Michele Michelino, 1993,
1880-1993 Cento anni di lotte operaie, Edizioni Laboratorio politico, Napoli
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Michele
Michelino
1880
-1993
Cento
anni di lotte operaie
Prima parte: 1880 -1900
Dalle Società Operaie alle Camere del Lavoro
1. Le
Società di Mutuo Soccorso
2. Le prime Società Operaie di resistenza
3. La 1ª Internazionale e l'internazionalismo anarchico
4. Dal Partito Operaio al Partito Socialista
5. La 2 ª Internazionale
6. Le quattro giornate di Milano
7. Le Camere del Lavoro
Seconda parte: 1900 -1922
Dalle federazioni di categoria al "biennio
rosso"
1. Le prime
federazioni di categoria
2. La diffusione dell'anarco-sindacalismo
3. Il sindacalismo "bianco" e la guerra di Libia
4. La "grande" guerra e il fallimento della 2 ª Internazionale
5. La 3 ª Internazionale e l'Internazionale Sindacale Rossa
6. Il "biennio rosso" e la nascita del PCd'I
Terza parte: 1923 -1947
Dal sindacalismo fascista alla CGIL
1. Il
sindacalismo fascista
2. La "grande crisi" del 1929 e la svolta del PCI
3. Lo scioglimento della 3 ª Internazionale
4. Il sindacalismo "libero": nasce la CGIL
5. Dalle conquiste dell'immediato dopoguerra all'estromissione delle sinistre
dal governo
Quarta parte: 1947 -1988
La classe operaia dal dopoguerra ad oggi
1. La
ricostruzione e la tregua salariale
2. La rottura della CGIL
3. La repressione alla FIAT
4. Riprendono le lotte: l'assalto alla UIL di Torino
5. Le lotte operaie del 1968 - 69
6. Crisi del '76: ristrutturazione e terrorismo
7. 35 giorni di lotta alla FIAT
8. La disdetta della scala mobile e il referendum
9. Il costo del profitto
Quinta parte: 1989 -1993
Crisi della rappresentanza e "autorganizzazione"
1. crollo dei regimi dell'Est
2. La ripresa delle lotte operaie ed i bulloni ai sindacalisti
3. Gli aiuti "umanitari"
Appendice
Tabella 1
Tabella 2
Tabella 3
Volantino 11 aprile 1992
Volantino 20 gennaio 1993
Volantino 31 gennaio 1993
Introduzione
Scopo di
questo libro è fornire agli operai, in particolare ai giovani, un breve
tracciato di storia del movimento operaio.
Una certa
cultura o ideologia di sinistra cerca di accreditare l' idea che la storia del
movimento operaio è una continua evoluzione, senza strappi, nel tentativo di
occultare le proprie responsabilità storiche; ma in realtà
l' organizzazione di classe degli
operai procede per salti seguendo il ciclo economico del capitale.
Il modo di
produzione capitalistico, basato sulla proprietà privata dei mezzi di
produzione, cìclicamente vive una grande contraddizione: la crisi dì
sovrapproduzione. Nel passato, cioè nei precedenti modi di produzione, i
lavoratori delle classi subalterne che costituivano il "popolo",
pativano la fame per effetto delle carestie e della mancanza di generi
alimentari; nel sistema capitalista il "popolo" può patire la fame
per la troppa abbondanza.
La sovrabbondanza diventa fonte di miseria perché ostacola la trasformazione
dei mezzi di produzione e sussistenza in capitale.
Un esempio
comprensibile a tutti è quello che si ripete ogni anno, quando migliaia di
tonnellate di frutta vengono distrutte sotto i cingoli dei bulldozer.
Un'altra
osservazione mi sembra importante premettere alla lettura di queste pagine.
La storia delle
lotte tra le classi è sempre scritta dai vincitori. La storia della lotta del
proletariato, cioè di una classe subalterna, non fa eccezione. Non sono
soltanto gli storici borghesi a raccontare la storia dal loro punto di vista;
anche la storia scritta dagli storici dei partiti di sinistra (PSI-PCI) è una
storia mistificata, giustificativa degli interessi dei rispettivi partiti.
Il
"tradimento" o - per dirla più correttamente - la degenerazione delle
organizzazioni e dei partiti operai non si comprende se non si collega al ciclo
economico del capitale.
La vera storia
del proletariato italiano deve essere ancora scritta. Probabilmente sarà
possibile scriverla solo quando la classe operaia avrà conquistato il potere
politico. Anche per questo oggi più che mai, mentre ci si organizza per
resistere allo sfruttamento, si sente la necessità del partito operaio e di una
nuova Internazionale operaia.
Intanto cominciare
a rivedere criticamente la storia, anche se parzialmente, da un punto di vista
operaio, può essere utile per ricostruire almeno in parte la nostra memoria
storica.
Michele
Michelino delegato del CdF della Breda Fucine di Sesto San Giovanni (Milano)
Settembre 1989
Introduzione alla 2ª edizione
Decidere
di pubblicare un libro che ripercorre le tappe della storia del movimento
operaio italiano a tre anni di distanza è un'impresa quanto mai ardua.
In tre anni
molte cose sono cambiate. Istituzioni e partiti, che agli occhi dei più
sembravano eterni, sono crollati come castelli di sabbia sotto il peso della
crisi economica. In pochi anni il peggioramento delle condizioni dei lavoratori
nei paesi capitalisti ha creato anche nelle metropoli imperialiste fenomeni che
erano tipici delle masse affamate ed oppresse del Sud del mondo.
Ormai negli
USA sono oltre 33 milioni coloro che vivono sotto la soglia della povertà,
mentre in Italia hanno raggiunto i 9 milioni.
Il presente
è frutto del passato e delle leggi economiche che dominano la società, per cui
rileggendo la storia di ieri è possibile capire i cambiamenti di oggi.
In questa
edizione ho apportato alcune modifiche qua e là, ho aggiunto un capitolo che
riguarda gli ultimi tre anni e ho allegato tre volantini che non c'erano nella
precedente edizione artigianale, fatta in proprio e diffusa in 2.000 copie
quasi prevalentemente fra gli operai industriali.
