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da Il compagno Longo – I comunisti, anno VI, n.1, marzo 1970
trascrizione a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare in occasione dell'anniversario della morte di Luigi Longo (18/10/1980)
 
Gli scritti raccolti in questo fascicolo vogliono essere una testimonianza di affetto per il compagno Luigi Longo, in occasione del suo settantesimo compleanno. […]. Giorgio Amendola
 
Pietro Secchia
 
La svolta - Lotta politica nell'interno del partito
 
Non è la prima volta che scrivo di Luigi Longo (e più d'una egli ha scritto su di me), ma oggi mi sento un po' imbarazzato, non perché c'è sempre - l'ho detto in altra occasione - un senso di pudore, ma perché non conosco bene a quale sorta di pubblicazione sono destinate queste cartelle. Una specie di giornale collettivo, mi si è detto, in cui ognuno scriverà un pezzo. Dovrebbe essere di ricordi, di vita vissuta, con episodi inediti, di quelle preziosità oggi tanto care ai ricercatori di archivio. Chissà che cosa ne verrà fuori da questo zibaldone!
Che ne dirà Luigi Longo?
 
Ci conosciamo da 50 anni, ci incontrammo all'inizio del 1921 ad un convegno regionale della gioventù comunista piemontese, fummo subito amici. Mi colpì, ha scritto Longo, questo diciottenne che a differenza di tutti gli altri che parlavano senza appunti, tenendo infocati discorsi rivoluzionari, «fece un quadro scarno di parole, ma denso di cose, di fatti, di lavoro compiuto, di risultati ottenuti». Veramente aveva letto anche lui cose misurate, molto concrete, senza fronzoli, non gli sono mai piaciuti i castelli in aria e le elucubrazioni intellettualistiche.
 
Egli fu presto il segretario nazionale della gioventù comunista, il nostro «capo», quanto diverso dagli altri che lo avevano preceduto! Gli altri avevano tutti dell'intellettuale e, vecchi anzi tempo, un po' dei professionisti della politica. Intellettuale lo era anche Longo, ma nessuno lo avrebbe detto. Conosceva la gente che sudava, soffriva e credeva. Conosceva il duro lavoro dei contadini e quello non meno faticoso degli operai. Erano quelli i tempi in cui noi tra una riunione e l'altra trasportavamo dalla sede dell'«Ordine Nuovo», nelle diverse città del Piemonte, delle valige ricolme di armi per preparare la difesa delle nostre sedi dagli assalti delle squadracce.
 
L'ultima resistenza: Trecate, Novara, poi, invece, della rivoluzione che avevamo sognato vicina, la marcia su Roma. Il 28 ottobre a Biella restammo quasi un'intera giornata, un centinaio, forse meno, ripartiti in gruppi armati, disseminati in tre osterie della città, fingendo di giocare alle bocce; poi a sera venne l'ordine: non se ne fa nulla, dovevamo tornare a casa, alla spicciolata, senza dare nell'occhio. Roasio sdegnato e furioso come un toro; vidi altri giovani piangere per la rabbia e l'umiliazione, davamo la colpa al partito (agli... adulti, si diceva allora), dare la colpa a qualcuno è sempre uno sfogo. A che cosa erano valse tutte le nostre esercitazioni di tiro, i nostri viaggi, la nostra preparazione per fare fronte all'assalto fascista? Marx e Lenin non avevano scritto che «nella storia vi sono dei momenti in cui la lotta disperata delle masse, sia pure per un'impresa senza prospettive, è necessaria per l'ulteriore educazione di queste masse»?
 
Poi venne Longo a trovarci, a spiegare, a persuadere: «Siamo appena agli inizi, abbiamo la vita davanti, tante lotte condurremo ancora». E ci insegnò a riflettere, e a non cedere all'amarezza, a continuare anche col fascismo a organizzare gli scioperi dei giovani... attaccafili.
 
Cose concrete. Cominciamo a tessere la tela clandestina tra una riunione e l'altra, tra una bastonatura e l'altra. Quale corsa in bicicletta! Tu mi chiamavi Bottecchia, ma pedalavi ancor più forte di me quel giorno che a Mongrando avevamo alle calcagna i fascisti. Ma sfuggiti una volta, non mancava l'occasione per andare a buscarle in altri luoghi: lui a Reggio Emilia, io a Trieste, passando come tanti da un carcere all'altro.
 
