da Secchia (1973), Lotta antifascista e giovani generazioni, La Pietra, pp. 123-152
anche su Graziosi - a cura di - (2006), Il Partito,
le masse e l'assalto al cielo, La Città del Sole
trascrizione a cura del CCDP
Pietro
Secchia
Le nuove generazioni
Dei giovani e delle nuove generazioni se ne parla e se n'è parlato spesso, da più
parti e in ogni epoca, ripetendo non di rado le stesse cose.
Quando oggi se ne parla, alcuni pensano che ci si riferisca ai «gruppuscoli»,
quasi che questi rappresentino la maggioranza della gioventù contemporanea o,
addirittura, le nuove generazioni nel loro complesso.
Altri ritiene che ci si riferisca agli studenti. Ma anche gli studenti, per
quanto rappresentino una massa non trascurabile (scuole medie, istituti
superiori e università) si contano a centinaia di migliaia, mentre una
generazione conta milioni di individui. Agli studenti occorre aggiungere gli
operai, i contadini, gli impiegati, i commessi e altre categorie di giovani
lavoratori.
Intanto, che cos'è una generazione? È difficile stabilirlo con le cifre. La
nozione di generazione alla quale qui ci si riferisce non è cronologica o
statistica, ma politica.
«Quand'è che noi diciamo che vi è una nuova generazione? Dopo 20 anni,
25, 30? Non è così che si pone il problema. Se si ricorre agli esempi storici,
si può constatare che in molti casi grandi differenze intercorrono tra una
generazione e un'altra, e in questo caso già s'intende per generazione il
periodo in cui si attua una svolta nell'orientamento delle masse giovanili.
Quando scomparve Napoleone dalla scena politica della Francia, tutta la
popolazione francese, gioventù compresa, era antinapoleonica. Ne aveva
abbastanza delle guerre, dei massacri, della confusione del regime napoleonico
e voleva la tranquillità. Passano 15-20 anni e una generazione
"napoleonica" si fa avanti, nella quale rivivono i ricordi della
grandezza passata. È evidente, non è solo questo il fattore della
trasformazione, ma il fatto che la restaurazione non ha risolto i problemi che doveva
risolvere e quindi sono venuti alla luce problemi nuovi, che spingono a
muoversi in una direzione nuova. Da noi in Italia dopo il 1850 vi è pure una
svolta di generazione. La generazione carbonara e mazziniana passa in secondo
piano rispetto a una generazione nuova. Il problema non è dunque di date e di
anni, ma di orientamento e di contenuto ideale. (...) Si può parlare di una
generazione nuova quando si manifestino nell'orientamento ideale e pratico
degli uomini e delle donne che si affacciano come giovani alla vita,
determinati elementi omogenei e nuovi che si sono accumulati per il maturare di
nuovi problemi.»
(1)
In questi anni,
nell'esame dei contrasti e dei dibattiti tra giovani e anziani c'è chi ha
discettato sul fatto se si possa parlare di lotta di classe o di conflitti tra
generazioni, quasiché l'una cosa si contrapponga all'altra.
La forza motrice della
società è senza dubbio la lotta di classe, ma esistono pure le generazioni e i
conflitti tra generazioni che si inseriscono e si fondono nella lotta di
classe.
Non si può a parere mio opporre la lotta di classe alla lotta tra generazioni.
Ritengo che, nell'esame dei grandi movimenti che in ogni epoca diedero una
spinta alla società, l'elemento fondamentale sia stato la lotta di classe che
si esprimeva anche in un conflitto tra generazioni diverse.
Infatti gli uomini sono divisi
non soltanto in classi contrapposte,
ma anche nel tempo. Uno storico comunista caduto nella Resistenza francese,
Marc Bloch, ha scritto: «Gli uomini somigliano più ai loro tempi che ai loro
padri». La verità di quest'affermazione è provata quotidianamente dal fatto che quasi sempre i figli (anche di
genitori non vecchi) sono contestatori di fronte ai loro padri. In altre
parole i giovani s'intendono assai meglio tra loro che non con i loro padri.
La gioventù evidentemente non costituisce
una classe. I giovani operai
e i giovani contadini, così come i giovani figli degli industriali, sono in
genere legati alla propria classe. Ma i giovani hanno alcune altre caratteristiche
comuni che li pongono in una posizione particolare, sia nelle scuole che nella
produzione, e verso i loro compagni adulti. Non sono una classe, ma costituiscono un gruppo sociale con caratteristiche proprie, interessi ed elementi comuni. I giovani tendono inoltre
ad affermare in modo più spiccato la propria personalità.
«La gioventù è
disinteressata nei pensieri e nei sentimenti, quindi pensa e sente più profonda
la verità; e non è avara di sé quando occorra arditamente confessare una fede o
propugnarla. I vecchi sono egoisti e pusillanimi; essi pensano più agli
interessi dei loro capitali che agli interessi dell'umanità, lasciano la loro
navicella scendere tranquilla e poco si curano del marinaio che in alto mare,
nel canale della vita, lotta con le onde; e forse raccontano come anche loro in
gioventù avevano cozzato col muro, ma che dopo s'erano con esso riconciliati,
perché il muro era l'assoluto, la legge, ciò che esiste in sé e per sé, ciò che
perché esiste è anche razionale». (2)
Non si tratta
naturalmente di adulare né di solleticare la simpatia dei giovani: coloro che
tendono a questi scopi non certo disinteressati, sono portati a idealizzare la
virtù dei giovani. Senza dubbio la gioventù ha in comune molte caratteristiche
nobili e positive:
lo slancio, il coraggio, il disinteresse, lo spirito di sacrificio per una
causa. Ma la gioventù ha anche difetti che derivano dalla sua stessa natura,
dal suo stesso organismo che ha bisogno di prendere molto e dare poco.
La gioventù può essere dunque a un tempo idealista ed egoista, ardente e
fredda, entusiasta e insensibile, generosa e crudele, accessibile al fanatismo
e portata al tempo stesso alla leggerezza e alla spensieratezza. Obbedisce
facilmente all'impeto della violenza, ama molto la libertà (specie la propria)
e non attribuisce gran valore alla vita (soprattutto a quella degli altri). I
giovani, quando non sono vecchi innanzi tempo amano andare contro corrente e
seguire una bandiera di opposizione e di battaglia, anche se non sempre si
tratta di una giusta scelta.
Che Du Xin, che fu il primo segretario generale del Partito Comunista cinese
dal 1921 al 1927, ha scritto:
«La gioventù è come
l'inizio della primavera, il sorgere del sole, il germogliare degli alberi e
dell'erba, come una lama appena affilata; è il periodo più prezioso della vita.
La funzione della gioventù nella società è la stessa che ha una cellula fresca
e vitale nel corpo umano. Nel processo di metabolismo ciò che è vecchio e
consumato viene incessantemente eliminato per essere sostituito da ciò che è
fresco e vivente. Se il metabolismo funziona bene in un corpo umano, la persona
sarà più sana; se invece le cellule vecchie e consunte si accumulano e
riempiono il corpo, la persona morirà». (3)
Ma si potrebbero fare
in proposito mille citazioni, da Lenin a Stalin e a Mao Tse-tung, da Croce a
Gramsci e a Togliatti. Il De Sanctis, descrivendo un'altra epoca storica, dice
che i giovani chiamavano
i vecchi «pedanti»
e che i vecchi li ricambiavano con nome di «ciarlatani»; e osserva che c'era
del vero nella taccia reciproca, perché il vecchio ha sempre del pedantesco e
il nuovo del ciarlatanesco, e il vizio di ciascun indirizzo non rimane celato
all'occhio acuto dall'avversario.
Nel 1901, rivolgendosi a sua volta ai giovani, Francesco S. Nitti diceva:
«O giovani
d'Italia, non amate ciò che è vano, non amate ciò che è vecchio. L'Italia
nostra ha la sua povertà presente ed è rude peso, ma ha un peso assai più duro
sotto cui piega, ed è il pregiudizio. (...)
Non sperate, o giovani,
che in voi stessi; nulla attendete dagli uomini del passato; voi che siete la
verità e la forza, non vi rivolgete addietro se l'avvenire vi tenta». (4)
Non è certo un caso che tutte le rivoluzioni e i moti insurrezionali di
cui si ha memoria siano stati compiuti da uomini e da partiti giovani.
Senza risalire alla Rivoluzione francese che vide un giovane di 26 anni, il
Saint-Just, alla Tribuna della Convenzione giudicare e condannare tutto un
vecchio mondo imputridito e persino un re; senza risalire alle guerre
napoleoniche al cui inizio, è noto, i generali austriaci disprezzavano il ventisettenne
Bonaparte circondato da marescialli ancor più giovani di lui, come sogliono
fare in genere i vecchi verso i giovani perché essi credono che l'esperienza
nella vita sia tutto e dimenticano che l'impeto, l'audacia, la vigoria dei
giovani hanno spesso un valore decisivo; senza risalire alla Comune di Parigi è
sufficiente, per restare alle cose di casa nostra, ricordare le lotte del
Risorgimento e per l'unità d'Italia, che ebbero per protagonisti d'avanguardia
Mazzini e Garibaldi.
Oltre la metà dei Mille di Garibaldi erano Cacciatori delle Alpi, la cui età
andava dai 17 ai 20 anni, e gli altri erano «veterani» che non
superavano i 25 anni. Dal punto di vista sociale il 50 per cento di quei
garibaldini erano professionisti, l'altra metà artigiani o operai delle città. (5) E aveva ragione Garibaldi di
affermare orgogliosamente come quei Mille avessero potuto aver ragione di oltre
ventimila borbonici.
«Com'eran belli - Italia - i tuoi Mille! In borghese, pugnando contro i
piumati, gli indorati sgherri, spingendoli davanti a loro come se fosse un
gregge. Belli! Belli! E vario vestiti, come si trovavano nelle loro officine
quando chiamati dalla tromba del dovere!
Belli, belli erano, con l'abito e con il cappello dello studente, colla veste
più modesta del muratore, del carpentiere, del fabbro. E davanti a quella non
uniformata, pochissimo disciplinata gente, fuggivano i grassi argentati,
spallinati venditori della coscienza». (6)
I giovani socialisti
Con un balzo giustificato soltanto dai limiti di questo saggio, arriviamo al 1900, nel momento di una grande
«svolta» dopo la bufera reazionaria del 1898.
È all'inizio del 1900 che i circoli giovanili socialisti cominciano a
svilupparsi e a raggrupparsi in una Federazione nazionale che tiene il suo
primo congresso a Firenze nel 1902
e pubblica «La Gioventù socialista".
Questa si trasferisce nel 1903 a Milano e nel 1905 a Roma, dove si tiene
anche il secondo Congresso della Federazione giovanile socialista.