Aprile 1993
Prima parte: 1880-1900
Dalle società operaie alle Camere del Lavoro
1. Le Società di Mutuo Soccorso
I primi
tentativi di organizzazione sindacale furono le Società Operaie di Mutuo
Soccorso. Sorsero in Italia tra il 1880 e il 1885 e per molto tempo furono le
uniche forme di organizzazione operaia. Esse erano prevalentemente strumenti di
solidarietà con fini assistenziali e raccoglievano al loro interno
indistintamente artigiani e operai.
Rispetto
all'Inghilterra e alla Francia, dove l'esistenza legale dei sindacati fu
permessa rispettivamente nel 1824 e nel 1884, il movimento sindacale italiano
si è sviluppato con notevole ritardo. Ritardo dovuto allo sviluppo
capitalistico dell'Italia, che era ancora un paese economicamente arretrato,
con pochissime industrie, concentrate principalmente nelle zone della
Lombardia, Piemonte e Liguria.
Come si può
capire, in questa situazione la classe operaia in Italia non ha ancora un
carattere ben definito, cominciando solo allora a distinguersi dalla massa
degli artigiani, ma confondendosi spesso con i contadini. In molti casi le
fabbriche erano in località di campagna e la manodopera disponibile era
costituita da lavoratori della terra (braccianti, contadini) che cercavano di
migliorare le loro miserabili condizioni dedicandosi per periodi più o meno
lunghi ad un lavoro di tipo industriale. Le prime industrie a svilupparsi in
Italia furono quelle tessili. Già nel 1831 i progressi di queste industrie
erano notevoli in Piemonte. Legate alla campagna erano le industrie del lino,
della canapa e della lana, che impiegavano circa 300mila contadini, che
nell'intermezzo dei lavori agricoli lavoravano al filatoio o al telaio, anche
per 150 giorni all'anno.
Fra le prime
industrie, le più evolute furono quelle del cotone e dei metalli in Lombardia.
E' all'incirca nel periodo (1840-1850) che nascono a Milano e a Sampierdarena
(Genova) i primi stabilimenti meccanici, dai quali si sviluppano poi la Breda
(1886) e l'Ansaldo. Nello stesso periodo anche al centro sud, particolarmente a
Napoli, già prima dell'unità d'Italia esisteva un tessuto industriale basato su
industrie meccaniche, tessili e navali.
La rivoluzione
del 1848, oltre a mettere in moto operai e artigiani a fianco dei borghesi per
"l'indipendenza e la libertà", portò nelle piazze i contadini del
Mezzogiorno in lotta per la divisione delle terre demaniali e gli operai delle
città in lotta contro il carovita.
In questa
situazione si ebbero i primi tentativi di coalizione operaia a fini di
resistenza, anche se non sorse alcuna forma permanente di organizzazione
sindacale. I tipografi, i sarti, i calzolai, i facchini che diedero vita a veri
e propri scioperi di categoria a Milano, Genova e Torino, continuavano ad
essere organizzati nelle Società di Mutuo Soccorso che rimanevano le uniche
forme di organizzazione stabile.
Anche se
dirette da borghesi liberali, queste società raccoglievano al loro interno la
parte migliore della nascente classe operaia. In cambio di una quota, i soci di
queste associazioni ricevevano un sostegno economico in caso di malattia, di
disoccupazione, di infortunio, oltre alla solidarietà di classe in occasione di
scioperi.
2. Le prime Società Operaie di resistenza
Comincia
intanto a maturare la tendenza alla costruzione di associazioni stabili di
resistenza. Il 7 maggio del 1848, per iniziativa del tipografo Vincenzo
Steffenone, 40 operai fondano a Torino la Società dei Compositori Tipografi,
con lo scopo preciso di difendere il salario orario ottenuto poco prima dai
padroni. Questa si può considerare la prima organizzazione sindacale italiana.
Sul suo esempio sorsero poi società analoghe tra i tipografi di Genova (1852) e
tra quelli di Milano (1860).
Nel 1857 una
grave crisi economica a livello mondiale colpisce violentemente l'Europa e
l'America. Essa ha dei riflessi anche in Italia, ed è una delle cause che
provocano l'esplosione del movimento delle classi che porta da una parte
all'unificazione dell'Italia nel 1861 e dall'altra alla diffusione delle
società operaie.
Lo sviluppo
maggiore delle società operaie avviene in questo periodo in Piemonte, l'unico
stato italiano dove fosse consentita una certa libertà di associazione e di
riunione, e dove lo sviluppo capitalistico sotto il governo di Cavour fu più
rapido che altrove.
Dal 1861 le
società operaie cominciarono in Piemonte a tenere congressi e ad allargare il
campo della loro attività, andando al di là del semplice mutuo soccorso. Lo
stesso processo avvenne nelle società liguri, che erano sotto l'influenza di
Mazzini.
In questo
periodo iniziarono a manifestarsi le prime contraddizioni e i primi scontri nel
movimento operaio italiano. Lo scontro verteva tra i mazziniani (cioè i
repubblicani) e i moderati: i mazziniani — duramente contrastati dai
moderati—sostenevano che compito delle società operaie era quello di
preoccuparsi di politica e avanzare rivendicazioni come quella sul suffragio
universale.
Dal congresso di Firenze, tenuto nel settembre 1861, per circa 10 anni
prevalsero nel movimento operaio italiano i mazziniani. Intanto il dibattito
continuava, perché il congresso di Firenze, pur «considerando la questione dei salari urgentissima», dichiarò «funesto essere agli operai ogni sciopero e
ogni mezzo violento», raccomandando l'uso di mezzi conciliativi.
Nonostante ciò
grandi scioperi scoppiarono. Nel decennio 1860-1870 si ebbero in media in
Italia 13 scioperi l'anno. Il più famoso fu quello dei 4.000 muratori di Torino
che conquistarono la riduzione dell'orario di lavoro a 12 ore al giorno; prima
di allora la giornata lavorativa era di 16 ore.