Insieme rompemmo con la sinistra bordighiana (completamente d'accordo con Bordiga non lo eravamo stati mai, noi eravamo per le cellule di officina, per il fronte unico con la gioventù antifascista, per gli Arditi del popolo, ecc.) poco prima che costituissero la «frazione», il Comitato d'Intesa. Gramsci e poi Togliatti ci avevano persuasi, non senza difficoltà, non senza resistenze, non fu facile il travaglio, ma non entrammo in crisi.
 
Imparammo da Longo sin da allora a guardare avanti. Per agire bisogna non pensare al passato, aver fede, aver fede nel partito ed anche in noi stessi. Leggi eccezionali, centro interno, decine di giornali e di viaggi clandestini, di riunioni e dibattiti. Dissenso con Tasca, con Grieco, con Togliatti e con la direzione del partito. Anche quella lotta non fu facile. Oggi viene presentata un po' idilliacamente, la realtà fu diversa. Si può tacere la verità, ma non travestirla. Non era facile polemizzare con Togliatti e con le sue roventi sferzate; l'ironia e il sarcasmo di Grieco, talvolta, lasciavano il segno.
 
E' vero ci comportammo lealmente, ma non era soltanto testardaggine la tua, la nostra. Era fede nelle cose in cui si crede. Le idee non si cambiano come la camicia. Senza dubbio non tutte le cose che dicevamo erano giuste, c'era molta esuberanza giovanile. Fummo accusati di frazionismo, non era esatto, ma certo fermi non stavamo. Quando si hanno delle idee e salde convinzioni non ci sono che due strade: sostenerle fuori dal partito o nel partito. Scegliemmo sempre questa seconda strada. Ma ci vuole un po' di coraggio ad essere soli.
 
D'Onofrio era con noi, ma lui aveva fatto la scuola «leninista», il suo travaglio per l'unità, per la disciplina era più evidente, più sofferto e più conciliatore.
 
A Basilea un giorno Longo mi disse: «Tu che hai già lavorato in fabbrica a Parigi, troveremmo lavoro se dovessero escluderci dall'apparato?» Egli era già sposato, aveva due bambini. Lo avrei abbracciato. «Non ti preoccupare, gli dissi, io come manovale lavoro lo trovo in 24 ore e tireremo avanti, poi lo troverai anche tu».
 
L'insegnamento : «Non mollare!»
 
Ma il problema nostro era il lavoro, la lotta in Italia e bisognava evitare di restare staccati dall'Italia. A Basilea potevamo talvolta sentirci soli, ma non eravamo soli. La Federazione giovanile era con noi e sentivamo che larga parte del partito in Italia era con noi. Longo ci insegnò a non mollare. E le sue idee, le nostre idee, le sostenne anche Mosca, senza iattanza, ma con fermezza, sempre approfondendo le questioni, studiando i problemi. Ricordo nel 1928 un suo viaggio attraverso l'Unione Sovietica, le sue impressioni, le acute osservazioni, il suo taccuino pieno di cifre, di note: le paghe dei minatori, il guadagno dei contadini. Non è facile costruire il socialismo in un solo paese! Quanti allora, nei viaggi attraverso l'Urss non andavano oltre il turismo.
 
Ma non erano soltanto la fiducia e i nervi saldi di Longo che non ci fecero fare mosse sbagliate, fu anche e soprattutto la saggezza di Togliatti. Seppe comprenderci, pur criticandoci. Erano gli anni in cui Togliatti in "Lo Stato operaio" (ottobre 1928) ben in evidenza pubblicava una famosa frase di Lenin: «Se allontanerete da voi i buoni elementi i quali non sono particolarmente docili, e terrete presso di voi solamente i fessi che sanno essere obbedienti, è certo che manderete il partito alla rovina». Non fummo neppure esclusi dagli organismi dirigenti come Tasca e Silone avrebbero voluto, anzi da quel momento, specie da parte di Togliatti venne stimolata una sempre maggiore collaborazione di Longo e mia negli organismi dirigenti del partito.
 
Poi venne il X Plenum e la rottura con Tasca. Non ci considerammo dei vittoriosi, non ci lasciammo prendere dalle vertigini del successo. Non ci associammo a coloro che volevano rendere Togliatti responsabile delle posizioni di Tasca e chiedevano la sua testa. Non ci immischiammo nelle questioni e nelle lotte del pc sovietico e del pc tedesco. A noi interessava soprattutto la lotta in Italia. Ancora una volta Longo insegnava a guardare al presente. Più che il passato ci interessava l'avvenire. Eravamo paghi della certezza che l'indirizzo del partito sarebbe stato di una maggiore combattività, di una più forte presenza in Italia, di lotta conseguente contro il fascismo.
 
