da Secchia (1973), Il Partito comunista
italiano e la guerra di Liberazione, Feltrinelli, Milano, 1975, pp. 73-75
trascrizione a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
Secchia
Ritorno alla libertà e alla
lotta
Arrivammo a Roma nella notte sul 19 agosto. Longo, Scoccimarro ed io, dopo aver
atteso, passeggiando senza meta, che si facesse giorno, ci recammo alla sede
dei sindacati. Non c'era ancora nessuno. Esplorammo un po' l'ambiente, dando
uno sguardo ai giornali ed ai libri che si trovavano sparsi qua e là, tanto per
passare il tempo. Mi misi ad una scrivania e cominciai a riordinare gli
indirizzi portati da Ventotene. Poi arrivò Baldazzi (1). Ci
abbracciammo; mezz'ora dopo ecco Roveda e Buozzi, altri abbracci ed affrettati
scambi di informazione. Poi venne Giorgio Amendola col suo esuberante ottimismo
ed in piena attività. Non ricordo se lui o qualche altro ci portò in casa di
Antonio Giolitti (2). Nel pomeriggio ci trovammo in un'altra
abitazione con Amendola, Alicata e qualche altro. Breve riunione, durante la
quale fummo informati degli ultimi avvenimenti. A sera Longo, Scoccimarro ed io
partimmo ognuno per le nostre case, l'intesa era di rimanerci non più di una
settimana e di ritrovarci a Roma al più presto. La situazione era tutt'altro
che tranquilla, non era difficile prevedere che gli avvenimenti stavano
precipitando.
Erano appena trascorse ventiquattro ore dal mio arrivo a Biella, che un
compagno venne a prelevarmi; i compagni dirigenti del "centro" - mi disse -
desideravano che mi recassi subito a Milano. Presi il primo treno. A Milano,
negli uffici clandestini del centro interno (la casa di Giovanni e Jole Morini
in Via Lulli, 30) incontrai Umberto Massola,
Celeste Negarville, Agostino Novella, Antonio Roasio, che insieme a
Giorgio Amendola ed a Giovanni Roveda costituivano il centro interno del PCI.
Il centro estero praticamente non esisteva più, ad uno ad uno i suoi componenti
erano rientrati in Italia. Togliatti, Grieco, Cerreti, D'Onofrio, Vincenzo
Bianco ed altri compagni si trovavano a Mosca.
Mi fecero un rapido riassuntivo della situazione, di quanto era stato fatto immediatamente prima e
dopo il 25 luglio, dei compiti che il partito si proponeva, del modo come
pensavano di ricomporre il gruppo di direzione dopo il nostro arrivo dal
confino.
Il lavoro di riorganizzazione procedeva intensamente, ma sino a quel momento le
difficoltà erano state molte per insufficienza di mezzi e di quadri.
Il 25
luglio nel paese
Occorre dire che il 25 luglio aveva colto i partiti antifascisti di
sorpresa: tutti lo attendevano, ma non si sapeva né come né quando sarebbe
avvenuto, e nessuno era preparato ad un crollo così clamoroso (quasi un
castello di carta che si sfascia) del partito e del regime fascista.
Il PCI era senza dubbio il meglio organizzato, il più unito dal punto di vista
ideologico e politico, disponeva di una rete organizzativa che, con tutti i
suoi limiti, si estendeva su larga scala del territorio nazionale, ma
partecipava anch'esso delle debolezze di tutto il movimento antifascista.
Documenti e testimonianze concordano nel calcolare il numero dei suoi aderenti
collegati con il centro interno intorno ai cinque-sei mila. E' vero che nel
calcolo non figuravano migliaia di comunisti più o meno organizzati in gruppi e
gruppetti nelle diverse località del paese, non collegati con il centro
interno.
Le masse popolari non sufficientemente organizzate e indirizzate non avevano
avuto la forza di reagire come sarebbe stato necessario per diventare
immediatamente le protagoniste. Il che segnerà sin dall'inizio i limiti della
Resistenza italiana.
Il primo limite lo incontriamo nel fatto stesso che il 25 luglio non fu il
risultato di un grande moto popolare, di un'insurrezione di lavoratori, anche
se vi erano stati gli scioperi del marzo 1943 i quali avevano senza dubbio
pesato sullo sviluppo degli avvenimenti. Tuttavia il 25 luglio fu il risultato
immediato di una congiura di palazzo, architettata con molte esitazioni ed
indecisioni dai gruppi monopolisti per tentare, sganciandosi dal fascismo, di
salvare il salvabile; fu il tentativo della monarchia, buttando a mare
Mussolini e gli alti gerarchi, di salvare se stessa creando un governo
conservatore, burocratico-militare, che tenesse a freno il più possibile le
masse popolari.
Che nessuno agisse, che nessuno si muovesse. Che nessuno facesse nulla. Il re,
Badoglio, i ministri avrebbero pensato a tutto. Era chiaro che si voleva
impedire che le masse scendessero in lotta.
