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Michele Michelino, 1993, 1880-1993 Cento anni di lotte operaie, Edizioni Laboratorio politico, Napoli
testo messo a disposizione dall'autore, conversione in html a cura del CCDP



Michele Michelino

1880 -1993
Cento anni di lotte operaie



Prima parte: 1880 -1900
Dalle Società Operaie alle Camere del Lavoro
1. Le Società di Mutuo Soccorso
2. Le prime Società Operaie di resistenza
3. La 1ª Internazionale e l'internazionalismo anarchico
4. Dal Partito Operaio al Partito Socialista
5. La 2 ª Internazionale
6. Le quattro giornate di Milano
7. Le Camere del Lavoro


Seconda parte: 1900 -1922
Dalle federazioni di categoria al "biennio rosso"
1. Le prime federazioni di categoria
2. La diffusione dell'anarco-sindacalismo
3. Il sindacalismo "bianco" e la guerra di Libia
4. La "grande" guerra e il fallimento della 2 ª Internazionale
5. La 3 ª Internazionale e l'Internazionale Sindacale Rossa
6. Il "biennio rosso" e la nascita del PCd'I

Terza parte: 1923 -1947

Dal sindacalismo fascista alla CGIL
1. Il sindacalismo fascista
2. La "grande crisi" del 1929 e la svolta del PCI
3. Lo scioglimento della 3 ª Internazionale
4. Il sindacalismo "libero": nasce la CGIL
5. Dalle conquiste dell'immediato dopoguerra all'estromissione delle sinistre dal governo


Quarta parte: 1947 -1988
La classe operaia dal dopoguerra ad oggi
1. La ricostruzione e la tregua salariale
2. La rottura della CGIL
3. La repressione alla FIAT
4. Riprendono le lotte: l'assalto alla UIL di Torino
5. Le lotte operaie del 1968 - 69
6. Crisi del '76: ristrutturazione e terrorismo
7. 35 giorni di lotta alla FIAT
8. La disdetta della scala mobile e il referendum
9. Il costo del profitto


Quinta parte: 1989 -1993
Crisi della rappresentanza e "autorganizzazione"
1. crollo dei regimi dell'Est
2. La ripresa delle lotte operaie ed i bulloni ai sindacalisti
3. Gli aiuti "umanitari"

Appendice
Tabella 1
Tabella 2
Tabella 3
Volantino 11 aprile 1992
Volantino 20 gennaio 1993
Volantino 31 gennaio  1993



Introduzione

Scopo di questo libro è fornire agli operai, in particolare ai giovani, un breve tracciato di storia del movimento operaio.
Una certa cultura o ideologia di sinistra cerca di accreditare l' idea che la storia del movimento operaio è una continua evoluzione, senza strappi, nel tentativo di occultare le proprie responsabilità storiche; ma in realtà
 l' organizzazione di classe degli operai procede per salti seguendo il ciclo economico del capitale.

Il modo di produzione capitalistico, basato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, cìclicamente vive una grande contraddizione: la crisi dì sovrapproduzione. Nel passato, cioè nei precedenti modi di produzione, i lavoratori delle classi subalterne che costituivano il "popolo", pativano la fame per effetto delle carestie e della mancanza di generi alimentari; nel sistema capitalista il "popolo" può patire la fame per la troppa abbondanza.
La sovrabbondanza diventa fonte di miseria perché ostacola la trasformazione dei mezzi di produzione e sussistenza in capitale.

Un esempio comprensibile a tutti è quello che si ripete ogni anno, quando migliaia di tonnellate di frutta vengono distrutte sotto i cingoli dei bulldozer.
Un'altra osservazione mi sembra importante premettere alla lettura di queste pagine.
La storia delle lotte tra le classi è sempre scritta dai vincitori. La storia della lotta del proletariato, cioè di una classe subalterna, non fa eccezione. Non sono soltanto gli storici borghesi a raccontare la storia dal loro punto di vista; anche la storia scritta dagli storici dei partiti di sinistra (PSI-PCI) è una storia mistificata, giustificativa degli interessi dei rispettivi partiti.
Il "tradimento" o - per dirla più correttamente - la degenerazione delle organizzazioni e dei partiti operai non si comprende se non si collega al ciclo economico del capitale.
La vera storia del proletariato italiano deve essere ancora scritta. Probabilmente sarà possibile scriverla solo quando la classe operaia avrà conquistato il potere politico. Anche per questo oggi più che mai, mentre ci si organizza per resistere allo sfruttamento, si sente la necessità del partito operaio e di una nuova Internazionale operaia.
Intanto cominciare a rivedere criticamente la storia, anche se parzialmente, da un punto di vista operaio, può essere utile per ricostruire almeno in parte la nostra memoria storica.
Michele Michelino delegato del CdF della Breda Fucine di Sesto San Giovanni (Milano)
Settembre 1989



Introduzione alla 2ª edizione

Decidere di pubblicare un libro che ripercorre le tappe della storia del movimento operaio italiano a tre anni di distanza è un'impresa quanto mai ardua.
In tre anni molte cose sono cambiate. Istituzioni e partiti, che agli occhi dei più sembravano eterni, sono crollati come castelli di sabbia sotto il peso della crisi economica. In pochi anni il peggioramento delle condizioni dei lavoratori nei paesi capitalisti ha creato anche nelle metropoli imperialiste fenomeni che erano tipici delle masse affamate ed oppresse del Sud del mondo.
Ormai negli USA sono oltre 33 milioni coloro che vivono sotto la soglia della povertà, mentre in Italia hanno raggiunto i 9 milioni.
Il presente è frutto del passato e delle leggi economiche che dominano la società, per cui rileggendo la storia di ieri è possibile capire i cambiamenti di oggi.
In questa edizione ho apportato alcune modifiche qua e là, ho aggiunto un capitolo che riguarda gli ultimi tre anni e ho allegato tre volantini che non c'erano nella precedente edizione artigianale, fatta in proprio e diffusa in 2.000 copie quasi prevalentemente fra gli operai industriali.

Aprile 1993


Prima parte: 1880-1900
Dalle società operaie alle Camere del Lavoro

1. Le Società di Mutuo Soccorso
I primi tentativi di organizzazione sindacale furono le Società Operaie di Mutuo Soccorso. Sorsero in Italia tra il 1880 e il 1885 e per molto tempo furono le uniche forme di organizzazione operaia. Esse erano prevalentemente strumenti di solidarietà con fini assistenziali e raccoglievano al loro interno indistintamente artigiani e operai.
Rispetto all'Inghilterra e alla Francia, dove l'esistenza legale dei sindacati fu permessa rispettivamente nel 1824 e nel 1884, il movimento sindacale italiano si è sviluppato con notevole ritardo. Ritardo dovuto allo sviluppo capitalistico dell'Italia, che era ancora un paese economicamente arretrato, con pochissime industrie, concentrate principalmente nelle zone della Lombardia, Piemonte e Liguria.
Come si può capire, in questa situazione la classe operaia in Italia non ha ancora un carattere ben definito, cominciando solo allora a distinguersi dalla massa degli artigiani, ma confondendosi spesso con i contadini. In molti casi le fabbriche erano in località di campagna e la manodopera disponibile era costituita da lavoratori della terra (braccianti, contadini) che cercavano di migliorare le loro miserabili condizioni dedicandosi per periodi più o meno lunghi ad un lavoro di tipo industriale. Le prime industrie a svilupparsi in Italia furono quelle tessili. Già nel 1831 i progressi di queste industrie erano notevoli in Piemonte. Legate alla campagna erano le industrie del lino, della canapa e della lana, che impiegavano circa 300mila contadini, che nell'intermezzo dei lavori agricoli lavoravano al filatoio o al telaio, anche per 150 giorni all'anno.
Fra le prime industrie, le più evolute furono quelle del cotone e dei metalli in Lombardia. E' all'incirca nel periodo (1840-1850) che nascono a Milano e a Sampierdarena (Genova) i primi stabilimenti meccanici, dai quali si sviluppano poi la Breda (1886) e l'Ansaldo. Nello stesso periodo anche al centro sud, particolarmente a Napoli, già prima dell'unità d'Italia esisteva un tessuto industriale basato su industrie meccaniche, tessili e navali.
La rivoluzione del 1848, oltre a mettere in moto operai e artigiani a fianco dei borghesi per "l'indipendenza e la libertà", portò nelle piazze i contadini del Mezzogiorno in lotta per la divisione delle terre demaniali e gli operai delle città in lotta contro il carovita.
In questa situazione si ebbero i primi tentativi di coalizione operaia a fini di resistenza, anche se non sorse alcuna forma permanente di organizzazione sindacale. I tipografi, i sarti, i calzolai, i facchini che diedero vita a veri e propri scioperi di categoria a Milano, Genova e Torino, continuavano ad essere organizzati nelle Società di Mutuo Soccorso che rimanevano le uniche forme di organizzazione stabile.
Anche se dirette da borghesi liberali, queste società raccoglievano al loro interno la parte migliore della nascente classe operaia. In cambio di una quota, i soci di queste associazioni ricevevano un sostegno economico in caso di malattia, di disoccupazione, di infortunio, oltre alla solidarietà di classe in occasione di scioperi.

2. Le prime Società Operaie di resistenza

Comincia intanto a maturare la tendenza alla costruzione di associazioni stabili di resistenza. Il 7 maggio del 1848, per iniziativa del tipografo Vincenzo Steffenone, 40 operai fondano a Torino la Società dei Compositori Tipografi, con lo scopo preciso di difendere il salario orario ottenuto poco prima dai padroni. Questa si può considerare la prima organizzazione sindacale italiana. Sul suo esempio sorsero poi società analoghe tra i tipografi di Genova (1852) e tra quelli di Milano (1860).
Nel 1857 una grave crisi economica a livello mondiale colpisce violentemente l'Europa e l'America. Essa ha dei riflessi anche in Italia, ed è una delle cause che provocano l'esplosione del movimento delle classi che porta da una parte all'unificazione dell'Italia nel 1861 e dall'altra alla diffusione delle società operaie.
Lo sviluppo maggiore delle società operaie avviene in questo periodo in Piemonte, l'unico stato italiano dove fosse consentita una certa libertà di associazione e di riunione, e dove lo sviluppo capitalistico sotto il governo di Cavour fu più rapido che altrove.
Dal 1861 le società operaie cominciarono in Piemonte a tenere congressi e ad allargare il campo della loro attività, andando al di là del semplice mutuo soccorso. Lo stesso processo avvenne nelle società liguri, che erano sotto l'influenza di Mazzini.
In questo periodo iniziarono a manifestarsi le prime contraddizioni e i primi scontri nel movimento operaio italiano. Lo scontro verteva tra i mazziniani (cioè i repubblicani) e i moderati: i mazziniani — duramente contrastati dai moderati—sostenevano che compito delle società operaie era quello di preoccuparsi di politica e avanzare rivendicazioni come quella sul suffragio universale.
Dal congresso di Firenze, tenuto nel settembre 1861, per circa 10 anni prevalsero nel movimento operaio italiano i mazziniani. Intanto il dibattito continuava, perché il congresso di Firenze, pur «considerando la questione dei salari urgentissima», dichiarò «funesto essere agli operai ogni sciopero e ogni mezzo violento», raccomandando l'uso di mezzi conciliativi.

Nonostante ciò grandi scioperi scoppiarono. Nel decennio 1860-1870 si ebbero in media in Italia 13 scioperi l'anno. Il più famoso fu quello dei 4.000 muratori di Torino che conquistarono la riduzione dell'orario di lavoro a 12 ore al giorno; prima di allora la giornata lavorativa era di 16 ore.

3. La 1ª Internazionale e l'internazionalismo anarchico
Lo sviluppo industriale, che in alcuni paesi aveva raggiunto livelli notevoli, fu la condizione favorevole per la crescita di un proletariato che andava sempre più riconoscendosi come classe internazionale. In questo contesto, nonostante i ritardi dovuti alla situazione oggettiva, si sviluppa anche il movimento operaio italiano.
Con la fondazione dell'Associazione Internazionale degli Operai (nata a Londra nel settembre 1864), sorge il primo movimento storico indipendente degli operai moderni. Alla fondazione dell'Internazionale partecipa anche la Società Operaia Italiana di Londra, fondata da Mazzini, contro cui polemizza Carlo Marx, che ne critica l'impostazione conciliatoria e umanitaria (quindi non classista). Con la nascita di questo nuovo partito internazionale (come di fatto era l'Associazione) gli operai si liberano delle vecchie sette socialiste dandosi una vera organizzazione di classe.
Frattanto, dopo 10 anni di prevalenza dei mazziniani, il nuovo orientamento politico internazionalista si andava affermando anche nel movimento operaio italiano. Gli internazionalisti italiani furono quasi tutti di tendenze anarchiche, seguaci dell’Alleanza della Democrazia Socialista fondata da Bakunin, il quale si muoveva in modo autonomo rispetto alle direttive di Londra, dove aveva sede il consiglio generale dell'Internazionale diretta da Marx.
Le teorie di Bakunin erano allora molto seguite in Italia: egli rifiutava ogni forma di lotta politica organizzata e contava sull'azione violenta basata sul terrorismo di individui e gruppi per sovvertire l'ordine statale esistente.
Nella società italiana in trasformazione le teorie bakuniane erano le più adatte ad interpretare l'esasperazione e la protesta degli strati popolari ai cui l'industria non aveva ancora dato una base di organizzazione e di disciplina.
Intanto i mazziniani incominciavano a perdere terreno. Lo sviluppo dell'industria e  le sue prime crisi avevano come contropartita un aumento della conflittualità operaia. Gli operai cominciavano a riconoscersi, sia  pure ancora in modo istintivo, in  una  classe sociale con  interessi ben distinti, scontrandosi con la teoria mazziniana che sosteneva la solidarietà fra le diverse classi sociali. Inoltre alcune posizioni sostenute da Mazzini contro la Comune di Parigi, primo tentativo di presa del potere da parte della classe operaia, gli fecero perdere completamente le simpatie dì consistenti strati operai.
Nel dodicesimo congresso delle Società Operaie tenuto a Roma nel 1871 avvenne la scissione tra le società aderenti al "Patto di fratellanza" di tendenza repubblicana dirette da Mazzini e quelle internazionaliste, che costituirono nel loro primo congresso la Federazione Italiana dell'Associazione Internazionale dei Lavoratori (agosto 1872).
L'atteggiamento degli internazionalisti di fronte allo sciopero era molto diverso da quello dei mazziniani; essi non solo ne riconoscevano l'utilità e la necessità, ma nel secondo congresso tenuto a Bologna nel 1873 decisero di organizzare le sezioni e le federazioni su base professionale.
L'internazionalismo anarchico, riconoscendo l'utilità di un'organizzazione di classe, ha svolto un ruolo positivo nella lotta per sganciare il movimento operaio italiano dall'ideologia mazziniana, accelerando la spontanea trasformazione delle società di mutuo soccorso in Leghe di resistenza. L'aspetto negativo dell'internazionalismo anarchico è però nella sua opposizione al marxismo, che ha ritardato di fatto la crescita delle organizzazioni operaie indipendenti, negando la funzione dirigente della classe operaia e il ruolo del partito e affidandosi completamente alla spontaneità.