Caratteristica di
questo movimento giovanile socialista è che esso non è un piccolo partito di
giovani, una scimmiottatura di quello adulto. Non ha nulla a che vedere neppure
con i movimenti goliardici della gioventù borghese e nulla - scriveva Arturo
Vella - «del romantico idealismo dei nostri padri che furono giovani attorno a Garibaldi, a Mazzini,
ad Andrea Costa».
Si trattava di una
nuova generazione che entrava nella lotta con lo sviluppo industriale
dell'Italia, con l'entrata dei minorenni nelle fabbriche, con un orientamento
di classe che cercava la sua giustizia,
i suoi diritti contro lo sfruttamento padronale, la sua libertà contro
l'oppressione.
Erano i giovani che facevano conoscenza col marxismo. Infatti è nella stessa
epoca che il movimento giovanile socialista nasce in Belgio sotto il nome di
«Giovani guardie»; di là si sviluppa rapidamente in Germania diretto da Karl
Liebknecht, poi in Francia, nella Svezia, in Svizzera e in Austria, per
fermarci all'Europa occidentale. Ché, se dovessimo parlare della Russia,
dovremmo riandare più indietro, a movimenti rivoluzionari che nel XIX secolo
avevano attirato e mosso soprattutto la gioventù. E nel febbraio 1901 Lenin
scriveva sull'«Iskra»:
«La classe operaia è già
insorta a lottare per la sua emancipazione. E deve comprendere che questa
grande lotta le impone grandi obblighi, che non può liberarsi dal dispotismo
senza liberare al tempo stesso tutto il popolo e che, innanzi tutto e
soprattutto, deve associarsi ad ogni protesta politica e sostenerla con
qualunque mezzo. I migliori rappresentanti delle nostre classi colte hanno
dimostrato e segnato col sangue di migliaia di rivoluzionari catturati dal
governo la loro capacità e la loro volontà di scuotere dai piedi la polvere
della società borghese e di entrare nelle file socialiste. E l'operaio il quale
può assistere con indifferenza all'invio delle truppe governative contro
giovani studenti non è degno del nome di socialista. Lo studente ha aiutato
l'operaio e l'operaio deve aiutare lo studente.
Il governo vuole ingannare il popolo, dichiarando che si vogliono proteste
politiche semplicemente per fare chiasso. Gli operai devono dichiarare
pubblicamente e spiegare alle grandi masse che si tratta di una menzogna, che
il vero focolaio della violenza, del disordine e degli eccessi è il governo autocratico russo, è l'arbitrio della
polizia e dei funzionari». (7)
È questo il periodo in
cui, anche in Italia, i giovani socialisti intensificano la loro propaganda e i
loro dirigenti sono processati dai tribunali, perquisiti nei loro domicili,
arrestati nelle fabbriche e nei loro convegni.
Nelle lotte tra le varie correnti e frazioni che, in quegli anni, si fanno
aspre all'interno del Partito socialista, i giovani parteggianosempre per quelle di
sinistra, contro il riformismo e l'opportunismo.
Due correnti si scontrarono furiosamente nel 1907 anche in seno alla
Federazione giovanile. I cosiddetti «sindacalisti», capeggiati da Paolo Orano,
Michele Bianchi e Alceste De Ambris (e finiti poi, a eccezione di quest'ultimo
e di altri che lo seguirono, quasi tutti nelle file del fascismo), sfruttando l'influenza
esercitata sui giovani sindacalisti intendevano infliggere un colpo mortale al
Partito socialista. Ma i giovani socialisti (allora guidati da Arturo Vella,
Demos Altobelli e Virginio Mariscotti) non si lasciarono ingannare e nel 1907,
al congresso di Bologna, espulsero i sindacalisti, crearono la Federazione
giovanile socialista e la collegarono al Partito socialista, fissandone il
programma nel motto: «Col partito e per il proletariato».
Da allora cominciò a uscire «Avanguardia»,
un settimanale battagliero che sostenne sempre la lotta contro le
posizioni riformiste e collaborazioniste. Non è qui la sede per fare la storia
dei successivi congressi della Federazione giovanile socialista e delle
relative decisioni, da quello del 1909 (Reggio Emilia) a quello del 1911
(Firenze), del 1913 (Bologna), del 1915 (Reggio Emilia) e del 1917 (Firenze),
fino ad arrivare a quello della scissione del 1921 che avrebbe deciso
l'adesione pressoché totale della F.G.S. al P.C.I.
È sufficiente rilevare come il movimento giovanile in Italia si sia sempre
caratterizzato per la sua combattività e per il suo orientamento a sinistra,
prendendo sempre posizioni per le tesi più intransigenti; e al tempo stesso
occupandosi dei problemi più delicati della vita italiana, come quello della
Democrazia cristiana, o con l'osteggiare decisamente la Massoneria, cancro
roditore dell'unità e dell'autonomia del vecchio socialismo collaborazionista.
Nel 1911 i giovani
socialisti combatterono decisamente contro la guerra libica che non fu con
eguale decisione osteggiata e combattuta dal Partito socialista, così come essi
lottarono qualche anno dopo contro la prima guerra mondiale e contro
l'intervento armato dell'Italia in un sanguinoso conflitto che, malgrado tutte
le mascherature nazionaliste, era chiaramente imperialista. I giovani
socialisti italiani furono tra i pochi in Europa che non dettero neppure
una minoranza favorevole alla guerra cosiddetta «fascinatrice». Coloro che nel 1914-1918, in seno ai
partiti socialisti europei, lottarono contro la guerra erano d'altra parte
piccole minoranze. Di Liebknecht si diceva che era «solo come
nessun uomo fu solo». Lenin scriveva intanto i suoi articoli
contro la guerra e il tradimento della socialdemocrazia, articoli che sarebbero
poi stati raccolti nel volume di Lenin-Zinoviev intitolato «Controcorrente"
(Parigi, 1926).
Il marxismo non ha mai fatto del successo immediato la misura della verità. Una
politica è giusta indipendentemente dal successo immediato, nella misura in cui
essa rappresenta gli interessi reali della classe su cui si appoggia.
I comunisti hanno l'ambizione di conquistare alle loro idee la maggioranza del
popolo, ma non sono così ingenui da pensare che questa conquista possa farsi in
modo regolare e tanto meno spontaneo, su una strada piana e ben lastricata,
senza ostacoli e dirupi scoscesi. Se si dimenticano questi dati elementari si
falsifica la storia, si falsifica il marxismo.
Nel 1914-1918 chi aveva
ragione? Nessuno oggi può negare che la verità stava dalla parte di un pugno
di socialisti internazionalisti, che in ogni paese erano piccole minoranze,
mentre avevano torto i socialisti riformisti che rappresentavano la grande
maggioranza dei partiti aderenti alla Seconda Internazionale e che
trascinarono, ingannandola, la classe operaia a fianco della borghesia nella
guerra imperialista.
La Rivoluzione d'Ottobre
Con questi precedenti si spiega la grande influenza avuta in Italia e
particolarmente sui giovani dalla Rivoluzione d'Ottobre. I giovani, e non solo
in Italia, trovarono in Lenin il loro «capo», la
guida ideologica, l'organizzatore della Rivoluzione. I partiti comunisti
sorti alcuni anni dopo, nel 1920-21, furono partiti di giovaniche non ne volevano più sapere di
tutto quanto era vecchio e superato. Se così non fosse stato, le scissioni si
sarebbero verificate con caratteristiche diverse, non avrebbero spezzato i
partiti socialisti con un taglio netto: da una parte i giovani e dall'altra gli
anziani e i vecchi.
Se le scissioni in Italia, Francia, Germania e negli altri paesi d'Europa
fossero state soltanto la conseguenza di dibattiti dottrinali, Lenin avrebbe
dovuto essere meglio compreso dagli anziani, i quali da anni dibattevano le
questioni (riforme o rivoluzione) che dividevano i riformisti e i gradualisti
dai rivoluzionari. Erano gli anziani che, meglio dei giovani, conoscevano i
contrasti fra le diverse frazioni del Partito socialista e del movimento
internazionale. Il fatto è che la Rivoluzione d'Ottobre (come in questi anni la
Rivoluzione Cinese, l'eroica lotta nel Vietnam e le lotte di liberazione dei
popoli oppressi in Asia, in Africa e nell'America Latina) esercitò allora sulla
gioventù un'influenza assai maggiore che non tutte le polemiche contro il
revisionismo e il riformismo che duravano da anni.
«Il nullismo opportunista e riformista - scriveva
Gramsci - che ha dominato il Partito socialista italiano per
decine e decine di anni e oggi irride con lo scetticismo
beffardo della senilità agli sforzi della nuova generazione e al tumulto delle
passioni suscitato dalla rivoluzione bolscevica, dovrebbe fare un piccolo esame
di coscienza sulle sue responsabilità e la sua incapacità a studiare, a
comprendere, a svolgere azione educativa.
Noi giovani dobbiamo saper rinnegare questi uomini del passato. [...] Cosa hanno creato,
che cosa ci hanno lasciato da tramandare? La gioventù intellettuale socialista
italiana, che non ha legame alcuno con questi uomini del passato, con questi
intellettuali piccolo-borghesi, che è libera da pregiudizi e tradizioni, che ha
acquistato maturità nella passione della guerra e carattere rivoluzionario
nello studio della rivoluzione bolscevica, è chiamata a creare quella
produzione che è specifica della sua attività storica: idee, miti, audacia di
pensiero e di azione rivoluzionaria per la fondazione della Repubblica soviettista
italiana». (8)
Anche alcuni anni dopo, nel 1926, quando in occasione del primo
anniversario della morte di G. M. Serrati, con più matura riflessione Gramsci
ritornò con accenti autocritici sull'argomento, riconoscendo che forse si era
troppo incrudelito contro le vecchie generazioni che pure avevano lottato per
formare un'organizzazione, un partito e una tradizione, riconfermò la funzione
che i giovani avevano avuto nella fondazione del P.C.I.:
«In verità
la nostra generazione, appunto perché troppo giovane, appunto perché non
si era potuta appassionare all'opera dei primi pionieri, poteva percepire più
distintamente l'insufficienza della vecchia generazione a svolgere i compiti
resi necessari dall'approssimarsi della bufera reazionaria». (9)
La reazione
A questo punto viene a proposito il precisare che non sempre la
gioventù, nei suoi slanci tumultuosi e ribellistici, si schiera dalla parte
giusta, non sempre si orienta a sinistra. In Francia, ad esempio, all'indomani
delle giornate del febbraio 1848 e della proclamazione della Seconda
Repubblica, l'aristocrazia finanziaria benché battuta riuscì a influenzare il
governo provvisorio. Questo costituì 24 battaglioni della Guardia Mobile
parigina, ognuno composto da mille giovani dai 18 ai 20 anni, tutti figli di
lavoratori, ma inquadrati da ufficiali professionisti figli della grande
borghesia.
