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da Secchia, Archivio Pietro Secchia 1945-1973, Feltrinelli Editore, Milano, 1979 - Quaderno n.1 - 1954-1956, pag 277-283
Estratti e trascrizione a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

 
Pietro Secchia
 
Sul legame tra lotta economica e lotta politica *
 
4 luglio 1955
[….]
La classe operaia si trova oggi davanti a problemi complicati e difficili. Difficili e complicati perché certi problemi possono essere risolti soltanto col mutamento degli attuali rapporti di produzione e nello stesso tempo perché noi non possiamo attendere il mutamento della società attuale per migliorare le condizioni di vita dei lavoratori. Qui due errori sono possibili. L'errore di coloro che credono che noi possiamo mutare fondamentalmente e stabilmente le condizioni degli operai in regime capitalista partecipando alla riorganizzazione di questo regime, collaborando cioè con i nostri nemici di classe e l'errore di coloro che pensano che nulla può essere ottenuto in regime capitalista.
 
Dobbiamo guardarci dal cadere in questi due errori che potremmo definire di settarismo e di opportunismo.
 
La lotta per le rivendicazioni economiche non può essere contrapposta alla lotta per le rivendicazioni politiche, la lotta per le rivendicazioni parziali immediate non può essere contrapposta alla lotta per le rivendicazioni generali e più avanzate. Non si può non batterci per le rivendicazioni immediate, ma neppure dobbiamo limitarci a lottare per le rivendicazioni immediate. Marx l'ha detto in modo preciso:
 
Una lotta per l'aumento dei salari si verifica soltanto come conseguenza di mutamenti precedenti cd è il risultato necessario di precedenti variazioni nella quantità della produzione, delle forze produttive del lavoro, del valore del lavoro, del valore del denaro, della estensione e dell'intensità del lavoro estorto, delle oscillazioni dei prezzi di mercato, dipendenti dalle oscillazioni della domanda e dell'offerta e corrispondenti alle diverse fasi del ciclo industriale: in una parola, sono reazioni degli operai contro una precedente azione del capitale.
Ma in questi casi l'operaio interviene troppo tardi e in 99 casi su 100 i suoi sforzi per l'aumento di salari non sono che tentativi per mantenere integro il valore dato del lavoro.
Marx, Salario, prezzo e profitto (controllare la citazione su altro testo) (58)
 
L'operaio è considerato un uomo soltanto nella misura in cui è organizzato e forte è la sua organizzazione. L'ordinamento della società capitalista è tale da esigere che l'operaio sia mantenuto in condizioni bestiali.
 
Le "relazioni umane" di cui tanto si parla non sono altro che il tentativo dei grandi industriali di liquidare ogni relazione veramente umana, di sostituire alle relazioni sociali tra gli imprenditori e gli operai (rapporti tra CI, consigli di gestione, sindacati e l'azienda), ai rapporti collettivi dei rapporti individuali del padrone o dell'azienda con ogni singolo operaio che viene in tal modo a trovarsi in condizioni di inferiorità e completamente nelle mani del padrone.
 
Ogni azione collettiva degli operai, dei lavoratori, anche se limitata alle semplici rivendicazioni economiche, è di per se stessa un atto politico, una lotta politica (e gli industriali la considerano come tale) perché indica il grado di unità, di coesione, di coscienza della classe operaia e quindi la sua forza.
 
Uno sciopero che termina con successo crea entusiasmo, aumenta l'unità e la forza degli operai. L'insuccesso (non sempre perché vi sono battaglie perdute che, se ben combattute, rafforzano ugualmente la coscienza di classe) per contro talvolta demoralizza una parte, rallenta i legami di questa parte con il sindacato e le organizzazioni classiste, diminuisce la forza della classe operaia.
 
Uno sciopero, qualunque esso sia, anche se con carattere economico, è sempre qualche cosa di più di uno sciopero.
 
Le vittorie del proletariato sono a lunga scadenza e nascono spesso dalle battaglie perdute del presente.
 
Il sindacato non si preoccupa soltanto di affrontare i capitalisti, ma si preoccupa anche dei consumatori, dell'opinione pubblica, di avere l'appoggio, la solidarietà di una grande parte della popolazione.
 
