianetti è eloquente,
come è eloquente la fioritura del manifestini stampati alla macchia che danno
alle manifestazioni un carattere deliberatamente e preordinatamente
antifascista.
[...] Bisogna correre ai ripari e imporre agli organizzatori, del centro e
della periferia di vivere non già nei grandi e meno grandi loro ministeri fra
segretari e dattilografe ecc.. ma a contatto con le masse. [...] Il partito è
assente e impotente. Ora avviene l'inverosimile. Dovunque, nei tram, nei caffè,
nei teatri, nei cinematografi, nei rifugi, nei treni, si critica e si inveisce
contro il regime e si denigra non più questo o quel gerarca, ma addirittura il
Duce. E la cosa gravissima è che nessuno più insorge. Anche le questure
rimangono assenti, come se l'opera loro fosse ormai inutile». Archivio Centrale
di Stato. Collezione Farinacci a Mussolini, riportato in parte da F. W. Deakin
in Storia della Repubblica di Salò, Torino
1963. pag. 228
A propoSito di questure e polizia
ormai assenti, scrive Guido Leto, Il capo dell'Ovra: «Ma
com'era possibile usare maniere
forti quando tutto crollava intorno? La polizia non era affatto collusa né col
nemico né con l'antifascismo; faceva come sempre il suo dovere, ma non si estraneava dalla realtà vivente del paese». Da
G. Leto: Ovra, Fascismo e
antifascismo, Bologna
1951, pag. 248
2) Tra i principali organizzatori degli scioperi
di Torino vi furono: Umberto Massola, Amerigo Ciocchiatti, Leo Lanfranco, Luigi
Leris, Ermete Bazzanini, Giuseppe Gaeta, Luciano Moglia, Giorgio Carretto e
altri ancora. Sugli scioperi di Torino si veda Umberto Massola, Marzo 1943 ore dieci, Edizioni di cultura Sociale, Roma,
1950; Giorgio Vaccarino, Il movimento operaio a Torino nei primi mesi della
crisi italiana, Ist.
Nazionale Storia Movim. Liberaz., Milano 1953; Raimondo Luraghi, Il movimento
operaio torinese durante la Resistenza, Torino 1958.
Tra gli organizzatori degli scioperi di Milano vi furono Giuseppe Gaeta, Pietro
Francini, Felice Cassani, Ettore Gobbi, Cocchi, Marzorati, Migliorini,
Facchetti, Cremonesi, Virgilio Seveso, Luigi Spinelli, Angelo Leris, Tavecchia,
Martinini, Attilio Bietoli, Giosuè Casati e altri ancora.
3) A.C.S. riportato in parte da F. W. Deakin in Storia della Repubblica di Salò, Torino 1963
4) Nel Biellese gli organizzatori degli scioperi che scoppiarono
dal 29 marzo al 6 aprile furono Guido Sola, Benvenuto Santus, Mario Graziola,
Pasquale Finotto, Edovilio Caccia, Domenico Bricarello, Alba Spina, Amalia Campagnolo, Mario Mainelli, Libero
Coppo, Anna Pavignano, Ergenite Gili, Annibale Caneparo, Marco Ferrarone, Leonardo Cerruti,
Oscar Meinardi, Giuseppe Maroino, Remo Pella, Corrado Boschetti, Imero Zona,
Lorenzo Bianchetto, Ercole Ozino, Giovanni Pastore, Aurelio Bussi, Carlo
Bertolini e altri ancora.
5) Roberto
Battaglia, Storia
della Resistenza Italiana, Torino,
pag. 52
6) I cattolici e la Resistenzain Civiltà Cattolica, maggio 1964
7)Roberto
Battaglia, Risorgimento
e Resistenza, Roma,
1964