Gli operai parigini applaudivano a questi giovani come se si trattasse di una
«Guardia proletaria» e non si
accorsero quando un'abile propaganda li orientò a poco a poco contro
di loro. Sicché furono appunto questi giovani della «Guardia
Mobile» parigina che, nelle giornate del giugno 1848,
costituirono le truppe d'assalto
contro le barricate popolari, fucilarono i loro padri e i loro fratelli,
schiacciarono la classe operaia parigina.
Ma senza risalire al 1848, basta ricordare il fascismo di Mussolini e il
nazismo di Hitler che riuscirono, entrambi, a conquistare le nuove generazioni
con un'abile propaganda.
«Il fascismo - come recentemente ha ricordato Luigi Longo - non solo
sfruttò il malcontento e le aspirazioni di certi strati popolari, ma speculò
anche sui loro migliori sentimenti, sulle stesse tradizioni rivoluzionarie e ribellistiche
delle classi lavoratrici italiane, sui sentimenti nazionali resi più acuti
dalla guerra e dai trattati di pace imperialistici. Basta ricordare che il
fascismo aveva iniziato la sua propaganda con accenti sociali e repubblicani
estremamente demagogici. Parlava di Assemblea Costituente, di Repubblica, di
soppressione del Senato, di scioglimento dell'esercito, di creazione della
nazione armata, di terra ai contadini, ecc. Tutto il contrario, cioè, di quello
che poi fece una volta arrivato al potere». (10)
Specialmente Hitler riuscì a catturare con la demagogia, in nome
dell'«ordine nuovo»nazionalsocialista, gran parte
della gioventù.
Questa fu la forza d'urto del regime fascista tedesco. I giovani tedeschi
costituirono la massa di manovra anche di quei reggimenti di
assassini che erano le S.S. I milioni di giovani che Hitler riuscì a organizzare divennero criminali e la
forza più barbara di sostegno del regime. Ma nel 1920 erano trascorsi vent'anni dalla
«svolta» del 1900, c'erano stati in Italia la guerra libica e l'intervento nella
prima guerra mondiale; gli ex combattenti, ai quali nel momento del pericolo e
dell'invasione del suolo nazionale (dopo la rotta di Caporetto) la grande borghesia aveva promesso la terra e rinnovate condizioni di vita, erano giustamente
indignati. Le promesse non
erano state mantenute. Anzi, mentre i grandi industriali e gli agrari si erano
arricchiti, gli operai e i contadini erano ritornati dalle trincee feriti, mutilati, malandati
in salute, disoccupati e più poveri di prima.
Di qui l'esasperazione
che, negli uni, si esprimeva con
1a partecipazione attiva al movimento socialista, ma anche con moti
ribellistici non organizzati e senza chiara prospettiva, con un
susseguirsi di scioperi senza obbiettivi
precisi; e negli altri, con la tendenza a orientarsi verso
il fascismo il quale, demagogicamente, all'inizio prometteva loro la
conquista violenta dei diritti di cui si sentivano defraudati. I giovani,
soprattutto gli studenti chiamati all'azione dal fascismo, erano attratti da
quel movimento; mossi da motivi «patriottici», da interessi
di classe e anche per amore della violenza, molti diventeranno le avanguardie
dello squadrismo. Alla loro testa erano per lo più ex ufficiali di estrazione
borghese che si proponevano, nel clima generale rivoluzionario e di marcia a
sinistra del 1919-20, un programma di restaurazione dell'autorità dello Stato
che stava sfuggendo dalle mani della vecchia classe dirigente liberale.
Nel suo volume «Le lotte del lavoro», il liberale Luigi
Einaudi ha scritto una pagina nella quale la «svolta» del 1900 e quella del 1920 vengono
sinteticamente messe a confronto. Dopo aver descritto gli sforzi che nel 1897 e
nel 1900 alcuni gruppi
di operai italiani compivano per dare vita alle loro organizzazioni di classe e
per sviluppare le loro lotte, Einaudi conclude:
«A tanta distanza di
tempo, riandando con i ricordi a quegli anni giovanili, quando assistevo alle
adunanze operaie sui terrazzi di via Milano a Genova e discorrevo alla sera in
umili osterie dei villaggi biellesi con operai tessitori, mi esaltavo e mi
commovevo. Quelli furono gli anni eroici del movimento operaio italiano.
Chi vide, raccapricciando, nel 1919-1920 le folle briache di saccheggi e di
sangue per le vie delle grandi città italiane, non riconobbe i figli di quegli
uomini che dal 1890 al 1900 nascevano alla vita collettiva, comprendevano la
propria dignità di uomini ed erano convinti di dover rendersi degni della alta
meta umana cui aspiravano.
Quel che erano allora
gli operai che, attraverso a persecuzioni ed a carceri, capitanavano il
movimento della loro classe, furono dal 1916 al 1921 i giovani ardenti che chiamarono gli operai
alla riscossa contro il bolscevismo». (11)
Le considerazioni del «liberale» Luigi Einaudi che nel 1897-1900 non
aveva celato le sue simpatie per gli scioperi degli operai biellesi e genovesi
e per l'ascesa del movimento operaio, sono superficiali ed inaccettabili. La
realtà è che, spostandosi sempre più a destra, nel 1919-1920 nel suo
conservatorismo Einaudi non era più in grado di comprendere e di distinguere da
quale parte stessero gli oppressi e da quale parte gli oppressori. Egli
accomunava così in massa le folle «briache di saccheggio e di sangue», senza avere
il coraggio di dire (neppure dopo la caduta del fascismo) che quei giovani
«ardenti» che chiamavano gli italiani alla riscossa contro il bolscevismo,
erano gli «squadristi», erano i fa- scisti ai quali i liberali prestarono il
loro appoggio. È vero che gran parte di quei giovani erano trascinati a lottare
contro il movimento operaio perché ingannati da un programma che il fascismo
non avrebbe mai mantenuto, erano lo strumento dei grandi industriali che
temevano «avanzata» della classe operaia e del socialismo.
Il cinismo di classe e la incapacità autocritica di Luigi Einaudi si stemperano
in una amara considerazione non priva di qualche elemento di verità:
«Purtroppo la natura umana è cosiffatta da
repugnare alla lunga il
vivere quieto e tranquillo. Se questo dura a lungo, è la quiete della
schiavitù, è la mortificazione dello spirito. Alla quiete, che è morte, è
preferibile il travaglio che è vita». (12)
Ma gli anni eroici del movimento operaio, seppure sconfitto, non erano
finiti. Durante l'intero ventennio della dittatura fascista, in Italia la
gioventù comunista lottò contro il fascismo affrontando ilTribunale speciale, la tortura e la
galera, organizzando scioperi e agitazioni, sia pure per diversi anni
sporadiche e limitate, accorrendo in Spagna a battersi nelle Brigate
Internazionali negli anni 1936-1938. Dobbiamo però riconoscere che si trattava
di piccole minoranze, di fronte alla massa dei giovani che in tutto quel
periodo e con i mezzi più diversi, il fascismo era riuscito a influenzare, a
ingannare e a conquistare.
Fu soltanto nel 1942-1943 quando, in seguito alla crisi e alle sconfitte del
regime, scesero in campo non più gruppi isolati e ristretti, ma leve intere di
giovani, quelle leve che costituivano la nuova generazione cresciuta alla
scuola stessa del fascismo, che per il regime cominciò a essere segnata la
fine.
Dagli scioperi del marzo 1943 alla Resistenza molti giovani furono alla testa
delle lotte di massa e della guerra partigiana. Si ebbe inoltre l'incontro tra
antifascisti delle generazioni anziane e quelli delle nuove generazioni. L'80
per cento dei partigiani combattenti nella Resistenza (lo abbiamo documentato
altre volte) furono giovani operai, contadini, studenti. È vero che in parte
lessi erano antifascisti per tradizione, influenza familiare ecc., ma la
maggioranza era cresciuta alla scuola del fascismo, nolenti o volenti essi
avevano partecipato alle criminali imprese belliche del fascismo e di comunismo
non conoscevano nulla.
I quadri dirigenti della Resistenza furono costituiti da antifascisti la cui
età andava dai 30 ai 40 anni, ma 1'80 per cento dei combattenti erano giovani
dai 18 ai 25 anni. Senza la partecipazione massiccia di questa gioventù la
Resistenza non avrebbe avuto l'ampiezza e il peso che ha avuto, e i suoi limiti
sarebbero stati assai maggiori.
Il male del secolo
La discussione sui giovani e sulle nuove generazioni riprese
nell'immediato dopoguerra.
Non pochi
«antifascisti» dell'ultima ora, gente che per vent'anni aveva dormito, risvegliandosi
soltanto agli schianti dei busti abbattuti di Mussolini e dei bombardamenti che
distruggevano le nostre città, e con essi non pochi corresponsabili del
fascismo, dopo la Liberazione tentarono di rifarsi una verginità antifascista
cercando di buttare sulle spalle dei giovani responsabilità e colpe che erano
le loro.
Pochi giorni dopo il suo arrivo in Italia, Palmiro Togliatti reagiva
vivacemente a tanta perfidia scrivendo sull'«Unità» del 9 aprile 1944:
«La prima cosa che si deve dire è che noi non
abbiamo nessun rimprovero da fare ai giovani. Semmai sono i giovani che hanno
dei rimproveri da fare a noi. Le giovani generazioni italiane sono state dal
fascismo ingannate e tradite e, per riuscire a ingannarle e a tradirle, il
fascismo le ha con la violenza isolate dalle grandi correnti moderne e
progressive di pensiero e di azione. Sarebbe assurdo pretendere che i giovani
italiani fossero diventati in vent'anni di fascismo, democratici o liberali,
comunisti o socialisti, cioè avessero percorso per virtù loro un cammino che
l'umanità impiegò decenni e secoli per percorrere».
Togliatti metteva giustamente in
rilievo come le
giovani generazioni
fossero state ingannate da quei gruppi che, per divorare tutte le ricchezze del
paese, avevano gettato l'Italia in una guerra antinazionale e di rapina, in una
guerra nella quale i giovani erano stati le prime vittime. Non c'era nulla di
strano - affermava Togliatti - nel fatto che masse di giovani dell'Italia
meridionale, i quali praticamente non avevano conosciuto gli orrori del
fascismo dopo 1'8 settembre 1943 né quelli dell'invasione tedesca, fossero
disorientati e ancora incerti sulla strada da prendere.
«Non ultimo tra i motivi che determinano questa loro
posizione è senza dubbio il sentirsi in un modo o nell'altro considerati
da molti come particolarmente responsabili del fascismo. Ma è troppo comodo
dare ai giovani le colpe che essi non hanno. Il fascismo fu il governo
tirannico e antinazionale degli avidi gruppi privilegiati e della plutocrazia
del nostro paese, ed è fare ai giovani un'offesa sanguinosa considerarli come
autori e sostegno di questo regime, di cui essi furono, piuttosto, le vittime e
lo zimbello».
