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– saggistica contemporanea - 10.03.03
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Franco Molfese
RIFLESSIONI SU STALIN
INDICE
Prefazione
Stalin come Robespierre
Connotati di classe dell'antistalinismo
Il rapporto «segreto» di Krusciov su Stalin
Stalin: un bilancio?
II testamento di Stalin
a) L’internazionalismo proletario
e i compiti storici dei partiti comunisti
b) La pace e la guerra
c) La costruzione del comunismo
nell'Urss
1 - la questione
dello «sviluppo delle forze produttive»
2 - La questione
del superamento della proprietà colcosiana
Appendice: Il giuramento di Stalin alla morte di
Lenin
La figura del segretario
del partito comunista bolscevico e capo del governo sovietico, in uno dei
periodi più difficili della storia dell' U.R.S.S. (1923-1953) riteniamo che
vada vista sullo sfondo dei drammatici e nello stesso tempo. grandiosi
avvenimenti storici di quegli anni ed ha bisogno di essere storicamente
approfondita. Il che non significa essere direttamente ispirati all'apologia e
neppure alla preconcetta ostilità.
È con questa premessa che proponiamo ai compagni ed ai lavoratori coscienti
questo breve testo: "Riflessioni
su Stalin" di Franco Molfese, pubblicato per la prima volta nel
1982 sulla rivista “Ideologia Proletaria” e che resta, tuttora a nostro avviso,
un serio e valido contributo alla riflessione.
Questo è il primo lavoro fatto dal centro documentazione popolare di Torino,
per contribuire allo sviluppo di un dibattito politico e storico, dal punto di
vista degli oppressi e dei lavoratori, con gli strumenti del marxismo e del
leninismo. nella prospettiva del ribaltamento degli attuali rapporti di forza
tra le classi
Nella prima pagina del Manifesto del partito comunista Marx ed Engels osservano
sarcasticamente che «uno spettro si aggira per l'Europa - lo spettro del
comunismo», turbando i giorni e le notti di preti e coronati, ministri
conservatori e liberali, radicali borghesi e poliziotti.
A 130 anni di distanza, quando il comunismo o, per essere più precisi, la
contrastata e a volte tortuosa transizione dal capitalismo al socialismo sta
divenendo una concreta realtà mondiale, ancora una volta uno «spettro» turba i
giorni e le notti di borghesi grandi e piccoli, di preti e di intellettuali, di
«progressisti» e democratici «puri», di «socialisti» e di reazionari: lo
«spettro» di Stalin.
Stalin è morto 29 anni fa e il suo destino in vita ha avuto un aspetto comune a
quello di molti altri uomini di grande rilievo storico che hanno guidato lotte
durissime e decisive fra contrasti politici e sociali acuti: di avere, cioè,
suscitato amore e odio intensi tra le masse umane, esaltazioni incondizionate,
giudizi apologetici e condanne categoriche senza attenuanti. Quel che,
peraltro, appare singolare nella «storia» della valutazione della figura di
Stalin, è l'accanimento e la pervicacia con i quali i suoi detrattori,
utilizzando le centomila bocche dei mezzi di comunicazione di massa attive nel
mondo capitalistico, continuano a condannare, a falsificare o a tacerne l’opera
pur dopo il trascorrere di un intero periodo storico. Dato che i procedimenti
di tale instancabile campagna di tutti i settori della borghesia internazionale
sono tutt’altro che scientifici e «storiografici», è evidente che una grande
lotta politica e di classe continua a svolgersi intorno alla figura e all'opera
di Stalin.
Un primo aspetto che colpisce l'osservatore è l'analogia della vicenda storica
di Stalin con quella toccata a Robespierre: due grandi rivoluzioni, l'una
borghese, l'altra proletaria; due dittature, quella giacobina e quella
leninista-staliniana; due "Termidori", ossia due colpi d'arresto, due
riflussi, due assestamenti delle rispettive rivoluzioni, che coincidono
all'incirca con la scomparsa dei due capi eminenti. L'analogia o, quantomeno,
il precedente sembra estendersi anche alle vicende del giudizio storiografico.
Robespierre per quasi un secolo venne considerato dagli storici e dai borghesi
post-controrivoluzionari soltanto come il responsabile principale del terrore,
il «mostro assetato di sangue», colui che aveva deviato il corso della
rivoluzione dalle supposte idilliache destinazioni. Eppure col tempo, ossia
seguendo il corso alterno delle lotte di classe in Francia per buona parte del
secolo XIX (che furono essenzialmente una continuazione e uno sviluppo della
grande rivoluzione) e con l'esperienza teorica e pratica delle nuove grandi
rivoluzioni - proletarie questa volta - che, fra l'altro, riveleranno
l'esistenza di determinate «leggi della rivoluzione», il giudizio degli storici
più penetranti e via via il giudizio storico generale su Robespierre si
modifica e infine si capovolge. Così si è visto che la grande rivoluzione
borghese della Francia fu salvata dalla ferrea dittatura giacobina che
organizzò la resistenza vittoriosa all'aggressione reazionaria esterna e lo
schiacciamento di quella interna, trovando l'alleanza delle masse contadine.
Inoltre si è compreso che soltanto la dittatura giacobina poté spingere
l'eterogeneo moto politico rivoluzionario fino ai limiti politici e sociali
estremi (temporaneamente sorpassandoli) compatibili in quel tempo con gli
obiettivi perseguiti dalle forze motrici fondamentali della rivoluzione.
Si può intravedere qualcosa di simile nella valutazione dell'opera di Stalin?
Riteniamo di sì per almeno tre ragioni di fondo. La prima, è che la figura di
Stalin rimane emblematica per una parte considerevole del proletariato
mondiale, di vari partiti del movimento comunista internazionale, dei
combattenti antifascisti e dei popoli oppressi che si oppongono alla sua condanna.
In secondo luogo, perché la Rivoluzione d'Ottobre «continua» nel nostro secolo
sul piano mondiale attraverso i conflitti sempre più acuti fra imperialismo e
socialismo. In terzo luogo, perché il giudizio su Stalin non è soltanto affare
di studiosi versati nella particolare metodologia della storiografia ma appare
sempre più come una questione di classe di importanza storica mondiale.
Sull'antistalinismo della grande borghesia «laica» o clericale, «democratica» o
autoritaria che sia, non c'è da spendere molte parole. Esso coincide con l'odio
viscerale, classista verso il proletariato, il suo moto politico ed economico
di emancipazione, la sua teoria rivoluzionaria, il suo potere, là dove è stato
costituito. Essa non perdona a Stalin di essere stato l'organizzatore più
intransigente della disfatta del fascismo, ma non può dirlo apertamente, in
omaggio alla «democrazia» cui anche gli imperialisti e le multinazionali sono
costretti oggigiorno a tributare i salamelecchi di rito. Un aspetto grottesco è
certamente quello della virtuosa indignazione della grande borghesia per le
«repressioni» staliniane nei confronti dei «rivoluzionari» che la grande
borghesia, per parte sua, discrimina, perseguita, getta in carcere o sopprime
fisicamente ogniqualvolta sia in condizione di farlo.
Connotati di classe
dell'antistalinismo
Il discorso diviene più serio ed articolato per la piccola borghesia, che è il
terreno d'elezione di un antistalinismo bifronte. Nella società capitalistica
sviluppata, monopolistica, i vari strati sociali che si suole raggruppare sotto
il termine comune di piccola borghesia, continuano a basarsi sulla piccola
produzione, sulla piccola proprietà perlopiù parassitaria e sul commercio,
anche se lo sviluppo di un'«economia sommersa» (il che significa in buona parte
illegale) e del settore terziario dei servizi ausiliari della produzione e
della distribuzione, accresce quantitativamente la piccola borghesia che si
cimenta - congiuntura economica permettendolo - in imprese di varia natura di
cui non poche superflue e talune decisamente dannose. Soggetta ad un ricambio
incessante per cui una minoranza soltanto della piccola borghesia ascende al
rango superiore mentre dall'altro lato settori consistenti slittano o franano
continuamente nei ranghi del proletariato, la mentalità piccolo-borghese è
necessariamente il riflesso dell'instabilità sociale, dell'insicurezza e
dell'impotenza economica della classe. Essa si distingue perciò per la mancanza
di energia e di grandi iniziative, per un timore cronico, per la
contraddittorietà delle sue vedute culturali e filosofiche, sociali e
politiche. Da una parte la piccola borghesia è pressata dalla grande borghesia
le cui scelte economiche e politiche, messe in essere anche col mezzo
dell'apparato statale, condizionano il tenore di vita e a volte l'esistenza
stessa dei piccoli borghesi che nutrono così in quella direzione sentimenti di
invidia, ammirazione, servilismo e sordo risentimento allo stesso tempo.
Sul versante opposto la piccola borghesia confina col proletariato che
disprezza e teme e con il quale pure deve fare i conti giorno dopo giorno sia
in prima persona, sia per conto della classe dominante. La sua posizione
sociale la rende perciò oscillante, facilmente disorientata e incapace di
centralizzazione sul piano politico. La piccola borghesia diviene perlopiù la
base di massa dei regimi fascisti nei momenti di crisi della società e di acuta
lotta di classe. In altri momenti, quando le crisi si avvicinano ma il
proletariato non si solleva ancora, la piccola borghesia delega talvolta ai
suoi giovani il compito di «arrabbiarsi» per le ingiustizie sociali, il che
essi fanno manifestando a parole sentimenti sovversivi e di «estrema sinistra»
ma nei fatti mostrando la consueta mancanza di fermezza, di disciplina, di
tenacia nell'organizzazione e coltivando diffidenza e incomprensione per le
ragioni del proletariato.
Di regola, dopo l'ondata «rivoluzionaria» i giovani arrabbiati piccolo-borghesi
ricadono rapidamente nell'apatia nel «disimpegno» e non di rado fanno atto di
sottomissione o si dedicano a coltivare le mode lanciate dalle «avanguardie»
culturali borghesi. L'esempio dei giovani piccolo-borghesi «sessantottini» è
lampante: partirono come «extra parlamentari» contestando stato e società
borghesi, rifacendosi al pensiero di Mao; rivendicarono il potere
all'«immaginazione» (il solo potere di cui erano provvisti) e al termine di un
ciclone essenzialmente verbale i più sagaci tra loro sono finiti parlamentari o
dirigenti di partiti e partitini più o meno appartenenti all'«arco
costituzionale» della democrazia borghese e clericale, oppure nella posizione
ancor più tranquilla di funzionari negli uffici-studi delle banche o come
avviati professionisti.