4. Dal Partito Operaio al Partito Socialista

Nel decennio 1880-1890 si va formando al Nord un'industria moderna con un mercato unico nazionale. L'introduzione delle macchine e la concentrazione della manodopera in grossi stabilimenti cambiano il volto dell' economia e trasformano la base di classe. Al lavoratore a domicilio, all'operaio, al contadino e all'artigiano, tipiche figure dell'industria manifatturiera, si va sostituendo il moderno proletariato di fabbrica.
Verso il 1880 un nuovo mutamento di indirizzo si andava delineando nel movimento operaio italiano. Una corrente socialista "evoluzionista" (come si chiamava) contraria all'anarchismo bakuniano si era formata in Lombardia intorno al giornale "La Plebe" di Lodi, diretto da Enrico Bignami, il quale, pur non essendo un marxista, era sempre rimasto legato al Consiglio Generale di Londra dell’ Internazionale.
Un gruppo simile si formò contemporaneamente a Palermo intorno al giornale "Il Povero". Nel 1879 anche Andrea Costa, capo degli internazionalisti romagnoli, aderì alla nuova tendenza.
Continuava però nelle società operaie lo scontro tra differenti posizioni. In Lombardia era molto forte l'influenza di elementi democratici e radicali che dirigevano parecchie società operaie.
In questo periodo il movimento operaio rimaneva prevalentemente sotto la tutela della borghesia, che usava gli operai nella sua lotta contro i conservatori. Questo fatto aveva provocato negli operai più avanzati una forte insofferenza che li portò a liberarsi della tutela della borghesia radicale.
Nel 1882 nacque a Milano il Partito Operaio Italiano composto esclusivamente da operai, indipendente da ogni altro partito o gruppo e quindi anche dagli elementi socialisti e anarchici. Questo partito aveva una struttura più simile ad un'organizzazione sindacale che a un partito politico. Il suo giornale, "Il Fascio Operaio" ("fascio" significava "lega") ebbe una diffusione notevole per quei tempi, anche se il partito era presente solo in Lombardia. Rigorosamente classista, il Partito Operaio fu la prima organizzazione in Italia a sostenere ed organizzare la lotta di classe in tutti i suoi aspetti.
Una nuova crisi, scoppiata nel 1887, genera forti resistenze: grandi masse di operai e contadini scendono in lotta. Il Partito Operaio si mette alla testa di questi moti, ponendosi in netta contrapposizione al sistema capitalista. Così facendo, metteva in discussione il potere politico. Ciò fu intollerabile per la  borghesia conservatrice, che scatenò una  durissima repressione contro il Partito Operaio, distruggendolo e riducendolo alla stregua di un partito semiclandestino.

Negli stessi anni (1889) nasce anche la "Lega Socialista Milanese" con a capo Lazzari e Turati. Obiettivo dichiarato della Lega è quello di creare le condizioni per l'unificazione dei socialisti di tutte le tendenze e dei membri del Partito Operaio.
In realtà succede il contrario, perché dalla Lega vengono esclusi gli elementi su posizioni rivoluzionarie come gli anarchici e i settori più radicali del Partito Operaio, cioè coloro che non volevano perdere la connotazione di classe del Partito Operaio, trasformandolo in un generico partito di "lavoratori", dove ci sarebbe stato spazio anche per elementi di altre classi.
Dalla fusione del Partito Operaio con le correnti genericamente socialiste (come i "Circoli del Lavoro", che facevano riferimento a Costa, ed altre sparse in tutta Italia) nacque il Partito Socialista, nascita ratificata dal Congresso di Genova del 1892. In realtà in questo congresso si fondarono due partiti, che entrambi si definirono "Partito dei Lavoratori Italiani": uno socialdemocratico riformista, fondato dalla maggioranza del partito, con a capo Turati e Lazzari; l'altro rivoluzionario, composto dalla minoranza e formato dagli anarchici e dagli operai su posizioni classiste (detti gli "esclusionisti"), con alla testa Casati. Costa, dopo un tentativo di mediazione, aderisce a quello socialdemocratico. La peculiarità dello sviluppo capitalistico in Italia e il ritardo con cui si è sviluppata un'industria moderna su tutto il territorio nazionale, aveva conseguenze anche sulla composizione di classe del proletariato, che non era affatto omogenea.
Accanto a gruppi industriali protetti (come quelli della siderurgia, degli zuccherifici, ecc.) che, grazie al protezionismo, potevano pagare salari più elevati a certi settori operai, sviluppando settori di aristocrazia operaia, esiste un proletariato ibrido ancora in formazione. Le condizioni di classe non ancora completamente mature: il prevalere delle concezioni anarchiche e non ancora scientifiche tra i rivoluzionari e gli operai più avanzati portarono alla scomparsa nel breve periodo del PSI rivoluzionario. Intanto si rafforzava e cresceva tra gli operai l'influenza del PSI di Turati, che si andava definendo sempre più come partito operaio borghese attraverso l'alleanza tra aristocrazia operaia e borghesia industriale.

5. La 2ª Internazionale

Le nuove condizioni poste dallo scontro di classe richiedevano un nuovo livello di organizzazione. Con la costituzione dell'Associazione Internazionale degli Operai, chiamata anche Prima Internazionale, gli operai avevano posto le premesse per la costituzione ovunque di partiti e gruppi organizzati della classe operaia.
Ora una nuova necessità si imponeva: quella di coordinare sotto un'unica linea di classe l'azione di questi partiti operai sorti nei singoli paesi. Fu per  questo che il 14 luglio 1889 a Parigi, per iniziativa dei capi del Partito Operaio Francese (Guèsde e Lafargue), si tenne il congresso costitutivo della Seconda Internazionale. A questo congresso parteciparono delegati di tutti i partiti operai; l'Italia fu rappresentata da Costa, Cipriani e Malatesta. A differenza della Prima Internazionale, nata e costituita dalle organizzazioni operaie, la Seconda fu costituita dai partiti.
Il congresso di Parigi decise un programma, da sostenere da parte di tutti i partiti, che fra l'altro si basava sulla lotta per rivendicare la giornata lavorativa di otto ore. Fu in questo congresso che si stabilì una grande giornata di lotta da tenersi in tutti i paesi il primo maggio di ogni anno.
In questo nuovo contesto mondiale si svilupparono le lotte di classe del movimento operaio italiano.

6. Le quattro giornate di Milano

Come conseguenza della crisi del 1893, peggiorano brutalmente le condizioni di vita del proletariato e dei contadini. L'aumento del pane e dei generi di prima necessità genera pesanti reazioni: nelle maggiori città gli operai entrano in lotta e spesso le manifestazioni sono accompagnate da saccheggi.
A Milano nel 1897-98 ci sono circa 37 mila operai moderni che lavorano in fabbriche come la Pirelli (2.400 operai e 400 impiegati), l'Elvetica (1.200 operai), la Stigler, la Vago, ecc. Sono proprio gli operai di queste fabbriche che si mettono alla testa della lotta. Per quattro giorni il Partito Socialista cerca in tutti i modi di frenare la lotta riportandola nei canali istituzionali, ma gli operai, sebbene soli e senza un'organizzazione di classe, non cedono.
Segue una feroce repressione, come succede sempre in questi casi; anche molti dirigenti socialisti, come Turati, che avevano cercato invano di mediare tra  le classi in lotta, vengono arrestati insieme agli operai più combattivi.
Al processo Turati dichiarava: «... noi abbiamo sempre predicato che è passato il tempo della rivoluzione e  che queste  cose sono dannose al popolo ...» dimostrando così agli operai che avevano lottato da quale parte stava il PSI.
Questi fatti lasciarono il segno, provocando una spaccatura nel PSI milanese. La frazione rivoluzionaria presente nel PSI riesce a diventare maggioranza durante il congresso regionale lombardo di Brescia. In questo congresso, in polemica con i riformisti del partito, viene approvato un documento che afferma:

1- Il carattere rivoluzionario dell'azione e del movimento proletario e denuncia la degenerazione del partito, trasformatosi in puro partito parlamentare, respingendo l'alleanza con  la borghesia e rifiutando di appoggiare e di entrare in un governo borghese;
2- qualunque politica riformista, anche se parzialmente utile ai lavoratori e attuata sotto la pressione proletaria, dal momento che non intacca il fondamento della società capitalista, deve essere lasciata ai governi borghesi senza alcun compromesso da parte proletaria;
3- l'azione parlamentare deve servire solo per l'agitazione tra il proletariato, e il partito deve servirsi di tutti i mezzi, compresa la violenza, nel caso fosse necessaria.
Purtroppo su questo programma molto avanzato, corrispondente agli interessi del proletariato, e che ottenne gli elogi di eminenti dirigenti del movimento operaio rivoluzionario, come Paul Lafarguee Karl Kautsky, non si organizzò una frazione nel partito e poco dopo questa tendenza venne riassorbita nel riformismo mascherato di sinistra che faceva capo al dirigente Ferri.

7. Le Camere del Lavoro

Con lo sviluppo del capitalismo industriale si diffonde sempre più il marxismo in Italia. Nel 1888 sul giornale "L'Eco di Cremona" fu pubblicato il Manifesto del Partito Comunista, scritto in collaborazione da Marx e Engels; e due anni dopo fu stampato in volume. Contemporaneamente altri scritti di Marx e Engels vennero pubblicati dai giornali "La Plebe" di Lodi e "Il Povero" di Palermo.
Intanto sull'esempio delle Borse del lavoro francesi, fondate nel 1887 che (avevano una funzione di ufficio di collocamento e di difesa della classe operaia), nacquero in Italia nel 1891 le Camere del Lavoro dìMilano, Torino e Piacenza.
Le Camere del Lavoro furono all'inizio costituite con lo scopo di migliorare le condizioni dei lavoratori
nell' ambito del sistema capitalistico, mediante un'azione solidale dei lavoratori stessi; nel loro programma insistevano molto sui mezzi conciliatori. In un primo tempo esse furono accolte con simpatia dai borghesi, che le finanziavano: in alcune città furono finanziate dalle Casse di Risparmio, dalle Camere di Commercio e quasi ovunque dai comuni, che riconobbero l'utilità della loro
 funzione nel campo del collocamento. Per gli operai le Camere del Lavoro erano organismi importanti perché si proponevano di assumere di fronte ai padroni e allo stato la rappresentanza di tutte le categorie dei lavoratori.
In Italia lo sviluppo delle Camere del Lavoro fu dovuto anche alle particolari condizioni dell'economia italiana, caratterizzata dal persistere di forti differenze regionali e provinciali nel grado di sviluppo industriale ed agricolo, che si ripercuotevano quindi anche sulla situazione del mercato del lavoro.
La maturità del movimento sindacale italiano cominciò a dimostrarsi il 19 dicembre del 1900 con lo sciopero di Genova, proclamato per protesta contro lo scioglimento della Camera del Lavoro della città. A fianco dei genovesi scesero in sciopero i lavoratori di tutta Italia, provocando la caduta del governo Saracco e la revoca del decreto di scioglimento delle Camere del Lavoro. Nel nuovo governo Zanardelli, il ministro dell'interno Giolitti, prendendo posizione contro la generale ostilità della borghesia e dei parlamentari, dichiarava: «Purtroppo persiste in molti la tendenza a considerare come pericolose tutte le associazioni dei lavoratori; e questa è la ragione per la quale le classi lavoratrici, che si vedono guardate con diffidenza, diventano ostili al governo e allo stato. Le Camere del Lavoro non hanno in sé nulla di illegale, il  loro fine è semplicemente quello di migliorare le condizioni degli operai; esse potrebbero essere un nobilissimo intermediario fra capitale e lavoro ... Finché dunque non violano la legge, le Camere del Lavoro devono essere rispettate; se violano la legge, devono essere deferite all'autorità giudiziaria. Queste Camere del Lavoro come legittima rappresentanza delle classi lavoratrici debbono essere riconosciute per legge, come  per legge sono riconosciute le Camere del Commercio che rappresentano gli interessi del capitale».
Inoltre in un discorso, tenuto alla Camera il 4 febbraio 1901, Giolitti dichiarava: «Gli amici delle istituzioni hanno un dovere soprattutto: quello di persuadere queste classi, e di persuaderle con i fatti, che dalle istituzioni possono sperare assai più che da ogni sogno dell'avvenire».


Seconda parte: 1900-1922
Dalle federazioni di categoria al "biennio rosso"

1. Le prime federazioni di categoria

Contemporaneamente alla crisi degli inizi del secolo, il movimento sindacale si sviluppò ulteriormente e la parola d'ordine di Marx «l'emancipazione dei lavoratori deve essere opera dei lavoratori stessi» acquistò in Italia una grande popolarità. Lo sviluppo dell'industria negli anni fra il 1894 e il 1913 fu grandioso. Nel 1894 viene fondata la Edison, nel 1897 la Terni e nel 1898 la Montecatini, anche se fu nel 1902 che sorse in Italia una vera e propria industria siderurgica, che nel periodo immediatamente successivo compì i maggiori progressi, insieme con le industrie meccanica e chimica. Nel 1904 con la legge speciale per Napoli venne finanziata la costruzione dell'acciaieria di Bagnoli, l'ILVA (più tardi Italsider), che per effetto della crisi venne inaugurata nel 1910. Il primo luglio del 1889 a Torino per iniziativa di Giovanni Agnelli nasce la FIAT (Fabbrica Italiana Automobili Torino) con un capitale di 800mila lire. Questa industria si sviluppa con una rapidità eccezionale, tant’é che la  sua produzione passa dalle 135 automobili del 1903 alle 268 del 1904. La composizione di classe del proletariato in questo periodo non è ancora molto omogenea. Nel 1901, su una popolazione di circa 32 milioni di abitanti, il numero di salariati dell'industria è di circa 2 milioni e 500mila; Le donne e  i fanciulli sono rispettivamente il  27% e  il 17% del totale dei salariati. Nel 1911, su una popolazione di circa 35 milioni di abitanti, sono circa 4 milioni e mezzo i salariati dell'industria, che tendono a concentrarsi nei grandi stabilimenti. In questi anni i livelli salariali degli operai, dato il ritardo dello sviluppo industriale italiano, erano molto inferiori rispetto a quelli dei lavoratori degli altri paesi europei, come l'Inghilterra, il Belgio, la Francia, la Germania; e l'orario di lavoro era più lungo.
Erano queste le ragioni che stavano alla  base dei grandi scioperi di quegli anni: famoso fu quello di Genova del dicembre del 1900, dove per la prima volta nella storia del movimento operaio italiano si ricorse allo sciopero generale.