3. La 1ª Internazionale e l'internazionalismo anarchico
Lo sviluppo
industriale, che in alcuni paesi aveva raggiunto livelli notevoli, fu la
condizione favorevole per la crescita di un proletariato che andava sempre più
riconoscendosi come classe internazionale. In questo contesto, nonostante i
ritardi dovuti alla situazione oggettiva, si sviluppa anche il movimento
operaio italiano.
Con la
fondazione dell'Associazione Internazionale degli Operai (nata a Londra
nel settembre 1864), sorge il primo movimento storico indipendente degli operai
moderni. Alla fondazione dell'Internazionale partecipa anche la Società Operaia
Italiana di Londra, fondata da Mazzini, contro cui polemizza Carlo Marx, che ne
critica l'impostazione conciliatoria e umanitaria (quindi non classista). Con
la nascita di questo nuovo partito internazionale (come di fatto era
l'Associazione) gli operai si liberano delle vecchie sette socialiste dandosi
una vera organizzazione di classe.
Frattanto, dopo
10 anni di prevalenza dei mazziniani, il nuovo orientamento politico
internazionalista si andava affermando anche nel movimento operaio italiano.
Gli internazionalisti italiani furono quasi tutti di tendenze anarchiche,
seguaci dell’Alleanza della Democrazia Socialista fondata da Bakunin, il
quale si muoveva in modo autonomo rispetto alle direttive di Londra, dove aveva
sede il consiglio generale dell'Internazionale diretta da Marx.
Le teorie di
Bakunin erano allora molto seguite in Italia: egli rifiutava ogni forma di
lotta politica organizzata e contava sull'azione violenta basata sul terrorismo
di individui e gruppi per sovvertire l'ordine statale esistente.
Nella società
italiana in trasformazione le teorie bakuniane erano le più adatte ad
interpretare l'esasperazione e la protesta degli strati popolari ai cui
l'industria non aveva ancora dato una base di organizzazione e di disciplina.
Intanto i
mazziniani incominciavano a perdere terreno. Lo sviluppo dell'industria e le sue prime crisi avevano come
contropartita un aumento della conflittualità operaia. Gli operai cominciavano
a riconoscersi, sia pure ancora in
modo istintivo, in una classe sociale con interessi ben distinti, scontrandosi
con la teoria mazziniana che sosteneva la solidarietà fra le diverse classi
sociali. Inoltre alcune posizioni sostenute da Mazzini contro la Comune di
Parigi, primo tentativo di presa del potere da parte della classe operaia, gli
fecero perdere completamente le simpatie dì consistenti strati operai.
Nel dodicesimo
congresso delle Società Operaie tenuto a Roma nel 1871 avvenne la scissione tra
le società aderenti al "Patto di fratellanza" di tendenza repubblicana
dirette da Mazzini e quelle internazionaliste, che costituirono nel loro primo
congresso la Federazione Italiana dell'Associazione Internazionale dei
Lavoratori (agosto 1872).
L'atteggiamento
degli internazionalisti di fronte allo sciopero era molto diverso da quello dei
mazziniani; essi non solo ne riconoscevano l'utilità e la necessità, ma nel
secondo congresso tenuto a Bologna nel 1873 decisero di organizzare le sezioni
e le federazioni su base professionale.
L'internazionalismo
anarchico, riconoscendo l'utilità di un'organizzazione di classe, ha svolto un
ruolo positivo nella lotta per sganciare il movimento operaio italiano
dall'ideologia mazziniana, accelerando la spontanea trasformazione delle
società di mutuo soccorso in Leghe di resistenza. L'aspetto negativo
dell'internazionalismo anarchico è però nella sua opposizione al marxismo, che
ha ritardato di fatto la crescita delle organizzazioni operaie indipendenti,
negando la funzione dirigente della classe operaia e il ruolo del partito e affidandosi
completamente alla spontaneità.
4. Dal Partito Operaio al Partito Socialista
Nel decennio
1880-1890 si va formando al Nord un'industria moderna con un mercato unico
nazionale. L'introduzione delle macchine e la concentrazione della manodopera
in grossi stabilimenti cambiano il volto dell' economia e trasformano la base
di classe. Al lavoratore a domicilio, all'operaio, al contadino e
all'artigiano, tipiche figure dell'industria manifatturiera, si va sostituendo
il moderno proletariato di fabbrica.
Verso il 1880
un nuovo mutamento di indirizzo si andava delineando nel movimento operaio
italiano. Una corrente socialista "evoluzionista" (come si chiamava)
contraria all'anarchismo bakuniano si era formata in Lombardia intorno al
giornale "La Plebe" di Lodi, diretto da Enrico Bignami, il quale, pur
non essendo un marxista, era sempre rimasto legato al Consiglio Generale di Londra dell’ Internazionale.
Un gruppo
simile si formò contemporaneamente a Palermo intorno al giornale "Il
Povero". Nel 1879 anche Andrea Costa, capo degli internazionalisti
romagnoli, aderì alla nuova tendenza.
Continuava però
nelle società operaie lo scontro tra differenti posizioni. In Lombardia era
molto forte l'influenza di elementi democratici e radicali che dirigevano
parecchie società operaie.
In questo
periodo il movimento operaio rimaneva prevalentemente sotto la tutela della
borghesia, che usava gli operai nella sua lotta contro i conservatori. Questo
fatto aveva provocato negli operai più avanzati una forte insofferenza che li
portò a liberarsi della tutela della borghesia radicale.
Nel 1882 nacque a Milano il Partito Operaio Italiano composto
esclusivamente da operai, indipendente da ogni altro partito o gruppo e quindi
anche dagli elementi socialisti e anarchici. Questo partito aveva una struttura
più simile ad un'organizzazione sindacale che a un partito politico. Il suo
giornale, "Il Fascio Operaio" ("fascio" significava
"lega") ebbe una diffusione notevole per quei tempi, anche se il
partito era presente solo in Lombardia. Rigorosamente classista, il Partito
Operaio fu la prima organizzazione in Italia a sostenere ed organizzare la
lotta di classe in tutti i suoi aspetti.