Nei periodi storici di lotta politica e sociale relativamente «pacifica» la
piccola borghesia si ritrova in generale soddisfatta sul terreno del pacifismo
«borghese» e della democrazia «pura». Essa teorizza in tal modo la propria
avversione ai cambiamenti e agli scontri di classe fra grande borghesia e
proletariato che vorrebbe conciliare predicando la «programmazione» della
politica economica. Essa aspira a «migliorare» lo stato e la società borghesi
per ritagliarvisi una condizione particolare, più sicura e redditizia. Perciò
ascolta con interesse ogni programma «democratico» che predichi una diminuzione
del peso dello sfruttamento da parte dei monopoli e delle banche e la
collaborazione delle classi, da attuarsi mediante un regime sostanzialmente
corporativo. Di conseguenza la piccola borghesia riconosce al proletariato, più
o meno a malincuore, il diritto a più alti salari e a migliori condizioni di
lavoro ma si sforza di imporgli in contraccambio la condizione inderogabile di
rinunciare a qualsiasi disegno di rovesciamento radicale della società
capitalistica. La piccola borghesia circonda socialmente, economicamente e
culturalmente da ogni lato il proletariato, preme su di esso incessantemente e
giorno per giorno si sforza di farvi penetrare i propri punti di vista, i
propri costumi, il proprio modo di vivere. Ma questo processo sociale spontaneo
appare storicamente inadeguato rispetto agli obiettivi perseguiti, in specie da
quando il proletariato nel corso del suo moto di emancipazione, ha cominciato a
costituirsi un contropotere economico e politico dapprima embrionale, poi
sempre più solido e una strategia e una tattica illuminate da una teoria molto
avanzata, il materialismo storico e dialettico. Nell'epoca dell'imperialismo e
delle rivoluzioni proletarie, la sola penetrazione spontanea non poteva essere
più efficace: occorreva «organizzare» il lavoro, adibirvi un corpo di
specialisti e cioè un apposito settore degli intellettuali (politologi,
letterati, artisti, filosofi vecchi e nuovi, tecnici, professionisti,
giornalisti, politicanti e sindacalisti più o meno acculturati).
Gli intellettuali, per dirla con Gramsci, sono, a prescindere dalla loro
«statura», i «commessi del gruppo dominante per l’esercizio delle funzioni
subalterne dell'egemonia sociale e del governo politico». La loro estrazione
sociale, le loro condizioni di esistenza e di lavoro sono perlopiù
piccolo-borghesi. Del tutto conseguente ne è la mentalità e il carattere per
cui fatte le debite eccezioni accanto alla prontezza dell'intelligenza e alla
padronanza delle metodologie specifiche, convivono deficienze caratteriali
quali l'individualismo, il carrierismo, l'opportunismo, la fame di guadagni,
rinomanza, pubblicità e vita agiata.
Ora, come parte di tutto un processo sociale, politico e culturale in cui la
lotta di classe si svolge in forme più o meno acute, tra gli intellettuali si
effettua una divisione del lavoro vera e propria, in parte spontanea, in parte
guidata da centrali più o meno occulte (imperialistiche, borghesi, cattoliche,
trotzkiste). Una parte degli intellettuali si pone direttamente ed apertamente
al servizio della grande borghesia capitalistica e del suo potere statale. Una
parte minore, animata talvolta inizialmente da «buone intenzioni» e da un
generico populismo, assolve il suo compito fondamentale indirettamente e gradualmente,
introducendosi nei ranghi del partito della classe operaia e del proletariato e
comunque nell'area del movimento operaio.
Qui però li fronteggia una grossa contraddizione e cioè lo spirito di classe e
di disciplina, la circolazione, più o meno intensa, delle idee del materialismo
storico e dialettico, strutture centralizzate formatesi attraverso un processo
storico, nonché il prestigio dei dirigenti storici del proletariato. Tutte cose
che ripugnano alla mancanza di disciplina, all'individualismo anarcoide,
all'eclettismo, all'idealismo, al dilettantismo filosofico di buona parte degli
intellettuali piccolo-borghesi.
Tuttavia una parte di essi, sostenuti anche dall'«inconscio desiderio di
realizzare essi l'egemonia della loro propria classe sul popolo», possiedono
volontà sufficiente per conseguire l'obbiettivo individuale di arrivare a farsi
capi dei lavoratori. Per ottenere ciò, dovranno operare gradualmente e
collegarsi dapprima copertamente, poi - con il favore incessante dall'esterno
della borghesia capitalistica - sempre più apertamente, propagandando nel
partito e nel movimento operaio il «loro» immaginario e nebuloso socialismo
piccolo-borghese, la loro concezione libertaria e lassista della vita di
partito, il loro culto per il «pluralismo democratico», il loro odio per la
dittatura proletaria, per la teoria del marxismo e del leninismo (che
sviseranno e falsificheranno in tutti i modi), per l'opera di tutti i maggiori
esponenti teorici e politici del proletariato internazionale. Storici rappresentanti
di un tal genere di opposizione piccolo-borghese a Marx, Engel, Lenin e Stalin
sono stati via via Bakunin, Kautsky, Trotzkij, Krusciov.
La parabola compiuta in una trentina di anni dal gruppo dirigente del partito
comunista italiano è un'autentica «illustrazione» da riferirsi al periodo
staliniano e post-staliniano. I giovani piccolo-borghesi, di cui non pochi
avevano fatto le loro prime prove politiche nelle file fasciste, entrati a
legioni nel Pci durante o dopo la Resistenza attraverso le porte spalancate del
«partito di massa» di Togliatti (accanto a piccole minoranze dotate di una
certa serietà spesseggiavano, come sempre, gli «avvocati senza causa, i medici
senza malati e senza scienza, studenti di bigliardo e altri impiegati di commercio
e principalmente giornalisti della piccola stampa di una reputazione più o meno
equivoca» di cui parlava Engels riferendosi proprio all'Italia), al termine di
un intenso periodo storico sono riusciti ad esprimere un gruppo dirigente che
ha via via emarginato i militanti comunisti, ha scelto incondizionatamente la
«via pacifica» e l'integrazione nella democrazia borghese e clericale, ha
capitolato di fatto dinnanzi all'imperialismo, ha condotto una lotta
instancabile quanto subdola contro il marxismo-leninismo divenuta manifesta,
non a caso, in occasione della “destalinizzazione” di marca kruscioviana e
togliattiana. ed è giunto oggi, attraverso le tappe di una degenerazione
ideologica, politica ed organizzativa di tipo socialdemocratico, all'ultima
spiaggia del distacco da ogni eredità della rivoluzione d'Ottobre.
L'antistalinismo del gruppo dirigente piccolo-borghese intellettuale del Pci è
stato quindi uno degli strumenti più sfruttati per portare avanti l'operazione
politica di grande portata e di conseguenze storiche che ha provocato
l'infradiciamento opportunistico del Pci o, quantomeno, del suo quadro
dirigente con le sue diramazioni sindacali.
Beneficiari non potranno che esserne la conservazione interna e l'imperialismo
internazionale.
Non si tratta di un fenomeno del tutto nuovo, se non nelle proporzioni. Già
Gramsci osservava freddamente 50 anni fa: «Negli altri paesi il movimento
operaio e socialista elaborò singole personalità politiche, in Italia invece
elaborò interi gruppi di intellettuali che come gruppi passarono all'altra
classe».
Se una lezione ed un ammaestramento si possono trarre da tutto ciò per lavorare
alla ricostruzione storicamente necessaria di un autentico partito comunista in
Italia, sono ancora quelli che cento anni fa Marx ed Engels formulavano
categoricamente rivolgendosi ai dirigenti della socialdemocrazia tedesca:
«Quando siffatte persone provenienti da altre classi aderiscono al movimento
proletario, la prima esigenza è che non portino con sé nessun residuo dei
pregiudizi borghesi, piccolo-borghesi, ecc., ma che facciano proprio senza
riserve il modo di considerar le cose del proletariato... Se vi sono delle
ragioni per tollerarli momentaneamente nel partito, vi è il dovere di
tollerarli soltanto, di non consentire loro nessuna influenza sulla direzione
del partito, di rendersi sempre conto che la rottura con essi è solo una
questione di tempo».
Il rapporto «segreto» di
Krusciov su Stalin
Il XX congresso del Pcus si svolse in Mosca dal 14 al 25
febbraio 1956 e fu il primo congresso tenuto dopo la morte di Stalin (5 marzo
1953). Verso la conclusione dei lavori, in una seduta a porte chiuse, Krusciov,
allora segretario del Comitato centrale, lesse quello che fu poi denominato
correntemente il «rapporto segreto» su Stalin. Questo rapporto è certamente uno
dei documenti più sensazionali ed esplosivi della storia contemporanea, ma lo è
molto più per gli effetti che provocò che non per le cose in esso contenute.
Infatti da esso data l'inizio ufficiale della «destalinizzazione» nell'Urss,
nelle democrazie popolari e nella gran parte dei partiti comunisti operanti nel
mondo capitalistico. Dopo di esso si manifesta apertamente nel movimento
comunista internazionale il revisionismo di Krusciov, Tito e Togliatti, con la
conseguenza a breve scadenza della scissione a sinistra del partito comunista
cinese, del partito del lavoro d'Albania e altri, e, sulla destra, con il
graduale allontanamento dall'Urss e dal Pcus del Pci e di altri partiti
comunisti dei paesi capitalistici sviluppati che approderanno infine, dopo un
progressivo e protratto processo di socialdemocratizzazione,
all'«eurocomunismo». Nel mondo capitalistico il rapporto «segreto» fu il
segnale per un attacco anticomunista di proporzioni mai viste che culminò, nel
corso dello stesso 1956, nei gravi fatti di Polonia e di Ungheria. Da quel
momento 1'antistalinismo divenne la bandiera comune di tutte le forze
controrivoluzionarie e anticomuniste che scatenarono una lotta ideologica e
politica ancora oggi in pieno svolgimento e che, oltrepassando la figura e
l'opera di Stalin, mira alla demolizione dell'intera teoria e pratica del
marxismo-leninismo. Riconsiderato a 25 anni di distanza, il rapporto «segreto»
si mostra per quello che fu realmente e cioè lo strumento per un vero e proprio
«golpe» ideologico e politico mirante a cancellare nell'Urss e altrove quanto
sussisteva del regime della dittatura del proletariato e del partito leninista.
Non ci si trova dinnanzi ad una analisi e ad un giudizio storici, ma in
presenza di un pamphlet di scadente qualità dove si mira soprattutto
all'effetto immediato.
Vediamo innanzitutto i singolari aspetti della «segretezza» di questo
documento. Chiudendo la sua esposizione, Krusciov dichiarò: «Dobbiamo esaminare
con tutta serietà la questione del culto della personalità. Non possiamo
permettere che l'argomento esca dall'ambiente del partito e sopratutto che vada
in pasto alla stampa: per questo che lo trattiamo qui, a porte chiuse. Dobbiamo
avere il senso della misura ed evitare di fornire armi al nemico. Non dobbiamo
lavare i nostri panni sporchi sotto i loro occhi». In contrasto con queste
belle affermazioni, sta il fatto che il resto del rapporto «segreto» mai
diffuso tra il popolo sovietico venne. inviato nelle democrazie popolari per i
«dirigenti di partito» e, non a caso, da Varsavia nel maggio 1956 finì
direttamente nelle mani della C.I.A. statunitense.