La prima federazione di categoria fu quella dei tipografi, diventata nel 1893 "Federazione del Libro": oltre ai tipografi, organizzava gli stereotipisti, i litografi, i fonditori di caratteri e i legatori. Questa federazione ottenne anche i servizi mutualistici.
La seconda federazione fu quella dei ferrovieri, che dall' unione delle Società di Mutuo Soccorso tra i macchinisti e i fuochisti dell'alta Italia e delle ferrovie meridionali, si trasformarono nel 1890 nel Fascio ferroviario comprendente tutte le categorie dei ferrovieri.
Le federazioni tendevano ad assumere molte delle funzioni già proprie delle Camere del Lavoro, in primo luogo le trattative salariali. Inevitabilmente le rivalità tra le Camere del Lavoro e federazioni esplosero.
Sebbene le federazioni fossero espressione di un'elevata maturità organizzativa della classe operaia, esse erano portate, per il loro modo corporativo di agire, verso tendenze riformiste. Infatti tendevano a sostituire alla lotta di classe nei suoi diversi aspetti la lotta di categoria, di carattere prevalentemente salariale, per qualifiche più alte.
Invece le Camere del Lavoro, oltre a portare avanti la solidarietà operaia fra le varie categorie di lavoratori, sentivano fortemente il peso degli interessi delle masse dei lavoratori meno qualificati e tendevano a realizzare l'unità con tutti gli sfruttati, compresi i lavoratori della campagna. Le Camere del Lavoro erano quindi per natura più battagliere e perciò divennero le roccaforti dei sindacati rivoluzionari, di cui parleremo in seguito.
Intanto la politica di collaborazione tra  le classi attuata dal PSI si evidenzia sempre più agli occhi degli operai più dequalificati. In un discorso alla Camera del 1904, reagendo al rimprovero del presidente del Consiglio Giolitti, che dichiarava: «se i socialisti non vogliono gli eccidi, ebbene insegnino agli operai a non prendere a sassate i soldati», Turati lo interrompe esclamando: «Voi lo sapete, noi abbiamo sempre predicato contro la violenza: questa è la nostra fede. Non è lei che deve venire a dire queste bugie, lei sa che abbiamo mantenuto l'ordine pubblico: per quattro anni vi abbiamo fatto i poliziottigratuitamente».
Intanto cominciavano a  circolare anche in Italia le idee dei sindacalisti rivoluzionari, che erano già maturate in Francia ed avevano in Giorge Sorel il maggior teorico.
La tesi che il sindacato, non il partito, dovesse essere la massima organizzazione di lotta della classe operaia e che lo sciopero generale dovesse diventare un' arma insurrezionale per rovesciare il regime borghese stava progressivamente affermandosi tra gruppi di operai e di intellettuali che capivano l'insufficienza del riformismo.

2. La diffusione dell' anarco-sindacalismo

La crisi economica industriale che nel 1906-1907 faceva sentire i suoi effetti sugli strati proletari provocò un'ondata di scioperi. I settori più colpiti cercarono di difendersi e le lotte si fecero sempre più numerose.
Per regolamentare la lotta sindacale, che ormai sempre più sfuggiva al controllo riformista, nel 1906 la Federazione dei Lavoratori Metallurgici (FIOM) propose di costituire una Confederazione Generale del Lavoro (C.G.L.) analoga a quella esistente in Francia. La proposta venne accettata dalle altre federazioni e sostenuta dai sindacalisti riformisti. Segretario generale fu nominato Rinaldo Regola, riformista, che rimase in carica fino al 1918.
Nel 1906 i sindacalisti rivoluzionari, che avevano la direzione della Camera del Lavoro di Milano, estesero la loro influenza su parecchie altre CdL, tra cui quella di Torino ed alcune dell' Emilia. Centro del loro movimento divenne la CdL di Parma, intorno alla quale si raggrupparono le altre CdL e le altre leghe sindacali che avevano aderito alla tendenza sindacalista rivoluzionaria.
L'influenza dei sindacalisti rivoluzionari sulle federazioni di mestiere era allora scarsa. Soltanto il sindacato ferrovieri si schierò con loro nel 1907. Fu allora che gli anarchici entrarono in massa nel movimento sindacale rivoluzionario, col quale avevano una affinità ideologica, e formarono nel 1912 l'USI (Unione Sindacale Italiana). Da allora il movimento fu anche chiamato con  il  nome di "anarco-sindacalismo".
Al di là del nome, questo movimento si diffuse perché rispondeva ad un'esigenza realmente sentita da strati consistenti del proletariato italiano, delusi dalla politica riformista del Partito Socialista e della C.G.L.Intanto gli industriali si organizzano meglio. A Torino nel 1906 nasce la Lega Industriale di Torino. Scopo di questa associazione di classe padronale era la solidarietà tra i soci, con misure che andavano dalla serrata contro gli scioperi generali, al divieto di assunzione degli scioperanti appartenenti a ditte consociate, a multe molto salate ai soci che per primi cedevano alle lotte operaie.
Nel 1911 per iniziativa di Giovanni Agnelli, padrone della FIAT, si costituisce un "Consorzio delle Fabbriche dell'Automobile", per meglio tutelare gli interessi del settore. Questo Consorzio, oltre a stabilire regole che subordinano la minoranza alla maggioranza, stabilisce l'obbligo da parte di tutti i soci di versare una cambiale in bianco da usare contro i soci che cedono alle richieste operaie.
La FIAT (6.500 operai nel 1911) è una delle prime fabbriche a concordare con il sindacato un regolamento per impedire gli "scioperi impulsivi". Inoltre nel 1912 Agnelli propone un contratto valido per tutte le fabbriche del consorzio, cioè le fabbriche automobilistiche: in cambio della facoltà di licenziamento senza preavviso, della soppressione di ogni tolleranza sull'orario di lavoro, dell'obbligo di esperire pratiche conciliative prima della proclamazione degli scioperi, offre aumenti salariali del 6,5% e la riduzione dell'orario di lavoro settimanale a 55 ore.
Inoltre si dichiara disposto a riconoscere ufficialmente la FIOM, impegnandosi a ricorrere al suo ufficio di collocamento e a trattenere direttamente le quote mensili delle tessere sulla busta paga degli iscritti alla FIOM.
Di fronte a questa proposta di compromesso sindacale e di svendita degli interessi operai, la maggioranza dei dipendenti FIAT, guidata dal Sindacato Autonomo Metallurgico di tendenza sindacalista-rivoluzionaria, respinge l'accordo proclamando uno sciopero che si protrarrà per 64 giorni.

3. Il sindacalismo "bianco" e la guerra di Libia
L'impetuosa ascesa del movimento sindacale con forti riferimenti alla lotta di classe, anche se in maggioranza diretta dai riformisti, preoccupava anche il Vaticano. Nel 1891 il papa Leone XIII fissò la posizione della Chiesa sulla questione sociale, pubblicando l'enciclica "Rerum Novarum".
Per la prima volta dal 1870, il Vaticano autorizzava i cattolici a votare sia per i propri candidati che per i conservatori. Il Papa riaffermava inoltre l'ostilità della Chiesa cattolica al socialismo e alla lotta di classe, invitando gli operai cattolici a costituire proprie associazioni basate sul principio “del dovere, della carità e della collaborazione tra le classi". Oltre alla messa al bando della lotta di classe, "sostituita" dalla collaborazione tra capitale e lavoro salariato, Leone XIII condannava lo sciopero, riconoscendo tuttavia come legittime le rivendicazioni operaie per il riposo festivo e la tutela delle donne e dei bambini.
L'enciclica "Rerum Novarum" è all'origine del sindacalismo cattolico, detto anche "bianco", che si sviluppò intorno al 1900 e raggiunse forza intorno al 1914, diffondendosi soprattutto fra i contadini medi e i salariati del cremonese e del Sud d'Italia.
Nel 1918 esso si organizzò nella C.I.L. (Confederazione dei Lavoratori Italiani) che raggruppava 1.250.000 iscritti.
L'intervento del papa, tuttavia, non  fu accolto in  modo unanime e provocò in alcuni gruppi cattolici forti opposizioni. Una delle correnti più battagliere fu quella che faceva capo al sacerdote Romolo Murri e alla rivista "Cultura Sociale": essa tentò di distaccarsi dalla posizione politica conservatrice, ma sconfessata dal Vaticano, fu stroncata.

Alla vigilia della prima guerra mondiale, la crisi economica determinata dalla guerra di Libia impone nuove alleanze.
All'alleanza tra borghesi e operai (questi ultimi controllati attraverso l'aristocrazia operaia e i dirigenti riformisti e collaborazionisti della C.G.L e del Partito Socialista), Giolitti sostituisce l'alleanza tra i borghesi e i cattolici che rappresentano le masse contadine dell'Italia meridionale e centrale.
Nel 1911 l'esercito italiano aveva occupato la Libia, sottraendola alla Turchia. Contro la guerra di Libia la C.G.L, proclamò uno sciopero generale nazionale, che riuscì solo parzialmente nelle zone industriali. Le manifestazioni furono duramente represse dalla polizia.
I nazionalisti organizzarono contromanifestazioni di piazza che videro sfilare al fianco dei sostenitori della guerra imperialista i rappresentati di quasi tutte le forze borghesi, compresi i liberali e alcune organizzazioni cattoliche.
I riformisti di destra del PS (Bissolati, Bonomi, Cabrini), che avevano preso posizione a favore della guerra, nel 1912 vennero espulsi dal partito e costituirono il Partito Socialista Riformista Italiano. Uno dei più risoluti fautori dell'espulsione dei riformisti di destra fu il giovane Benito Mussolini, direttore del quotidiano del partito,l’"Avanti "; due anni dopo verrà a  sua volta espulso dal  PSI a causa della sua posizione interventista nella guerra del 15-18.

4. La "grande" guerra e il fallimento della 2a Internazionale
La crisi economica del 1914 porta inevitabilmente ad un aumento della disoccupazione: le statistiche contano 872.598 emigrati nel 1913.
Nel giugno del 1914 un massacro di lavoratori compiuto ad Ancona si trasformò in una vera e propria sommossa nelle Marche e in Romagna, mentre scioperi scoppiavano in tutta Italia. La "settimana rossa" (così fu denominata successivamente) fu essenzialmente una  lotta spontanea che si smorzò rapidamente, perché sabotata dai dirigenti della C.G.L e non diretta — per incapacità — dagli anarco-sindacalisti dell'USI.
Il 5 agosto 1914 il Partito Socialista, la Confederazione Generale del Lavoro e l'Unione Sindacale Italiana si dichiararono contro la guerra e pronti a dichiarare lo sciopero generale se il governo avesse deciso di entrare in guerra. Nei giorni immediatamente successivi allo scoppio del conflitto, il PSI cambiò posizione, adottando la formula: «non aderire e non sabotare». Intanto in tutta l'Italia operai e contadini scendevano spontaneamente nelle piazze per protestare contro la guerra, sfidando governo e polizia; a migliaia saranno poi processati per "disfattismo", propaganda sovversiva ed antipatriottica.
L'unico sciopero contro la guerra durante il conflitto fu proclamato a Torino e finì con sanguinosi scontri fra operai e forza pubblica. Il bilancio fu di 21 morti, 30 feriti e oltre 1.500 arresti, mentre tra le "forze dell'ordine" i morti furono 3.
Durante la guerra  i dirigenti sindacali riformisti finirono per collaborare apertamente con il governo; secondo loro occorreva approfittare del bisogno che il governo aveva di sviluppare al massimo la produzione per ottenere miglioramenti salariali e una disciplina meno dura nelle fabbriche sottoposte alla militarizzazione.
In questo periodo il governo concesse agli operai aumenti salariali, accompagnati — e quindi vanificati — dal prolungamento della giornata lavorativa e da un forte aumento dei prezzi. L'inflazione durante la guerra superò il 400%. Ponendo nel 1913 la  base 100, nel 1918 arrivò a 409.
Inoltre, per ottenere in qualche modo una maggior collaborazione degli operai, il governo riconobbe le Commissioni Interne di fabbrica: elette da tutti gli operai, avevano il compito di tutelare i loro interessi e — dato il loro carattere — si svilupparono rapidamente rendendosi spesso autonome dai sindacati.
La guerra mette in crisi le organizzazioni e i partiti operai e rende evidente il fallimento della Seconda Internazionale.
In ogni paese la borghesia cerca di coinvolgere gli operai nella guerra, esaltando il nazionalismo, il patriottismo: la vittoria sul nemico, si diceva, era necessaria per liberare gli altri popoli; in realtà sarebbe servita a spogliare il nemico ed occuparne il territorio, conquistando così nuovi mercati.
Quasi tutti i dirigenti socialisti della Seconda Internazionale si schierarono a favore della guerra, sostenendo gli interessi imperialisti delle rispettive borghesie, cioè dei propri padroni; rinnegarono così i principi della solidarietà di classe ed i legami tra le diverse frazioni del proletariato, su cui si era fondata l'Internazionale.
Solo il P.O.S.D.R. (Partito Operaio Socialdemocratico della Russia) si schierò compatto contro la guerra imperialista. Lenin aveva infatti affermato: «la trasformazione dell'attuale guerra imperialista in guerra civile è la sola giusta parola d'ordine proletaria additata dall'esperienza della Comune (di Parigi)». A sostegno degli interessi della borghesia si schierarono non solo molti piccolo-borghesi (anche "socialisti"), ma anche certi strati della classe operaia: la burocrazia del movimento operaio, i capi dei sindacati e dei partiti, e l'aristocrazia operaia (che era ben pagata grazie anche ai profitti derivanti dallo sfruttamento delle colonie e della posizione privilegiata dei propri paesi sul mercato mondiale).
Questo fenomeno si manifesta ovunque, anche in Italia.