Non si voleva la democrazia
- scriverà un anno dopo Togliatti - si voleva conservare in vita il massimo di
fascismo: questa era la sostanza. E la nazione ha pagato molto caro l'errore
fatale di quel periodo malaugurato (3).
Dappertutto, o quanto
meno nei centri principali del paese, nella notte del 25 e durante la giornata
del 26 vi erano state manifestazioni di giubilo, cortei, comizi, busti di
Mussolini e insegne fasciste buttati per aria, invasioni di sedi dei fasci,
qualche pedata o pestaggio ai più noti aguzzini, di basso rango, che si fecero
trovare in giro. Ma nulla di più o quasi. Il 26 era stata una giornata di festa
e di sciopero.
I partiti antifascisti e le masse popolari non avevano la forza per raggiungere
subito obiettivi più avanzati e tanto meno per imporre un governo antifascista,
la rottura dell'alleanza con la Germania e la fine immediata della guerra.
Per contro, le prime disposizioni impartite il 26 luglio dal governo Badoglio
non riguardavano le misure da adottare contro eventuali tentativi di riscossa
dei fascisti, né tanto meno erano dirette a fronteggiare l'aggressione tedesca
già in atto, ma concernevano la repressione delle manifestazioni popolari
antifasciste che si svolgevano in ogni parte d'Italia.
Non è il momento di abbandonarsi a manifestazioni che non saranno tollerate - ammoniva un nuovo proclama di
Badoglio - sono
vietati gli assembramenti e la forza pubblica ha l'ordine di disperderli
inesorabilmente (4).
Era l'annuncio dello stato d'assedio. Seguiva poi la famosa circolare a tutti i
comandi militari, largamente nota come circolare Roatta; ci limitiamo a
riprodurne un brano assai eloquente:
1) nella situazione attuale, col nemico che preme, qualunque perturbamento
dell'ordine pubblico anche minimo, et di qualsiasi tinta, costituisce
tradimento et può condurre, ove non represso, a conseguenze gravissime;
qualunque pietà et qualunque riguardo nella repressione sarebbe pertanto
delitto;
2) poco sangue versato inizialmente risparmia fiumi di sangue in seguito.
Perciò ogni movimento dev'essere inesorabilmente stroncato in origine;
3) siano assolutamente abbandonati i sistemi antidiluviani, quali i cordoni,
gli squilli, le intimazioni e la persuasione et non sia tollerato che i civili
sostino presso le truppe intorno ad armi in postazione;
4) i reparti devono assumere e mantenere grinta dura et atteggiamento
estremamente risoluto. Quando impiegati in servizio di ordine pubblico, in
sosta aut in movimento, abbiano il fucile at pronti et non at bracciarm;
5) muovendo contro gruppi di individui che perturbino ordine aut non si
attengano prescrizioni autorità militare, si proceda in formazione di
combattimento et si apra fuoco a distanza, anche con mortai e artiglieria senza
preavviso di sorta, come se si procedesse contro truppe nemiche. Medesimo
procedimento venga usato da reparti in posizione contro gruppi di individui
avanzanti;
6) non è ammesso tiro in aria; si tira sempre a colpire in combattimento;
7) massimo rigore nel controllo et attuazione di tutte le misure stabilite da
noto manifesto. Apertura immediata del fuoco contro automezzi che non si
fermino alla intimazione;
8) i caporioni e istigatori dei disordini, riconosciuti come tali, siano
senz'altro fucilati se presi sul fatto, altrimenti siano giudicati
immediatamente dal Tribunale di guerra sedente in veste di Tribunale
straordinario;
9) chiunque, anche isolatamente, compia atti di violenza e ribellione contro le
forze armate e di polizia aut insulti le stesse e le istituzioni venga passato
immediatamente per le armi (5).
[….]
Note
1)
Vincenzo Baldazzi, militante anti-fascista, già dirigente degli "Arditi
del Popolo", per lunghi anni confinato, organizzatore della resistenza
romana e delle formazioni di "Giustizia e Libertà".
2) Qui ci diedero dei vestiti presentabili, Longo ed io
portavamo ancora quelli laceri e stinti del confine, i legacci delle nostre
scarpe erano di rozzo spago. Non che con quelli regalatici fossimo proprio
eleganti. Longo sfoggiava un estivo color caffelatte che lo faceva
rassomigliare ad un frate. E' vero che l'abito non fa il monaco; a me era
toccato un estivo color pepe e sale, oggi si dice: sottobosco.
3)Palmiro Togliatti, Ritornare al
25 luglio?, in Unità, ed. di Roma, 12 novembre 1944.
4)
Manifesto del generale Badoglio agli italiani, in Gianfranco Bianchi, 25 luglio, Milano, Mursia, 1963, p. 737.
5) L'Italia dei quarantacinque giorni, 1943; 25 luglio-8 settembre,
Milano, Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in
Italia, 1969, p. 11 (Quaderni de 'Il
movimento di liberazione in Italia).