Qui comincia il «bello» della vicenda.
L'autorevole «New York Times» del 25 dicembre 1977 ha rivelato nel corso di una
serie di articoli dedicali alle infiltrazioni della C.I.A. nel campo dei mezzi
di comunicazione di massa mondiali e senza essere stato smentito che la C.I.A.
stessa, venuta in possesso di un documento così ghiotto ma giudicandolo
evidentemente insufficiente per gli obbiettivi sensazionali che se ne
riprometteva, provvide nei suoi uffici della Virginia a inserire brani
compilati dai suoi agenti in ben 34 punti del testo originale (periodi,
capoversi, interi paragrafi). I comunisti di tutto il mondo appresero così «gli
errori e i delitti di Stalin» dalla stampa borghese. Ultimo, ma certamente non
meno sconcertante aspetto della «segretezza» del rapporto, è il fatto che il
testo del rapporto di Krusciov, quantunque inquinato dalla C.I.A. non è mai
stato apertamente disconosciuto dal suo primo autore, forse compiaciuto
dell'effetto amplificatore prodotto dalla collaborazione, volontaria o
involontaria che fosse.
Entrando nel merito del lunghissimo documento, il contenuto si può riassumere
in due argomenti: polemica col «culto della personalità» di Stalin «errori e
delitti» derivati da tale «culto». È incontestabile che il «culto» di qualsiasi
dirigente del movimento comunista internazionale costituisce una manifestazione
anomala e patologica alla luce del marxismo-leninismo ed è incontestabile pure
che negli ultimi anni di Stalin il «culto» avesse attecchito ampiamente e non
nella sola Urss, distorcendo il corretto rapporto
dirigenti-partito-classe-masse. Krusciov ha quindi buon giuoco nel condannare
in maniera ossessiva il «culto» di Stalin, tanto più in quanto egli, ciò
facendo, muove da posizioni «leniniste» e propone ripetutamente come modello
corretto i comportamenti di Lenin.
Tuttavia oggi la sappiamo lunga sul «leninismo» di Krusciov e non possiamo
perciò che concludere che il «ritorno a Lenin» di Krusciov è stato una
copertura abile quanto ingannevole per facilitare la «destalinizzazione», per
non parlare di tutto quello che è venuto dopo. Oltre a ciò, nel rapporto di
Krusciov inquinato dalla C.I.A. manca qualsiasi approfondimento delle cause
politiche e sociali del «culto». Questo sarebbe effetto della paranoia di
Stalin e della sua sete di potere assoluto. Ma, analizzando bene la cosa sulla
base di ciò che è avvenuto poi anche in Cina per Mao, si finirà per scoprire che
i più interessati ad alimentare il «culto» in certi paesi socialisti ed anche
in certi partiti comunisti sono proprio quei gruppi e quei settori
dell'apparato del partito e dello stato che lavorano per la successione nel
potere e per un capovolgimento della linea generale. Nell'intento unilaterale
di demolire la figura e l'opera di Stalin, Krusciov affastella aneddoti
incontrollabili, esagerazioni e persino assurdità ridicole. Stalin dirigeva le
operazioni militari su un «mappamondo». Stalin diceva del maresciallo Zhukov
che questi decideva o non di attaccare dopo aver raccolto e annusato una
manciata di terra. Stalin «conosceva il paese e l'agricoltura solo attraverso i
films». «I fatti e le cifre non lo interessavano minimamente». Con particolare
accanimento Krusciov si sforza di annientare la fama di stratega e di
organizzatore militare di Stalin. Incurante, o forse ignorando ciò che avevano
scritto a tal riguardo vari conservatori insospettabili, tra i quali Churchili
e sir Alanbrooke, capo di stato maggiore generale delle forze britanniche
durante la seconda guerra mondiale, Krusciov assicura che una opportuna
revisione porterà ad un ridimensionamento di Stalin anche su questo terreno.
Previsione smentita, peraltro, dallo sviluppo ulteriore della storiografia
militare sovietica che non ha mai contestato il ruolo eminente di Stalin.
Ma il nocciolo del rapporto di Krusciov inquinato dalla CIA e l'argomento che
diverrà il cavallo di battaglia dell'antistalinismo e dell'anticomunismo sul
piano mondiale, è quello delle «repressioni» staliniane fra gli anni 1934 e il
1938. Non si può certamente dire che il documento a tale proposito sia ricco di
fatti e soprattutto di prove. Si illustrano a lungo tre casi di militanti di
partito che sarebbero stati ingiustamente condannati a morte (Eikhe, Rudzutak,
Rozenblum), si menziona qualche altro nome di sfuggita per periodi più recenti
e poi si forniscono cifre praticamente incontrollabili senza la consultazione
degli archivi sovietici: 7.679 riabilitati dopo la morte di Stalin, 98 su 136
membri del Comitato centrale uscito dal XVII congresso del PCUS (1934)
condannati a morte; i due terzi di quei congressisti arrestati in quegli anni.
Altre repressioni degli anni successivi sono indicate genericamente e
affastellate insieme: deportazioni di alcune piccole minoranze nazionali
compromesse nel collaborazionismo coi nazisti invasori, «affare» di Leningrado,
cospirazione nazionalista in Georgia, complotto dei medici e infine -
stranamente ma forse non casualmente mescolata all'elenco delle repressioni
interne - la rottura dei rapporti con la Jugoslavia titoista nel 1948. Tutti
gli esempi citati vengono generalizzati, amplificati e ripetuti nel documento
creando in tal modo l'effetto desiderato e cioè di fornire di Stalin l'immagine
di un despota assoluto, che agiva per libidine di potere secondo procedimenti
puramente terroristici e che quindi era responsabile di tutto, al massimo con
l'ausilio dei capi della polizia politica (per ultimo, Beria). Tutti gli
arresti e le condanne appaiono quindi ingiustificati. Le confessioni estorte
tutte con la tortura. Le riabilitazioni post-staliniane riguardano così
soltanto innocenti, anche se di ciò non viene prodotta alcuna documentazione.
Se il discorso critico si dovesse limitare al rapporto di Krusciov, la cosa
avrebbe un significato limitato. Oltretutto, oggi quel documento è quasi
dimenticato dall'opinione pubblica e dalle masse. Tuttavia esso ricupera tutta
la sua importanza primaria, ideologica e politica. per la storia dell'antistalinismo
e dell'anticomunismo se si considera che in fondo esso costituisce l'archetipo,
il cliché, di tutta l'enorme produzione di carta stampata, di discorsi e
persino di spettacoli, con cui i mezzi di comunicazione di massa controllati
dalla borghesia capitalistica hanno falsificato sistematicamente sul piano
mondiale i termini reali della lotta di classe nell' Urss e nel mondo per un
intero periodo storico. Infatti gli anni delle repressioni staliniane, gli anni
'30, furono anche gli anni in cui la grande crisi attanagliava le economie dei
paesi capitalistici provocando scontri politici e sociali sempre più acuti
all'interno e contrasti politici, economici e diplomatici crescenti fra i vari
imperialismi. Aggressioni imperialiste e fasciste creavano focolai di guerra in
Cina, in Etiopia e in Spagna. Il nazismo, il regime dell'anticomunismo più
feroce al potere in Germania, scatenava una nuova febbrile corsa agli
armamenti, proclamava apertamente i propri obbiettivi di una nuova spartizione
violenta del mondo e dell'annientamento del comunismo e dell'Urss. Favoriva in
tutti i paesi dell'Europa e del mondo la costituzione di «quinte colonne»
filo-naziste aventi il compito di disgregare dall'interno le democrazie
borghesi coi metodi del terrore e della violenza. L 'Urss, la prima dittatura
del proletariato nel mondo, isolata ed accerchiata, ancora arretrata
economicamente, era allo stesso tempo obbiettivo delle dichiarate mire fasciste
e dei tortuosi disegni degli altri paesi imperialisti che si sforzavano di rovesciare
verso l'Est l'aggressività hitleriana.
All'interno dell'Urss, la direzione staliniana, dopo la scelta obbligata della
costruzione del socialismo in un paese solo, aveva affrontato i ciclopici
problemi della industrializzazione e della collettivizzazione dell'agricoltura
a tappe forzate, in previsione della incombente nuova guerra mondiale
imperialista. Stalin e la maggior parte del Pcus godevano di un vastissimo
seguito tra le masse degli operai e dei contadini poveri e medi. Ma
sussistevano anche notevoli frange sociali all'opposizione, costituite dai
numerosi resti delle classi rovesciate, dei Kulak recentemente espropriati e
della piccola borghesia insofferente del socialismo. Questa opposizione era
politicamente rappresentata principalmente nella «destra» del Pcus (Bukharin)
ma i più attivi avversari del potere sovietico erano i trotzkisti e i loro
fiancheggiatori i quali, dopo la sconfitta e l'esilio del loro massimo
esponente, si erano andati organizzando in forma clandestina, con obbiettivi di
infiltrazione, di disgregazione e di destabilizzazione del partito,
dell'apparato statale e dell'economia coi metodi del sabotaggio, dello
spionaggio, del terrore ed eventualmente del ricorso al «golpe» militare.
Trotzkij prevedeva la guerra a breve scadenza e riteneva che l'Urss sarebbe
rimasta schiacciata fra Germania e Giappone. Perciò sollecitava pressantemente
l'opposizione di destra e di «sinistra» a stringere un'unità di azione e ad
accelerare e radicalizzare i metodi di lotta perché la guerra sarebbe stata
comunque l'occasione per rovesciare Stalin e per conquistare il potere. Le
carte del periodo, appartenenti all'archivio Trotzkij, depositato nella
biblioteca Houghton dell'università di Harvard (Usa), sembra chiariscano
largamente tutto ciò, testimoniando la gravità dei piani dell'opposizione
destra-trotzkisti.
Che quest'ultima abbia concordato e sincronizzato i propri piani con gli stati
maggiori e i servizi segreti della Germania nazista e del Giappone militarista,
i processi celebrati a Mosca fra il 1936 e il 1938 lo sostengono mentre i
trotzkisti seguitano a negarlo recisamente e di certo la cosa è oggetto di un
dibattito storico ancora aperto e che forse non si potrà mai concludere. Ma
oggettivamente, per i suoi fini eversivi e per la sua azione clandestina e
violenta, l'opposizione destro-trotzkista era, nell'interno dell'Urss,
l'equivalente della «quinta colonna» negli altri paesi. Non fu facile
combattere una lotta tanto acuta, avente caratteristiche di «contro-guerriglia»
politica contro numerosi avversari annidati anche ad alto livello negli
apparati del partito, del governo, della direzione economica e persino della
polizia e delle forze armate. Si trattava di una lotta intestina in cui
l'acquisizione della «certezza legale» dei reati è difficile e inevitabilmente
dà luogo alla «certezza morale» o politica affidata alle inquisizioni
poliziesche e ai metodi amministrativi. Per questo le «purghe» staliniane,
attuate con l'epurazione del partito, con gli arresti, le carceri e le
fucilazioni di esponenti dell'opposizione, finirono talvolta per colpire nel
"mucchio" e provocarono anche persecuzioni ingiustificate e vittime
incolpevoli. Alcuni torti furono riparati nell'imminenza e nel momento
dell'aggressione nazista e conseguirono lo scopo di ricuperare onesti militanti
di partito ed efficienti quadri militari per la lotta suprema e per la vittoria
sul fascismo. Quanto allo scopo politico principale perseguito dalle
repressioni staliniane, quello di stroncare preventivamente una opposizione interna
che poteva divenire pericolosa o addirittura esiziale nel momento della guerra
e dell'invasione, la storia indica nei fatti e nei risultati che esso fu
conseguito, quali che fossero i costi pagati.