5. La 3a Internazionale e l'Internazionale Sindacale Rossa

Dopo la Rivoluzione d'Ottobre in Russia, emerge con chiarezza fra gli operai la necessità di una nuova organizzazione mondiale della lotta di classe per “fare dappertutto come in Russia”. L'URSS diventa il punto di riferimento a cui guardano con simpatia milioni di proletari in tutto il mondo. Ma nello stesso tempo si attira l'odio mortale della borghesia mondiale e dei dirigenti della II Internazionale. La mancata rivoluzione in Europa, a cominciare dalla Germania, pone Lenin ed i bolscevichi di fronte al fatto che: o la rivoluzione si fa ovunque, o prima o poi fallirà anche in URSS. Così nel Congresso di Mosca del 2-6 marzo 1919, preceduto da una lettera aperta di Lenin agli operai d'America e d'Europa (24 gennaio 1919), viene fondata la Terza Internazionale. Nel suo secondo congresso (luglio-agosto 1920), in seguito alle condizioni create dalla guerra al proletariato internazionale, la Terza Internazionale decide di fondare L'Internazionale Sindacale Rossa; contemporaneamente afferma il principio dell’ organizzazione non più per categorie professionali, ma per settori dell'industria, condannando inoltre tutti i tentativi diretti a far uscire dalle organizzazioni sindacali esistenti gli elementi più avanzati.
All'Internazionale Sindacale Rossa aderì anche la CGL italiana, rappresentata nel primo congresso a Mosca (luglio 1921) dal riformista D'Aragona, il quale tuttavia continuò nella sua politica di collaborazione tra le classi.
La CGL, che durante la guerra aveva visto diminuire i suoi iscritti, passò dai 249.039 tesserati del 1918 a 1.159.062 alla fine del 1919 e a 2.320163 alla fine del 1920. Tenendo conto anche degli iscritti all'USI e ai sindacati autonomi (come il sindacato ferrovieri), si può calcolare che il numero complessivo dei lavoratori organizzati salì nel 1920 a circa 3.700.000, quasi cinque volte di più rispetto all'anteguerra.
All'indomani della guerra riprese anche l'agitazione femminista per la parificazione dei diritti. Durante la guerra le donne avevano sostituito gli uomini chiamati al fronte e in questo modo i fatti avevano dimostrato come ormai apparivano ingiusti e sciocchi gli antichi pregiudizi che escludevano le donne dalla società, per la loro presunta inferiorità giuridica, politica e morale.
Lo sviluppo industriale aveva ormai messo in crisi la vecchia famiglia contadina e conseguentemente i pregiudizi derivanti dal vecchio modo di produzione; e le donne cominciavano ad averne coscienza.
Con il maturare delle condizioni economiche si formano anche le basi per la costruzione di alcuni dei maggiori partiti moderni.
Il 23 marzo del 1919 si costituisce a Milano il Movimento Fascista.
Sempre nel 1919 attorno alla rivista "l' Ordine Nuovo”, senza un grosso seguito fuori Torino, si sviluppa il movimento politico comunista guidato da Gramsci, mentre attorno al "Soviet", il giornale a cui fa capo Bordiga, si organizzano la Federazione Giovanile Socialista e la corrente comunista del PSI, facendo assumere al giornale un ruolo nazionale.
Ancora in quell'anno un prete siciliano, Luigi Sturzo, fonda il Partito Popolare.
Nel PSI le correnti principali che allora influenzavano il movimento operaio erano tre:
1- la corrente riformista, che costituiva la minoranza nel PSI ma che aveva in mano l'apparato centrale della CGL, della federazioni di mestiere, della Lega delle cooperative, e la maggioranza dei municipi socialisti, oltre al gruppo parlamentare;
2- la corrente massimalista, detta anche "comunista unitaria", che era  in realtà una corrente centrista: diretta da Serrati, aveva nelle mani l'apparato del PSI e la direzione del quotidiano del partito, '"l'Avanti!";
3- la corrente comunista astensionista (cosiddetta perché favorevole all'astensione elettorale), diretta da Amedeo Bordiga, che disponeva di numerosi gruppi e aveva l'appoggio della Federazione Giovanile Socialista.
C'era anche un'altra corrente, che però non aveva consistenza nazionale: limitata a Torino, faceva capo ad Antonio Gramsci e al gruppo torinese Ordine Nuovo e aveva la sua base nel movimento dei Consigli.

6. Il "biennio rosso" e la nascita del PCd'I
In quegli anni il movimento dei Consigli ebbe un'importanza notevole per la classe operaia. La controprova fu che gli industriali tentarono di stroncarlo (aprile 1920), dopo che Agnelli fallì il tentativo di assorbire il gruppo dell'Ordine Nuovo in nome della «concordanza di interessi fra capitalisti e operai». I membri dei Consigli, eletti reparto per reparto da tutti i lavoratori, si chiamavano “commissari di reparto”. I Consigli non solo eleggevano la Commissione Interna, ma si occupavano di tutti i problemi della categoria e della classe operaia nel suo insieme; questo creava grosse contraddizioni al sindacato diretto dai riformisti con i quali le C.I. entravano spesso in contrasto.
Il 17 agosto del 1920 la FIOM decide l'occupazione delle officine metallurgiche di tutta Italia come risposta alla serrata fatta dai padroni di fronte alle richieste salariali dei lavoratori torinesi. Gli operai continuarono la produzione, iniziando contemporaneamente a costruire in fabbrica le armi per difendersi da un'eventuale azione di forza del governo.
Il movimento stava uscendo dai confini di una lotta salariale; ma il sabotaggio dei dirigenti riformisti della CGL, le incertezze presenti all'interno del gruppo dell' Ordine Nuovo e la trattativa subito avviata con il sindacato dal governo e dagli industriali riportarono la lotta nel campo sindacale.
L'occupazione delle fabbriche dell' agosto-settembre 1920 aveva visto alla testa della lotta partita alla FIAT gli operai dell'USI, dell'Ordine Nuovo e del "Soviet" (dal nome del giornale della tendenza di Bordiga). Appena conclusa la lotta, la repressione colpisce questa avanguardia, in particolare gli anarcosindacalisti: nell'ottobre successivo tutti i dirigenti della segreteria dell'USI vengono arrestati. Finiva così quello che fu poi chiamato il "biennio rosso".
Ormai un nuovo ciclo del capitale si sta esaurendo. Il relativo "benessere" del precedente ciclo economico era stato la base materiale su cui poggiava la politica riformista di Giolitti, che aveva creato le condizioni per il conglobamento nel sistema economico dell'aristocrazia operaia, rappresentata dal PSI e dalla CGL.
La crisi economica che scoppiò nel 1921 rese più acuti i contrasti di classe e politici, facendo crollare i presupposti su cui si fondava il riformismo. Alcune classi non si riconoscevano più nelle vecchie organizzazioni e nei partiti politici esistenti; l'accanita lotta di classe acuita dalla crisi imponeva nuove forme di organizzazione.
I contadini e gli operai, che sotto le armi si erano sentiti promettere ampie concessioni, una volta passato il pericolo e tornati a casa, scoprivano che non solo le promesse non erano state mantenute, ma che le loro condizioni venivano addirittura aggravate dagli effetti della crisi.
L'esempio della vittoria della Rivoluzione bolscevica in Russia dava inoltre grande forza al movimento di massa provocato dalla crisi.
La grande borghesia (finanziaria, terriera, industriale) trovò nel fascismo la soluzione per la salvaguardia del profitto, mentre il proletariato industriale ed agricolo trovò nel Partito Comunista d'Italia (PCd'I) la nuova forma di organizzazione politica: infatti nel 1921 a Livorno dalla spaccatura con il PSI nasce il PCd'I, Sezione italiana
dell'Internazionale Comunista. Anche se  la nascita del PCd'I, a differenza del Partito bolscevico, è frutto di una spaccatura della socialdemocrazia e di mediazioni fra le varie correnti contenenti già dall'inizio posizioni opportuniste, ciò non sminuisce la sua portata storica. Con la formazione del PCd'I, anche in Italia avviene un processo simile a quello avvenuto in Russia: la saldatura fra socialismo scientifico e movimento operaio: dopo quasi 40 anni dalla fondazione del Partito Operaio, il proletariato italiano si presenta sulla scena politica con un suo partito di classe indipendente.



Terza parte: 1923 -1947
Dal sindacalismo fascista alla C.G.I.L.

1. Il sindacalismo fascista
Il fascismo rappresentava agli occhi dei grandi capitalisti e degli agrari il garante dei loro interessi. Infatti, il Partito Fascista appena salito al potere decise una serie di misure a favore del grande capitale: tra l'altro, abolisce il limite massimo di otto ore per la giornata lavorativa, conquistato dagli operai dopo le lotte del 1919-20, riducendo contemporaneamente i salari.
In seguito alla marcia su Roma—che potè compiersi perché Vittorio Emanuele III fece ritirare le truppe che erano schierate a difesa di Roma, dando via libera ai fascisti — il re aveva offerto a Mussolini l'incarico di formare il nuovo governo (28 agosto 1922); ma la svolta decisiva verso la costruzione della dittatura fascista avvenne successivamente, all'inizio del 1925.
Fu allora che venne imposto il sindacalismo fascista: il 13 aprile 1926 la legge Rocco stabiliva il riconoscimento giuridico dei sindacati, con il monopolio di quelli fascisti, i contributi obbligatori, l'istituzione del tribunale del lavoro e la soppressione della libertà di sciopero, oltre che delle Commissioni Interne.
La vita dei sindacati diventa dura, sia per quelli di classe che per quelli bianchi; il 14 giugno del 1927 i dirigenti della CGL sciolgono di propria iniziativa l’organizzazione. Contemporaneamente alcuni dei massimidirigenti (Rigola, D'Aragona, Colombino, Calda, Azimonti, Maglione, Reina) costituiscono un "Centro lo studio dei problemi del lavoro» perché come affermano, «il regime fascista è una realtà e, come tutte le realtà, deve essere preso in considerazione, anche se ciò implica—ovviamente—1' abbandono del principio della di classe».
Il programma  del fascismo  fu enunciato nella Carta del lavoro. Essa prevedeva l'eliminazione della lotta di classe attraverso la creazione delle "Corporazioni", cioè di associazioni di categoria che univano insieme lavoratori e padroni con lo scopo di conciliare i loro rispettivi interessi in nome del supremo interesse della collettività nazionale.
Ciò  che avvenne in realtà fu  che il fascismo diede mano libera al capitale finanziario, industriale e agrario.
Inoltre, con i Patti Lateranensi dell'11 febbraio 1929, il regime  fascista  si assicurava la benevolenza del Vaticano, riconoscendo la Città del Vaticano come stato indipendente pagandogli inoltre l'indennità per gli espropri subiti ai tempi dell'unità d'Italia. Dopo anni burrascosi, i rapporti tra lo stato italiano e la chiesa cattolica vennero così pacificati in  modo venale con il versamento di centinaia di milioni delle lire di allora.
Altri importanti aspetti del Concordato furono l'impegno a impartire l'insegnamento religioso cattolico nella scuola, la negazione dei diritti civili a sacerdoti colpevoli di eresia e di abbandono dello stato sacerdotale, la proibizione di ogni attività politica all'Azione Cattolica.
Allo scioglimento della CGL i comunisti si opposero, ricostituendola nella clandestinità con la parola d'ordine: «fuori dai sindacati fascisti, aderire alla CGL». Ma la vita di un'organizzazione di massa nella clandestinità era difficile.
Il fascismo, dopo aver distrutto qualsiasi forma diorganizzazione operaia, costrinse gli operai ad iscriversi ai sindacati fascisti: infatti, anche se nessuno era obbligatogiuridicamente ad iscriversi, in realtà tutti gli operai —iscritti o non iscritti al sindacato — dovevano pagare lequote sociali e chi si rifiutava di pagare veniva schedatocome sovversivo dalla polizia. Senza contare che unoperaio non iscritto era  il primo a perdere il posto di lavoroin caso di licenziamento, e non avrebbe trovato un altro posto nel caso in cui fosse rimasto disoccupato.

2. La "grande" crisi del 1929  e la svolta del PCI
Una gigantesca crisi di sovrapproduzione inceppa il modo di produzione capitalistico a livello mondiale. Questa crisi ha origine negli Stati Uniti e scuote dalle fondamenta tutto il sistema capitalistico.
La disoccupazione raggiunge punte altissime: solo negli Stati Uniti d'America i disoccupati diventano 13 milioni: in Italia alla fine del 1930 la disoccupazione industriale era aumentata del 70% e quella agricola del 50%.. In nome dell'interesse dell'economia nazionale, nel periodo giugno 1927-dicembre 1928, tramite accordi tra i sindacati fascisti e i padroni, i salari furono ridotti del 20% con il pretesto della rivalutazione della lira. Nel 1929 furono ulteriormente ridotti del 10%. Nel '30  ci fu un'altra riduzione che andava da un minimo dell'8% per alcune categorie al massimo del 25%. Secondo dati ufficiali la disoccupazione passa dalle  320.787 unità del 1929 a 1.018.953 del 1933. Questo  provoca inevitabilmente un accentuarsi degli scioperi e  delle agitazioni, ma nonostante ciò l'organizzazione di  massa clandestina dei comunisti non si sviluppa. La crisi cambia il rapporto fra le classi e l'evoluzione del PCI procede di pari passo. All'alleanza operai-contadini, perno della sua politica classista, il PCI va sostituendo quella interclassista, basata sugli appelli ai "fratelli in camicia nera", affinché prendano coscienza delle "malefatte" del regime. In seguito agli arresti subiti e ancor  più alla presa d'atto dell'aumento dei lavoratori iscritti al sindacato fascista (dal 50% del 1930 al 71% del 1933), il PCI scelse di entrare nei sindacati fascisti: tenendo conto che questi erano costretti a mantenere un certo contatto con i lavora-tori riunendoli ogni tanto nelle assemblee, anche per procedere all'elezione dei fiduciari di fabbrica, il PCI poteva approfittarne per rafforzare la sua organizzazione. Ma il fascismo non fu solo repressione: la tattica del regime era quella del bastone e della carota. Mentre sottometteva agli interessi dell'economia nazionale (cioè degli industriali e degli agrari) gli operai, diede vita anche all'istituto degli assegni familiari (1934), alla legge sulla maternità a tutela dell'infanzia, a leggi contro gli infortuni, nel tentativo di legare a sé gli operai; però soltanto la gerarchia di fabbrica e le nuove fasce di aristocrazia operaia (che avevano soppiantato la vecchia nel nuovo processo di ristrutturazione) trovarono nel fascismo la forma politica che difendeva i loro interessi. Anche negli anni sotto il fascismo vi furono importanti lotte sindacali, sia pure inferiori per numero e intensità rispetto al periodo precedente. La resistenza operaia sbocciòin un grande movimento di massa solo nel 1943 con lo sciopero delle grandi fabbriche di Torino (FIAT in testa), che si diffuse rapidamente in tutta Italia.

3. Lo scioglimento della 3ª Internazionale
Molti cambiamenti erano avvenuti nel primo paese in cui gli operai avevano preso il potere. In URSS il capitalismo si andava sempre più affermando.
Intanto il 15 maggio 1943 viene ufficialmente sciolta la Terza Internazionale, in nome della comune tattica decisa al suo interno, per cui i partiti comunisti dei singoli paesi avrebbero dovuto adeguare la  loro azione tattica alle circostanze e alle esigenze nazionali per far fronte al comune nemico.
Il 28 maggio dello stesso anno, rispondendo in un'intervista ad un corrispondente della Reuter, Stalin dichiarava: «lo scioglimento dell'Internazionale Comunista è giusto e tempestivo, perché facilita l'organizzazione dell'attacco comune di tutte le nazioni che amano la libertà sul comune nemico, l'hitlerismo». Inoltre, aggiunge Stalin, «lo scioglimento dell'Internazionale avrebbe dimostrato la falsità di chi sosteneva che Mosca voleva usare i partiti comunisti non nell'interesse del proprio paese, ma per immischiarsi nella vita degli altri stati per bolscevizzarli».
La lotta contro il comune nemico, l'hitlerismo, verrà utilizzata in seguito dai vari Togliatti, Torez (capo del PCF), ecc,  per giustificare la loro collaborazione di classe con le proprie "borghesie democratiche e progressiste".
Con lo scioglimento della Terza Internazionale si sciolse anche l'Internazionale Sindacale Rossa.