Chi avesse voluto
scendere sul terreno di individuare i responsabili di certi orientamenti ideologici, avrebbe
semmai dovuto rivolgere l'accusa a quella generazione di intellettuali che,
ancora prima
della precedente guerra mondiale, dopo aver tanto strepitato intorno a un
«rinnovamento» della vita italiana, era capitolata di fronte alle correnti corruttrici che avevano preso il
sopravvento.
La causa di certe degenerazioni bisognava cercarla nell'orientamento ideologico reazionario della
classe dirigente italiana che aveva radici assai
profonde nella storia del paese. Togliatti continuò affermando che:
«All'ordine del giorno è
oggi in Italia un arrovesciamento di generazioni ed è nell'interesse di tutti
che esso si renda consapevole e si compia rapidamente, in modo tale che faccia
dei giovani, nel loro insieme, una forza avanzata nella lotta per distruggere
il fascismo, per strapparne tutte le radici e spingere
decisamente il nostro paese sulla via del progresso».
E, dopo aver indicato come da Roma in su, nell'Italia Centrale e al Nord, i
giovani combattevano e costituivano il nerbo della resistenza nazionale contro
i tedeschi, Togliatti concluse il suo articolo con questo ammonimento:
«Guai a noi se a questo impulso eroico che si è manifestato sul terreno
dell'azione armata per la liberazione della patria non sapessimo far
corrispondere un impulso di rinnovamento in tutti i campi della vita nazionale.
I giovani avrebbero ragione di rivolgersi contro di noi, e un'altra volta li
vedremmo finire miseramente, preda della menzogna imperialistica e fascista,
strumento di fatali nuove avventure reazionarie». (13)
In un suo interessante
discorso ai giovani, tenuto a Roma il 26 novembre 1944, Mauro Scoccimarro,
allora ministro per l'Italia occupata, polemizzò con il liberale Benedetto
Croce il quale aveva affermato che un problema dei giovani «non esisteva», dal
momento che la funzione dei giovani era soltanto quella di «maturarsi, di
divenire uomini». Perché, si chiedeva il compagno Scoccimarro,
Benedetto Croce dimostrava tanta incomprensione riguardo ai giovani?
In primo luogo ciò era da attribuirsi alla errata concezione crociana del
fascismo, considerato alla stregua di una aberrazione mentale; in secondo luogo
al fatto che il «mondo dei giovani», per Benedetto Croce, non andava oltre
quello studentesco e per di più ristretto alle classi privilegiate, con totale
esclusione quindi dei giovani operai e contadini; in terzo luogo perché un
radicato istinto conservatore faceva intuire all'anziano filosofo come
l'esigenza delle nuove generazioni fosse quella di un radicale rinnovamento della
società italiana.
In altre parole, era venuto appunto il momento di un «arrovesciamento di
generazioni» e, per quanto riguardava la disastrosa eredità lasciata dal
fascismo anche sotto l'aspetto dei rapporti fra generazioni, Scoccimarro faceva
alcune pertinenti osservazioni:
«Una parte della popolazione, quella che
supera i 40 anni, fu dapprima democratica. Poi, e qui intendo riferirmi in
particolare alle classi dirigenti, una gran parte rinnegò la libertà e la
democrazia, si identificò o comunque si accomodò al regime fascista, sfruttando
in ogni caso, con o senza tessera, nel proprio interesse la tirannide fascista.
Oggi tutta questa brava gente, che dal fascismo si è lasciata corrompere nel
modo più ignobile, si affretta a rivestirsi di nuove spoglie democratiche, che
mal ricoprono però la devastazione compiuta nei loro animi dalla ventennale
corruzione fascista. Tutti costoro, nella maggior parte hanno perduto o
compromesso il loro prestigio, la loro autorità morale e quindi la capacità e
possibilità di poter assolvere a una funzione direttiva nella vasta opera di
rinascita nazionale che oggi si impone.
Seguono le generazioni
che si possono comprendere tra i 40 e i 25 anni. Esse non hanno realmente
vissuto l'esperienza di un regime democratico. Si sono sviluppate e maturate
essenzialmente in regime fascista. In esso però hanno vissuto abbastanza a
lungo per subirne più o meno l'influenza corruttrice e sono oggi legate a
posizioni e situazioni sociali definite.
Tuttavia proprio
perché nulla esse hanno veramente conosciuto all'infuori del fascismo, si ritrovano fra di loro in più
larga misura delle forze sane che oggi si rendono conto di ciò che veramente è
stato il fascismo. [...]
Seguono poi le
generazioni dai 25 anni in giù. Esse costituiscono veramente la parte più sana
della popolazione italiana. Nati e vissuti in regime fascista, questi giovani non hanno
esperienza politica diversa dal fascismo, ma di esso non hanno subito compromissioni, né si trovano oggi
legati a particolari interessi e situazioni sociali da difendere.
Una conseguenza che deriva da tale obbiettiva constatazione di fatto è che, nei rapporti tra generazioni, noi ci
troviamo in Italia in una situazione del tutto anormale.
L'esperienza storica insegna che in una società equilibrata in condizioni
normali di sviluppo, esiste sempre nei rapporti tra generazioni una correlazione tra
la gerarchia dei valori morali
e quella delle funzioni politiche e sociali.
Nei periodi di
squilibrio e di crisi profonda questa corrispondenza viene a mancare, seppure addirittura non si
rovescia». (14)
In Italia ci si
trovava appunto in un periodo di squilibrio e di crisi profonda perché, nei
direttivi e nelle funzioni più elevate della organizzazione politica, economica
e sociale, in parte erano rimasti i vecchi arnesi del fascismo e in parte erano
ritornati gli uomini della vecchia Italia prefascista, ossia coloro che avevano
aperto le porte al fascismo e il cui prestigio morale era distrutto, e quelli
che non solo avevano capitolato, ma che durante il ventennio si erano
gravemente compromessi col fascismo.
Era impossibile risanare l'Italia se non si immettevano nella vita e nella
organizzazione politica, economica e sociale del paese le forze delle giovani
generazioni, quelle forze che il fascismo non era ancora riuscito a corrompere.
Ma ai partigiani sarebbe toccato ciò che era accaduto ai reduci della prima
guerra mondiale: quando questi, dopo tante promesse a loro fatte e non
mantenute, protestarono e si rivoltarono, ebbero come tutta risposta le
bastonate della Guardia Regia. I liberali Nitti e Giolitti, come scriverà
Curzio Malaparte (15), tentarono di
risolvere con misure borboniche e con mezzi di questura, in nome del
liberalismo e della democrazia, i problemi morali e materiali dei combattenti.
Anche nel secondo dopoguerra i partigiani e gli antifascisti che avevano
combattuto sul serio contro il fascismo, dopo essere stati inclusi (poche
migliaia, a dire il vero) nella Polizia e nelle Forze armate, ne furono
cacciati due anni dopo, nel 1947. Così come furono destituiti dal governo i
questori e i prefetti nominati dal C.L.N. e sostituiti con vecchi funzionari
fascisti tornati al loro posto. Per di più cominciò una campagna di arresti,
persecuzioni e processi contro i partigiani che furono chiamati a rispondere
degli atti di guerra compiuti in difesa della patria durante la lotta armata
contro i tedeschi e i fascisti.
Nel 1952 venne approvata alla Camera una legge già varata nel 1947 e che
prolungava per altri 5 anni la ineleggibilità dei gerarchi responsabili del
regime fascista. Ma bastò lo scioglimento anticipato del Senato perché tale
legge non passasse. Sicché quei dirigenti politici antifascisti che erano stati
nominati senatori di diritto per le gravi condanne subite dal Tribunale
speciale furono mandati a casa e, al loro posto, subentrarono alla Camera e al
Senato, non certo le giovani leve delle nuove generazioni, ma i relitti dello
squadrismo fascista, i persecutori e i carceri eri degli antifascisti.
Questa la situazione che, fin dai primi anni dopo la Liberazione, creò gravi
disillusioni e malcontento. E non ricordiamo qui tutti gli altri motivi di
insoddisfazione, a cominciare dall'arbitrario comportamento della magistratura
nella interpretazione di certe leggi di amnistia, che finì con il mettere in
libertà tutti i fascisti anche se colpevoli dei crimini più efferati, fino alla
negazione del voto ai giovani tra i 18
e i 21 anni.
«La prima resistenza e
opposizione all'attuazione del programma politico e sociale (presentato dai
comunisti) venne dalle autorità anglo-americane di occupazione, che impedirono
l'adozione rapida delle misure economiche necessarie e richieste dalla
situazione, costrinsero tutto il movimento a un enorme ritardo e, nel frattempo,
dettero mano alla rianimazione del fronte reazionario. In questo primo periodo,
una più forte pressione dei comunisti e dei socialisti alla testa del popolo
sarebbe però forse riuscita a spingere avanti tutta la situazione. [...] Il
sopravvento dei reazionari alla direzione politica significò prima di tutto
l'arresto di qualsiasi tentativo di riforma economica. La ricostruzione nell'interesse
di tutti si è arrestata, è stata compiuta nell'interesse dei vecchi gruppi
privilegiati». (16)
Il male di quegli anni non si può dire scomparso. Non fu cosa di due o
tre anni quello che, parafrasando De Musset, ho chiamato nel titolo il «male del
secolo» è piuttosto la
malattia di questi trent'anni, dalla quale non può certo dirsi che l'Italia sia
guarita.
«Tutto il male del
secolo presente viene da due cause: il popolo che è passato per il '93 e per il
1814 porta nel cuore due ferite. Tutto ciò che era non è più; tutto ciò che
sarà non è ancora. Non cercate altrove il segreto dei nostri mali. Supponete un
uomo, la cui casa cadeva in rovina: egli l'ha demolita per costruirne un'altra.
Le macerie giacciono sul suo terreno ed egli attende pietre nuove per il suo
nuovo edificio. E al momento in cui è pronto, maniche rimboccate e piccone in
mano, a tagliare i suoi massi e a fare il suo cemento, gli si viene a dire che
le pietre mancano e lo si consiglia di dare una mano di bianco a quelle vecchie
per trarne partito». (17)
Queste «Confessioni d'un figlio del secolo» sembrano
scritte per illustrare i primi anni del nostro dopoguerra e
non si può dire che abbiano perso del tutto, ancora oggi, la loro validità.
I giovani che avevano partecipato alla Resistenza, demolendo la vecchia Italia
sulla quale si era retto il fascismo e ormai in rovina, si erano battuti per
costruirne una nuova, per realizzare un regime di democrazia progressiva, per
attuare le necessarie riforme di struttura. Invece, fino a oggi, tutto si è
risolto nel «dare una mano di bianco»
alle vecchie strutture; il che, oltre a molte insoddisfazioni, ha lasciato il
paese sotto la ricorrente minaccia del pericolo di involuzione reazionaria e
fascista.