Una fonte insospettabile, Churchill, definì ,i processi e le «purghe» nell'Urss
come «una spietata ma forse non inutile epurazione politico-militare».
L'ambasciatore statunitense I.E. Davies, che seguì attentamente per conto del
presidente Roosevelt vari pubblici dibattimenti dei processi di Mosca e notò, fra
l'altro, che la maggior parte degli imputati non appariva affatto spezzata nel
morale, controbatteva le accuse e si sforzava di non fare rivelazioni, annotò
in seguito: “In Russia è mancata la cosiddetta «aggressione interna» pronta a
collaborare con l'Alto comando tedesco... Il perché di questo va cercato nei
cosiddetti processi di tradimento o di epurazione a cui avevo assistito e di
cui avevo sentito parlare nel 1937 e nel 1938... Tutti quei processi,
epurazioni e liquidazioni che sembravano allora tanto violenti e che
scandalizzarono il mondo, appaiono ora chiaramente come uno degli aspetti del
vigoroso e risoluto sforzo del governo di Stalin per proteggersi non solo da
una rivoluzione all'interno, ma anche da un attacco dall'esterno”.
Queste, a nostro modo di vedere, sono le reali componenti storiche delle
repressioni staliniane. Nulla può essere capito di quanto accadde allora, e
nemmeno di quanto accadrà più tardi (fra l'altro, una sorta di rinnovata
collusione ideologica e politica fra «destra» revisionista del movimento
comunista mondiale e seguaci del trotzkismo) se ci si affida soltanto al
soggettivismo, all'idealismo, all'unilateralità e alle vere e proprie
distorsioni della verità storica contenute nel rapporto di Krusciov inquinato
dalla CIA e nella gran parte della produzione più o meno «storiografica» che ne
è derivata.
L'influenza esercitata dalla personalità di Stalin sul corso
di taluni fra i maggiori avvenimenti storici della nostra epoca, costituirà
indubbiamente un motivo di ricerche e di dibattito appassionati per gli storici
nei prossimi decenni e forse ancora per qualche secolo. Il giudizio delle
grandi masse umane al riguardo fluttuerà ancora a lungo, condizionato dalle
vicende della lotta di classe che si combatte in modo sempre più duro sul piano
mondiale, contrassegnando l'epoca della transizione dal capitalismo al
socialismo. Ma è possibile già oggi tentare un primo bilancio storicamente
attendibile dell'opera di Stalin? La risposta non può essere univoca. Da un
punto di vista scientifico, ossia tecnico-storiografico, l'impresa appare ardua
e gravida di pericoli di improvvisazione, presunzione e superficialità. Molte
sono le scelte operate da Stalin su cui ancora non è praticamente disponibile
alcuna documentazione e incerte o contraddittorie ne sono le fonti e le
valutazioni. Ma, d'altra parte, un giudizio su Stalin è anch'esso un aspetto di
una grande lotta ideologica e politica in corso e il risultato di questa lotta
condizionerà, in ultima istanza, lo stesso giudizio storico. Infine, se con la
scomparsa di Stalin si è chiuso un intero periodo storico, si sta ora
concludendo anche il periodo che gli è succeduto. Il «panorama» storico ci si
presenta così sufficientemente nitido nelle sue linee fondamentali anche se
molti particolari non sono ancora «a fuoco» e forse non lo saranno mai. In ogni
caso, per non cadere nell'angustia della storiografia idealistica e delle sue
reviviscenze moderne, oppure nel soggettivismo del revisionismo, è necessario
richiamare la lezione del materialismo storico e in particolare le pagine sulla
funzione della personalità nella storia. Secondo tale concezione il processo di
sviluppo delle società umane e gli avvenimenti storici attraverso cui si
realizza, sono determinati in maniera più generale e decisiva dai modi della
produzione materiale, dallo sviluppo delle forze produttive e dai connessi
mutamenti dei rapporti di produzione, ossia quei rapporti economici e sociali
che si stabiliscono tra gli uomini occupati nel processo della produzione
stessa. Accanto a queste cause generali agiscono varie cause particolari, quali
l'ambiente storico determinato in cui si sviluppano le forze produttive di un
singolo popolo, a sua volta condizionato dagli analoghi processi di altri
popoli. L'influenza delle cause particolari è completata dal concorso di
molteplici cause singolari o individuali, tra cui in prima linea figurano le
particolarità personali degli uomini politici o comunque detentori di potere,
oltre a vari tipi di «casualità» e di «variabili».
Le cause singolari imprimono agli avvenimenti storici la loro «fisionomia
individuale». Taluni individui, grazie a certe particolarità della loro
personalità, quali la volontà, la lungimiranza, il talento, il coraggio, ecc.,
possono influenzare, anche in maniera importante, le sorti della società,
possono cambiare la «fisionomia individuale» degli avvenimenti e talune
conseguenze parziali (ad esempio, accelerando o ritardando taluni processi,
ecc.). Tuttavia, la possibilità stessa e comunque la portata di tale influenza
individuale, vengono predeterminate da tutta l'organizzazione della società,
ossia dallo stato dei rapporti sociali, il che esclude che gli accadimenti
seguano un corso radicalmente diverso da quello determinato dalle cause generali
e particolari. Pertanto una personalità umana diviene realmente grande quando
l'individuo più «capace» socialmente assume l'iniziativa e la responsabilità di
adempiere le grandi necessità sociali della sua epoca, arreca un contributo
decisivo alla soluzione dei problemi scientifici, indica con chiarezza le nuove
esigenze sociali prodotte da tutto il precedente sviluppo culturale, economico
e politico. Egli non può arrestare o deviare totalmente il corso naturale e
necessario delle cose ma la sua azione costituisce una espressione cosciente e,
in una certa misura, libera del corso necessario e incosciente dei rapporti
sociali. «In ciò consiste tutta la sua importanza e tutta la sua forza.»
osserva Plekhanov «Però questa importanza è colossale e questa forza tremenda».
Ora l'azione di Stalin si esplica nel periodo storico in cui la catena mondiale
dell'imperialismo si spezza in uno dei suoi anelli deboli, la Russia zarista.
Qui nasce il primo potere proletario della storia, si rafforza, costruisce
strutture socialiste e si contrappone al mondo capitalistico attraverso gli
urti più duri. Questo potere diviene il centro e la «testa di ariete» del
movimento comunista ed operaio internazionale e del movimento di liberazione
nazionale dei popoli oppressi. Questo potere è la dittatura del proletariato di
cui Lenin è stato l'architetto geniale e Stalin sarà il costruttore rigoroso.
L'azione di Stalin coincide perciò con lo sviluppo e l'affermazione del regime
politico e sociale della dittatura del proletariato, s'intreccia, a volte in
modo inestricabile, con l'azione del partito leninista, del regime sovietico e
quindi delle grandi masse proletarie russe. Stalin e la sua direzione
esercitano pertanto la loro influenza in un contesto storico di avvenimenti, di
scelte e di orientamenti le cui cause generali e determinanti sono la
rivoluzione proletaria e il passaggio dal capitalismo al socialismo in Russia;
le cause particolari, l'ambiente storico che imprime talune particolarità sia
al passaggio rivoluzionario che alla dittatura del proletariato e alla
costruzione del socialismo. Infine, le cause individuali sono costituite in una
certa misura dalle caratteristiche della personalità di Stalin.
Si tratta di trent'anni di mutamenti grandiosi, di successi storici conseguiti
non soltanto nell'interesse della classe operaia sovietica ma di tutto il
proletariato internazionale. Ad essi contribuirono con sacrifici sovrumani in
primo luogo le masse lavoratrici sovietiche, sostenute dalla solidarietà del
proletariato mondiale. In tutto questo periodo Stalin diresse il partito e lo
stato sovietici e, in misura importante, anche il movimento comunista
internazionale, grazie alle sue doti di fermezza ideologica e di inflessibilità
politica, accoppiate alla duttilità e all'empirismo nel campo tattico.
Strategicamente, furono perlopiù gli orientamenti di fondo delle grandi masse
lavoratrici dell'Urss ad ispirarlo, tranne forse negli ultimi anni di vita in
cui la situazione obbiettiva lo costrinse qualche volta ad imporre la propria
volontà anche controcorrente. Nell'insieme la sua opera di direzione, che si
attenne alle grandi indicazioni leniniane, fu adeguata alle esigenze vitali
della dittatura di classe. In tempi di ferro, che ricordano - ma estesi sui
decenni - gli anni superbi della rivoluzione francese, la sua fu una direzione
dalle caratteristiche giacobine, «robespierriste», spietata nel rigore,
accentrata al massimo nelle forme ma poggiante stabilmente sulle forze sociali
motrici della rivoluzione. I grandi nodi storici di quel periodo sono noti: la
decisione della costruzione del socialismo in un paese solo, con i corollari
della priorità dell'industria pesante e della collettivizzazione accelerata e
in parte forzata dell'agricoltura; la condotta politica e militare della guerra
contro il nazifascismo e il contributo decisivo fornito dall'Urss alla vittoria
della coalizione antihitleriana; la ricostruzione dell'economia sovietica nel
dopoguerra e la ferma opposizione ai piani egemonici dell'imperialismo Usa.