Una nuova crisi, scoppiata nel 1887, genera forti resistenze: grandi masse di
operai e contadini scendono in lotta. Il Partito Operaio si mette alla testa di
questi moti, ponendosi in netta contrapposizione al sistema capitalista. Così
facendo, metteva in discussione il potere politico. Ciò fu intollerabile per
la borghesia conservatrice, che
scatenò una durissima repressione
contro il Partito Operaio, distruggendolo e riducendolo alla stregua di un
partito semiclandestino.
Negli stessi
anni (1889) nasce anche la "Lega Socialista Milanese" con a
capo Lazzari e Turati. Obiettivo dichiarato della Lega è quello di creare le
condizioni per l'unificazione dei socialisti di tutte le tendenze e dei membri
del Partito Operaio.
In realtà
succede il contrario, perché dalla Lega vengono esclusi gli elementi su
posizioni rivoluzionarie come gli anarchici e i settori più radicali del
Partito Operaio, cioè coloro che non volevano perdere la connotazione di classe
del Partito Operaio, trasformandolo in un generico partito di
"lavoratori", dove ci sarebbe stato spazio anche per elementi di
altre classi.
Dalla fusione
del Partito Operaio con le correnti genericamente socialiste (come i
"Circoli del Lavoro", che facevano riferimento a Costa, ed altre
sparse in tutta Italia) nacque il Partito Socialista, nascita ratificata
dal Congresso di Genova del 1892. In realtà in questo congresso si fondarono
due partiti, che entrambi si definirono "Partito dei Lavoratori
Italiani": uno socialdemocratico riformista, fondato dalla maggioranza
del partito, con a capo Turati e Lazzari; l'altro rivoluzionario, composto
dalla minoranza e formato dagli anarchici e dagli operai su posizioni classiste
(detti gli "esclusionisti"), con alla testa Casati. Costa, dopo un
tentativo di mediazione, aderisce a quello socialdemocratico. La peculiarità
dello sviluppo capitalistico in Italia e il ritardo con cui si è sviluppata
un'industria moderna su tutto il territorio nazionale, aveva conseguenze anche
sulla composizione di classe del proletariato, che non era affatto omogenea.
Accanto a
gruppi industriali protetti (come quelli della siderurgia, degli zuccherifici,
ecc.) che, grazie al protezionismo, potevano pagare salari più elevati a certi
settori operai, sviluppando settori di aristocrazia operaia, esiste un
proletariato ibrido ancora in formazione. Le condizioni di classe non ancora
completamente mature: il prevalere delle concezioni anarchiche e non ancora
scientifiche tra i rivoluzionari e gli operai più avanzati portarono alla
scomparsa nel breve periodo del PSI rivoluzionario. Intanto si rafforzava e
cresceva tra gli operai l'influenza del PSI di Turati, che si andava definendo
sempre più come partito operaio borghese attraverso l'alleanza tra aristocrazia
operaia e borghesia industriale.
5. La 2ª Internazionale
Le nuove
condizioni poste dallo scontro di classe richiedevano un nuovo livello di
organizzazione. Con la costituzione dell'Associazione
Internazionale degli Operai, chiamata anche Prima Internazionale, gli operai avevano posto le
premesse per la costituzione ovunque di partiti e gruppi organizzati della
classe operaia.
Ora una nuova
necessità si imponeva: quella di coordinare sotto un'unica linea di classe
l'azione di questi partiti operai sorti nei singoli paesi. Fu per questo che il 14 luglio 1889 a Parigi,
per iniziativa dei capi del Partito Operaio Francese (Guèsde e Lafargue), si
tenne il congresso costitutivo della Seconda Internazionale. A questo
congresso parteciparono delegati di tutti i partiti operai; l'Italia fu
rappresentata da Costa, Cipriani e Malatesta. A differenza della Prima Internazionale, nata e costituita dalle
organizzazioni operaie, la Seconda fu costituita dai partiti.
Il
congresso di Parigi decise un programma, da sostenere da parte di tutti i
partiti, che fra l'altro si basava sulla lotta per rivendicare la giornata
lavorativa di otto ore. Fu in questo
congresso che si stabilì una grande giornata di lotta da tenersi in tutti i
paesi il primo maggio di ogni anno.
In questo
nuovo contesto mondiale si svilupparono le lotte di classe del movimento
operaio italiano.
6. Le quattro giornate di Milano
Come
conseguenza della crisi del 1893, peggiorano brutalmente le condizioni di vita
del proletariato e dei contadini. L'aumento del pane e dei generi di prima
necessità genera pesanti reazioni: nelle maggiori città gli operai entrano in
lotta e spesso le manifestazioni sono accompagnate da saccheggi.
A Milano nel
1897-98 ci sono circa 37 mila operai moderni che lavorano in fabbriche come la
Pirelli (2.400 operai e 400 impiegati), l'Elvetica (1.200 operai), la Stigler,
la Vago, ecc. Sono proprio gli operai di queste fabbriche che si mettono alla
testa della lotta. Per quattro giorni il Partito Socialista cerca in tutti i
modi di frenare la lotta riportandola nei canali istituzionali, ma gli operai,
sebbene soli e senza un'organizzazione di classe, non cedono.
Segue una
feroce repressione, come succede sempre in questi casi; anche molti dirigenti
socialisti, come Turati, che avevano cercato invano di mediare tra le classi in lotta, vengono arrestati
insieme agli operai più combattivi.
Al processo Turati dichiarava: «... noi
abbiamo sempre predicato che è passato il tempo della rivoluzione e che queste cose sono dannose al popolo ...» dimostrando così agli
operai che avevano lottato da quale parte stava il PSI.
Questi fatti lasciarono il segno, provocando una spaccatura nel PSI milanese.