Il sussulto delle
nuove generazioni
Questo il motivo per cui, nei primi anni dopo la Liberazione, molti giovani
parvero assumere atteggiamenti «qualunquistici», e a torto furono
anche accusati di essere «indifferenti»
alle lotte politiche. In realtà non eravamo sufficientemente
riusciti ad avvicinare i giovani, a conquistarli, a dar loro una chiara
prospetti va per l'avvenire.
Non fu il 1968 a risvegliare i giovani. Il movimento del 1968 fu soprattutto
studentesco, ma già il 1960 aveva portato sulle piazze la nostra gioventù,
richiamando tutti alla realtà dei fatti, al problema dei giovani cui non si era prestato,
fino a quel momento, sufficiente attenzione. Ci vollero i moti di Genova,
Reggio Emilia, Palermo e Catania del luglio 1960 perché tutti si accorgessero
che i giovani stavano alla testa delle manifestazioni di lotta delle masse
popolari contro il fascismo.
Ciò colse di sorpresa anche chi, come noi, non si era mai associato a certe
condanne dei giovani, ai quali in ogni caso non poteva certo essere
rimproverato di non essersi mossi prima. Ancora una volta, da parte dei partiti
antifascisti, si trattava di fare piuttosto un'autocritica che una critica.
La partecipazione dei giovani con tutto il loro slancio aggressivo e il loro
coraggio alle manifestazioni di Genova e delle altre città italiane dimostrò
come la democrazia e la Resistenza fossero ancora ben vive e avessero
conquistato la gioventù, quando si trattava di lottare contro il fascismo.
Vi furono le prime ampie discussioni. le interviste e i dibattiti sul
comportamento della gioventù operaia, studentesca e contadina.
«Una prima conclusione, che non esime nessuno, neppure noi - scrisse allora
Gian Carlo Pajetta - da un'autocritica, è quindi che non siamo di fronte a una
contrapposizione di generazioni, a un'Italia giovane che si ribella contro i
partiti e gli uomini politici, che ripudia gli insegnamenti, le tradizioni e
programmi. È tipico invece di tutte le ribellioni giovanili di ogni settore, in
ogni manifestazione, dalla scuola alla fabbrica, alla rivolta del disoccupato,
alla protesta del soldato, di avere come bandiera la Costituzione della Repubblica». (18)
Si trattava di una giusta conclusione, anche se un po' forzata e non aliena da
un certo ottimismo retorico, subito corretto alcune righe più avanti quando
aggiungeva:
«Certo, c'è qualcosa di nuovo. Se non c'è contrapposizione di generazioni, ma
lotta sociale e politica, per cento segni si può dire che a una svolta di
generazioni siamo arrivati. [...] Non accettano di prenderle, diceva un vecchio
compagno: loro vogliono darle». (18)
Un po' tutti arrivarono alla conclusione che. dopo un lungo ciclo di battaglie
difensive e di battute d'arresto (a differenza di oggi, occorre ricordare agli
immemori la difficile situazione in cui si trovavano gli operai nelle
fabbriche, l'arretramento delle Commissioni interne, la mancanza di unità
sindacale, le difficoltà a realizzare gli scioperi), la democrazia italiana si
rimetteva in cammino.
«I moti del 1948 - scrisse Carlo Levi - furono un residuo
della Resistenza. I dieci anni che seguirono furono di silenzio, di immobilità,
furono portati all'estremo i caratteri di regime dei gruppi dominanti. Furono
anni di restaurazione e anche di maturazione, fino a che oggi entra in campo la
generazione dei giovani». (19)
Palmiro Togliatti, riconoscendo che gli avvenimenti del giugno e del
luglio 1960
avevano imposto a tutta la nazione italiana il problema
reale delle nuove generazioni, vi vide un valore immediato e facile a cogliere,
ma anche un valore più profondo che si riferiva a tutto lo sviluppo delle lotte
politiche, civili e sociali nel nostro paese.
«Il valore immediato sta nel riapparire dell'antifascismo sulla scena della
vita nazionale, col suo volto serio, sereno e fiducioso in pari tempo. [...] la contraddizione
della nostra vita nazionale sta proprio nell'esistenza, da un Iato, di una
maggioranza della popolazione politicamente attiva che ha compreso la necessità
di un cambiamento e, dall'altro lato, di un gruppo che da dieci anni detiene il
potere nelle mani e non vuole cambiare strada. Ma la gioventù italiana, che
sente di non essere più sola nel mondo e vede trasformarsi dappertutto i
rapporti sociali, nei paesi che hanno raggiunto il socialismo e in quelli che
si sono liberati dal potere coloniale, non vuole restare immota.
La caratteristica della gioventù di oggi sta proprio nel desiderio di cambiare,
nella volontà di vivere una vita diversa da quella vissuta sino a ieri. Alle
volte questo desiderio si manifesta addirittura come una rivolta». (20)
Tutti si erano accorti
che uno spirito nuovo animava il paese e specialmente i giovani. Ferruccio
Parri, constatando che gli avvenimenti di Genova avevano segnato il punto
culminante di involuzione dello Stato repubblicano, osservava che essi, con la
vittoria ottenuta, segnavano altresì il punto di partenza per l'avvenire:
«I giovani avvertono con chiarezza i pericoli della politica che ha
portato l'Italia ad un governo D.C.-M.S.I. e perciò si richiamano alla
Resistenza, al valore che essa ha espresso ed esprime, ed a quello Stato che da
essa avrebbe dovuto sorgere.
Tutti noi dobbiamo tenere conto di questo fatto che è nuovo e importante: non dobbiamo
tradire né la loro attesa né la nostra responsabilità». (21)
Il governo D.C.-M.S.I. che si chiamava Tambroni, ora che scriviamo si chiama Andreotti-Malagodi. Sono
trascorsi 13 anni e (pur tenendo conto dei mutamenti avvenuti nella
situazione italiana e internazionale) siamo arrivati ad una analoga stretta.
Non c'è tempo da perdere nella «mobilitazione » di tutte le forze democratiche
e popolari contro il fascismo.
Nel luglio 1960, forse per la prima volta dopo la Liberazione, giovani operai e
giovani studenti scesero uniti nella lotta contro il fascismo e si trovarono
dalla stessa parte della barricata; si realizzò nello stesso tempo una
saldatura tra gli anziani della Resistenza di ieri e i giovani della nuova
resistenza.
Da quel momento fu posto il problema di rendere stabile e permanente quella
saldatura: problema non facile e non ancora del tutto risolto oggi. Vi sono
infatti giovani che ritengono di trovare soluzione immediata alla loro sete di
giustizia e alle necessità di rinnovamento dando sfogo impetuoso al loro
istinto di ribellione attraverso atti di violenza individuale che non soltanto
non servono, ma danneggiano il movimento; d'altra parte vi sono non pochi
anziani e vecchi anzitempo che ritengono di poter realizzare l'unità scagliando
anatemi e insulti o ricorrendo a metodi «pedagogici».
«La questione si pone -
scriveva nel 1960 il
partigiano e sindacalista Luciano
Romagnoli, troppo presto scomparso - non come problema di "educazione dei
giovani", come i pedanti suggeriscono. Problemi fondamentali di educazione
della gioventù si pongono ed è la gioventù stessa a sollecitarli con forza. Ma
sono problemi che si possono risolvere prima di tutto se si dà prova di fiducia
nei giovani, se si assume tutto il loro contributo come valido e
insostituibile, se si dà loro esempio di un costume politico e democratico
invano finora da essi ricercato.
Si veda ad esempio il rifiuto dei giovani di iscriversi ai sindacati perché i
sindacati non sono uniti, e l'analoga loro posizione verso i partiti, che
potevano essere interpretati da alcuni come qualunquismo deteriore e si
rivelano invece come una rivendicazione di unità sindacale, di unità
democratica che mette in luce la sua possente carica quando nella lotta, come
nei giorni scorsi, tale unità si raggiunge.
Si veda la polemica dei giovani contro il tatticismo sindacale e politico, che
ha anch'essa a volte il sapore dello scetticismo qualunquista, ma è in realtà
la espressione di una volontà di combattimento coerente ed audace». (22)
Il movimento studentesco e la contestazione del 1968
A questo punto il discorso riguarda anni molto vicini a noi e avvenimenti
presenti alla memoria di tutti: si tratta delle occupazioni delle facoltà
universitarie in varie città italiane, del maggio francese, delle analoghe
lotte in Germania e in altri paesi, dell'autunno caldo in Italia. Le
pubblicazioni in proposito non sono poche e dovremo limitarci a citarne solo
alcune che hanno esaminato questi
avvenimenti da diversi e anche contrapposti punti di vista (23). Tutti sembrano concordi nel riconoscere che il
movimento sorto agli inizi del 1967 si sia sviluppato autonomamente, cogliendo
di sorpresa partiti, Parlamento e governo.
«Per i partiti, il
problema è più complesso, delicato e serio. Oggi il loro rapporto con il
movimento studentesco è di crisi aperta. Ma anche ai partiti tocca cominciare a
riconoscere i propri torti ed errori verso i giovani. Per anni, come la società civile, anche la società
politica dei partiti li ha respinti, pur se faceva mostra di accoglierli e
sollecitarli. Ha cercato i giovani, ma sostanzialmente per utilizzarli, non per
ascoltarne idee, proposte e proteste». (24)
Ci si accorge che il
movimento studentesco aveva una sua precisa radice politica e che soltanto così
ne poteva essere spiegata la dimensione internazionale. Al fondo della
ribellione studentesca sta infatti un rifiuto globale della società
capitalistica.
Non fu messo in discussione soltanto il modo come è strutturata 1a scuola con i
suoi ordinamenti e programmi, ma anche lo stretto rapporto tra questi aspetti e
i problemi sociali. Gli studenti cominciarono a sentire l'esistenza di un
legame indissolubile tra i loro problemi e le lotte operaie e avvertirono la
necessità di collegare le loro lotte nella scuola con le lotte operaie della
FIAT, della Pirelli e di altre grandi aziende, «santuari» del monopolio e del
grande capitale italiano.
Si riconobbe da varie parti, e più che mai da parte nostra, che quello
studentesco non è da considerarsi un movimento «settoriale», in aggiunta ai tanti già esistenti. Le
rivendicazioni degli studenti relative all'ordinamento e all'orientamento degli
studi, quindi ai programmi, ai metodi di insegnamento e alla partecipazione
diretta degli studenti alla gestione della scuola, eccetera, «sono poste non come problemi di categoria, ma
come aspetti di problemi più generali della società, cioè come momenti di lotta
contro l'autoritarismo scolastico e capitalistico, per la costruzione di una
nuova società e la creazione di nuovi rapporti tra
la scienza, la cultura, l'arte».