La decisione di costruire il socialismo nell'Urss arretrata e accerchiata dai
paesi capitalistici, fu dettata dalla stessa necessità storica, dalla
stabilizzazione relativa del capitalismo dopo la prima guerra mondiale, dal
riflusso della rivoluzione proletaria nei paesi capitalistici sviluppati. In
polemica con l'avventuroso ed astratto disegno della «rivoluzione permanente»
di Trotzkij, Stalin osservava nel 1924: «che fare se la rivoluzione mondiale
sarà costretta a giungere con ritardo? Rimarrà qualche briciola di speranza per
la nostra rivoluzione? Trotzkij non ce ne lascia nessuna, perché "gli
interessi contrastanti che dominavano la situazione di un governo operaio...
non potevano portare ad una soluzione che... nell'arena della rivoluzione
proletaria mondiale". Secondo questo piano, non rimane alla nostra
rivoluzione che una prospettiva: vegetare nelle proprie contraddizioni e
marcire nelle midolla in attesa della rivoluzione mondiale». Stalin e la
maggioranza del Pcus, sia pure con differenziazioni interne non trascurabili,
avevano fiducia nella dedizione al socialismo degli operai e dei contadini
sovietici e comprendevano debitamente anche le esigenze nazionali e statali
dell'Urss. Trotzkij, invece, diffidava dei contadini e finiva oggettivamente
anche per sottovalutare il ruolo della stessa classe operaia sovietica, negando
la possibilità di costruire compiutamente il socialismo nell'Urss senza
l'appoggio «statale», ossia del proletariato vittorioso al potere nei
principali paesi capitalistici sviluppati. La storia ha dato ragione alla
scelta obbligata di Stalin, anche se gli alti costi materiali e morali pagati
per la gigantesca operazione hanno influito inevitabilmente su tutta la storia
successiva dell'Urss e taluni di essi costituiscono ancora nodi parzialmente irrisolti
che ritardano od ostacolano il passaggio alla fase superiore del socialismo, il
comunismo.
In tutto questo contesto l'impronta della personalità di Stalin apparve
evidente soprattutto nei tempi e nei modi dell'industrializzazione e della
collettivizzazione agricola, avviate col primo piano quinquennale del 1929, che
provocarono la rottura con una parte della stessa maggioranza del Pcus, la
destra bukhariniana, rappresentante della piccola borghesia urbana e agraria
oscillante. Ma anche qui la storia non concedeva esitazioni. Il mondo
capitalistico precipitava nella grande crisi economica; tutte le contraddizioni
politiche e sociali nel mondo si acutizzavano; il fascismo conquistava il
potere in Germania, scatenava una febbrile corsa al riarmo; la seconda guerra
mondiale veniva preparata da una serie di aggressioni imperialistiche e
fasciste che miravano all'isolamento, all'attacco e alla distruzione dell'Urss.
Parlando ai dirigenti dell'industria nel 1931, Stalin prevedeva con precisione
i tempi decisivi della congiuntura storica: «La storia della vecchia Russia
consistette, fra l'altro, nel fatto che la Russia fu continuamente battuta, a
causa della sua arretratezza... Noi ritardiamo sui paesi avanzati da cinquanta
a cento anni. Dobbiamo coprire questa distanza in dieci anni. O lo faremo, o
saremo schiacciati».
Sulla condotta politica e militare staliniana della guerra antifascista, è
utile ricordare almeno due aspetti tra i tanti già noti. Inprimo luogo, l'abile mossa diplomatica del
patto di non-aggressione del 1939 con la Germania hitleriana che valse a
frustrare i tenebrosi disegni degli imperialisti occidentali tendenti a
dirottare contro l'Urss l'aggressione nazista. Insecondo luogo, un fatto inoppugnabile: gli oppositori esterni
e interni del regime sovietico contavano molto sulla chiamata alle armi del
popolo sovietico, nella speranza, in caso di sconfitta, di un rovesciamento
della direzione staliniana, uscita a loro modo di vedere «indebolita» dalle
epurazioni del 1934-38. Invece i popoli sovietici fronteggiarono
coraggiosamente l'aggressione nazista e l'invasione, si batterono eroicamente a
prezzo di sacrifici inenarrabili, sostennero il regime socialista ed
espressero, nella loro stragrande maggioranza, una fiducia incondizionata nella
direzione di Stalin. Questi in effetti si addossò una parte preminente di
responsabilità politiche e militari alla testa del comitato statale per la
difesa e del comando supremo, carica che conservò per tutta la guerra. Poteva
contare su una serie di abili e valorosi quadri militari coi quali soleva
consultarsi strettamente per le decisioni più importanti. Il 3 luglio 1941
chiamò i popoli sovietici alla resistenza ad oltranza. Il 7 novembre di
quell'anno, in Mosca investita dalle armate naziste, espresse la sua fiducia
nella vittoria finale perché la guerra condotta dall'Urss era una guerra
fondamentalmente giusta. La straordinaria mobilitazione militare e industriale
di tutto il potenziale umano ed economico dell'Urss, la combattività e la
maestria conseguite dalle forze armate sovietiche animate dal partito,
produssero la storica vittoria del 1945 con la distruzione del nazismo e del
militarismo giapponese e la conquista di nuove più favorevoli posizioni per
l'avanzata mondiale del socialismo e della democrazia e con la costituzione di
un campo di paesi socialisti o a democrazia popolare.
Tuttavia con la vittoria non cessarono gli anni delle dure prove. L'Urss usciva
dalla guerra con un immenso prestigio ma venti milioni di cittadini erano
caduti, decine di migliaia di città e villaggi e 32.000 imprese industriali
erano state completamente distrutte dagli invasori, il 30% della ricchezza
nazionale annientato. La borghesia capitalistica internazionale, spaventata
dall'avanzata del socialismo e del movimento di liberazione nazionale in tutti
i continenti, si stringeva attorno al potente ed intatto imperialismo Usa che
manifestava apertamente le sue mire di egemonia mondiale e a tale scopo agitava
minacciosamente l'arma atomica di cui allora era il solo a disporre. Furono
anni molto duri, quelli della «guerra fredda». Ancora una volta, sotto la
direzione del partito e di Stalin, i lavoratori e tutti i popoli dell'Urss,
quantunque giustamente desiderosi di pace, di benessere e di libertà, vennero
chiamati a nuovi duri sforzi per la ricostruzione accelerata del paese, per
fronteggiare senza cedimenti il ricatto atomico imperialista e per prestare
l'aiuto internazionalista ai popoli in lotta per la propria emancipazione.
Quando Stalin morì, il 5 marzo 1953, la ricostruzione economica era
praticamente compiuta, il Pcus stava affrontando autocriticamente i compiti
della sfida ideologica capitalistica, l'Urss era venuta anch'essa in possesso
dell'arma atomica e i tentativi, anche militari, compiuti dall'imperialismo per
ricacciare indietro il socialismo e il movimento di liberazione nazionale,
erano stati respinti, da Berlino alla Corea.
Lungo un cammino così irto di difficoltà e di pericoli mortali, furono commessi
non pochi errori. Ciò era in buona parte inevitabile perché si dovettero aprire
vie inesplorate. A parte le preziose indicazioni di massima di Marx e di Lenin,
mancava il precedente di una esperienza concreta. La «caccia agli errori» di
Stalin costituisce da circa un quarto di secolo un importante settore dell'aspra
lotta ideologica fra capitalismo e socialismo. La borghesia capitalistica
considera tutto un «errore» non soltanto Stalin ma la dittatura del
proletariato e tutto il marxismo-leninismo e li combatte furiosamente. I
rappresentanti ed agenti dell'ideologia borghese in seno al movimento comunista
ed operaio internazionale, da buoni specialisti della mistificazione ideologica
e politica si ripartiscono meglio i compiti e non attaccano frontalmente il
marxismo-leninismo e la dittatura del proletariato ma concentrano i colpi sugli
«errori» di Stalin per poi risalire gradatamente agli «errori» di Lenin e di
Marx. I revisionisti moderni si sono specializzati nella denuncia del «culto
della personalità» e nelle violazioni del centralismo democratico e della «legalità
socialista» compiute da Stalin, ma nel loro soggettivismo hanno evitato di
approfondire le cose e tutto sommato preferiscono il silenzio. Gli
«eurocomunisti» lamentano la mancanza di «democrazia» nell'esperienza leniniana
e staliniana della rivoluzione d'Ottobre e le contrappongono i valori
«pluralistici» della democrazia «occidentale» ovvero borghese. I trotzkisti
hanno trovato da tempo, e una volta per tutte, la chiave di tutti gli «errori»
nella «degenerazione burocratica» dell'Urss e degli altri paesi più o meno
socialisti.
Ora è chiaro innanzitutto che la dittatura del proletariato non è la
realizzazione della «democrazia» per tutti, ma è soltanto la democrazia per la
maggioranza degli sfruttati e la repressione, ovvero la mancanza di democrazia
per la minoranza degli sfruttatori. Taluni innegabili e reali errori di Stalin
si manifestarono quindi nell'ambito della «democrazia socialista», ossia della
democrazia per le classi proletarie sostenitrici della loro dittatura. Si
tratta di talune violazioni del principio del centralismo democratico nella
direzione del partito, dello stato e del movimento comunista internazionale;
repressioni allargate negli anni '30; esaltazione eccessiva del ruolo della
personalità dirigente. Stalin, soprattutto dopo il 1945, all'apogeo dei
successi, si staccò talvolta in una certa misura dalle masse e in parte vi fu
costretto dalla necessità storica e dalla profonda convinzione di operare
sempre nell’interesse delle sorti dell'Urss e del socialismo mondiale. La
centralizzazione eccessiva del potere provocò soggettivismo e arbitrio in
talune decisioni (ad esempio, lo scioglimento della III Internazionale) e
facilitò incrostazioni burocratiche. Le purghe degli anni '30 furono senza
dubbio eccessivamente estese. Tuttavia le persecuzioni staliniane fino al 1934
furono in realtà colpi politici vibrati agli oppositori piccolo-borghesi della
collettivizzazione agricola. Nel 1937-38 furono invece la manifestazione di una
lotta senza quartiere condotta contro i settori infidi del partito e
dell'apparato statale (burocrati, intellettuali, ex borghesi). Tale lotta ebbe
un carattere prevalentemente amministrativo e in ciò sta il limite dell'azione
staliniana e l'impossibilità di una vittoria definitiva sulla parte
imborghesita della burocrazia. Il «culto della personalità» che ne derivò, fu
forse tollerato ma non fomentato da Stalin e lo stesso rovesciamento del
«culto», promosso dal XX Congresso, ci appare ormai in questa luce come il
contorto e contraddittorio riflesso della inestinguibile ostilità della parte
imborghesita della burocrazia verso Stalin e la dittatura del proletariato
ch'egli continuava ad impersonare grazie al sostanziale controllo del partito e
allo stabile sostegno delle masse lavoratrici e proletarie.