La frazione rivoluzionaria presente nel PSI riesce a diventare maggioranza
durante il congresso regionale lombardo di Brescia. In questo congresso, in
polemica con i riformisti del partito, viene approvato un documento che
afferma:
1- Il carattere rivoluzionario dell'azione e del
movimento proletario e denuncia la degenerazione del partito, trasformatosi in
puro partito parlamentare, respingendo l'alleanza con la borghesia e rifiutando di appoggiare e di entrare in un
governo borghese;
2- qualunque politica riformista,
anche se parzialmente utile ai lavoratori e attuata sotto la pressione
proletaria, dal momento che non intacca il fondamento della società
capitalista, deve essere lasciata ai governi borghesi senza alcun compromesso
da parte proletaria;
3- l'azione parlamentare deve
servire solo per l'agitazione tra il proletariato, e il partito deve servirsi
di tutti i mezzi, compresa la violenza, nel caso fosse necessaria.
Purtroppo su questo programma molto avanzato, corrispondente agli interessi del
proletariato, e che ottenne gli elogi di eminenti dirigenti del movimento
operaio rivoluzionario, come Paul Lafarguee Karl Kautsky, non si organizzò una frazione nel partito e poco dopo
questa tendenza venne riassorbita nel riformismo mascherato di sinistra che
faceva capo al dirigente Ferri.
7. Le Camere del Lavoro
Con lo
sviluppo del capitalismo industriale si diffonde sempre più il marxismo in
Italia. Nel 1888 sul giornale "L'Eco di Cremona" fu pubblicato il Manifesto
del Partito Comunista, scritto in collaborazione da Marx e Engels; e due
anni dopo fu stampato in volume. Contemporaneamente altri scritti di Marx e
Engels vennero pubblicati dai giornali "La Plebe" di Lodi e "Il
Povero" di Palermo.
Intanto
sull'esempio delle Borse del lavoro francesi, fondate nel 1887 che
(avevano una funzione di ufficio di collocamento e di difesa della classe
operaia), nacquero in Italia nel 1891 le Camere del Lavoro dìMilano, Torino e Piacenza.
Le Camere del
Lavoro furono all'inizio costituite con lo scopo di migliorare le condizioni
dei lavoratori
nell' ambito del sistema capitalistico, mediante un'azione solidale dei
lavoratori stessi; nel loro programma insistevano molto sui mezzi conciliatori.
In un primo tempo esse furono accolte con simpatia dai borghesi, che le finanziavano:
in alcune città furono finanziate dalle Casse di Risparmio, dalle Camere di
Commercio e quasi ovunque dai comuni, che riconobbero l'utilità della loro funzione nel campo del collocamento. Per gli operai le Camere del
Lavoro erano organismi importanti perché si proponevano di assumere di fronte
ai padroni e allo stato la rappresentanza di tutte le categorie dei lavoratori.
In Italia lo
sviluppo delle Camere del Lavoro fu dovuto anche alle particolari condizioni
dell'economia italiana, caratterizzata dal persistere di forti differenze
regionali e provinciali nel grado di sviluppo industriale ed agricolo, che si
ripercuotevano quindi anche sulla situazione del mercato del lavoro.
La maturità del
movimento sindacale italiano cominciò a dimostrarsi il 19 dicembre del 1900 con
lo sciopero di Genova, proclamato per protesta contro lo scioglimento della
Camera del Lavoro della città. A fianco dei genovesi scesero in sciopero i
lavoratori di tutta Italia, provocando la caduta del governo Saracco e la revoca
del decreto di scioglimento delle Camere del Lavoro. Nel nuovo governo
Zanardelli, il ministro dell'interno Giolitti, prendendo posizione contro la
generale ostilità della borghesia e dei parlamentari, dichiarava: «Purtroppo persiste in molti la tendenza a
considerare come pericolose tutte le associazioni dei lavoratori; e questa è la
ragione per la quale le classi lavoratrici, che si vedono guardate con
diffidenza, diventano ostili al governo e allo stato. Le Camere del Lavoro non
hanno in sé nulla di illegale, il
loro fine è semplicemente quello di migliorare le condizioni degli
operai; esse potrebbero essere un nobilissimo intermediario fra capitale e
lavoro ... Finché dunque non violano la legge, le Camere del Lavoro devono
essere rispettate; se violano la legge, devono essere deferite all'autorità
giudiziaria. Queste Camere del Lavoro come legittima rappresentanza delle
classi lavoratrici debbono essere riconosciute per legge, come per legge sono riconosciute le Camere
del Commercio che rappresentano gli interessi del capitale».
Inoltre in un
discorso, tenuto alla Camera il 4 febbraio 1901, Giolitti dichiarava: «Gli amici delle istituzioni hanno un dovere
soprattutto: quello di persuadere queste classi, e di persuaderle con i fatti,
che dalle istituzioni possono sperare assai più che da ogni sogno dell'avvenire».
Seconda parte: 1900-1922
Dalle
federazioni di categoria al "biennio rosso"
1. Le prime federazioni di categoria
Contemporaneamente
alla crisi degli inizi del secolo, il movimento sindacale si sviluppò
ulteriormente e la parola d'ordine di Marx «l'emancipazione
dei lavoratori deve essere opera dei lavoratori stessi» acquistò in Italia
una grande popolarità. Lo sviluppo dell'industria negli anni fra il 1894 e il
1913 fu grandioso. Nel 1894 viene fondata la Edison, nel 1897 la Terni e nel
1898 la Montecatini, anche se fu nel 1902 che sorse in Italia una vera e
propria industria siderurgica, che nel periodo immediatamente successivo compì
i maggiori progressi, insieme con le industrie meccanica e chimica. Nel 1904
con la legge speciale per Napoli venne finanziata la costruzione
dell'acciaieria di Bagnoli, l'ILVA (più tardi Italsider), che per effetto della
crisi venne inaugurata nel 1910. Il primo luglio del 1889 a Torino per
iniziativa di Giovanni Agnelli nasce la FIAT (Fabbrica Italiana Automobili
Torino) con un capitale di 800mila lire. Questa industria si sviluppa con una
rapidità eccezionale, tant’é che la
sua produzione passa dalle 135 automobili del 1903 alle 268 del 1904. La
composizione di classe del proletariato in questo periodo non è ancora molto
omogenea. Nel 1901, su una popolazione di circa 32 milioni di abitanti, il
numero di salariati dell'industria è di circa 2 milioni e 500mila; Le donne e i fanciulli sono rispettivamente il 27% e il 17% del totale dei salariati. Nel 1911, su una
popolazione di circa 35 milioni di abitanti, sono circa 4 milioni e mezzo i
salariati dell'industria, che tendono a concentrarsi nei grandi stabilimenti.