E' regola elementare per chi organizza uno sciopero, una manifestazione di lotta qualsiasi, di proporsi un obiettivo preciso, di trovare la forma di lotta adatta alle possibilità concrete offerte dalla situazione del momento. Una manifestazione, uno sciopero non possono, non devono essere il risultato del dispetto, del malumore, di una esplosione di rabbia, di odio o di disperazione.
 
Si tratta di dare, nelle circostanze date, a seconda del caso e della località, la parola d'ordine (la forma di lotta) che meglio risponde alla forza, agli interessi, alle preoccupazioni, alle aspirazioni - reali - dei lavoratori. Utilizzare caso per caso - secondo la località e il mezzo d'azione - la forma di lotta adeguata al livello delle possibilità e al grado di combattività delle masse.
 
Alle volte piuttosto di andare incontro ad un insuccesso, ad una sconfitta, è meglio temporeggiare. Vi sono delle situazioni però in cui non si può fare a meno di accettare la lotta, di agire, perché altrimenti si sarebbe sconfitti nel modo peggiore senza essersi difesi e battuti.
 
Quale regresso dal 1936! All'evocazione di questa data gli anziani scuotono la testa e sospirano: "Si, quelli erano bei tempi", poi se ne vanno un po' più curvi. I giovani hanno sentito solo vagamente parlare di quel movimento. La maggior parte considera che la giornata del l° maggio scioperata e pagata è una vittoria e che è stato necessario che sia stato Pétain che "ce l'ha ottenuta". Tre operai, di cui un caposquadra comunista, discutevano di questo fatto. Appartato, un vecchio di 76 anni si avvicina e dice: ai miei tempi, ai tempi di Louise Michel, si festeggiava il 1° maggio con i manici dei badili. Non si sfilava come delle pecore dietro alla bandiera tricolore e ai cartelli. E a Clichy invece dei venditori di mughetti c'erano i corazzieri.
Queste frasi testuali illustrano perfettamente lo stato di prostrazione in cui si trova la classe operaia. Dai manici dei badili alle sfilate delle pecore. L'istinto rivoluzionario sembra svanire sempre più a beneficio di un neoconservatorismo inatteso.
(E. Albert, La vie dans une usine, in "Le Temps modernes", luglio 1962)
 
Dove ci porterà questo spirito neoconservatore? Noi abbiamo insegnato ai compagni a portare la cravatta, mi disse un giorno X. Ma era poi questo l'essenziale? Ammettiamo pure sia necessario anche saper portare la cravatta (per poter stringere relazioni, tenere colloqui, lavorare in dati ambienti, ecc.), ma non sarebbe più utile sapere adoperare anche il manico della pala?
 
Conosco l'obiezione: ma le alleanze? e le alleanze? Le alleanze si conquistano quando si è forti e si diventa forti lottando. Quando si è deboli si possono trovare degli alleati, ma per essere alla loro coda, dei satelliti!
 
"Risorgimento socialista" del 25 giugno, parlando di un articolo di M. Montagnana scrive: "La conclusione dell'articolo è inferiore a queste premesse e si riduce in sostanza ad una ripetizione di parole d'ordine già note, eccezion fatta per la richiesta - che riecheggia la proposta avanzata invano da Secchia alla recente conferenza del PCI - di concentrare tutte le forze del partito e del sindacato su una sola questione, quella della libertà nelle fabbriche". (59)
 
Anche altri giornali e riviste si sono accorti della proposta che io feci in gennaio alla IV conferenza del partito, proposta che allora sfuggi ai più e che fu criticata e respinta da T. e dalla commissione del congresso con il motivo che il partito deve svolgere tutte le attività. Io allora non proposi di fare una sola cosa, ma tra tutte le attività di concentrare gli sforzi su quella. (60)
 
Ma per respingere una tesi si ricorre sempre al vecchio balordo metodo di esagerarla. Comunque i risultati delle elezioni della CI hanno dimostrato che avevo ragione di insistere sulla necessità di concentrare l'attività in quel settore.
 
[….]
 
Se tu pensi sei mio avversario!!
 
Non ricordo quale generale tedesco nel corso dell'ultima guerra ha detto: "II soldato che pensa non può essere che un avversario per il suo comandante".
Purtroppo è così anche in politica. Molti ritengono che soltanto il capo debba pensare, i militanti devono ubbidire, dire di si, applicare. Sono liberi di pensare quello che pensa il capo.
 
La storia
 
Impossibile fare la storia con i se. Il tal avvenimento è accaduto nel tal modo, determinato da cause che si possono individuare in conseguenza di rapporti di forza dati e cosi via.
 