Luigi Longo, durante
un incontro avuto allora con gli studenti comunisti e non comunisti, oltre a
riconoscere l'ampiezza e la profondità del movimento e lo slancio col quale si
era sviluppato, trasse conclusioni di grande interesse, delle quali
riproduciamo qualche punto essenziale:
«Ad aggravare il distacco lamentato ha sicuramente contribuito una certa
lentezza burocratica, un certo tran-tran delle nostre organizzazioni di
partito, al centro ed alla periferia, che spesso impedisce di avvertire a tempo
e di comprendere, nella nostra attività di studio, di propaganda e di lavoro,
il nuovo che via via si viene creando nella realtà.
Essere presenti nella realtà del movimento non vuole solo dire registrare
quello che avviene, ma intervenire continuamente, con il dibattito e con la
azione, a chiarire situazioni, a vincere dubbi, a respingere errori.
Non si tratta di fare superficiali richiami a tesi e a schemi prefabbricati, ma
senza nessuna presunzione né di superiorità né di infallibilità si tratta di
confrontare posizioni con posizioni, opinioni con opinioni, nella loro reale
concretezza, sforzandosi ogni volta di comprendere le origini, il significato,
la portata anche di quanto a prima vista appare assurdo e distorto. Del resto
questo è il solo modo di restare nel vivo, e nel concreto delle questioni, di
misurare le nostre ragioni al confronto delle ragioni altrui e di farle
avanzare, assimilando anche quanto di buono e di valido troviamo negli altri.
Dobbiamo respingere come negativa, e direi non da comunisti, la tendenza a non
parlare delle cose sgradevoli, a tacere o a negare le differenziazioni ed i
contrasti. Non possiamo immaginare che un movimento operaio e comunista della
forza del nostro, che si pone obbiettivi di profondi rivolgimenti politici e
sociali, che deve assimilare e continuamente omogeneizzare forze politiche e
sociali diverse, che porta ogni giorno alla lotta milioni e milioni di
lavoratori e che è quindi oggetto continuamente della provocazione e
dell'aggressione avversaria, non possiamo immaginare che questo nostro
movimento possa svolgersi nella bambagia, senza dibattiti vivaci e anche senza
duri contrasti interni. [...] Possiamo ben dire che il dibattito interno,
franco e anche duro, è una forma di sviluppo del movimento quando esso non è fatto
a scopi di disgregazione e di divisione delle nostre forze. Ma io credo che,
anche in questo caso, la migliore difesa non sta nell'assumere posizioni rigide
di chiusura che poi si risolvono in posizioni di passività, ma di combattere
apertamente, vivacemente le posizioni avverse, combattendo anche, se vi sono,
gli intenti disgregatori. [...]
Il movimento studentesco, con la sua azione rivendicativa nel quadro
degli ordinamenti universitari e con i suoi dibattiti, ha posto all'ordine del
giorno un certo tipo di lotta contro il sistema e una serie di problemi di
strategia e di tattica. Dobbiamo riconoscere che, concretamente, esso ha smosso
la situazione politica italiana ed ha avuto ed ha un valore largamente
positivo, perché si è qualificato largamente come un movimento eversivo del
sistema sociale italiano». (25)
Sono trascorsi
da allora altri
cinque anni e una nuova generazione di studenti è scesa in campo.
Ruggero Zangrandi riteneva infatti che, dal punto di vista universitario, si
potesse parlare di una generazione ogni cinque anni e che ognuna portasse
problemi e visioni nuove. Quella di oggi è più vicina idealmente e nello stesso
tempo più lontana cronologicamente dalla Resistenza: più vicina alla resistenza
e all'antifascismo di oggi e più lontana dalla Resistenza di trent'anni or
sono, alla quale anzi questi giovani muovono critiche che a noi non sempre
piace ammettere, ma che non sono tutte sbagliate, come per esempio quella che
la vecchia Resistenza ha
raggiunto in parte assai modesta i suoi veri obbiettivi. Questo va detto e lo diciamo anche noi, in
contrapposizione alla esaltazione retorica dei primi anni dopo la Liberazione.
«Ci sono nell'Italia
contemporanea, per gli adulti, un'infinità di Garibaldi di cui non si può dire
male. Dio grazia, è venuta una generazione immune e innocente, che può chiamare
le cose con il loro nome». (24)
Siamo dunque ben
lontani dal dire che oggi tutto va bene, sia perché dopo il 1960 si sono avuti tentativi di golpe
(nel 1964, nel 1967 e perfino in questi mesi) sia perché una forte unità ancora
deve e può realizzarsi tra classe operaia, lavoratori e nuove generazioni che
non sono da considerarsi, ripeto, composte esclusivamente di studenti.
Oltre tutto la situazione del 1973 non è la stessa del 1968, né tutti i nostri
difetti allora sottolineati da Longo sono superati. I nostri difetti non
consistono soltanto in ritardi nel percepire il nuovo, in difficoltà
nell'affrontare la complessa situazione, nel permanere della tendenza a non
parlare di cose sgradevoli, a respingere le critiche e a scorgere in queste e
perfino nel semplice dibattito intenti di divisione e di rottura, ma anche nel
fatto che i partiti di sinistra e lo stesso Partito comunista, o almeno larga
parte di essi, non ammettono che alla base delle lotte della gioventù esista
anche una questione di generazioni.
L'attuale società e la sua crisi crescente rendono oggi particolarmente duro e
difficile ai giovani il loro inserimento nella vita sociale e nella produzione.
Non sempre si vede, diciamo pure non sempre vediamo chiaramente come,
nell'attuale società, vi siano aspetti specifici di sfruttamento e di
oppressione delle nuove generazioni; di conseguenza dimentichiamo
di esaminare a fondo quest'aspetto
della generazione
in quanto tale, dimentichiamo che essa porta in sé, come in genere è avvenuto
in ogni epoca, una carica di rivolta contro l'ordine sociale costituito.
Non di rado i giovani vengono visti soltanto come «nuovi
iscritti» da
conquistare, come nuovi elettori. Si calcola qual è il numero dei nuovi
elettori che ogni leva porta a votare e si dimentica o si sottovaluta il fatto
che milioni di giovani non hanno ancora
diritto di voto (anche se col «voto»
non si risolvono certo tutti i problemi, ci vogliono le lotte di massa). E che
questi stessi giovani, elettori o no, hanno gravissimi problemi, esigenze da
soddisfare che non trovano soluzione nell'attuale società.
Forse si è indebolita (e non
possiamo certo farne colpa ai giovani) la coscienza della necessità dell'azione
politica di massa, unitaria e permanente; la coscienza chiara che, in questa
lotta politica generale di massa, un posto e una iniziativa di primo piano
spettano alle nuove generazioni.
Ma questa persuasione
e questa coscienza i giovani non le acquistano
da soli, «spontaneamente»; anzi,
nella loro affannosa ricerca
sono portati per lo più a scegliere strade diverse e contrapposte, si
frazionano in gruppi e gruppetti poi retti da logiche settarie, in aspra
polemica gli uni contro gli altri.
Sono i partiti antifascisti, è il Partito comunista, che devono impegnarsi ad
aiutare i giovani, a prendere coscienza della necessità di un'azione politica
unitaria, di massa e permanente, nella quale i giovani possano e debbano
trovare il loro posto, non soltanto
come «strumenti» e «oggetti», ma come protagonisti principali.
L'esperienza e la vita ci hanno insegnato che quello slancio tumultuoso e
ribellistico che agitava i nostri anni giovanili e che oggi muove le nuove
generazioni, quella sete di verità, di sincerità e di giustizia erano e sono
aspirazioni giuste, non sogni chimerici. Anche se non sempre fu chiaro a noi
come realizzarle, anche se noi stessi commettemmo errori, nell'illusione di
poter realizzare subito o assai più
presto di quanto poi fu i nostri ideali. I «rivoluzionari» e non soltanto i giovani, ce
lo insegna Lenin, in genere sono ottimisti nelle loro previsioni e nelle loro
prospettive. Si tratta, beninteso, di non confondere i nostri desideri con la
realtà; ma neppure di dimenticare che il socialismo non è un sogno, bensì una
realtà che può e deve realizzarsi con la volontà e la lotta degli uomini, con
il loro lavoro, la loro azione e i loro sacrifici.
Numerosi giovani temono di essere ingannati. Essi rifiutano di camminare sulla
strada della decadenza, combattono risolutamente
gli «attendisti»
e i disfattisti. Altri esitano, sentono che qualche cosa non va più, non sanno bene che cosa
e soprattutto non sanno bene che cosa fare.
Tutti provano una repulsione quasi fisica per le parole che non corrispondono
ai fatti, per le parole che nascondono una realtà diversa, per coloro le cui
parole non sono altro che un mezzo per tenere occupati i cervelli con ogni
cosa, salvo che per andare veramente a fondo delle cose; quindi ripudiano le parole
che non sono altro che espressioni di vanità.
Questa reazione dei giovani è sana. Essi vogliono che il valore fiduciario
della parola corrisponda a un valore reale, al valore oro. Molti giovani
finiscono perciò per essere indifferenti e diffidenti davanti a ogni discorso,
da chiunque pronunciato, perché temono di essere ingannati. Temono in primo luogo
di essere «strumentalizzati»
e trasformati in «oggetto». Fiutano dappertutto, a torto o ragione, la «propaganda»
nel senso peggiore della parola.
Il loro atteggiamento è positivo se significa rifiuto della menzogna
convenzionale e dominante, ma è insufficiente, troppo esclusivista e pericoloso
se diventa aprioristico, perché tale atteggiamento impedisce generalmente di
vedere proprio la trappola che si vorrebbe evitare.
Come orientarsi se non si crede più a nulla, a nessuna organizzazione, nessuna
direzione? Come intervenire concretamente sugli avvenimenti, se si ignorano o
si assumono nei confronti dei grandi partiti della classe operaia atteggiamenti
aprioristicamente e sempre negativi?
Non facciamo di
ogni erba un fascio
Quando dei gruppi, siano essi di giovani o di anziani, si staccano dal
movimento delle larghe masse, diventano inevitabilmente delle sette con tutti i
difetti e gli errori delle sette. Una setta isolata non può essere né
sentinella né avanguardia; questa presuppone dei legami con tutto l'esercito,
con le parti fondamentali della organizzazione e delle masse.
La forza del movimento operaio e dei lavoratori non sta nell'individuo, nel gruppo,
ma nelle masse, nel popolo. Nella critica delle posizioni che riteniamo errate
e controproducenti di certi gruppi, non possiamo tuttavia fare di ogni erba un
fascio, porli tutti sullo stesso piano. Ognuno deve essere giudicato per
l'azione effettiva che svolge.