In questi anni i livelli salariali degli operai, dato il ritardo dello sviluppo
industriale italiano, erano molto inferiori rispetto a quelli dei lavoratori
degli altri paesi europei, come l'Inghilterra, il Belgio, la Francia, la
Germania; e l'orario di lavoro era più lungo.
Erano queste le ragioni che stavano alla
base dei grandi scioperi di quegli anni: famoso fu quello di Genova del
dicembre del 1900, dove per la prima volta nella storia del movimento operaio
italiano si ricorse allo sciopero generale.
La prima
federazione di categoria fu quella dei tipografi, diventata nel 1893
"Federazione del Libro": oltre ai tipografi, organizzava gli
stereotipisti, i litografi, i fonditori di caratteri e i legatori. Questa
federazione ottenne anche i servizi mutualistici.
La seconda
federazione fu quella dei ferrovieri, che dall' unione delle Società di Mutuo
Soccorso tra i macchinisti e i fuochisti dell'alta Italia e delle ferrovie
meridionali, si trasformarono nel 1890 nel Fascio ferroviario comprendente
tutte le categorie dei ferrovieri.
Le federazioni
tendevano ad assumere molte delle funzioni già proprie delle Camere del Lavoro,
in primo luogo le trattative salariali. Inevitabilmente le rivalità tra le
Camere del Lavoro e federazioni esplosero.
Sebbene le
federazioni fossero espressione di un'elevata maturità organizzativa della
classe operaia, esse erano portate, per il loro modo corporativo di agire,
verso tendenze riformiste. Infatti tendevano a sostituire alla lotta di classe
nei suoi diversi aspetti la lotta di categoria, di carattere prevalentemente
salariale, per qualifiche più alte.
Invece le
Camere del Lavoro, oltre a portare avanti la solidarietà operaia fra le varie
categorie di lavoratori, sentivano fortemente il peso degli interessi delle
masse dei lavoratori meno qualificati e tendevano a realizzare l'unità con
tutti gli sfruttati, compresi i lavoratori della campagna. Le Camere del Lavoro
erano quindi per natura più battagliere e perciò divennero le roccaforti dei sindacati
rivoluzionari, di cui parleremo in seguito.
Intanto la
politica di collaborazione tra le
classi attuata dal PSI si evidenzia sempre più agli occhi degli operai più
dequalificati. In un discorso alla Camera del 1904, reagendo al rimprovero del
presidente del Consiglio Giolitti, che dichiarava: «se i socialisti non vogliono gli eccidi, ebbene insegnino agli operai a
non prendere a sassate i soldati», Turati lo interrompe esclamando: «Voi lo sapete, noi abbiamo sempre predicato
contro la violenza: questa è la nostra fede. Non è lei che deve venire a dire
queste bugie, lei sa che abbiamo mantenuto l'ordine pubblico: per quattro anni
vi abbiamo fatto i poliziottigratuitamente».
Intanto
cominciavano a circolare anche in
Italia le idee dei sindacalisti rivoluzionari, che erano già maturate in
Francia ed avevano in Giorge Sorel il maggior teorico.
La tesi che il
sindacato, non il partito, dovesse essere la massima organizzazione di lotta
della classe operaia e che lo sciopero generale dovesse diventare un' arma
insurrezionale per rovesciare il regime borghese stava progressivamente
affermandosi tra gruppi di operai e di intellettuali che capivano
l'insufficienza del riformismo.
2. La diffusione dell' anarco-sindacalismo
La crisi
economica industriale che nel 1906-1907 faceva sentire i suoi effetti sugli
strati proletari provocò un'ondata di scioperi. I settori più colpiti cercarono
di difendersi e le lotte si fecero sempre più numerose.
Per
regolamentare la lotta sindacale, che ormai sempre più sfuggiva al controllo
riformista, nel 1906 la Federazione dei Lavoratori Metallurgici (FIOM) propose
di costituire una Confederazione Generale del Lavoro (C.G.L.) analoga a
quella esistente in Francia. La proposta venne accettata dalle altre
federazioni e sostenuta dai sindacalisti riformisti. Segretario generale fu
nominato Rinaldo Regola, riformista, che rimase in carica fino al 1918.
Nel 1906 i
sindacalisti rivoluzionari, che avevano la direzione della Camera del Lavoro di
Milano, estesero la loro influenza su parecchie altre CdL, tra cui quella di
Torino ed alcune dell' Emilia. Centro del loro movimento divenne la CdL di
Parma, intorno alla quale si raggrupparono le altre CdL e le altre leghe
sindacali che avevano aderito alla tendenza sindacalista rivoluzionaria.
L'influenza dei
sindacalisti rivoluzionari sulle federazioni di mestiere era allora scarsa.
Soltanto il sindacato ferrovieri si schierò con loro nel 1907. Fu allora che
gli anarchici entrarono in massa nel movimento sindacale rivoluzionario, col
quale avevano una affinità ideologica, e formarono nel 1912 l'USI (Unione
Sindacale Italiana). Da allora il movimento fu anche chiamato con il nome di "anarco-sindacalismo".
Al di là del
nome, questo movimento si diffuse perché rispondeva ad un'esigenza realmente
sentita da strati consistenti del proletariato italiano, delusi dalla politica
riformista del Partito Socialista e della C.G.L.Intanto gli industriali si
organizzano meglio. A Torino nel 1906 nasce la Lega Industriale di Torino.
Scopo di questa associazione di classe padronale era la solidarietà tra i soci,
con misure che andavano dalla serrata contro gli scioperi generali, al divieto
di assunzione degli scioperanti appartenenti a ditte consociate, a multe molto
salate ai soci che per primi cedevano alle lotte operaie.