Sempre si potranno portare mille argomenti a dimostrare che era impossibile prendere un'altra strada, un diverso atteggiamento e così via. Perché nessuno può dimostrare: se avessimo preso una strada diversa, assunto un diverso atteggiamento, le cose avrebbero potuto finire diversamente, avremmo avuto la vittoria, la sconfitta di quella forza, ecc.
 
Tuttavia occorre dire che se a distanza da un certo avvenimento si ha buon gioco ed è troppo facile dire: avremmo dovuto fare questo o quest'altro per evitare la disfatta o per evitare il declino del movimento, è altrettanto facile e troppo semplicista sostenere che la strada scelta, la posizione assunta in quel dato momento era la sola possibile, e che non si poteva fare diversamente da quello che si è fatto.
 
Avendo applicato la linea d'alleanza con il Kuomintang i comunisti cinesi nel 1927 sono andati alla disfatta, non è certo evidentemente che un'altra politica fosse possibile e che la rottura con Chiang Kai-shek avrebbe permesso di evitare il disastro; ma Stalin nel 1945 non credeva neppure allora al successo della rivoluzione cinese ed è malgrado lui che Mao Tse-tung prese il potere.
Nel 1943-44 i comunisti francesi come i comunisti jugoslavi si videro consigliare da Mosca di non fare la rivoluzione. I primi si inchinarono, i secondi no. Forse che soltanto il PC in Jugoslavia poteva materialmente prendere il potere? (62)
[.…]
(M. Péju, Brest-Litovsk, in "Les Temps modernes", 1955, n. 112-113)
 
L'apprezzamento, il giudizio, la valutazione di una situazione oggettiva non sono mai del tutto obiettivi. Essi riflettono un atteggiamento o perlomeno interferiscono con l'atteggiamento. Credere possibile sviluppare un grande movimento per la conquista della libertà, per la difesa e la riconquista della libertà nelle fabbriche significa impegnarsi in un tale movimento, gettare tutte le forze nella bilancia per organizzarlo, per farlo scoppiare, significa in un certo senso modificare col giudizio stesso quella situazione che esso pretende di esprimere.
 
Al contrario, non credere alla possibilità di un tale movimento significa in una certa misura rinunciarvi, dedicarsi ad altri compiti e "conservare" cristallizzata quella "immaturità" del movimento che si pretende semplicemente di constatare.
 
Considerazioni di questo genere per quanto riguarda il movimento rivoluzionario nel suo complesso si trovano nell'articolo già citato del Péju.
 
L'importante, diceva Lenin, non è di non sbagliare mai, ma di riparare a tempo i propri errori.
 
L'oppresso, dovendo conquistare il proprio diritto alla vita, deve per forza lottare, deve ricorrere allo sciopero e alle altre forme di manifestazione e di lotta. Per contro il privilegio dell'oppressore è quello di poter quasi sempre presentarsi come il partigiano dell'ordine stabilito perché è lui che ha creato questo ordine.
 
Anche quando la Costituzione è dalla parte dell'oppresso, come nel caso nostro, il padrone la può sempre violare senza ricorrere alla lotta; gli è sufficiente non tenerne conto alcuno. La lotta è il solo mezzo di difendere i propri diritti di fronte all'oppressore.
 
Anarchismo
 
Vi è una forma particolare e diffusa di anarchismo che ha la pretesa di essere di sinistra e fa il gioco della destra ed è quello che consiste nel biasimare l'oppresso invece dell'oppressore.
 
Certuni ragionano su per giù a questo modo: il carnefice fa il suo gioco, ma la vittima non dovrebbe prestarsi. Non si tiene conto che la vittima non va volontariamente dal carnefice.
 
Perché gli operai accettano determinate condizioni, non si rivoltano al padronato, perché votano in un certo modo o in un certo altro, e cosi via? Non sono forse "liberi" di comportarsi diversamente? No, non lo sono. Tuttavia sarebbe anche un errore non condurre assieme al lavoro per organizzare le lotte anche la propaganda sulla necessità di difendere la propria dignità.
 
Sbaglia colui che attacca l'operaio, l'oppresso perché ha subito o subisce invece di attaccare il suo oppressore, ma sbaglia anche colui che non sviluppa un'attività per convincere l'operaio a non subire, a reagire, a difendere la propria dignità, i propri diritti.
 