4. Il sindacalismo "libero": nasce la C.G.I.L.
Alla crisi del fascismo seguì immediatamente quella del suo sindacato: dopo il 25 luglio del 1943 il governo Badoglio incaricò alcuni vecchi esponenti del movimento sindacale "libero" di reggere provvisoriamente le Confederazioni Sindacali Fasciste.
Nel settembre del 1943, a Napoli, ci fu il primo esempio di insurrezione popolare di massa contro il nazifascismo. Per quattro giorni il popolo napoletano combattè contro un nemico forte e potente, anticipando quello che due anni dopo sarebbe successo in tutto il paese. Un ruolo importante in questa insurrezione fu quello dato dagli operai napoletani, in particolare da quelli dell'ILVA e dai portuali, che porterà successivamente un grosso contributo alla costituzione della Camera del Lavoro di Napoli. La posizione ambigua, ed il ruolo del tutto marginale, che ebbe il PCI in questa lotta, si evidenziò anche sull'organizzazione di classe.
Intanto nell'Italia "liberata" occupata dall'esercito alleato (il resto dell'Italia era occupata dall'esercito tedesco), da Napoli alla Sicilia vivevano circa 10.000.000 di persone. A Napoli nel novembre del 1943 per opera di alcuni comunisti dissidenti (Enrico Russo, Libero Villone e Vincenzo Iorio) e di operai e militanti del PSI e del Partito d'Azione si costituirono la Camera del Lavoro e la CGL.
La Camera del Lavoro di Napoli, che  nel 1944 organizzava oltre 40.000 tesserati, si impegnò a costituire la nuova CGL nelle zone liberate, ostacolata nel suo lavoro dal PCI ufficiale, che non vedeva di buon occhio la politica dei dirigenti napoletani del sindacato, i quali sostenevano l'indipendenza dai partiti e si basavano su una politica classista che mal si conciliava con la politica di unità nazionale portata avanti dal C.L.N. (Comitato di Liberazione Nazionale). Con  il rientro di Togliatti dall' URSS  la politica del  PCI si spostò su posizioni collaborazioniste verso il governo Badoglio ed il re.
La nuova posizione assunta dal PCI, anche se viene vista dalla maggioranza dei militanti del partito come una tattica temporanea in attesa del momento favorevole per scatenare la rivoluzione, genera parecchi contrasti nella base operaia, che il PCI risolve con la repressione dei dissidenti.
Il caso più significativo, oltre a quello di Napoli, è quello di Torino. Per sfuggire alla repressione scatenata dopo gli scioperi del marzo 1943, il comitato federale del PC torinese si era trasferito sulle montagne, lasciando senza un centro in città gli operai e i militanti torinesi. Nel giugno del 1944  la direzione del  PCI attacca duramente un gruppo di militanti del partito che stampava "Stella Rossa", un giornale clandestino in  cui si sosteneva la necessità di una politica più classista, criticando quindi la politica del partito che privilegiava i rapporti nel CLN con i partiti antifascisti.
Questo gruppo, che conta a Torino città 2.000 iscritti che pagano le quote (contro i 5.000 del PCI ufficiale), sostiene che, come nell'immediato è giusto lottare contro i fascisti e i tedeschi che in quel periodo occupano militar-mente l' Italia fino a  Roma (infatti molti militanti di questo gruppo fanno parte delle formazioni partigiane in Valle Susa e nel Vercellese), così domani bisognerà lottare per farla finita con i capitalisti. Secondo "Stella Rossa" non basta ricostruire lo stato borghese antifascista, ma occorre instaurare la Repubblica Sovietica Italiana.
Il PCI ufficiale interviene contro queste posizioni con un articolo di Pietro Secchia, che accusa "Stella Rossa" di essere un gruppo di spie della polizia e di traditori. Questi operai comunisti dissidenti, sottoposti a una campagna diffamatoria ed esposti alla violenza del partito, oltre che a quella dell'avversario di classe, vengono perseguitati; alcuni di loro sono uccisi, mentre la maggioranza rientrerà nei ranghi del partito dopo lo scioglimento del gruppo.
Intanto avviene la prima lottizzazione del sindacato "libero": il 4 giugno  del 1944, alla vigilia della liberazione di Roma, Di Vittorio per il PCI, Grandi per la DC e Canevari per il PSI firmano una dichiarazione comune nota come il Patto di Roma, che pone le basi della nuova organizzazione sindacale unitaria.
Dal 28 gennaio al 1° febbraio 1945 si tenne a Napoli il primo congresso delle organizzazioni della C.G.I.L. (Confederazione Generale Italiana dei Lavoratori) dell'alta Italia liberata, a cui fu costretta ad aderire la CGL di Napoli.

5. Dalle conquiste operaie dell'immediato dopo guerra all'estromissione delle sinistre dal governo

Dopo anni di compressioni salariali e normative che facevano degli operai italiani i peggio pagati d'Europa, venne il momento di livellare le condizioni; così furono notevoli le "conquiste" che gli operai ottennero in questo periodo.
Nel luglio 1945 venne estesa a tutti i lavoratori dell'industria dell'Italia settentrionale l'indennità di contingenza stabilita in un accordo precedentemente raggiunto in provincia di Milano. Nel dicembre dello stesso anno la CGIL riuscì a concludere un accordo definitivo per la gratifica natalizia assicurando agli operai il corrispettivo di 200 ore lavorative e agli impiegati la 13ª mensilità.
Fu inoltre istituita la Cassa Integrazione in caso di sospensione dal lavoro, già prevista per altro dalle leggi fasciste del 1941.
Nel 1946 si ottennero i contributi assicurativi a carico dei datori di lavoro. Nel settembre dello stesso anno anche gli statali ottennero la 13ª mensilità, oltre a un aumento contrattuale del 70%.
Nel 1945 il PCI, posto davanti ad un'ipotesi di smembramento della FIAT, ceduta al capitale "straniero" (la FORD), chiedeva al governo di vigilare ed operare «in senso conforme agli interessi nazionali».
Nel giugno di quell' anno anche il sindacato era sceso in campo sul terreno generale invitando i lavoratori a votare per la repubblica nel referendum.
Intanto la borghesia italiana, prima monarchica liberale con Giolitti, poi monarchica fascista con Mussolini, cambia nuovamente rappresentanza politica diventando repubblicana e democristiana con De Gasperi. Ormai la borghesia non ha più bisogno di tenersi buono il PCI di Togliatti: è arrivato il momento in cui buttarlo fuori dal governo, dandogli il benservito. Nel suo discorso del gennaio 1947 alla Costituente, mentre sta per essere estromesso dal governo, Togliatti dichiara:
«Si parla di ondate di scioperi politici che avrebbero scosso e scuoterebbero la compagine nazionale. Ho fatto in proposito una ricerca: noi siamo il paese dove hanno luogo meno scioperi. Non ha avuto luogo negli ultimi anni nessuno sciopero politico. Questa è la realtà. Anzi, io desidero andare più in là: siamo un paese nel quale le organizzazioni operaie hanno firmato una tregua salariale, cioè un patto che è unico nella storia del movimento sindacale, perché è un patto nel quale non si fissa un minimo, ma un massimo di salario; cosa questa che non era mai avvenuta, poiché la classe operaia ha sempre lottato per dei minimi e non ha mai accettato dei massimi. Orbene, questo patto lo hanno accettato i nostri operai, lo hanno accettato i nostri sindacati e lo hanno firmato senza che dall' altra parte venisse preso un impegno dì osservare un massimo di prezzi. Questo è l'assurdo della situazione economica nella quale noi viviamo: da partedelle classi lavoratrici e dei sindacati operai si danno tutti gli esempie si compiono tutti gli atti necessari  per compiere la disciplina della produzione, l'ordine e la "pace sociale».
Naturalmente la"tregua salariale" di cui parla Togliatti nessun operaio l'aveva sottoscritta. Ma, come sempre succede, anche in questo caso DC, PCI, PSI e sindacati, arrogandosi il diritto di rappresentanza, si erano presi la delega per decidere i "sacrifici" che altri avrebbero dovuto fare.
Dopo la definitiva estromissione della sinistra dal governo, in un altro discorso alla Costituente Togliatti dichiara: «L'onorevole Cappi sviluppa ampiamente la tesi che i ceti produttori capitalistici hanno diritto di vivere e dì contribuire alla ricostruzione del paese ... Sappiamo benissimo che per la ricostruzione del paesesono necessarie queste forze e infinite volte abbiamo detto loro "collaboriamo" e abbiamo teso loro la mano; abbiamo elaborato programmi di ricostruzione di fabbriche, di zone industriali di città, di province intere ... Ma gli operai hanno fatto di più: hanno moderato il loro movimento, l 'hanno frenato, l'hanno contenuto nei limiti in cui era necessario contenerlo per non turbare l'opera di ricostruzione: hanno accettato la tregua salariale, cioè una sospensione degli aumenti salariali, senza che vi fosse la corrispondente sospensione degli aumenti dei prezzi... I nostri operai comunisti e socialisti vedranno al governo i rappresentanti del ceto ricco, dei grandi capitalisti come Pirelli ad esempio; non vedranno gli uomini in cui essi hanno fiducia. E' evidente quindi che la loro fiducia nel governo come tale non potrà esistere o sarà per lo meno una fiducia molto ridotta. Questa è la cosa che più ci preoccupa!»

«... Stia tranquillo, onorevole Corbino. Lei ha dimostrato la sua soddisfazione per il fatto che il nostro partito, messo fuori dal governo, non ha lanciato la parola d'ordine dell'insurrezione. La cosa ci meraviglia. Lei, onorevole Corbino, avrebbe il dovere di conoscerci meglio!».


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947-1988 Quarta parte:
La classe operaia dal dopoguerra ad oggi

1. La ricostruzione e la tregua salariale
Subito dopo la fine della guerra la lotta per la terra nel Meridione d'Italia assume caratteristiche di massa. Nel 1946 si hanno dure lotte in Lazio, Puglia, Calabria e Sicilia.
Nella cittadina di Andria (in Puglia) i contadini ed i braccianti, sostenuti da tutta la popolazione, insorgono contro gli agrari che si barricano nei loro palazzi. La polizia, intervenuta a difesa degli agrari, spara contro i rivoltosi e sul campo rimangono sette morti e centinaia di feriti. La situazione diventa insurrezionale.
Per cercare di riportare la protesta negli ambiti istituzionali, il ministro degli interni mette un aereo a disposizione di Di Vittorio affinché riprenda il controllo del movimento e "condanni ogni violenza".
Il 2 maggio 1947, il bandito separatista Salvatore Giuliano, messosi al servizio degli agrari e della DC, spara su una pacifica manifestazione di contadini a Portella della Ginestra (in Sicilia), ammazzandone 7 e ferendone 33. In questa situazione la CGIL si avviava al congresso.
Il primo congresso nazionale della CGIL fu tenuto a Firenze dall'1 al 7 giugno 1947 e fu unitario nonostante l'esclusione del PCI e del PSI dal governo. In questo congresso si discusse fra l'altro il ruolo delle ACLI, le quali (istituite dall'Azione Cattolica dopo la liberazione di Roma con il compito di agire nel campo educativo ed assistenziale) tendevano in realtà ad interferire nel campo sindacale.
In quel periodo fra le conquiste da ricordare ci sono:
-il raddoppio delle ferie degli operai;
-l’istituzione e il miglioramento del trattamento di quiescenza degli operai (cioè la liquidazione, o indennità di licenziamento);
-il pagamento delle festività infrasettimanali.

-Intanto le contraddizioni fra i partiti dividono anche ilsindacato. Nell'ottobre del 1946 la CGIL stabilisce una tregua salariale rinnovata anche nel maggio del 1947. Questo comporta una diminuzione del salario reale.
Facendo pari a 100 l'indice dei salari e dei prezzi nel 1938, nel settembre 1947 i salari arrivano a quota 4.670, mentre il costo della vita raggiunge quota 5.334. Il numero dei disoccupati passa da 1.654.880 nel 1946 a 2.025.140 nel 1947 e a 2.142.474 nel 1948.
Questo è il prezzo pagato dai lavoratori alla politica collaborazionista dei suoi leaders sindacali e politici. In questo periodo la borghesia fa sempre più frequentemente ricorso alla serrata per arginare le lotte degli operai, che spesso decidono all'interno delle fabbriche forme di lotta non condivise dal sindacato e dal PCI.
Durante l'autunno del '47 i licenziamenti di massa colpiscono le fabbriche: sono oltre 100.000 i licenziati nelle fabbriche milanesi e torinesi.
Nel 1848 avvengono due fatti tra i più importanti del dopoguerra.
Il 14 luglio, alla notizia dell'attentato a Togliatti, a Milano, Torino e in parecchi altri centri le fabbriche vengono occupate spontaneamente dagli operai armati.
A Torino il presidente della FIAT, Valletta, ed altri 16 dirigenti sono sequestrati dagli operai nei loro uffici; nella notte Scelba (ministro dell'interno democristiano) dà ordine alla questura di attaccare la FIAT e di liberare Valletta, ma le autorità torinesi — di fronte all'ampiezza raggiunta dal movimento che si andava armando — si guardano bene dal far eseguire l'ordine.
In parecchie città la protesta assume un carattere insurrezionale; ma il PCI sconfessa le frange più radicali della protesta e, «coerente con l'impegno democratico» assunto fin dalla guerra di liberazione in difesa della legalità repubblicana, riporta la protesta nell'ambito della legalità, la CGIL fa apertamente opera di "pompieraggio" e dopo due giorni (il 16 luglio) blocca lo sciopero generale; ma in molte località lo sciopero continua.
A Milano la mattina del 16 luglio migliaia di operai invadono la Camera del Lavoro per protestare contro la cessazione dello sciopero; ma la Celere (lo speciale reparto antisommossa della polizia), avvisata della manifestazione da alcuni dirigenti sindacali, si scaglia violentemente contro  gli operai. La  Camera  del Lavoro nel pomeriggio dirama un comunicato nel quale invita i lavoratori ad evitare "assembramenti" e smentisce che l'intervento della polizia sia stato richiesto dai dirigenti sindacali.
Il bilancio delle vittime del luglio '48, secondo dati forniti dal ministro Scelba, è di 16 morti e 244 feriti da arma da fuoco, quasi tutti operai.

2. La rottura della CGIL
Il 1948 registra anche un'altra novità di rilievo: la corrente sindacale democristiana abbandona la CGIL. Nel maggio del 1949 anche i repubblicani ed i saragattiani abbandoneranno la CGIL, costituendo la Federazione Italiana del Lavoro.
Nonostante la pratica di collaborazione attuata nel periodo di ricostruzione dai dirigenti della CGIL, i capitalisti italiani e americani (molto forte era l'influenza di questi ultimi) hanno spinto decisamente nella direzione dell’indebolimento della CGIL. A Napoli nel febbraio del 1950 avviene perciò la fusione fra la Federazione Italiana (repubblicani e saragattiani) e la corrente sindacale democristiana: il nuovo sindacato assume il nome di Confederazione Italiana dei Sindacati Liberi (CISL).