D'altra parte, soltanto una critica autenticamente da «sinistra», ossia
marxista-leninista, può individuare e analizzare nella direzione staliniana una
fonte di errori nella ripetuta affermazione, che risale all'incirca al 1936,
sulla conseguita «unità della società sovietica». Infatti una tesi del genere
contraddice alle leggi desunte dal materialismo storico e dialettico sulle
perduranti, anche se non antagonistiche, contraddizioni fra le classi e fra le
strutture economico-sociali e le sovrastrutture politiche, giuridiche e
culturali in particolare nella fase inferiore del comunismo, il socialismo. Su
questa categoria di errori i puntigliosi critici da «destra», vecchi e nuovi,
dell'azione di Stalin hanno sempre preferito sorvolare prudentemente. Invece
una critica marxista-leninista che affronti spregiudicatamente le questioni
degli errori di Stalin, rientra nel metodo corretto della critica e
dell'autocritica che non soltanto non pone in questione i principi fondamentali
della teoria e della prassi ma mira, anzi ad una migliore elaborazione ed
applicazione della strategia e della tattica rivoluzionarie. In conclusione, i
successi di importanza storica mondiale conseguiti dalla dittatura del
proletariato nell'Urss lungo tutto il periodo della direzione staliniana, autorizzano
a sostenere che gli errori commessi non erano connaturati col sistema
socialista ma furono provocati principalmente da vari fattori storici (e tra
questi soprattutto l'arretratezza del paese e la pressione
controrivoluzionaria) e da errati metodi di lavoro adottati in certi periodi
per determinati settori e per determinare scelte. Nel contempo, la portata
grandiosa di questi successi, alla cui «fisionomia individuale» Stalin
contribuì con l'influenza della sua eminente personalità, stabiliscono nettamente,
storicamente, che i suoi meriti dinnanzi al movimento comunista ed operaio
internazionale sopravanzano di gran lunga i suoi difetti e i suoi errori.
Occupandosi della questione di Stalin nei giorni del XX Congresso del Pcus e
delle denuncie kruscioviane circa il «culto della personalità», i comunisti
cinesi ricorsero ad una formula matematica popolare per sintetizzare la loro
indipendente valutazione: «i meriti e gli errori di Stalin sono nel rapporto di
sette a tre». Oggi, a distanza di un quarto di secolo, quando le emozioni
suscitate in quell'anno «indimenticabile» sono ormai estinte, e il periodo
storico che ne prese avvio sta concludendosi; il revisionismo ha iniziato il
suo declino e grandi orizzonti si aprono per nuove avanzate del marxismo-leninismo,
pensiamo che quel rapporto può essere ulteriormente migliorato da una più
approfondita valutazione delle cose. Non si tratta più soltanto di analizzare
«meriti ed errori» del passato ma di richiamare anche le indicazioni staliniane
destinate al futuro più o meno lontano.
Non sappiamo se Stalin ha lasciato un testamento politico
vero e proprio. Probabilmente un tale documento non esiste. Tuttavia negli
interventi noti degli ultimi mesi della vita, Stalin lasciò alcune indicazioni
fondamentali su taluni problemi storici del movimento comunista ed operaio
internazionale nel periodo in corso del passaggio dal capitalismo al socialismo
sul piano mondiale. Queste indicazioni testimoniano la sua inscuotibile fiducia
nella forza espansiva dei principi e della prassi del marxismo-leninismo e
confermano la sua sollecitudine per il futuro dell'Urss e del socialismo
mondiale. Queste indicazioni riguardano principalmente l'internazionalismo
proletario e i compiti storici dei partiti comunisti, i problemi della pace e
della guerra e il passaggio al comunismo nell'Urss. Richiamarle, non
costituisce soltanto una esercitazione storiografica. Il riconoscimento della
loro validità riveste un preciso significato politico-ideologico nelle complesse
controversie attuali sulle vie del socialismo.
a) L’internazionalismo
proletario e i compiti storici dei partiti comunisti
Nell'ultima seduta del XIX Congresso del Pcus. tenutosi nell'ottobre del 1952,
Stalin con un conciso intervento ricordò innanzitutto i rapporti di mutuo
appoggio sempre intercorsi fra il Pcus e gli altri partiti comunisti, fra
l'Urss e gli altri popoli «fratelli». Sottolineò il grande contributo fornito
dall'Urss, «reparto d'assalto» del movimento rivoluzionario e operaio internazionale,
in specie con la vittoria nella II guerra mondiale che aveva liberato i popoli
dell'Europa e dell' Asia dalla minaccia della schiavitù fascista. Dichiarò poi
che il difficile «compito d'onore» addossatosi dall'Urss quando era sola,
veniva ora agevolato dalla costituzione dei nuovi «reparti d'assalto» delle
democrazie popolari, dalla Cina alla Cecoslovacchia. Si rivolse quindi ai
partiti comunisti o «operai-contadini» che si trovavano impegnati in lotte,
talvolta durissime, sotto il tallone delle «draconiane leggi borghesi». Il loro
lavoro, indubbiamente difficile, era tuttavia illuminato dalle esperienze di
«errori e di successi» compiute dall'Urss e dalle democrazie popolari. Inoltre
- affermò Stalin - la borghesia internazionale si è trasformata in modo molto
profondo, è diventata più reazionaria,, ha perso i legami col popolo e quindi
si è indebolita. Prima praticava il liberalismo, difendeva le libertà
democratico-borghesi. Oggi del liberalismo non rimane più traccia. È scomparsa
la cosiddetta «libertà individuale», i diritti della persona sono riconosciuti
soltanto a chi detiene il capitale, mentre tutti gli altri uomini sono
considerati come «grezzo materiale umano, buono soltanto per essere sfruttato».
Anche il principio dell'uguaglianza dei popoli e degli individui è
sistematicamente calpestato, i pieni diritti spettano soltanto alla minoranza
sfruttatrice. Prima la borghesia si considerava alla testa della nazione e ne
difendeva i diritti e l'indipendenza «al di sopra di tutto». Adesso non vi è
più traccia del «principio nazionale» e la borghesia «vende i diritti e
l'indipendenza della nazione per dollari». Le bandiere delle libertà
democratico-borghesi e dell'indipendenza e sovranità nazionali sono state
gettate a mare dalla borghesia capitalistica. Tocca ai partiti comunisti
risollevare queste bandiere se vorranno raggruppare attorno a sé la maggioranza
del popolo e divenire in tal modo la forza dirigente della nazione. Non vi è
nessun altro che possa farlo.
Gli ultimi trent’anni di storia della lotta di classe nei paesi capitalistici
dimostrano quanto sia ancora valida l'indicazione staliniana. Fra l'altro, quei
partiti comunisti - in particolare il Pci e gli altri «eurocomunisti» - che
hanno gradatamente rinunciato alla lotta per l'indipendenza nazionale, hanno in
pari tempo imboccato la via dei cedimenti dinnanzi alla propria borghesia e
all'imperialismo Usa e hanno attentato o spezzato i legami fraterni con l'Urss
e gli altri paesi del campo del socialismo. Ma questa capitolazione non ha fruttato
neppure sul terreno del mantenimento della «democrazia». Sotto l'incalzare
della aggravata crisi globale delle società capitalistiche, anche le libertà
democratico-borghesi svaniscono aprendo la via alla «democrazia protetta»,
all'autoritarismo, quando non addirittura a nuove forme più o meno larvate di
fascismo.
b) La pace e la guerra
Verso la fine del 1951 nell'Urss si accese un grande dibattito, che impegnò il
partito, le organizzazioni economiche e gli specialisti intorno alla proposta
di redazione di un manuale di economia politica che raccogliesse in forma
sistematica e i principi scientifici elaborati da Marx e da Lenin ed attuati
nella costruzione del socialismo nell'Urss. Stalin intervenne più volte nel
dibattito e in una di tali occasioni allargò il discorso ai problemi
determinanti della pace, della guerra e dell'imperialismo. Basandosi sulle tesi
leniniste dell'imperialismo quale causa principale delle guerre nella nostra
epoca ed appoggiandosi sull'esperienza storica della prima metà del secolo,
Stalin ribadì il principio dell'inevitabilità delle guerre imperialiste
provocate dallo sviluppo ineguale dei vari capitalismi, ma sottolineò anche con
forza l'inevitabilità delle guerre fra paesi capitalistici osservando: «Si dice
che i contrasti tra il capitalismo e il socialismo sono più forti che i
contrasti fra i paesi capitalistici. Teoricamente, certo, questo è vero. È vero
anche solo oggi, ai nostri giorni, ma era vero anche alla vigilia della seconda
guerra mondiale. E lo capivano, in maggiore o minore misura, anche i dirigenti
dei paesi capitalistici. Eppure la seconda guerra mondiale non incominciò con
la guerra contro l'Urss, ma con la guerra fra i paesi capitalistici. Perché?
Perché, in primo luogo, la guerra contro l'Urss, in quanto guerra contro il
paese del socialismo, è più pericolosa per il capitalismo della guerra fra i
paesi capitalistici, giacché, mentre la guerra fra i paesi capitalistici pone
solo la questione del predominio di determinati paesi capitalistici su altri
paesi capitalistici, la guerra control'Urss
deve invece necessariamente porre la questione dell'esistenza del capitalismo
stesso. In secondo luogo, perché i capitalisti, sebbene a scopo di
"propaganda" facciano chiasso circa l'aggressività dell'Unione
Sovietica, non credono essi stessi a questa aggressività, poiché tengono conto
della politica pacifica dell'Unione Sovietica e sanno che l'Unione Sovietica
non attaccherà, dal canto suo, i paesi capitalistici». Notò poi che il
movimento in difesa della pace (allora molto ampio, combattivo ed omogeneo) pur
essendo prezioso per i fini «democratici» del mantenimento della pace oper scongiurare orinviare una determinata guerra, non
era sufficiente ad eliminare l'inevitabilità delle guerre fra paesi
capitalistici se non si elevava al livello superiore della lotta per il
socialismo. Infatti l'imperialismo continuerebbe a sussistere e a conservare le
sue forze e quindi a rendere inevitabili le guerre. Stalin concludeva con un
grande monito: "Per eliminare l'inevitabilità della guerra, è necessario
distruggere l'imperialismo». La «sottolineatura» staliniana sull'inevitabilità
delle guerre fra paesi capitalistici anche nell'epoca della coesistenza e del
confronto fra imperialismo e socialismo, è importante, nelle sue molteplici
implicazioni, per l'elaborazione di una globale strategia antimperialista da
parte del campo mondiale del socialismo e del movimento per la liberazione
nazionale e per la pace.
c) La costruzione del
comunismo nell'Urss
1 - La questione dello
«sviluppo delle forze produttive»
Il vivace dibattito attorno al progetto di un manuale di economia
politica marxista-leninista si elevò nel corso del 1952 ad una discussione di
fondo sulle vie per il passaggio dal socialismo al comunismo nell'Urss. Si
delinearono due posizioni contrastanti: quella staliniana fermamente ancorata
ai principi del marxismo-leninismo, e quella che sosteneva la teoria dello
«sviluppo delle forze produttive». Stalin nel maggio 1952 concentrò la sua
polemica sulle tesi dell'economista Iaroscenko, ben comprendendo che questi
rappresentava soltanto la «punta emergente» di un iceberg. Iaroscenko sosteneva
che nell'economia politica del socialismo non importava tanto discutere delle
categorie (quali: valore, merce, denaro, credito, ecc.) quanto sviluppare i
temi dell'organizzazione razionale delle forze produttive, della pianificazione
dello sviluppo dell'economia, della «giustificazione scientifica»
dell'organizzazione. Iaroscenko andava oltre, sostenendo che nel socialismo la
lotta essenziale per edificare la società comunista si riduceva alla lotta per
la «giusta» e «razionale» organizzazione delle forze produttive e che il
comunismo consisteva nella «più alta organizzazione scientifica delle forze
produttive nella produzione sociale». Stalin richiamò innanzitutto la lezione
scientifica di Marx che metteva in risalto l'importanza dei rapporti di
produzione (rapporti degli uomini fra loro) rispetto ai rapporti degli uomini
con la natura (forze produttive), nel processo generale e unitario della
produzione sociale, socialista o non. I rapporti di produzione riguardano le
forme della proprietà sui mezzi di produzione, quindi i rapporti fra i vari
gruppi sociali nella produzione e infine le forme della distribuzione dei
prodotti. Subito dopo Stalin chiarì il rapporto dialettico esistente fra i
rapporti di produzione e lo sviluppo delle forze produttive, sottolineando il
fatto che storicamente i rapporti di produzione possono costituire in certi
periodi, quando sono superati, un freno per le forze produttive, ma in altri
periodi, una volta rinnovati, costituiscono un fattore di propulsione
principale (e citò il rinnovamento dei rapporti di produzione introdotto dalla
rivoluzione d'ottobre e approfonditosi nelle campagne con la collettivizzazione
degli anni '30). Tutto ciò costituiva la materia essenziale dell'economia
politica.