Leo Valiani ha scritto recentemente: «La svolta era invero desiderata, indipendentemente da Stalin, dalla gioventù comunista italiana diretta da Longo e da Secchia, così come dalla maggior parte dei militanti che gremivano le carceri».
 
Tredici anni tra carcere e confino, poi un bel giorno Longo arrivò a Ventotene con i suoi garibaldini di Spagna e molte esperienze in più. Molti si sono chiesti: qual è il segreto delle cognizioni militari di Longo?
 
Non c'è alcun segreto: una grande fiducia nella capacità di iniziativa e di lotta della classe operaia. Nella sua modestia mi raccontava delle battaglie combattute in Spagna con quella semplicità e una certa dose di fatalismo che gli conosciamo.
 
«Ah! voi studiate Clausewitz, il Marselli, De Cristoforis, Trabucchi»! Faceva il furbo, ma libri militari insieme a quelli di Lenin ne aveva studiati più di noi: «Tutte storie - diceva, - questi generali con le loro carte.
 
Si va in battaglia, ci si impegna e poi si vedrà. Nessuno sa prima in una battaglia chi vince. Lo decidono le circostanze, chi fa meno errori, chi è più fortunato, decide la sorte,» e mi sembrava di sentire Tolstoi in «Guerra e pace». Continuammo a studiare e Longo ci stimolava con la sua esperienza e con le molte cose che aveva appreso.
 
Ed è da Ventotene che Longo salpò con tutti noi, con tutti i suoi garibaldini e furono centinaia di quadri dirigenti politici e militari della guerra partigiana. Li ritrovammo tutti: furono l'ossatura delle nostre brigate.
 
A Roma si comincia. Longo traccia il piano della difesa contro i tedeschi che inutilmente fa pervenire a Badoglio. Carboni gli consegnò le armi. Un mattino Longo arrivò, dove eravamo riuniti, con un sacco e prese a cavar fuori, come le pagnotte quand'eravamo in carcere, pistole Beretta. Ce ne diede una per ciascuno. Quante corse attraverso Roma: Longo va da un punto all'altro.
 
L'8 settembre a Roma
 
Due giorni dopo, a sera, i tedeschi entrano nella capitale; carri armati con lunghi cannoni ricoperti di fronde avanzano lentamente sferragliando, stanno per passare sotto le nostre finestre. Un giovane alto, ricciuto, dagli occhi un po' spiritati, sta per afferrare una grande bandiera e mi dice: «Corriamo sotto, avanti!». Entusiasmante nel suo coraggio e nella sua fede, ma gli feci un cenno come per dirgli: sei un po' picchiato? Longo, sorrideva, in un angolo, imperturbabile. Passarono più di vent'anni. Pensai che quel giovane fosse caduto nella Resistenza. Due anni fa, all'inizio della legislatura, mi imbatto in un nuovo senatore: Ossicini. Lo guardo: ma è lui! Me lo confermò e ci abbracciammo.
 
I tedeschi sono ormai padroni della città. Noi stavamo già pensando ad altro. Longo catechizzava Fabrizio Onofri: «Te la senti di andare in Umbria e in Abruzzo per cercare di dare vita a bande di guerriglieri?» Egli spiegava cos'erano, come dovevano essere costituiti i gruppi, i distaccamenti, le brigate.
 
Quando Onofri tornò, entusiasta, a riferirgli di quel primo viaggio, si sentì chiedere da Longo: «C'erano poi quelle bande? E ci saranno le brigate?» L'altro lo guardò sbalordito: «Ma guarda, lo chiede a me».
 
Longo ci insegnò a guardare lontano, a prevedere, ad avere fantasia: la guerra partigiana è fatta di molte cose: di concretezza e anche di un po' di fantasia. Quando Longo stesso disegnava quei triangoli dalla stessa forma dei formaggini «Locatelli», con in mezzo la testa di Garibaldi e il nome di una brigata, molte volte quella brigata non c'era ancora. C'era soltanto un distaccamento, ma Longo era certo sarebbe diventata brigata e così fu.
 