Nel 1911 per
iniziativa di Giovanni Agnelli, padrone della FIAT, si costituisce un
"Consorzio delle Fabbriche dell'Automobile", per meglio tutelare gli
interessi del settore. Questo Consorzio, oltre a stabilire regole che
subordinano la minoranza alla maggioranza, stabilisce l'obbligo da parte di
tutti i soci di versare una cambiale in bianco da usare contro i soci che
cedono alle richieste operaie.
La FIAT (6.500
operai nel 1911) è una delle prime fabbriche a concordare con il sindacato un
regolamento per impedire gli "scioperi impulsivi". Inoltre nel 1912
Agnelli propone un contratto valido per tutte le fabbriche del consorzio, cioè
le fabbriche automobilistiche: in cambio della facoltà di licenziamento senza
preavviso, della soppressione di ogni tolleranza sull'orario di lavoro,
dell'obbligo di esperire pratiche conciliative prima della proclamazione degli
scioperi, offre aumenti salariali del 6,5% e la riduzione dell'orario di lavoro
settimanale a 55 ore.
Inoltre si
dichiara disposto a riconoscere ufficialmente la FIOM, impegnandosi a ricorrere
al suo ufficio di collocamento e a trattenere direttamente le quote mensili
delle tessere sulla busta paga degli iscritti alla FIOM.
Di fronte a
questa proposta di compromesso sindacale e di svendita degli interessi operai,
la maggioranza dei dipendenti FIAT, guidata dal Sindacato Autonomo Metallurgico
di tendenza sindacalista-rivoluzionaria, respinge l'accordo proclamando uno
sciopero che si protrarrà per 64 giorni.
3. Il sindacalismo "bianco" e la guerra di
Libia
L'impetuosa
ascesa del movimento sindacale con forti riferimenti alla lotta di classe,
anche se in maggioranza diretta dai riformisti, preoccupava anche il Vaticano.
Nel 1891 il papa Leone XIII fissò la posizione della Chiesa sulla questione
sociale, pubblicando l'enciclica "Rerum Novarum".
Per la prima
volta dal 1870, il Vaticano autorizzava i cattolici a votare sia per i propri
candidati che per i conservatori. Il Papa riaffermava inoltre l'ostilità della
Chiesa cattolica al socialismo e alla lotta di classe, invitando gli operai
cattolici a costituire proprie associazioni basate sul principio “del dovere,
della carità e della collaborazione tra le classi". Oltre alla messa al
bando della lotta di classe, "sostituita" dalla collaborazione tra
capitale e lavoro salariato, Leone XIII condannava lo sciopero, riconoscendo tuttavia
come legittime le rivendicazioni operaie per il riposo festivo e la tutela
delle donne e dei bambini.
L'enciclica
"Rerum Novarum" è all'origine del sindacalismo cattolico, detto anche
"bianco", che si sviluppò intorno al 1900 e raggiunse forza intorno
al 1914, diffondendosi soprattutto fra i contadini medi e i salariati del
cremonese e del Sud d'Italia.
Nel 1918 esso
si organizzò nella C.I.L. (Confederazione dei Lavoratori Italiani) che
raggruppava 1.250.000 iscritti.
L'intervento del papa, tuttavia, non
fu accolto in modo unanime
e provocò in alcuni gruppi cattolici forti opposizioni. Una delle correnti più
battagliere fu quella che faceva capo al sacerdote Romolo Murri e alla rivista
"Cultura Sociale": essa tentò di distaccarsi dalla posizione politica
conservatrice, ma sconfessata dal Vaticano, fu stroncata.
Alla vigilia
della prima guerra mondiale, la crisi economica determinata dalla guerra di
Libia impone nuove alleanze.
All'alleanza
tra borghesi e operai (questi ultimi controllati attraverso l'aristocrazia
operaia e i dirigenti riformisti e collaborazionisti della C.G.L e del Partito
Socialista), Giolitti sostituisce l'alleanza tra i borghesi e i cattolici che
rappresentano le masse contadine dell'Italia meridionale e centrale.
Nel 1911 l'esercito
italiano aveva occupato la Libia, sottraendola alla Turchia. Contro la guerra
di Libia la C.G.L, proclamò uno sciopero generale nazionale, che riuscì solo
parzialmente nelle zone industriali. Le manifestazioni furono duramente
represse dalla polizia.
I nazionalisti
organizzarono contromanifestazioni di piazza che videro sfilare al fianco dei
sostenitori della guerra imperialista i rappresentati di quasi tutte le forze
borghesi, compresi i liberali e alcune organizzazioni cattoliche.
I riformisti di
destra del PS (Bissolati, Bonomi, Cabrini), che avevano preso posizione a
favore della guerra, nel 1912 vennero espulsi dal partito e costituirono il
Partito Socialista Riformista Italiano. Uno dei più risoluti fautori
dell'espulsione dei riformisti di destra fu il giovane Benito Mussolini,
direttore del quotidiano del partito,l’"Avanti "; due anni dopo verrà
a sua volta espulso dal PSI a causa della sua posizione
interventista nella guerra del 15-18.
4. La "grande" guerra e il
fallimento della 2a Internazionale
La crisi
economica del 1914 porta inevitabilmente ad un aumento della disoccupazione: le
statistiche contano 872.598 emigrati nel 1913.
Nel giugno del
1914 un massacro di lavoratori compiuto ad Ancona si trasformò in una vera e
propria sommossa nelle Marche e in Romagna, mentre scioperi scoppiavano in
tutta Italia. La "settimana rossa" (così fu denominata
successivamente) fu essenzialmente una
lotta spontanea che si smorzò rapidamente, perché sabotata dai dirigenti
della C.G.L e non diretta — per incapacità — dagli anarco-sindacalisti
dell'USI.