La libertà
 
Nessuno si è mai battuto per la libertà, per il diritto in senso astratto, generale; ognuno ha sempre combattuto per la conquista della libertà e del diritto per determinati raggruppamenti sociali, per determinate classi.
 
Quello che si usa chiamare l'ordine stabilito non è che un disordine stabilito perché non supera la divisione delle classi, assicura la dominazione dell'una sull'altra e lo sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo.
 
Una concezione evoluzionista della storia conduce fatalmente al riformismo. Il riformista presenta cosi le cose: le riforme si aggiungono alle riforme, ognuna è accettata senza dolore, senza reazione violenta perché nessuna mette in causa il regime esistente e la rivoluzione si compie progressivamente senza accorgerci e senza che il nemico se ne accorga, aggiungono i furbi, quelli che ritengono che la lotta di classe proceda a colpi di furbizia. Noi "freghiamo" gli altri realizzando una riforma dopo l'altra. Si tratta di sciocchezze colossali.
 
Praticamente il riformista è un conservatore, egli cerca di curare quella società che a parole mette in questione, attenua la tensione che si manifesta e cosi consolida lo stato di oppressione.
 
Pensare di poter cambiare i rapporti di produzione, la società senza lotta, senza violenza, è assurdo. La violenza storica non è soltanto quella che si manifesta in modo clamoroso nelle guerre civili e nella insurrezione armata.
 
La "pace" sociale, la "distensione", quella che, predicata dall'oppressore, si traduce in una "contrainte" materiale dell'oppresso, la "pace" sociale, la distensione realizzata in determinate condizioni di oppressione e di supersfruttamento significano per l'oppresso l'obbligo di accettare di subire quelle condizioni.
 
Sulle occasioni storiche
 
E' sbagliato concepire la storia come un susseguirsi di occasioni che noi dovremmo saper afferrare. Passato l'autobus, perduta l'occasione, tutto sarebbe perduto, ecc. in attesa di un'altra occasione.
 
La storia è fatta dagli uomini e le occasioni ce le creiamo con la nostra attività, con la nostra lotta, con la nostra azione. Ma sarebbe pure errato pensare che non si creano e attraverso alle lotte del paese e alle lotte internazionali delle situazioni particolarmente favorevoli ad effettuare il salto o a portare a fondo una determinata azione.
 
Lasciarci sfuggire senza approfittarne in pieno una di quelle "occasioni", perdere l'autobus, non significa cosa senza importanza alcuna perché tanto c'è chi dice che l'autobus passa ogni dieci minuti. No, l'autobus non passa ogni dieci minuti (se non per andare in piazza del Duomo), l'occasione storica (e cioè la maturazione di una data situazione) non la creiamo a volontà, non si "presenta" ogni dieci minuti. Oggi o mai più, disse Lenin nell'ottobre del 1917. Se l'insurrezione non fosse stata fatta allora forse la situazione così favorevole, "le condizioni necessarie", ecc. non si sarebbero ripresentate se non dopo molti anni.
 
[….]
 
Note:
 
58) Il testo è stato restituito secondo la traduzione di P. Togliatti nell'edizione degli Editori Riuniti, 1961 (II ed., 1966, pp. 103-104 e 112).
 
59)"Risorgimento socialista" (1951-1955), organo della dissidenza comunista che si era riconosciuta nelle posizioni di Valdo Magnani e Aldo Cucchi, sulle cui vicende si v. l'articolo di Sergio Dalmasso, I socialisti indipendenti in Italia 1951-1957. Storia e tematica politica, in "Movimento operaio e socia-lista", luglio-settembre 1973, a. XIX, n. 3, pp. 169-254, in particolare al cap. II.
 
60) Cfr. IV conferenza nazionale del partito comunista italiano. Resoconto, Roma, 1955; ed ivi l'intervento alla conferenza (che si svolse a Roma dal 9 al 14 gennaio 1955) di Secchia, alle pp. 180-186. Fu a conclusione di questa conferenza che venne comunicata la designazione di Pietro Secchia, fino allora ancora formalmente vicesegretario generale del partito, a segretario regionale per la Lombardia (ivi, p. 432).
 
62) Vedi mia nota a p. 7 che ricorda il problema che io posi nel 1947. [Nota di P. Secchia. La p. 7 del Quaderno corrisponde alla p. 260 del presente volume]
 
* Titolato da resistenze.org
 

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