A questa nuova organizzazione si rifiutano di aderire parecchi socialdemocratici e repubblicani, che costituiscono l'Unione Italiana del Lavoro (UIL).
Alla nascita di queste nuove organizzazioni, che di fatto indebolivano il movimento operaio, furono di grande aiuto i dollari americani.
Gli effetti della crisi economica nel dopoguerra cominciano intanto a farsi sentire; nel 1949 gli iscritti agli uffici di collocamento sono circa 2 milioni, mentre si calcola che gli occupati marginali siano 4 milioni.
Il PCI tende sempre più a rappresentare i nuovi strati di aristocrazia operaia che si sentono salvaguardati nella ricostruzione e nella politica di collaborazione tra le classi.
Dopo la rottura dell'unità sindacale, al 2° congresso della CGIL (tenuto a Genova dal 4 al 9 ottobre 1949) Giuseppe Di Vittorio propone il "piano del lavoro". Partendo dall'idea che nella ricostruzione è possibile una collaborazione verso il "risanamento e il progresso", la CGIL vede questo piano basato su un vasto programma di opere pubbliche (strade, telefoni, acquedotti, ecc.) di edilizia popolare, scolastica e ospedaliera. Per il finanziamento del piano, Di Vittorio dice senza mezzi termini che i «lavoratori salariati e stipendiati sarebbero felici di dare il loro contributo avviando nelle fabbriche i "consigli di gestione"».
Il governo ed i padroni però rispondono negativamente. Angelo Costa, presidente della Confindustria, risponde che «l'evidente finalità politica del piano economico non consente una vera collaborazione ».
Gli anni fra il 1950 e il 1955 sono anni di grande sviluppo dell'industria italiana, che aumenta notevolmente la sua capacità competitiva sui mercati internazionali. Uno sviluppo notevole avviene in alcuni settori come la siderurgia, la chimica, l'elettricità e l'automobile.
Nello stesso periodo la produzione aumenta ad un ritmo del 10% l'anno, mentre l'incremento dei profitti nelle aziende industriali è dell'86% per gli utili netti distribuiti. Invece i salari reali fra il 1950 e il 1961 rimangono quasi stazionari

3. La repressione alla FIAT
La ristrutturazione in questi anni avviene attraverso una duplice manovra, che comporta due tipi di intervento:
-la normalizzazione dei rapporti politici con la sinistra;
-la repressione delle frange più estreme.
Il 9 gennaio del 1950, di fronte alla protesta degli operai di una fabbrica di Modena contro la chiusura di uno stabilimento, il governo fa intervenire la polizia: sul campo rimangono 6 morti e 50 feriti, a cui vanno aggiunti i licenziamenti per rappresaglia, i trasferimenti, le perquisizioni e le discriminazioni che da questo momento diventano una pratica costante, particolarmente alla FIAT.

Inizia così la grande repressione contro le avanguardie di lotta, gli operai non più disposti ad abbassare la testa.
Nel febbraio del 1954 l'ambasciatore degli Stati Uniti in Italia, la signora Clara Booth Luce, chiese esplicitamente a Valletta, presidente della FIAT, di «ripulire la FIAT dai comunisti», pena la perdita delle commesse militari che il Pentagono passava alla sua industria. La repressione in FIAT comporterà l'espulsione di decine di migliaia di operai, oltre all'istituzione dei "reparti-confino" per isolare i potenziali agitatori: il più noto di questi era l'Officina Sussidiaria Ricambi, detta anche "Officina Stella Rossa", creata nel 1952.
In questa situazione anche la più normale agitazione si trasformava in una prova di forza tra capitale e lavoro salariato; tant' è che nell'autunno del 1953, alla Mirafiori, alla SPA e alla Grandi Motori, la FIAT instaurò dei tribunali di fabbrica, composti da dirigenti e dall'ispettore del corpo di sorveglianza, per giudicare gli operai che non rispettavano la normale disciplina del lavoro e punirli di conseguenza: e spesso la pena era il licenziamento (notare che le guardie erano reclutate normalmente tra ex agenti di polizia ed ex carabinieri).
Non è un caso che le lotte siano perciò rifluite, e che dall'inverno del 1953 alla primavera del 1962 in pratica non si ebbero più scioperi.

4. Riprendono le lotte: l'assalto alla UIL di Torino
Gli anni fra il 1960 e il 1963 registrano una notevole ripresa della lotta operaia. Una nuova classe operaia fa i conti con la prima fase  di sviluppo impetuoso che segnala la fine del ciclo del dopoguerra.
Nel 1955 si registrano 45 milioni di ore di sciopero e 1.383.000 adesioni agli scioperi; nel 1962 le ore di sciopero arrivano a 181milioni e le adesioni a 2.900.000.
Gli operai della FIAT hanno sempre avuto una funzione importante per l'insieme del movimento operaio, e dopo un decennio di relativa passività, essi ripresero il posto nel movimento. L'occasione fu  lo sciopero nazionale di 72 ore (il 7, il 9 e il 10 luglio 1962), che vide gli operai scendere in lotta massicciamente (quasi al 100%), nonostante l'accordo firmato separatamente nella notte fra il 6 e il 7 dalla UIL e dal SIDA (un sindacato aziendale filopadronale costituito nel 1958).
Il pomeriggio del 7 luglio una manifestazione di operai FIAT marcia contro la sede della UIL, in piazza Statuto a Torino; la polizia carica il corteo e cominciano scontri violentissimi che durano tre giorni fra operai FIAT, giovani e abitanti del quartiere da una parte, e polizia e carabinieri dall'altra.
Il bilancio della lotta si incaricano di farlo i giornali, e tra essi in particolare la Stampa e l'Unità: 1.215 fermati, 90 arrestati e rinviati a giudizio per direttissima, più di 100 denunciati a piede libero furono il prezzo pagato dagli operai, mentre nel campo avversario si registrarono 169 feriti tra poliziotti e carabinieri.
La ritorsione della FIAT arrivò puntuale, il 2 eil 3 agosto: 88 lettere di licenziamento per rappresaglia colpirono gli operai più combattivi.

5. Le lotte operaie del 1968-69
Il retroterra delle lotte del 1968-69 sta nelle condizioni materiali degli operai italiani. La crisi del 1964-1966 aveva generato una forte ristrutturazione, con la conseguente espulsione dalle fabbriche di ingenti quantitativi di forza lavoro; cresce quindi in tutto il paese la tensione che investe ampi settori di operai colpiti dalla crisi.
Ancora una volta l'inizio di un nuovo ciclo di lotte viene inaugurato dagli operai della FIAT, che il 30 marzo del 1968 scendono in sciopero per l'orario di lavoro e il cottimo. Il 19 aprile del 1968 a Valdagno (Vicenza), gli operai della Marzotto in segno di protesta contro il paternalismo padronale, durante una lotta per  aumenti salariali, abbattono la statua del fondatore dell'azienda. Pochi mesi dopo, nell'estate, lotte dure scoppiano a Porto Marghera e alla Pirelli Bicocca di Milano.
Le lotte, nate alla FIAT, si estendono su tutto il territorio nazionale.
Per contrastare l'azione padronale e la linea sindacale considerata da molti lavoratori "troppo moderata", in alcune località operai e impiegati, insieme, danno vita a nuove forme di organizzazione unitaria: i Comitati di Lotta. A Cagliari (Italallumina, Rumianca) ed a Napoli (Italsider, Ignis Sud), attraverso i comitati di lotta, vengono sperimentate nuove forme di organizzazione.
Alla Pirelli di Milano, nella lotta per il controllo dei cottimi e agganciarli all’inflazione, si diffonde a livello di massa la critica contro i partiti, compreso quello comunista, accusati da consistenti gruppi di operai di avere più a cuore gli interessi dei capitalisti che quelli degli operai. La composizione di classe è cambiata perché l'emigrazione dal Sud e dalla campagna ha creato nuovi strati operai: entra nella lotta il cosiddetto "operaio-massa", con una mentalità poco incline ai compromessi, per cui si realizza una radicalizzazione delle lotte.
Anche alla Pirelli si sperimentano nuove forme di organizzazione (i Comitati Unitati di Base: CUB, e i Consigli dei Delegati), che nel 1969 si diffondono ovunque.
Tutto questo preoccupa i sindacati, che sono costretti in molte occasioni a rincorrere le lotte.
Nel contratto nazionale del 1969 i metalmeccanici, oltre agli aumenti salariali uguali per tutti, ottengono la riduzione d'orario a 40 ore settimanali, aprendo la strada a tutte le altre categorie.
Il 12  dicembre del 1969 una bomba esplode a Milano nella Banca Nazionale dell'Agricoltura causando 17 morti e 88 feriti, inaugurando la strategia della tensione. Settori della borghesia e apparati statali, nel tentativo di arginare le lotte operaie, aprono il capitolo delle stragi di stato, tuttora impunite, e dei tentativi di golpe. L'incapacità della sinistra riformista di dare risposte adeguate genera un forte malcontento fra settori di lavoratori. Consistenti nuclei di proletari e di piccola borghesia, rompendo con il PCI, assumono posizioni sempre più radicali ingrossando le fila dei gruppi extraparlamentari o creando le condizioni per costituirne di nuovi.
Nel maggio 1970 diventa legge lo Statuto dei Lavoratori.
In questi anni, approfittando della congiuntura favorevole, gli operai adeguano le loro condizioni economiche a quelle degli operai degli altri paesi europei, conquistando nel 1975 il punto unico di contingenza.
Negli anni seguenti, la crisi di sovrapproduzione esplode violenta in alcuni settori a livello mondiale. Uno dei più colpiti è il settore dell'automobile che in Italia racchiude la più grossa concentrazione operaia.

6. Crisi del '76: ristrutturazione e “terrorismo”
In seguito alla crisi del 1976, mentre le condizioni materiali degli operai subiscono duri colpi, nasce il governo di "solidarietà democratica" con l'ingresso del PCI nella maggioranza di governo, anche se da esterno.
Gli anni che vanno dal '76 al '78 vedono nel PCI il maggior sostenitore delle decisioni governative in fabbrica; Luciano Lama e gli altri uomini del PCI nel sindacato, in  nome degli interessi della nazione, nel 1977 impongono la cosiddetta linea dell'EUR basata sui "sacrifici". Secondo CGIL-CISL-UIL, gli operai occupati avrebbero aiutato il paese a diventare "più competitivo", contenendo le loro richieste salariali e aumentando la produzione; in cambio i padroni avrebbero riversato una parte dei profitti nelle aziende, creando nuovi posti di lavoro per i disoccupati.
Nonostante la resistenza passiva della grande massa e quella attiva di piccole minoranze di operai, purtroppo divisi fra loro e disorganizzati, in questi anni padroni e governo (con la complicità degli apparati sindacali e del PCI) impongono una serie di accordi-capestro.
L'introduzione delle nuove tecnologie nei processi produttivi aumenta la produttività del lavoro e l'intensità dello sfruttamento, contribuendo ad accelerare l'espulsione di manodopera dal processo produttivo.
La crisi, che in alcuni settori si acuisce velocemente, richiede continuamente nuovi livelli di sfruttamento, pena l'uscita dal mercato internazionale.
Ma la resistenza operaia tende a crescere; gli operai si accorgono che la rinuncia a difendere i loro interessi non solo non è servita ai disoccupati, ma che gli ulteriori investimenti produttivi hanno ridotto il numero degli occupati. Piccoli gruppi di operai cominciano a mettere in discussione il sistema nel suo complesso, ponendo il problema del potere politico anche all' interno delle assemblee di fabbrica e riscuotendo sempre più consensi. Perciò padroni, governo, sindacati e partiti decidono di stroncarli, usando come pretesto la lotta al terrorismo.
Le azioni dei gruppi armati (Brigate Rosse, Prima Linea, ecc.) hanno come risposta l'organizzazione di scioperi a difesa dello stato, criminalizzando come potenziali terroristi tutti coloro che non partecipano a questi scioperi o che criticano il sindacato per la sua politica filopadronale: così, fra il 1976 e il 1983 si instaura nelle fabbriche un clima di caccia alle streghe. Particolarmente attivo in questa campagna si dimostra il PCI che invita continuamente alla delazione e alla repressione contro gli ipotetici fiancheggiatori del terrorismo.
Quei pochi operai che nelle fabbriche continuano a lottare per i loro interessi contro i padroni (e contro il governo) riconoscendoli come i veri nemici principali, vengono estromessi dal sindacato, licenziati, repressi, intimiditi con continue perquisizioni domiciliari e, dove questo non basta, incarcerati. La lotta al terrorismo fornisce su un piatto d'argento ai padroni e ai partiti (PCI compreso) l'occasione per reprimere l'opposizione di classe in fabbrica senza neanche pagarne il prezzo politico.

7.  I 35 giorni di lotta alla FIAT
La strada è aperta ancora una volta alla FIAT che, il 9 ottobre del 1979, licenzia 61 operai degli stabilimenti di Mirafiori, Rivalta e Lancia Chivasso; la maggioranza dei 61 sono operai attivi nelle lotte. L'azienda giustifica il loro licenziamento come una misura per combattere il terrorismo in fabbrica. In realtà la strategia dei dirigenti FIAT tende a ridurre il più possibile il personale per realizzare una profonda ristrutturazione del settore auto.
Infatti, dopo il licenziamento dei 61, la direzione aziendale continua l'espulsione del personale, prima con i licenziamenti per assenteismo (che colpiscono ammalati, invalidi, donne in maternità, ricoverati in ospedale), poi con i licenziamenti in massa.
Il 10 settembre del 1980 a Roma avviene la rottura delle trattative con la FLM (il sindacato unitario dei metalmeccanici): la FIAT voleva mettere in mobilità esterna migliaia e migliaia di lavoratori; la FLM rifiutava questa impostazione, considerandola "un'anticamera dei licenziamenti" e proponeva il ricorso alla cassa integrazione, con la rotazione dei cassintegrati, la mobilità interna, il blocco del turn-over.
Rotte le trattative, la FIAT annuncia che avvierà la procedura di licenziamento per 14.000 dipendenti; il giorno 11 settembre gli operai del primo turno di Mirafiori proclamano 8 ore di sciopero e la lotta continua ad oltranza nei giorni successivi.
In questo periodo il PCI soffia sul fuoco della protesta operaia, nel tentativo di arginare le sue emorragie elettorali, dovute alla politica dei sacrifici di cui si è fatto gestore in prima persona nelle fabbriche. Ma con il passare dei giorni aumentano  le difficoltà  degli scioperanti: il  numero degli operai attivi tende a calare, tant'è che il sindacato e il PCI rinforzano i picchetti portando a Torino delegati da ogni città.
Nel frattempo la direzione FIAT trova dei servi intelligenti che le organizzano una manifestazione per le vie diTorino dei capi e dei crumiri raccolti da tutti gli stabilimenti del gruppo, per rivendicare il proprio "diritto al lavoro".
Dopo 35 giorni di sciopero ad oltranza, viene firmato a Roma un accordo fra sindacato e FIAT che non corrisponde affatto all'impostazione iniziale della FLM, perché non contiene la rotazione della cassa integrazione. Le assemblee sono tenute personalmente dai capi delle tre confederazioni sindacali per far approvare a tutti i costi l'accordo; ma il giudizio della grande maggioranza degli operai è negativo e Lama, Benvenuto e Carniti rischiano di essere malmenati dagli operai furibondi e sono costretti a scappare, ingloriosamente protetti dalla polizia.