Circa il passaggio al comunismo, Stalin denunciò il semplicismo di Iaroscenko
secondo cui la formula del comunismo: «A ognuno secondo i suoi bisogni» poteva
essere soddisfatta con una organizzazione razionale delle forze produttive che
assicurasse l'abbondanza dei prodotti, e ciò senza mutare fatti economici di
fondo, strutturali, quali la proprietà di gruppo colcosiana, la produzione e la
circolazione mercantili, ecc…. Non si tratta soltanto di questioni di
produzione e di consumo ma dello scopo, del compito che la società pone alla
sua produzione sociale. Nel regime capitalistico, scopo supremo della
produzione di merci è la creazione di plusvalore, del massimo profitto capitalistico
da conseguire con ogni mezzo (sfruttamento dei popoli, militarizzazione,
guerre). I bisogni reali degli uomini sono praticamente estranei a tale logica.
Al contrario, lo scopo della produzione socialista è l'assicurazione del
massimo soddisfacimento delle sempre crescenti esigenze materiali e culturali
di tutta la società, mediante l'aumento ininterrotto e il perfezionamento della
produzione socialista sulla base di una tecnica superiore. Per Iaroscenko la
produzione diventa fine a sé stessa e i bisogni dell'uomo scompaiono: una sorta
di riaffermazione del primato dell'ideologia borghese sull'ideologia marxista,
qualcosa che riecheggiava le tesi di Bukharin sulla «distruzione dell'economia
politica» e sulla «tecnica dell'organizzazione sociale». Dopo queste premesse,
Stalin espose i punti di vista marxisti-leninisti sulle condizioni per un
passaggio effettivo al comunismo. In primo luogo si dovrà assicurare non una
mitica «organizzazione razionale» delle forze produttive, ma uno sviluppo
ininterrotto di tutta la produzione sociale con uno sviluppo prevalente dei
mezzi di produzione, presupposto per una riproduzione allargata. In secondo
luogo, occorre elevare la proprietà colcosiana al livello di proprietà di tutto
il popolo e sostituire gradualmente alla circolazione mercantile un sistema
globale di scambio dei prodotti, controllato nell'interesse della società da un
centro economico-sociale. In terzo luogo, per promuovere lo sviluppo culturale
dei lavoratori occorrerà diminuire la giornata lavorativa a sei o anche cinque
ore, migliorare le abitazioni, aumentare i salari reali di almeno due volte, se
non più. Soltanto dopo l'attuazione di tutte queste misure preliminari, il
lavoro diverrà non più un «pesante fardello» ma - come dicevano Marx ed Engels -
«la prima necessità dell'esistenza», «una gioia».
2 - La questione del
superamento della proprietà colcosiana
Nel settembre 1952 Stalin fu indotto ad intervenire nuovamente nel
dibattito in corso e questa volta per combattere la proposta degli economisti
Sanina e Vensger i quali si erano occupati della capitale questione della
trasformazione della proprietà colcosiana in proprietà di tutto il popolo.
Stalin comprendeva bene che tali proposte costituivano non soltanto la «punta
emersa» di un iceberg ma coinvolgevano pure la fondamentale questione
dell'alleanza fra operai e contadini nella costruzione del socialismo e nel
passaggio al comunismo. Stalin chiarì preliminarmente che la proprietà
colcosiana, pur essendo una forma di proprietà collettiva di gruppo e non una
proprietà di tutto il popolo, era tuttavia una forma di proprietà di tipo
socialista e non capitalista. Misure di nazionalizzazione o di statizzazione
erano perciò da considerarsi del tutto inappropriate, anche perché la proprietà
di tutto il popolo con l'estinzione dello stato sarebbe finita storicamente per
approdare alla socializzazione. Stalin si occupò quindi della principale
proposta avanzata dai due economisti e cioè di elevare la proprietà colcosiana
al livello di proprietà di tutto il popolo mediante la vendita in proprietà dei
colcos dei principali mezzi di produzione concentrati nelle stazioni di
macchine e trattori (SMT). La critica staliniana a tale proposito fu serrata.
Innanzitutto era necessario distinguere fra l'attrezzamento agricolo minuto -
che veniva correntemente venduto dallo stato ai colcos - e i grossi mezzi di
produzione delle SMT. Il primo non decideva in alcun modo le sorti della
produzione colcosiana mentre le macchine e i trattori, con la terra, influivano
in maniera determinante sulle sorti dell'agricoltura sovietica. Ora, la
produttività in agricoltura e l'ascesa continua della produzione agricola
nell'Urss dipendevano dal progresso tecnico incessante dei mezzi di produzione,
dalla loro continua sostituzione con mezzi più moderni. Ma ciò comportava
investimenti giganteschi che potevano essere ammortizzati - a parte le perdite
inevitabili - in periodi di non meno di sei-otto anni. I colcos, anche i più
prosperi, non potevano addossarsi spese e perdite di tale entità. Soltanto lo
stato poteva sostenere tali oneri. Così stando le cose, la proposta di vendita
ai colcos delle SMT avrebbe significato perdite e rovina per molti colcos, un
declino della meccanizzazione dell'agricoltura e una diminuzione dei ritmi
della produzione colcosiana.
Passando ad esaminare l'influenza che la vendita delle SMT ai colcos avrebbe
avuto sull'adempimento delle condizioni per il passaggio al comunismo, Stalin
rilevò che con la vendita i colcos sarebbero divenuti proprietari dei
principali strumenti di produzione, situazione di anormale privilegio non
goduta da alcuna azienda sovietica, neppure del settore nazionalizzato. Con ciò
la proprietà colcosiana si sarebbe allontanata, non avvicinata, alla proprietà
di tutto il popolo e quindi la prospettiva del passaggio dal socialismo al
comunismo si sarebbe anch'essa allontanata per questa via. Inoltre un'enorme
quantità di strumenti della produzione agricola sarebbe entrata nella sfera
della circolazione mercantile. Le conclusioni di Stalin a questo riguardo
furono perentorie: «La circolazione mercantile è incompatibile con la
prospettiva del passaggio dal socialismo al comunismo... noi marxisti partiamo
dalla nota tesi marxista secondo cui il passaggio dal socialismo al comunismo e
il principio comunista della ripartizione dei prodotti secondo i bisogni
escludono qualsiasi scambio mercantile, quindi anche la trasformazione dei
prodotti in merci e al tempo stesso la loro trasformazione in valore».
Approfondendo ulteriormente l'analisi, Stalin constatava che i colcos, non
essendo proprietari della terra e dei principali mezzi di produzione, erano in
realtà proprietari soltanto del prodotto della produzione colcosiana (a parte
gli edifici e le aziende individuali dei colcosiani). Tuttavia una buona parte
di tale produzione, le eccedenze rispetto alle vendite allo stato, ecc. si
riversava sul mercato ed entrava nella circolazione mercantile. Ciò ostacola il
processo di elevamento della proprietà colcosiana a proprietà di tutto il
popolo. Occorrerà quindi escludere le eccedenze della produzione colcosiana
dalla circolazione mercantile e inserirle via via nel sistema dello scambio
diretto dei prodotti fra l'industria statale e i colcos. Questo sistema, ancora
allo stato embrionale, andrà introdotto gradualmente anche perché presuppone un
gigantesco aumento della produzione fornita dalla città alla campagna. Ma la
sua progressiva estensione a tutti i rami dell'agricoltura agevolerà anche
l'inserimento della produzione colcosiana nel sistema della pianificazione
generale e anche per questa via accelererà la transizione dal socialismo al
comunismo.
Per trarre alcune prime, per quanto approssimate conclusioni, è necessario
delineare un quadro, sia pure molto sommario e in parte lacunoso, degli assetti
dell'agricoltura sovietica risultati dal nuovo corso aperto dal XX Congresso
del Pcus del 1956 e continuato attraverso gli anni della «destalinizzazione» e
della stessa destituzione di Krusciov del 1964. Dalla seconda metà degli anni
'50 più volte lo Stato sovietico aumentò i prezzi di acquisto dai colcos dei
prodotti più importanti e concesse sgravi fiscali. Nel 1958 venne adottata la
fondamentale misura strutturale della vendita da parte dello stato dei mezzi
delle SMT ai colcos che ne divennero proprietari. Nel 1964-65 fu vietato alle
istanze locali del partito, dei soviet e degli organismi economici, di fissare
obbiettivi di produzione ai colcos. Furono ridotte le misure delle consegne
obbligatorie allo stato (in particolare per grano, ortaggi, patate, semi oleosi),
vennero stabilizzati i prezzi di acquisto e i quantitativi. I crediti ai colcos
vennero pagati direttamente dalle banche, senza più l'intermediazione e la
compensazione da parte degli organismi degli ammassi. Vennero praticamente
annullati i debiti dei colcos verso lo stato, con uno stanziamento di 2.250
milioni di rubli. Fra il 1969 e il '70, in particolare in occasione del II
congresso dei colcosiani dell'Urss, vennero adottati nuovi statuti-modello
della cooperazione agricola che, unitamente ad altri provvedimenti adottati in
quel torno di tempo, comportarono mutamenti profondi nell'ordine della
pianificazione, restando attribuite ai colcos le decisioni circa l'estensione
delle aree da seminare, il rendimento delle singole coltivazioni del bestiame,
mentre lo stato stabilisce la misura delle consegne dei prodotti e della
vendita. Ai singoli colcos venne riconosciuta la facoltà di modificare le
clausole degli statuti. Non fu più richiesto di precisare l'ammontare del
prelievo sui redditi colcosiani da destinare ai fondi sociali. Le relative
decisioni furono lasciate ai colcosiani stessi.