Longo era infaticabile, deciso nell'imprimere la spinta al movimento partigiano, al nostro lavoro, a tutti noi. Dalle direttive politiche passava a quelle militari con una ricchezza di iniziative, di consigli, di cose concrete. Sempre calmo.
 
Quanti problemi! Da quelli della lotta contro l'attesismo a quelli per una più larga unità. E' stato costituito il Comitato unitario segreto per preparare lo sciopero generale, stava scrivendo un giorno. «Ma dov'è questo comitato segreto unitario?» gli chiesi. Pronto mi ribattè: «E noi chi Siamo? Cominciamo, è un modo anche questo per persuadere gli azionisti, i socialisti e gli altri». E fu il più grande sciopero generale nell'Europa occupata dai tedeschi. Fare tenacemente avanzare l'unità, tenendo duro sulle questioni di fondo. Così come tenemmo duro con Tito e con i compagni jugoslavi che in nome del socialismo volevano annettersi dei territori italiani. «Noi dobbiamo manifestarvi il nostro pieno disaccordo con voi, - scrisse Longo, a nome del Pci. - Noi siamo d'opinione che per il momento almeno la nostra decisione di principio, l'autodecisione fino alla separazione, sia assolutamente sufficiente alle necessità della lotta».
 
Dopo la svolta di Salerno, discussioni, preoccupazioni. D'accordo, dobbiamo collaborare attivamente anche con gli ufficiali badogliani, ve ne sono di sinceramente animati da spirito combattivo e patriottico. Ma se il fronte lo allarghiamo sempre a destra... «Ma chi ti dice di allargarlo a destra, di che ti preoccupi? - mi replicò Longo, - e tu allarga a sinistra». Ed ecco l'articolo «Fronte unico di tutte le forze nazionali» (« Nostra lotta» aprile 1944) dove in base ai suggerimenti di Longo è scritto che non è sufficiente che il Clen sia composto dai rappresentanti dei partiti, in ogni provincia vi sono forze notevoli al di fuori dei partiti che devono, essere rappresentate nei Clen: i contadini, i comitati di agitazione, le donne, i giovani e, quando vi sono, dei movimenti che rappresentano una forza reale, siano essi gli anarco-sindacalisti o altri gruppi, questi devono essere portati a collaborare attivamente. Longo è stato sempre uno specialista delle «interpretazioni», le direttive dall'alto si accettano, ma bisogna saperle interpretare, come per la famosa direttiva di Alexander. Così di nodo in nodo, di battaglia in battaglia, sino alla Liberazione e dopo. Ma non si può dire tutto in poche cartelle. Tutta la vita di Longo è indissolubile dalla storia e dalla lotta del Pci.
 
Le nostre speranze, le nostre delusioni, le nostre amarezze, lo scioglimento dei Cln che noi avevamo previsto come organi di potere del nuovo stato democratico, l'ambiente governativo, parlamentare della vecchia Italia che non ci piaceva. «Ma qui siamo fregati un'altra volta», gli dissi una volta che venne a Roma; lui era rimasto per qualche tempo, dopo la Liberazione, a Milano. Mi incoraggiò, «tieni duro e guarda avanti». Vi furono le lotte operaie, quelle per la terra, poi contro la repressione scelbiana, contro il Patto Atlantico, la legge truffa. Notevoli successi e anche battute d'arresto. Un giorno che scalpitavo, Longo brusco mi disse: ( il nostro partito sapeva ancora un po' di chiesa e la battuta si addiceva) «Ma che cosa ti salta in testa? Che cosa credi noi siamo? I diaconi che sostengono la coda al Vescovo!» Ah! no, non per questo... gli risposi ed egli di rimando: «Ma tu sai che c'è modo e modo, bisogna saper "interpretare"». E tenacemente consigliava, incoraggiava con ragionamenti semplici; concreti. Poi vennero il 1954, il 1956, il XX, il XXII. Travagli, discussioni, amarezze, il gran rinnovamento, qualcosa si spezzò. L'amicizia non vuole sempre dire concordanza assoluta nelle idee. Non mancarono i consigli di Longo: «Stai attento a non battere la testa contro il muro»; ma quando sento questa proposizione a me vien subito voglia di batterla, ce l'avevano detto anche durante il fascismo.
 
Guardare avanti, ancora avanti, nessun uomo politico compì mai nulla di duraturo, guardando indietro: questa la linea di Longo. Ma è venuta l'ora di fargli i migliori auguri e di cantare l'Internazionale
 
 

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