Noi non siamo certo per la politica del «tanto peggio, tanto meglio» né dello
«scontro per lo scontro» e tanto meno per la rissa o la guerriglia, ma possiamo
anche comprendere che vi siano dei giovani e non giovani i quali abbiano
perduto la fiducia nella «legalità»
democratica, che non siano d'accordo sulla possibilità di avanzare
pacificamente sulla strada del socialismo e di potervi arrivare senza scosse
profonde; ma sino a quando si tratta di idee, di opinioni, dobbiamo dibattere,
discutere, contrastare con idee e argomenti validi.
Possiamo non concordare, come non concordiamo, con le posizioni di certi gruppi
che, anche estranei all'avventurismo e allo uso della violenza individuale,
all'uso della violenza come forma di lotta politica, hanno tuttavia una linea
politica ed una ideologia diverse dalle nostre, anzi vivacemente critiche nei
confronti delle nostre. Ma alle idee si deve rispondere con altre idee e non
possiamo certo accettare che giovani e non giovani vengano arrestati,
processati, tenuti per mesi ed anni in carcere solo per avere espresso le
loro idee. Questa è
repressione reazionaria e fascista.
Ci sia consentito di riprendere quanto dicevamo al Senato il 27 gennaio 1970,
contro l'intollerabile ondata repressiva scatenata dal governo a seguito delle
lotte operaie dell'«autunno caldo»:
«I diritti di libertà in un regime democratico non sopportano
discriminazioni e gli operai, i lavoratori, i partiti democratici si sono
sempre battuti e si batteranno per difendere le libertà fondamentali ed i
diritti di tutti i cittadini. E' bene che questo lo si sappia. Tra i denunciati
vi sono operai, giovani studenti e intellettuali, autori di scritti o
responsabili di pubblicazioni e volantini durante gli scioperi o in altre
occasioni che magari ci attaccano, tal-volta aspramente.
Vi sono militanti e dirigenti di gruppi di cui noi comunisti non condividiamo
l'orientamento politico o tutte le loro posizioni politiche, e che facciamo
oggetto della nostra critica costante; ma nessuno si illuda di poter colpire e
considerare fuori dalla legalità democratica questi movimenti giovanili o
raggruppamenti politici cosiddetti minoritari e che non hanno una
rappresentanza diretta in Parlamento.
Quando si parla di sovranità popolare, non possono essere accettate, tollerate
o subite delle discriminazioni. Quando si parla di popolo s'intende tutto il
popolo. Quando la Costituzione afferma che tutti i cittadini hanno pari dignità
sociale e gli stessi diritti, è chiaro che s'intende tutti e non una sola
parte. (26)
Non si può neppure accettare che la sovranità appartenga soltanto a quella
parte di cittadini rappresentata dai partiti che siedono in Parlamento. Intanto
perché molti cittadini attivi socialmente nella produzione, nelle fabbriche,
nelle campagne, negli uffici e nelle università non hanno, perché giovani, il
diritto di voto (27), non
appartengono spesso ad alcun partito anche se fanno parte di associazioni
economiche, sindacali, culturali o politiche; e in secondo luogo perché il
Parlamento non è più il centro del potere. Centri ben più potenti sono sorti al
di fuori del Parlamento: i grandi monopoli si sovrappongono al Parlamento ed
allo Stato.
E' quindi non soltanto inevitabile, ma necessario, che si realizzino - per
contrapporsi efficacemente ai primi, insieme al Parlamento - le Regioni, gli
Enti locali con la necessaria autonomia, e una molteplicità di centri autonomi,
dai sindacati alle associazioni democratiche, con partecipazione popolare a
ogni grado delle strutture sociali.
[...] La classe
operaia, difendendo i suoi diritti di libertà e di pensiero, di stampa, di
propaganda, li difende per tutti i cittadini indistintamente. La democrazia e le libertà non sopportano
discriminazioni. Questo lo hanno compreso operai e intellettuali, per questo la
repressione di queste settimane anziché intimidire, ha dato slancio e sviluppo
all'unità tra operai e studenti tra contadini e intellettuali, ha mosso il
mondo del lavoro e della cultura.
Anche sotto
questo aspetto vi è una lunga esperienza e nessuno si lascia più ingannare dalla tigre della
repressione che, piccolina e cauta agli inizi, s limita a graffiare qualcuno, i
meno forti; ma poi le unghie, lo sappiamo, se si lasciasse fare, appena
cresciute sarebbero destinate ad affondarsi nelle carni di tutti coloro che
vorranno opporsi all'autoritarismo dei monopoli e dei gruppi di potere. [...]
Vi sono oggi in Italia,
nelle officine, nei campi, nelle scuole, nelle università possenti energie
nuove che premono, si fanno avanti, che vogliono ed hanno il diritto di
contare.
Sarebbe un grave errore
e un grave attentato alle istituzioni repubblicane all'avvenire del Paese, se
qualcuno si illudesse di poter spingere queste forze all'indietro, con la
repressione, l'autoritarismo, la violenza.
Il grande movimento dell'autunno scorso, per la sua estensione, per la sua
ampiezza, per la sua unità, non è stato soltanto un movimento puramente
sindacale (anche se economico-sindacali erano i suoi obbiettivi immediati) ma
ha avuto oggettivamente un carattere nuovo. Ha voluto aprire al Paese una
prospettiva nuova. [...]
In questo grande
movimento delle masse operaie e lavoratrici dei mesi scorsi, diretto
unitariamente dalle tre Confederazioni del lavoro, noi comunisti abbiamo avuto
la nostra parte, la parte notevole che abbiamo avuto sempre in tutte le lotte
del lavoro e della gioventù studentesca.
Siamo stati partecipi e parte importante di questo grande movimento e sentiamo
oggi l'impellente dovere di schierarci compatti dalla parte di tutti i colpiti,
di tutti i perseguitati a causa di queste lotte, come saremo domani al loro
fianco, con tutto lo schieramento democratico, nelle opere e nelle lotte per
dare - e siamo certi daranno - al nostro Paese quelle soluzioni rinnovatrici e
progressive che il popolo si attende». (28)
Non ho alcuna
intenzione di fare qui una analisi dei diversi gruppi dell'estrema sinistra né
di esaminare le loro particolari posizioni, ma è notorio che alcuni di essi,
specialmente tra gli studenti, sono tutt'altro che «gruppetti», hanno carattere
di massa e il marxismo ci insegna che ad ogni movimento di massa bisogna
rispondere con una politica di massa.
Uno studio sul
movimento autonomo degli studenti, sulle sue caratteristiche, sulla sua forza e
sui suoi orientamenti nei più importanti capoluoghi del Paese è stato iniziato
da «Rinascita» per stabilire quale sia l'effettiva situazione in atto (marzo
1973). Dalle lettere e dagli articoli pubblicati, provenienti dalle varie
città, emergono aspetti diversi, sia riguardo alla consistenza dei diversi
gruppi studenteschi sia riguardo alle loro iniziative.
«Un esempio: una iniziativa in corso a
Firenze. La vertenza dei metalmeccanici e l'inserimento nella loro piattaforma
delle rivendicazioni sul diritto allo studio hanno sollecitato il confronto tra
il movimento studentesco ed i lavoratori
[...] E' emersa inoltre, proprio nelle ultime settimane, la permanenza di una
adesione di massa nelle scuole intorno all'estremismo che si presenta con alcune caratteristiche nuove rispetto al passato. Con la costituzione del governo di centro-destra e
l'evidente radicalizzazione della lotta politica, i «gruppi» a Firenze hanno
generalmente abbandonato la vecchia linea di rissoso antagonismo con il nostro
partito e con le forze sindacali». (29)
Non meno esplicito nel
riconoscere il carattere di massa del movimento studentesco, a Milano, è stato
Claudio Petruccioli:
«Una organizzazione
politica a base studentesca, di cui vanno conosciute la struttura, la
consistenza, la linea politica attuali. Su circa 30 istituti medi superiori la
situazione è la seguente: in dieci di questi il raggruppamento assolutamente
prevalente è il Movimento Studentesco; in altri cinque il Movimento Studentesco
è parte di maggioranze formate attraverso un'alleanza con altri gruppi [...]
nella sede centrale dell'Università Statale domina il Movimento Studentesco, è
il luogo dove è nato e dove attinge tutt'ora gran parte della sua forza
politica e organizzata.
Non costituisce affatto
una forzatura affermare che, considerando i caratteri del gruppo dirigente, la
struttura organizzativa e la linea politica del Movimento Studentesco, a Milano
esiste un partito in più che, limitatamente alla città e per certi aspetti alla
provincia ed a certe zone della regione, ha quei legami e quei rapporti che
fanno di un raggruppamento non una formazione occasionaLe, ma una espressione
magari transitoria ma non casuale di strati sociali e di correnti di opinione».
(30)
«Senza entrare nel merito delle diverse analisi e proposte di iniziative, ciò
che mi sembra apparire chiaro è il riconoscimento della necessità di
realizzare, di costituire un movimento studentesco che interessi, attiri,
coinvolga un vasto arco di forze giovanili di orientamento democratico e
antifascista.
Ciò di cui si sente la necessità, è la ripresa di una lotta studentesca di
massa, su di un terreno di autonomia e specificità, ma anche di giusto collegamento con lo schieramento della classe operaia
e delle forze popolari». (31)
Tutto ciò è giusto, ma
presuppone il contatto e non l'ostracismo (specie quando si riconosce che certi
movimenti hanno carattere di massa), la discussione e non la rissa; occorre
anche comprendere che i giovani sono impazienti, guai se non lo fossero!
Riandando col pensiero al trentennale della Resistenza, è giusto ricordare che
«abbiamo vinto col consenso» (anche se non fu mai il consenso di tutti); che
siamo sempre stati, come siamo tutt'ora, per la politica delle alleanze. Ma
durante la Resistenza, nelle alleanze di chi era d'accordo di battersi contro i
tedeschi e contro i fascisti, c'era posto per tutti, non si metteva al bando
nessuno.
Quanto all'impazienza, non siamo stati impazienti anche noi alla nostra epoca?