In sostanza, i colcos oggigiorno, partendo dal piano statale pluriennale di
vendite a prezzi stabili, determinano l'ordine delle loro attività economiche e
le priorità nella destinazione dei fondi che all'incirca rimangono fissate come
segue: sementi - conti verso lo stato (ammassi, prestiti) - salari - vari.
Precedentemente le priorità erano nell'ordine: conti verso lo stato - sementi -
salari. I colcos vendono l'eccedenza della loro produzione immettendola sul
mercato per la popolazione o cedendola alle cooperative di consumo o agli
organismi degli ammassi (a prezzi maggiorati). I pagamenti in moneta si sono
andati generalizzando, sostituendo quelli in natura, e ciò sia per i salari
colcosiani, sia per i pagamenti dei costi di produzione, debiti verso lo stato,
fondi sociali, ecc.. È da notare inoltre che lo sviluppo delle forze produttive
nelle campagne ha comportato la nascita e la diffusione di tutto un settore agro-industriale
e di mestieri connessi con la trasformazione, conservazione e trasporto dei
prodotti, i cui impianti e relativi mezzi di produzione (ad esempio, centrali
elettriche, almeno entro certe capacità produttive) sono di proprietà dei
colcos. Una rapida rassegna risulterebbe incompleta se mancasse un cenno al
settore degli appezzamenti agricoli individuali (concessione della terra a
tempo indeterminato), che è un aspetto specifico dei rapporti sociali
nell'agricoltura sovietica, sopravvissuto alla collettivizzazione. Negli ultimi
anni della direzione kruscioviana si era tentato di limitare questo settore, ma
nel 1964 vennero ripristinate le condizioni precedenti. Il 60% della produzione
di queste imprese individuali proviene dai colcosiani, il rimanente da operai e
impiegati. La famiglia colcosiana ha quindi in uso l'appezzamento individuale e
in proprietà la casa e le costruzioni annesse, il bestiame, volatili, piccoli
strumenti agricoli e può inoltre avvalersi degli animali, dei pascoli e dei
mezzi di trasporto dei colcos. L'importanza e la specializzazione relative di
questo settore della produzione agricola può misurarsi dalle seguenti cifre: su
una superficie coltivabile pari al 2,7% di quella totale, nel 1977 si allevava
circa il 20% del totale di bovini, suini e ovini, mentre la produzione di
carne, latte e uova si aggirava attorno al 35% del totale. Una consistente
parte di tale produzione viene immessa direttamente nel mercato senza alcun
obbligo di consegna. Malgrado la tendenza generale alla diminuzione della parte
di popolazione dedita all'agricoltura, la produzione individuale mostra ritmi
di sviluppo tendenti alla crescita.
Il senso delle riforme compiute nell'agricoltura sovietica nel periodo
post-staliniano sta nell'obiettivo fondamentale di promuovere lo sviluppo delle
forze produttive mediante l’interessamento materiale e la partecipazione
decisionale dei colcosiani, in un quadro di rapporti economici e giuridici fra
stato e colcos che si avvicina molto all’«autogestione». Probabilmente le
riforme rispondevano in una certa misura ad esigenze oggettive e ad aspirazioni
soggettive reali, in specie se si tiene conto della rigida pianificazione
centralizzata precedente e dei grandi sacrifici richiesti per lungo tempo alle
masse lavoratrici contadine. Una riprova di tutto ciò potrebbe essere vista
nello slancio registrato nella produzione agricola e culminato attorno al 1970
con ottimi raccolti dei prodotti più importanti. Tuttavia l'autonomia economica
e la «democrazia colcosiana» portano con sé anche inconvenienti e pericoli
seri. È vero che è illusorio costruire il socialismo chiamando le masse
lavoratrici a contribuirvi soltanto sulla base dell'entusiasmo o anche della
sola convinzione. Ma è anche certo che la proprietà collettiva di gruppo, in
specie se rafforzata dal possesso di mezzi di produzione ragguardevoli, e se
sottratta in buona parte alla regola di una giusta pianificazione centralizzata
e di un corretto e continuo orientamento e controllo politico, costituisce la
base per lo sviluppo spontaneo di tendenze psicologiche di massa verso
l'egoismo corporativo, l'edonismo e magari il consumismo. Ciò sul terreno
soggettivo. Ma sul terreno dei rapporti economici, l'affievolimento del
principio centralizzatore della pianificazione e il contemporaneo incremento
della circolazione mercantile, fanno riemergere inevitabilmente l'azione di
talune leggi economiche inerenti al mercato, tra cui quella della concorrenza
ma soprattutto quella della ricerca del profitto. Sulla base della ricerca del
profitto, e sia pure di un profitto di gruppo, è breve il passo al processo di
una differenziazione economica fra gli strati contadini, per quanto
collettivizzati, tanto più se esposti continuamente alla tentazione di un uso e
di uno sfruttamento individuale della terra.
È innegabile che le riforme post-staliniane nell'agricoltura hanno comportato
una riduzione dell'area della pianificazione centralizzata e un aumento della
produzione mercantile con annessa circolazione monetaria e un potenziamento
della proprietà collettiva di gruppo. È vero che lo stesso Stalin difendeva la
funzione positiva della produzione mercantile e della proprietà collettiva di
gruppo nelle condizioni economiche, sociali e politiche del potere socialista
sovietico. Ma la sua era una concezione «dinamica» e storicistica del fenomeno.
In altri termini, un assetto da utilizzare per un certo periodo (storico) ma
con l'impegno risoluto a passare a forme superiori appena possibile. «Nel
momento attuale» - scriveva nel maggio 1952 - «questi fenomeni vengono da noi
utilizzati con successo per sviluppare l'economia socialista ed essi recano
alla nostra società un utile indubbio. Non v'è dubbio che recheranno questa
utilità anche nel prossimo futuro; ma sarebbe una cecità imperdonabile non vedere
che in pari tempo questi fenomeni cominciano già adesso a frenare il potente
sviluppo delle nostre forze produttive in quanto creano ostacoli alla completa
estensione a tutta l'economia nazionale, in modo particolare all'agricoltura,
della pianificazione statale. Non vi può essere dubbio che più si andrà avanti
e più questi fenomeni freneranno l'ulteriore sviluppo delle forze produttive
del nostro paese. Di conseguenza, il compito consiste nel liquidare queste
contraddizioni mediante la trasformazione graduale della proprietà colcosiana
in proprietà di tutto il popolo e mediante l'introduzione - anch'essa graduale
- dello scambio dei prodotti invece della circolazione mercantile». Le
persistenti difficoltà dell'agricoltura sovietica, i suoi insufficienti ritmi
di sviluppo che si ripercuotono sfavorevolmente sull'intera economia socialista
e l'accentuazione del fenomeno negli ultimi anni, inducono a ritenere che si
tratta proprio del genere di contraddizioni strutturali previste da Stalin.
Esse coinvolgono direttamente anche i tempi del processo di transizione al
comunismo.
La «destalinizzazione» fu accompagnata da una particolare enfasi
propagandistica posta sulla prospettiva ravvicinata della costruzione delle
basi materiali e dello stesso passaggio alla fase economico-sociale del
comunismo. Il XX Congresso del Pcus indicò l'obiettivo di raggiungere e
superare gli Usa nella produzione agricola pro-capite (in particolare latte,
burro e carne). Nell'anno seguente fu delineato un piano di 15 anni per cui la costruzione
della società comunista diventava «l'obiettivo immediato e pratico del partito
e del popolo sovietico». Il XXI Congresso del Pcus del 1959 fu definito il
congresso dei «costruttori del comunismo» in una «fase avanzata di costruzione
del comunismo» e il piano settennale 1959-65 venne presentato come la «tappa
decisiva nella creazione della base tecnico-materiale del comunismo».
Oggigiorno, a più di venti anni da quelle enunciazioni trionfalistiche, sono
subentrati cautela e realismo. Si continua a sottolineare il ruolo determinante
dello sviluppo delle forze produttive. Se ne deduce la possibilità del
passaggio al comunismo attraverso un processo graduale e pacifico di
integrazione e di compenetrazione delle due forme di proprietà socialista nelle
campagne, la proprietà di tutto il popolo e la proprietà collettiva di gruppo.
Tuttavia, anche qui la storia non concede all'Urss fasi troppo prolungate di
«respiro» o di «grandi NEP». Il socialismo «maturo» potrebbe infradiciare nelle
sue stesse basi se la transizione al comunismo ritardasse o venisse
procrastinata indefinitamente. D'altra parte, il nuovo approfondimento della
crisi generale del capitalismo comporta nuovi conflitti interimperialistici con
la connessa tentazione da parte del mondo capitalistico di regolare i conti col
campo mondiale del socialismo e con l'Urss. Svanisce il periodo storico della
«coesistenza pacifica» e subentra quello delle guerre economiche e della
preparazione delle guerre imperialiste. All'Urss incombe ancora una volta il compito
storico di fronteggiare, ritardare, deviare o stroncare l'aggressione
imperialista, di mantenere e di ristabilire la pace, e comunque di sostenere
una pesante corsa agli armamenti e quindi una dura sfida sul terreno economico.
In che modo tali compiti supremi saranno conciliabili col passaggio al
comunismo? La risposta è tremendamente ardua. Quel che è certo, è che l'Urss
dovrà adottare necessariamente una concentrazione e una pianificazione mai
viste di tutte le sue risorse economiche e umane e della sua direzione
politica, economica e militare, oltreché favorire processi analoghi nei paesi
più o meno avanzati sulla via del socialismo o nel movimento comunista
internazionale. È ben difficile che tutto ciò potrà essere conseguito senza un
ritorno alla rigorosa definizione ed applicazione in tutti i settori della vita
sociale dei principi basilari del marxismo-leninismo.
Appendice
Il giuramento di Stalin alla morte di Lenin
Lasciandoci, il compagno Lenin ci ha comandato di tener alto e
serbar puro il grande appellativo di membro del partito.
Ti giuriamo, compagno Lenin, che adempiremo con onore il tuo comandamento !
Lasciandoci, il compagno Lenin ci ha comandato di salvaguardare, come la
pupilla dei nostri occhi, l'unità del nostro partito.
Ti giuriamo, compagno Lenin, che adempiremo con onore anche questo tuo
comandamento !
Lasciandoci, il compagno Lenin ci ha comandato di rinsaldare con tutte le forze
l'alleanza degli operai e dei contadini.
Ti giuriamo, compagno Lenin, che adempiremo con onore anche questo tuo
comandamento !
Lasciandoci il compagno Lenin ci ha comandato di essere fedeli ai principi
dell'Internazionale Comunista.
Ti giuriamo, compagno Lenin,
che non risparmieremo la nostra vita pur di rafforzare e di estendere l'unione
dei lavoratori di tutto il mondo,
l'Internazionale Comunista !
30 Gennaio 1924