8. La disdetta della scala mobile e il referendum
Nel giugno del 1982 la Confindustria annuncia ufficialmente che non intende rinnovare la firma dell'accordo del 1975 sul punto unico di contingenza. Nelle maggiori fabbriche gli operai abbandonano il lavoro e scendono nelle piazze.
Il 22 gennaio del 1983 CGIL-CISL-UIL, riconoscendo nel costo del lavoro un fattore di inflazione, concordano unitariamente con i padroni il primo taglio della scala mobile (in realtà un primo taglio della scala mobile avvenne nel 1977 all'epoca in cui il PCI faceva parte della maggioranza di governo).
Il 14 febbraio un decreto del governo guidato dal socialista Craxi, con il pieno appoggio di Benvenuto (UIL), Carniti (CISL) e Del Turco (minoranza socialista della CGIL), taglia di 4 punti la scala mobile.
Pur riconoscendo la necessità della riduzione del "costo del lavoro" e degli automatismi salariali, la maggioranza della CGIL (egemonizzata dal PCI) si schiera contro il decreto, in quanto contraria allo spirito "decisionista" del governo Craxi.
Come conseguenza di questa spaccatura, i capi sindacali decidono lo scioglimento delle forme unitarie, prima fra tutte la FLM. Cresce sempre più, a partire da questo momento, un atteggiamento competitivo fra  le varie organizzazioni sindacali, che tuttavia su un punto rimangono concordi: la necessità per i padroni dei profitti, a cui qualunque rivendicazione operaia deve essere subordinata; nasce la teoria della "compatibilità".
Alla fine del 1984 i disoccupati ufficiali sono 2 milioni e mezzo. I cassintegrati hanno raggiunto il numero di 438 mila, mentre le ore di sciopero (31 milioni) per la prima volta sono scese, avvicinandosi al minimo storico del 1952 (28 milioni di ore).
Intanto un milione di lavoratori stranieri (un numero superiore al totale degli operai metalmeccanici) che lavorano in condizioni disagiate, sottopagati, costretti a subire continui ricatti sotto la minaccia del rimpatrio, cominciano —sia  pur timidamente—a comparire sulla scena della lotta di classe.
Il 9 giugno 1985 si fa il referendum contro il decreto di 4 punti di contingenza  tagliati, organizzato con raccolte di firme dal PCI. Sul referendum non tutto il PCI è compatto. Alcune componenti del partito e una parte di quella "comunista" della CGIL, con a capo Lama, attuano un'azione di sabotaggio. La campagna elettorale si infiamma, e in alcune fabbriche si arriva a scontri fisici fra operai e sindacalisti. Su un problema che riguarda essenzialmente il salario si chiamano ad esprimersi tutte le classi sociali; e, come inevitabilmente succede nelle elezioni generali, il sistema mette in minoranza gli operai.

9. Il costo del profitto
Nello stesso anno l'occupazione, che in tutto il paese è in continuo calo, alla FIAT subisce un vero tracollo: dal 1979 al 1985 il numero degli occupati della FIAT-Auto diminuisce di 50 mila unità, mentre la produttività per addetto è quasi raddoppiata, come dimostrano le prime due tabelle che riproduciamo nell'ultima pagina.
Nel 1986 su un totale di 18 milioni di lavoratori, gli iscritti a CGIL-CISL-UIL sono 6.688.208. A questi vanno aggiunti un altro milione e mezzo di lavoratori iscritti ai vari sindacati autonomi. Nonostante il grande sviluppo del movimento sindacale dopo la seconda guerra mondiale, i sindacati non organizzano ancora la maggioranza dei lavoratori.
Intanto aumentano fra gli iscritti fenomeni di insofferenza: la nascita dei COBAS (Comitati Unitari di Base) in alcune categorie e settori (ferrovieri, insegnanti e in generale nel pubblico impiego) testimonia il malessere esistente contro la politica filopadronale dei sindacati confederali.
Mentre è ormai di moda parlare di "scomparsa" della classe operaia, di "operai in camice bianco", tutti i giorni e  le notti della settimana, compresi i sabati e le domeniche, Natale, Pasqua e Capodanno (mentre tutti gli altri si divertono e si riposano) migliaia e migliaia di operai continuano a varcare i cancelli delle fabbriche senza che ciò faccia notizia.
E, salvo casi clamorosi, su cui si stende subito dopo un velo di silenzio, non fa neppure notizia la strage che dentro le fabbriche avviene giorno e notte. Nel 1988 in Italia si è registrato un record di morti sul lavoro: 8 al giorno (vedere la  tabella 3 della pagina seguente). Secondo i dati forniti dall'INPS ci sono stati 3.026 omicidi bianchi (50% in più dell'87). Se si tiene conto che l'INPS registra come infortuni mortali solo i decessi avvenuti entro il diciottesimo giorno, si può intuire che la cifra dei morti è largamente sottostimata.

Se a questo si aggiunge che l'80% delle malattie professionali e degli infortuni è concentrata nel settore industriale, risulta evidente quanto sia alto il prezzo che gli operai devono pagare per far arricchire i loro padroni. Dietro l'apparente "pace sociale" si nasconde una guerra di classe il cui prezzo sempre più alto viene pagato solo dagli operai. Ma fino a quando gli operai saranno disposti a tollerarlo?


Quinta parte: 1989-1993
Crisi della rappresentanza e "autorganizzazione"

1. Il crollo dei “regimi” dell'Est
Nel 1990 la crisi acuisce i contrasti sociali rimettendo in movimento le varie classi sociali, che cercano nuove rappresentanze politiche. Allo sfaldamento dei vecchi partiti corrisponde la nascita di altri raggruppamenti e il rafforzamento dei nuovi, come la Lega Lombarda, la Rete, ecc.
Il crollo dei partiti comunisti e dei “regimi” dell'Est hanno come conseguenza l'instaurazione di nuovi regimi che accelerano il processo di restaurazione del capitalismo. L'introduzione del libero mercato ha come conseguenza milioni di disoccupati che cominciano a muoversi premendo alle frontiere dei paesi vicini alla ricerca di un tozzo di pane. I vari partiti comunisti vengono sciolti o cambiano nome a cominciare dal PCUS. In Italia il PCI, ormai da tempo socialdemocratico, si scinde in due partiti. La maggioranza, sotto la guida di Occhetto (segretario del vecchio PCI) dà vita al PDS (Partito Democratico della Sinistra), mentre la minoranza — insieme al partito di Democrazia Proletaria—dà vita al Partito della Rifondazione Comunista.
Questo nuovo partito della sinistra riformista composto, da militanti e dirigenti dell'exPCI, rimane completamente legato alla storia compromissoria del vecchio partito di Togliatti e Berlinguer al quale continua a richiamarsi.
Nel gennaio del 1991, usando il pretesto dell'invasione del Kuwait da parte degli iracheni, gli USA e gli eserciti delle maggiori potenze imperialiste (fra cui l'Italia) sotto l'egida dell'ONU dichiarano guerra all'Iraq. Tonnellate di bombe vengono scaricate sulla popolazione. Le segreterie nazionali di CGIL-CISL-UIL e la maggioranza dei partiti giustificano la guerra imperialista e cercano di impedire ogni mobilitazione. Nel paese la guerra, con l'intervento diretto dell'aviazione militare italiana nei bombardamenti, crea forte indignazione, a cui seguono mobilitazioni, spontanee, di lavoratori e di studenti.
Allo scoppio della guerra, i Consigli di fabbrica della Breda, dell'Ansaldo e dell'ElettroCondutture della zona di Sesto San Giovanni, decidono autonomamente lo sciopero contro la guerra chiamando tutti gli operai milanesi a partecipare alla  manifestazione  in piazza San Babila. Più di ventimila lavoratori rispondono all'appello richiedendo lo sciopero generale. Sotto la pressione degli operai, CGIL-CISL-UIL di Milano dichiarano per il giorno dopo lo sciopero generale con un corteo in centro che vede la partecipazione di migliaia di lavoratori e di studenti. Purtroppo questi esempi rimarranno isolati a poche situazioni, perché la maggioranza dei lavoratori non verrà mobilitata.
Intanto la sospirata ripresa dell'economia capitalistica, conseguenza della guerra del Golfo, prevista da tutti i maggiori economisti, non arriva e questo acuisce gli effetti della crisi economica. Mentre le condizioni del proletariato italiano peggiorano, la conflittualità cala. Nei dieci anni che vanno dal 1981 al 1990 le ore perse per conflitti di lavoro sono passate da 115.201.000 del 1981 a 35.377.000 del 1990, con una diminuzione in percentuale del 69,3%. Al più alto periodo di ristrutturazione, corrisponde il periodo di più bassa conflittualità. Se, nella fase precedente, pur in un quadro di compatibilità gli scioperi erano serviti per adeguare il salario e le condizioni normative al costo della vita, con la ristrutturazione gli operai non solo sono costretti a contrattare la perdita delle condizioni precedentemente "conquistati", ma addirittura a contrattare la perdita del posto di lavoro. La crisi, ricompattando tutte le forze politiche e sindacali sulla necessità dei sacrifici da imporre ai lavoratori, costringe la borghesia imperialista ad una ristrutturazione e razionalizzazione del potere politico e dello stato.
Il risultato di questa politica è un impoverimento generalizzato della classe operaia e delle masse proletarie che in alcune zone del paese rasenta la disperazione.
Nel Sud, in particolare a Napoli e in Calabria, la disoccupazione supera il 35%, e questo trasforma spesso ogni chiusura di fabbrica in sommosse popolari a cui partecipano altri strati proletari, primi fra tutti i disoccupati che a Napoli, a differenza di altre città, possiedono proprie organizzazioni.
La durezza e la radicalità  che vanno assumendo al Sud e nelle isole gli scioperi preoccupano il governo che, per bocca del ministro dell'interno, cerca di prevenire gli eventi criminalizzando i movimenti. A questo scopo il governo attua delle prove generali mobilitando l'esercito e militarizzando, con i pretesti più vari, intere zone della Calabria, della Sicilia e della Sardegna.

2. La ripresa delle lotte operaie ed i bulloni ai sindacalisti
La caduta degli scioperi ed il calo della conflittualità operaia continua fino all'agosto del 1992. In questo periodo, la partecipazione agli scioperi e la frequenza, raffrontati nel periodo gennaio-maggio 1991 e 1992, diminuisce in assoluto rispetto al periodo dell’anno precedente di 62,6 punti.
Il peggiorare della crisi economica porta padroni, governo e sindacati a sottoscrivere un patto sociale basato sul taglio dei salari. Nella notte del 31 luglio del 1992, mentre le fabbriche chiudono per ferie, il governo, presieduto dal socialista Amato, firma un accordo con CGIL-CISL-UIL che abolisce l'indennità di contingenza. Nel mese di settembre il governo svaluta la lira del 15% e continua nella politica di smantellamento dello stato sociale, a cominciare dalle pensioni. Ma, come si toccano le pensioni, i lavoratori dell'Alfa Romeo di Arese (Mi) scendono in lotta.
I sindacati confederali, pur con alcuni "distinguo", sostengono la manovra governativa. Secondo i "rappresentanti" dei lavoratori, i sacrifici sono necessari purché distribuiti "equamente". Di diverso avviso è una parte consistente dei lavoratori, i quali sostengono che il problema non è tanto che tutti paghino le tasse, compresi i ricchi: caso mai il problema è che i ricchi e gli sfruttatori esistano.
Un'ondata di scioperi, spesso spontanei o organizzati da gruppi di delegati, investe tutto il paese e in piazza scende un movimento operaio che va sempre più radicalizzandosi. Ovunque gli operai rivendicano lo sciopero generale nazionale e in alcuni casi occupano le sedi sindacali. A Sesto San Giovanni (Mi) gli operai che, in sciopero, escono dalle fabbriche e occupano la sede regionale di CGIL-CISL-UIL si vedono minacciare dai dirigenti sindacali che a loro protezione chiamano polizia e carabinieri.
Il 21 settembre, a Firenze, Trentin (segretario nazionale della CGIL) duramente contestato dai lavoratori con lancio di bulloni, uova e ortaggi, non riesce a finire il comizio.
Stessa sorte tocca due giorni dopo a Veronese della UIL in Piazza Duomo a Milano, costretto ad abbandonare il palco dopo solo 4 minuti, mentre un corteo di ventimila lavoratori abbandona Piazza Duomo recandosi all'associazione degli industriali lombardi e in prefettura.
In tutte le piazze, da Roma a Palermo, le tute blu — che molti avevano date per scomparse — ritornano a imporsi sulla scena, ponendosi alla testa delle proteste contro il governo ed i dirigenti sindacali.
Le contestazioni, che in una prima fase vedono alla testa gli operai dell’industria in contrasto con il sindacato, organizzatisi nei COBAS e nei Comitati di Lotta, si vanno sempre più allargando investendo anche il pubblico impiego che partecipa sempre più massicciamente alla lotta nonostante il grave handicap del preavviso, che è una vera legge antisciopero.
Il 2 ottobre a Roma, in occasione dello sciopero regionale del Lazio, scoppiano violenti scontri tra lavoratori e studenti da un lato e forze dell’ ordine coadiuvate dal servizio d'ordine sindacale dall'altro. Larizza (segretario generale della UIL) conclude il comizio protetto dagli scudi di plastica dei celerini. Centinaia di lavoratori e studenti rimangono feriti sotto i colpi dei manganelli della celere e delle mazze del servizio d'ordine sindacale.
Dopo la frattura fra apparato sindacale e lavoratori, il sindacato, in particolare la FIOM, cerca di riprendere il controllo del movimento dei lavoratori applicando una nuova tattica. Lo strumento di questa operazione sono i Consigli unitari di CGIL-CISL-UIL. Attraverso i suoi uomini inseriti dei C.d.F, il sindacato ha da tempo snaturato questi organismi trasformando i delegati eletti dai lavoratori in rappresentanti di CGIL-CISL-UIL all'interno del movimento dei lavoratori. Con il movimento dei consigli, composto da delegati "schiavi", che non vengono rinnovati da oltre dieci anni, il sindacato riesce a fiaccare il movimento riprendendone temporaneamente il controllo.