Errori ne abbiamo commessi anche noi. Certo, questo non è un buon motivo per
lasciare, senza batter ciglio, che li commettano anche loro. Ma sappiamo per
esperienza, ce lo ricordava anche Togliatti, che:
«Di buon senso la gioventù non può vivere e direi
non può vivere l'umanità. Occorrono slanci, illusioni ed errori, cose
tutte che il buon senso ignora e condanna. Andare oltre i limiti dell'arido
buon senso è proprio sempre stato il compito di chi vuoi essere nel mondo
fermento di cose nuove, e tale ha da essere la gioventù». (32)
Per queste stesse ragioni concordo pienamente con quanto Franco
Antonicelli ha
scritto recentemente a Ferruccio Parri:
«Senza impazienza è facile cadere
nella remissività. Bisognerebbe studiare un po' più a fondo la Resistenza e la
sua politica giorno per giorno, azione per azione e il modo come si attuavano
politicamente le sue azioni. L'impazienza produceva quasi sempre dei guai:
qualche volta no, era uno stimolo. [Il nostro appello ad
«agire subito» non fu un cedere all'impazienza, ma
una ferma presa di posizione contro coloro che predicavano l'attendismo, contro coloro che in
una situazione nella quale si doveva agire con le forme di lotta più avanzate,
avrebbero voluto limitarsi alla propaganda o a una resistenza passiva, n.d.a.]. Ma quando? Quando qualche
compagno vedeva più lontano, interpretava la situazione anche alla luce del
coraggio, del tentativo, del colpo arrischiato. Cose che lasciano dubbiosi,
d'accordo, ma che vanno meditate. E meditare bisogna farlo insieme, estrarre
una lezione da una discussione.
Se i giovani delle disparate sinistre, che sono molte migliaia e non tutti
frivoli, non tutti energumeni, pensano a quel modo e si muovono a quel modo un
motivo c'è: sarà impazienza, sarà scontento, ma vogliono che le forze politiche
organizzate dei lavoratori guidino anche cercando il loro consenso. Il problema
è tutto lì:
confrontare idee e linee di azione senza disprezzarsi e calunniarsi a vicenda.
E' inutile parlare di pluralismo se non lo si accetta anche a
sinistra. [...]
Ma intanto ricordiamoci di una cosa importante, anzi primaria; che se le
deprecabili azioni maldestre e «disperate» di pattuglie si prestano al gioco
della polizia e, più in su, di tutto l'apparato statale che lo dirige, anche il
lasciare che lo Stato colpisca la forza minoritaria dell'estrema sinistra è
prestarsi a questo gioco. Il governo della tensione e dell'autoritarismo sa
benissimo che il Partito comunista non c'entra affatto con le gesta dei
cosiddetti extraparlamentari, ma sarebbe ingenuo non vedere che esso tende a
limitare, fino a chiuderli, se ci riesce, gli spazi attorno alla sinistra
istituzionale, e sgombrati li dal bersaglio-schermo dei vari gruppi, muoverà
contro obbiettivo reale, che è il movimento operaio (e studentesco, nella misura che sa
battersi insieme con quello)».
(33)
Sta di fatto che le
prigioni sono piene di giovani antifascisti. Può darsi che qualcuno di loro
abbia ecceduto, compiuto azioni inconsulte, ma è certo che per la maggior parte
si tratta di giovani denunciati per reati di opinione, incarcerati e
perseguitati pel avere sostenuto idee rivoluzionarie, giovani che si sono
coraggiosamente battuti nelle fabbriche e nelle scuole. Noi non possiamo
starcene zitti, fingere di non vedere, non esprimere solidarietà non protestare
contro questa aperta violazione della Costituzione e dei diritti dei cittadini
solo perché si tratta di giovani cosiddetti «extraparlamentari».
A parte il fatto che nelle carceri, insieme a loro, vi sono operai, studenti e docenti
comunisti, la difesa della libertà e dei diritti dei cittadini è indivisibile,
non sopporta discriminazioni, salvo quella nei confronti del fascismo.
Nessuno si illuda di poter rafforzare la democrazia e le istituzioni
democratiche con i mezzi di polizia e con i codici fascisti, nel momento stesso
in cui abbiamo un governo di centro-destra che la scia via libera alle
squadracce militari fasciste, ai loro mandanti e dirigenti missini e non
soltanto missini (è evidente la mano di gruppi reazionari interni e stranieri)
e una magistratura che, in tanti anni, non ha mai trovato un solo motivo per
applicare ne confronti del M.S.I. la legge del 20 giugno 1952, n. 645, di
attuazione della XII disposizione transitoria e finale della Costituzione la
stessa cosa è per l'unità nella lotta contro il fascismo: non possiamo fare
discriminazioni. Nella lotta contro il fascismo ci deve essere posto per tutti
e in specie per tutti coloro che sono orientati a sinistra. La lotta per
l'unità è una lotta contro tutte quelle tendenze che, malgrado le proclamate
buone intenzioni, di fatto oppongono alla realizzazione dell'unità stessa; ma
il risultato lo si ottiene discutendo e dimostrando che con l'unità, sia pure
nella diversità, si va avanti e si vince.
Noi dobbiamo criticare e respingere senza debolezze gli errori, le posizioni
sbagliate, ma anche con la volontà di assimilare quanto è assimilabile, tutto
quanto possono portare di positivo gli uomini in particolare i giovani, con i quali dobbiamo
discutere e ai quali ci unisce la lotta contro il fascismo e per rinnovare
dalle fondamenta l'attuale società.
La vita militante
degna di essere vissuta è un continuo sforzo di sintesi
tra un perfetto (ammesso che
sia «perfetto» ciò
che tale non è mai) irreale e un reale
imperfetto, in altre parole tra la teoria e la pratica. All'incrocio di
una tensione continua per realizzare l'unità che noi vogliamo hanno forte peso,
per non dire peso decisivo, sulla
realtà di ogni giorno le aspirazioni sentite e sofferte della gioventù che
vorrebbe realizzare subito ciò che in realtà non si ha la forza e la
possibilità di realizzare subito.
Per questo, invece di disprezzarsi e calunniarsi a vicenda, si tratta di
discutere, dibattere, studiare il che fare; e soprattutto lottare uniti contro
il fascismo. Per questo è auspicabile un incontro sempre maggiore, una
convergenza delle giovani generazioni e anche dei gruppi oggi dissidenti, ma
sinceramente rivoluzionari, con il Partito comunista, con la classe operaia,
con le forze popolari che esso in gran parte rappresenta.
Note
1)
Palmiro Togllattl,
Intervento al Comitato Centrale del P.C.I., 9 giugno 1961
2) Enrico Heine, Reisebilder, Vol. II, pag. 138, Milano 1935
3)
Che Du Xin, Appello alla
gioventù cinese, in
Jean Chesneaux, La Cina contemporanea, Laterza Bari
4)
F. S. Nitti, L 'Italia
all'alba del secolo XX -Discorsi
al giovani d'ltalia, Torino,
1901
5)Piero Pieri, Storia
militare del Risorgimento, Einaudi,
Torino 1962, pag. 854
6) G.
Garibaldi, I
Mille, Cappelli,
Bologna, vol. III, pag. 15
7) Lenin, Sulla gioventù e la scuola, Editori Riuniti, Roma 1954, pag. 15
8)Antonio Gramsci, Lo Stato italiano in «Ordine Nuovo», n.
36 del 7 febbraio 1920
9) A. Gramsci, Il compagno Serrati e le generazioni del socialismo
italiano, In «Stato
Operaio", n. 3 del maggio 1927 e ripreso dal Quaderno di «Rinascita»
30 anni del P.C.I., 1951
10) Luigi Longo, Tra reazione e rivoluzione, Milano 1972, pag. 130
11)Luigi Einaudi, Le lotte del
lavoro, Einaudi, Torino 1972
12) Luigi Elnaudi, op. cit
13)Palmiro Togliatti , Ai giovani, in Rinascita, n. 2 del 1944
14) Mauro Scoccimarro, I giovani
avvenire d'Italia, discorso
a Roma del 26 novembre 1944, Gioventù nuova
15)
C. Malaparte, A cuccia e zitti! - Due anni di battibecco, Milano 1955, pag. 306
16) Palmiro Togliatti, Momenti della
Storia d'Italia, Editori Riuniti, Roma 1953, pag. 159
17) Alfredo De Musset, Le confessioni di un figlio del secolo, Mondadori, Milano 1938, pag. 27
18) G. C. Pajetta, Una svolta di generazioni, in Rinascita, Quaderno La nuova Resistenza agosto 1960,
pag. 653
19) Carlo Levi, La nuova Resistenza,Quaderno di Rinascita,
agosto 1960,
pag. 358
20).P.
Togliatti, Discorso al
XVI Congresso della F.G.C.I., Genova 2 ottobre 1960, In Discorsi ai giovani, Editori Riuniti, Roma 1964
21) F. Parri, La nuova Resistenza, Quaderno di Rinascita, agosto 1960, pag. 637
22) Luciano Romagnoli, La nuova
Resistenza, Quaderno
di Rinascita. dell'agosto 1960, pag. 648
23) Tra le analisi più interessanti
ricordiamo i testi: Giorgio Napolitano, Scuola, lotta di classe e socialismo, Editori Riuniti, Roma 1970; Rossana
Rossanda, L'anno
degli studenti, De
Donato, Bari 1968; Herbert José de Souza, La gioventù come avanguardia, Feitrinelll, Milano 1968; Ruggero
Zangrandi, Perché
la rivolta degli studenti, Feltrinelli,
Milano 1968
24)
Ruggero Zangrandi, op. cit., pag. 29
25)Luigi Longo, in Rinascita, n. 18 del 3 maggio 1968
26) L'unica discriminazione possibile, anzi necessaria
e di stretto rigore perché prevista dalla Costituzione Italiana, l'unica
eccezione ammessa e che bisogna esigere fermamente è nel confronti del
fascismo, con qualunque maschera esso si presenti: o se vogliamo in base
all'art. 4 della legge 20 giugno 1952, n. 645, nei confronti
di chiunque pubblicamente esalta esponenti, principi, fatti o
metodi del fascismo oppure le finalità antidemocratiche proprie del partito
fascista
27) Malgrado la richiesta
avanzata dalle Federazioni e dal movimenti giovanili di ogni partito il 20
aprile 1945,
che «anche in considerazione del contributo di sangue e di lotta dei
giovani partigiani e patrioti, dei soldati, avieri e marinai alla liberazione
della patria, fosse concesso il diritto di voto e di eleggibilità ai giovani
che avessero compiuto il 18° anno», sono trascorsi trent'anni e tale diritto
dev'essere ancora concesso. E' questa una grave colpa della democrazia italiana
e una debolezza degli stessi partiti democratici che non si sono impegnati in
una decisa battaglia perché fosse accordato il diritto di voto ad alcuni milioni
di giovani
28) Pietro Secchia, L'ondata repressiva contro la
Costituzione e le libertà democratiche, discorso al Senato del 27 gennaio 1970. Atti del Senato della
Repubblica.
29)
Franco Camarlinghi, Il P.C.I. e
Il movimento degli studenti,
in Rinascita, n. 13 del 30-3-1973
30) Claudio Petruccioli, in Rinascita, n. 13 del 30 marzo 1973
31) G. Chiarante, in Rinascita, n. 13 del 30 marzo 1973
32)
Palmiro Togliatti, Discorso
alla Conferenza nazionale del P.C.I., Roma, 24-5-1947
33)
Franco Antonicelli, in Astrolabio, n. 2 del 28 febbraio 1973