3. Gli aiuti "umanitari"
La più grande crisi del dopoguerra squassa il sistema politico-industriale, figlio della ricostruzione e dello sviluppo. Il sistema deve razionalizzarsi tagliando i rami secchi anche al suo interno; primi fra tutti le tangenti e gli investimenti della mafia, che si manifestano come "concorrenza sleale" non più compatibili nella crisi. Lo scandalo delle tangenti, che coinvolge centinaia di imprenditori e politici in tutta Italia, accelera ancora di più la necessità del grande capitale imperialista di procedere sulla via della riforma dei partiti e dello stato.
Agli occhi dei lavoratori, invece, si evidenzia come i sacrifici ed il contenimento salariale, frutto di anni di campagne contro il "costo del lavoro", servivano in realtà a nascondere il costo del capitale e del suo sistema.
La necessità di trovare nuovi sbocchi alla sovrapproduzione di capitale rende più aggressivi i capitalisti che cercano nuovi mercati, usando l'esercito. Dopo aver inviato truppe armate in Albania, verso la fine del 1992, il governo italiano, al pari dei governi americani e francese, invia nuovamente l'esercito in Somalia, ex colonia italiana. Con il pretesto degli aiuti "umanitari" i capitalisti italiani realizzano ottimi affari inviando merce avariata al prezzo di quella buona, partecipando nuovamente alla spartizione delle materie prime.
Nel gennaio del 1993, prendendo a pretesto il rifiuto del regime irakeno di far visitare il suo territorio dagli ispettori dell'ONU, le truppe armate degli Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia bombardano nuovamente l' Iraq.
L'Italia questa volta non partecipa direttamente al conflitto, anche se il governo, pur con alcuni distinguo, sostiene l'azione armata. Se la guerra a senso unico dura pochi giorni e provoca "solo" decine di morti, il democratico e pacifico embargo provoca più di 250 morti al giorno.

Intanto la crisi economica va peggiorando sempre più, ed il problema della disoccupazione diventa ogni giorno più grave. Nel paese comincia a formarsi un movimento proletario anticapitalista.
All'inizio del 1993 gli esempi di resistenza operaia si moltiplicano. In Sardegna i minatori del Sulcis si barricano nelle miniere, che l'ENI vuole chiudere, con 400 Kg. di tritolo minacciando di farle saltare in caso di chiusura. Azioni analoghe vengono attuate dai minatori siciliani, e anche in Calabria i lavoratori sono protagonisti di dure lotte.
Il 27 febbraio alla manifestazione indetta dai C.d.F. contro il governo partecipano più di 200.000 lavoratori. Alla fine del comizio degli oratori ufficiali, alcune centinaia di lavoratori autorganizzati e di proletari dei centri sociali — cui è stata negata la parola — occupano il palco e danno vita ad un proprio comizio a cui assistono decine di migliaia di lavoratori.
Il 1° aprile 1993, a Pomigliano d'Arco (Napoli), migliaia di lavoratori dell'Alenia, dopo l'ennesima dimostrazione in difesa dell'occupazione, invadono la sede di CGIL-CISL-UIL mettendola a soqquadro. Il giorno dopo un comunicato sindacale chiama provocatori i lavoratori e questo non fa che aumentare l'indignazione popolare.
Il capitalismo, rendendo sempre più precaria la situazione del posto di lavoro e non essendo più in grado di garantire neanche le condizioni minime di sopravvivenza nelle sue stesse metropoli imperialiste, dimostra il suo fallimento. La crisi economico-politica, frutto del sistema dell'abbondanza e dell'appropriazione del profitto nelle mani di poche migliaia di famiglie che detengono il potere economico e politico negli "stati ricchi" del mondo, rende ancora più intollerabile la miseria e la fame crescenti che centinaia di milioni di individui subiscono.
Il capitalismo ha sempre risolto le sue crisi con le guerre, facendo massacrare fra loro i proletari e i popoli del mondo per i suoi interessi. Quindi, perché i lavoratori dovrebbero sostenere un sistema sociale che trova il suo sostentamento sul loro sfruttamento e sul sovrapprofitto estorto e realizzato sulla pelle dei popoli del mondo?
La storia del movimento operaio e proletario e quella della lotta delle classi subalterne dimostrano che quando ci si organizza si può anche dare "l'assalto al cielo" e vincere.
Riusciranno i proletari italiani, insieme al proletariato mondiale, ad abbreviare le doglie del parto avvicinando l'alba di un nuovo giorno?



Appendice

Tabella 1
Cinquantamila in meno: l'occupazione alla FIAT Auto dal 1979 al 1985


 

1979

1980

1981

1982

1983

1984

1985

Operai

113.568

110.049

97.046

88.312

78.993

71345

64.123

Impiegati e dirigenti

25.381

24.572

22.156

20.350

19.175

18.312

17.735

TOTALE

138.949

134.621

119.202

108.662

98.169

89.657

81.859

Addetti  in  CIG a zero ore

20.509

18.591

19.091

14.569

10.380

n.d.

TOTALE NETTO

138.949

110.112

100.611

89.571

83.600

79277

n.d

impiegati/totale addetti (%)

18,27

18,25

18,59

18,73

19,00

20,42

21,67

 

Tabella 2

Quasi il doppio: la produttività per addetto alla FIAT Auto dal 1979 al 1985

 

 

1979

1980

1981

1982

1983

1984

1985

Produttività vetture prodotte nell’anno per operaio  (valori assoluti)

14,8

16,5

19,4

21,8

23,9

25,1

27,7

Produttività Variazioni % (*)

___

+11,6

+17,6

+ 12,4

+ 9,6

+10,5

+11,1

Produzione Variazioni % (*)

___

-2,5

-12,3

+ 1,2

+8,1

+3,6

-0,2

 

(*) Le variazioni percentuali si riferiscono all’anno precedente

 

Tabella 3

Totale nocività: infortuni, malattie professionali, silicosi, asbestosi.

Totale luoghi di lavoro: industria, agricoltura

 

Anno

Totale

%

Indice

Di cui

%

 

 

 

x 1.000

mortali

 

 

 

 

occupati

 

 

1983

844.624

100

95,99

2.079

100

1984

880.593

104,83

100,83

2.381

114,5

1985

848.358

100,5

101,64

2.012

96,7

1986

741.492

93,7

96,25

2.004

96,3

1987

889.125

105,3

409,83

2.035

97,8

1988

 

 

 

3.026

145,5



NON DELEGHIAMO PIU' A NESSUNO LA DIFESA DEI NOSTRI INTERESSI

Anni di ristrutturazione hanno cambiato completamente il volto delle fabbriche. I padroni sostengono che, se le aziende vanno male, la colpa è dei paesi concorrenti e dei lavoratori "fannulloni"; mentre altri sostengono che la colpa della disoccupazione dipende dagli extracomunitari che "rubano il lavoro", alimentando così il nazionalismo ed  il razzismo, e cercando di deviare la rabbia dei lavoratori contro di essi.
Ma ristrutturazione, cassa integrazione, licenziamenti, aumenti dei ritmi e degli infortuni non sono altro che il prezzo che i lavoratori pagano alla realizzazione del profitto.
I sindacati confederali, con la cogestione delle imprese, gestiscono il peggioramento delle condizioni dei
 lavoratori, rendendosi complici delle scelte padronali e generando ovunque malcontento. In molte fabbriche i lavoratori
 hanno organizzato forme di resistenza contro le politiche padronali e quelle collaborazioniste di Cgil Cisl Uil.
In altre fabbriche si sono autorganizzati per rispondere agli attacchi dei padroni; ma rischiano di restare prigionieri di
 logiche localiste che portano alla sconfitta, non costruiscono collegamenti tra loro e non si danno una visione generale dello scontro in atto.
Per questo, come realtà autorganizzate, abbiamo concordato le seguenti inziative:
1. promuovere la costituzione di un COORDINAMENTO NAZIONALE delle realtà autorganizzate dell'industria;
2. promuovere iniziative di mobilitazione e di lotta il 1°MAGGIO, caratterizzandole contro:
- la legge 223/91 (riforma CIGS, ovvero licenziamenti mascherati);
- l’accordo che cancella la scala mobile;
- i licenziamenti politici;
3. elaborare una proposta per un sindacato di classe;
4.indire un'ASSEMBLEA il 23 maggio prossimo, a Milano.
Delegati CdF Contraves (Roma), Autorganizzati Alfa-Sud (Pomigliano), Autorganizzati Somepra (Avellino), Autorganizzati Sepi Sud (Napoli), Cobas Alfa Romeo (Arese),  Cobas Ansaldo Componenti (Sesto S.Giovanni), Coordinamento Lavoratori Ticino Olona, Comitato di Lotta Nuova Breda Fucine (Sesto S.Giovanni), Collettivo di Base Alcatel-Face (Milano).
 riunitisi a Firenze 1' 11 aprile 1992


CONTRO LA GUERRA IMPERIALISTA
SOLIDARIETÀ PROLETARIA INTERNAZIONALE

Due anni di embargo economico (che produce 250 morti al giorno) hanno ridotto alla fame l'intera popolazione irachena. Le già pesanti conseguenze della guerra del Golfo e dell'embargo (mancanza di medicine e di generi alimentari, epidemie) sono oggi rese più drammatiche dalla ripresa dei bombardamenti.
Contro il "nemico" Saddam Hussein, il "provocatore da eliminare", si è scatenata la furia militare degli Stati Uniti d'America, della Francia e della Gran Bretagna. Autoproclamandosi paladine dell'ONU queste potenze non hanno esitato a bombardare la popolazione civile facendo decine di morti e dimostrando così il volto criminale del loro imperialismo.
Nascondendosi dietro le parole di pace, ovunque nel mondo la coalizione degli Stati ricchi, tra cui l'Italia, interviene in armi per portare il suo "ordine" e utilizzando, a secondo della convenienza, le bombe o gli "interventi umanitari".

Così dopo  aver contribuito ad affamare le popolazioni del cosiddetto terzo mondo, attraverso lo scambio diseguale, lo sfruttamento e la rapina delle materie prime, come in Somalia o in Mozambico, o allo smembramento di intere nazioni, come nella ex Jugoslavia, l'imperialismo oracerca di ergersiadifensore della pace usando le bombein Iraq.
Chi si arroga il diritto di intervenire con la forza in ogni parte del mondo e si prepara a spartirsi lo sfruttamento petrolifero della Somalia con l'alibi della presenza pacificatrice, è lo stesso che in nome del profitto sfrutta gli operai nei propri paesi costringendoli a lavorare in condizioni sempre più pesanti, provocando i milioni di dimenticati infortuni e di morti sul lavoro. E questo lavoro viene poi fatto addirittura passare per un lusso privilegiato se si pensa che nei paesi dell'OCSE si prevedono 34 milioni di disoccupati mentre in America sono  già 33 milioni coloro che, dopo  aver perso il lavoro, vivono sotto la soglia di povertà. E in Italia hanno ormai superato i nove milioni.
Questi dati dimostrano che  oggi  nel mondo una minoranza di potenti è responsabile della crescente massa di persone che vengono impoverite ed affamate, indipendentemente dalla loro posizione geografica.
Per questo la lotta di tutti gli sfruttati, in ogni parte del mondo, è la stessa.
Gli operai e  gli sfruttati non hanno nulla da guadagnare dalle guerre dei padroni.
Le guerre sono frutto della logica del capitalismo.
In questo sistema sociale esiste una guerra di classe non dichiarata che in ogni paese vede opporsi operai e padroni, e noi, come operai italiani coscienti, mentre denunciamo le guerre imperialiste, esprimiamo la nostra solidarietà agli operai e ai popoli del mondo che sono gli unici che pagano il peso della guerra.
Sesto S.Giovanni,  20. 01.1993
Comitato di Lotta Nuova Breda Fucine
Cobas Ansaldo Componenti


CONTRO I PREPARATIVI DI INVASIONE NELLA EX JUGOSLAVIA
CONTRO TUTTE LE GUERRE IMPERIALISTE

Innome del profitto le forze armate degli Usa, della Francia e della Gran Bretagna, coprendosi dietro l'ONU, nei giorni scorsi, hanno bombardato la popolazione civile irachena, dimostrando, ancora una volta, il volto criminale dell'imperialismo.
Ai 300 morti giornalieri, prodotti dall'embargo economico, che dura ormai da due anni, si sono aggiunte le decine di morti causate dai bombardamenti.
L'imperialismo italiano, al pari degli altri, mentre licenzia migliaia di lavoratori, smantella lo stato sociale, determinando il peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei proletari; contribuisce, attraverso lo scambio diseguale, la politica di rapina delle materie prime e di sfruttamento, a mantenere anche tramite l'intervento armato, sotto il suo giogo, intere popolazioni come in Somalia, in Mozambico, in Albania.
Cosa si nasconde dietro gli interventi "umanitari", lo si è visto chiaramente in Somalia.
La presenza "pacificatrice" armata è servita alla spartizione delle risorse del paese tra le più grandi compagnie petrolifere.
In nome del nazionalismo e delle compatibilità, nuovi e più duri sacrifici verranno imposti ai proletari da padroni, governo e sindacati. In Italia si calcola che circa 1 milione di lavoratori perderanno il lavoro prossimamente, mentre chi avrà la "fortuna" di continuare ad essere sfruttato vedrà aumentare i ritmi di lavoro e i rischi di infortunio, come dimostrano gli oltre 3 mila morti sul lavoro all’anno.
La crisi acuisce la concorrenza e le contraddizioni interimperialiste; il protezionismo e le guerre commerciali si vanno trasformando sempre più in scontri armati. Dopo l' Iraq, ora tocca alla ex-Jugoslavia.
L'Imperialismo, dopo aver contribuito a smembrarla, alimentando i vari nazionalismi, ora si prepara ad intervenire militarmente nel paese.
Ad Aviano, base americana sul territorio italiano, l'esercito USA, "vincitore" della guerra del Golfo e responsabile della brutale repressione della rivolta di Los Angeles, si sta preparando ad intervenire militarmente.
Il governo italiano, da parte sua, nella prospettiva di soddisfare isuoi appetiti su ciò che rimane della ex-Jugoslavia, concede l'utilizzo di basi militari presenti sul territorio anche all'aviazione francese.
- Contro l'uso delle basi militari italiane a chi prepara aggressioni imperialiste e contro il governo italiano dobbiamo scendere in lotta.
Come operai e come proletari italiani ci schieriamo a fianco dei proletari e dei popoli oppressi di tutto il mondo contro l'imperialismo.
Come organismi di lotta ci prendiamo la responsabilità di chiamare alla mobilitazione tutti coloro che si collocano all'interno del Movimento Proletario Anticapitalista invitandoli a partecipare all'assemblea nazionale e al corteo che si terranno aMiramare di Rimini alle ore 10.00 del 21-2-1993

Volantino deciso dall'assemblea di Firenze del 31-1-1993 a cui hanno partecipato le seguenti realtà:

Comitato di Lotta Nuova Breda Fucine Sesto San Giovanni
Comitato operaio AMCM Modena
Operai Manifattura Tabacchi Milano

CdB USL 68 Rho (Milano)
Lavoratori  Appalti Pulizie Roma
Operai e delegati FIAT
Ferrovieri  Firenze-Genova
Centro di Iniziativa Popolare Roma

CPA Firenze Sud
C.S “Gramigna” Padova
CISC, Roma
C.S “Esperia” Catania
Comitato occupanti case, Acerra (Napoli)
CSO “Stella Rossa” Bassano del Grappa
CPSP, Roma-Milano
Collettivo Metropolitano Bologna
Collettivo “Scontro” Pordenone
Redazione di “A pugno chiuso” Padova – Roma – Catania
Comitato di  Lotta Studenti Morgagni -Roma