Il 5 agosto
1914 il Partito Socialista, la Confederazione Generale del Lavoro e l'Unione
Sindacale Italiana si dichiararono contro la guerra e pronti a dichiarare lo
sciopero generale se il governo avesse deciso di entrare in guerra. Nei giorni
immediatamente successivi allo scoppio del conflitto, il PSI cambiò posizione,
adottando la formula: «non aderire e non sabotare». Intanto in tutta l'Italia
operai e contadini scendevano spontaneamente nelle piazze per protestare contro
la guerra, sfidando governo e polizia; a migliaia saranno poi processati per
"disfattismo", propaganda sovversiva ed antipatriottica.
L'unico
sciopero contro la guerra durante il conflitto fu proclamato a Torino e finì
con sanguinosi scontri fra operai e forza pubblica. Il bilancio fu di 21 morti,
30 feriti e oltre 1.500 arresti, mentre tra le "forze dell'ordine" i
morti furono 3.
Durante la
guerra i dirigenti sindacali
riformisti finirono per collaborare apertamente con il governo; secondo loro
occorreva approfittare del bisogno che il governo aveva di sviluppare al
massimo la produzione per ottenere miglioramenti salariali e una disciplina
meno dura nelle fabbriche sottoposte alla militarizzazione.
In questo
periodo il governo concesse agli operai aumenti salariali, accompagnati — e
quindi vanificati — dal prolungamento della giornata lavorativa e da un forte
aumento dei prezzi. L'inflazione durante la guerra superò il 400%. Ponendo nel
1913 la base 100, nel 1918 arrivò
a 409.
Inoltre, per
ottenere in qualche modo una maggior collaborazione degli operai, il governo
riconobbe le Commissioni Interne di fabbrica: elette da tutti gli
operai, avevano il compito di tutelare i loro interessi e — dato il loro
carattere — si svilupparono rapidamente rendendosi spesso autonome dai
sindacati.
La guerra mette
in crisi le organizzazioni e i partiti operai e rende evidente il fallimento
della Seconda Internazionale.
In ogni paese
la borghesia cerca di coinvolgere gli operai nella guerra, esaltando il nazionalismo,
il patriottismo: la vittoria sul nemico, si diceva, era necessaria per liberare
gli altri popoli; in realtà sarebbe servita a spogliare il nemico ed occuparne
il territorio, conquistando così nuovi mercati.
Quasi tutti i
dirigenti socialisti della Seconda Internazionale si schierarono a favore della
guerra, sostenendo gli interessi imperialisti delle rispettive borghesie, cioè
dei propri padroni; rinnegarono così i principi della solidarietà di classe ed
i legami tra le diverse frazioni del proletariato, su cui si era fondata
l'Internazionale.
Solo il
P.O.S.D.R. (Partito Operaio Socialdemocratico della Russia) si schierò compatto
contro la guerra imperialista. Lenin aveva infatti affermato: «la
trasformazione dell'attuale guerra imperialista in guerra civile è la sola
giusta parola d'ordine proletaria additata dall'esperienza della Comune (di
Parigi)». A sostegno degli interessi della borghesia si schierarono non solo
molti piccolo-borghesi (anche "socialisti"), ma anche certi strati
della classe operaia: la burocrazia del movimento operaio, i capi dei sindacati
e dei partiti, e l'aristocrazia operaia (che era ben pagata grazie anche ai
profitti derivanti dallo sfruttamento delle colonie e della posizione
privilegiata dei propri paesi sul mercato mondiale).
Questo fenomeno
si manifesta ovunque, anche in Italia.
5. La 3a Internazionale e l'Internazionale Sindacale Rossa
Dopo la
Rivoluzione d'Ottobre in Russia, emerge con chiarezza fra gli operai la
necessità di una nuova organizzazione mondiale della lotta di classe per “fare
dappertutto come in Russia”. L'URSS diventa il punto di riferimento a cui
guardano con simpatia milioni di proletari in tutto il mondo. Ma nello stesso
tempo si attira l'odio mortale della borghesia mondiale e dei dirigenti della II
Internazionale. La mancata rivoluzione in Europa, a cominciare dalla Germania,
pone Lenin ed i bolscevichi di fronte al fatto che: o la rivoluzione si fa
ovunque, o prima o poi fallirà anche in URSS. Così nel Congresso di Mosca del
2-6 marzo 1919, preceduto da una lettera aperta di Lenin agli operai d'America
e d'Europa (24 gennaio 1919), viene fondata la Terza Internazionale. Nel suo secondo congresso (luglio-agosto
1920), in seguito alle condizioni create dalla guerra al proletariato
internazionale, la Terza Internazionale decide di fondare L'Internazionale
Sindacale Rossa; contemporaneamente afferma il principio dell’
organizzazione non più per categorie professionali, ma per settori
dell'industria, condannando inoltre tutti i tentativi diretti a far uscire
dalle organizzazioni sindacali esistenti gli elementi più avanzati.
All'Internazionale
Sindacale Rossa aderì anche la CGL italiana, rappresentata nel primo congresso
a Mosca (luglio 1921) dal riformista D'Aragona, il quale tuttavia continuò
nella sua politica di collaborazione tra le classi.
La CGL, che
durante la guerra aveva visto diminuire i suoi iscritti, passò dai 249.039
tesserati del 1918 a 1.159.062 alla fine del 1919 e a 2.320163 alla fine del
1920. Tenendo conto anche degli iscritti all'USI e ai sindacati autonomi (come
il sindacato ferrovieri), si può calcolare che il numero complessivo dei
lavoratori organizzati salì nel 1920 a circa 3.700.000, quasi cinque volte di
più rispetto all'anteguerra.
All'indomani
della guerra riprese anche l'agitazione femminista per la parificazione dei
diritti. Durante la guerra le donne avevano sostituito gli uomini chiamati al
fronte e in questo modo i fatti avevano dimostrato come ormai apparivano
ingiusti e sciocchi gli antichi pregiudizi che escludevano le donne dalla
società, per la loro presunta inferiorità giuridica, politica e morale.
Lo sviluppo
industriale aveva ormai messo in crisi la vecchia famiglia contadina e
conseguentemente i pregiudizi derivanti dal vecchio modo di produzione; e le
donne cominciavano ad averne coscienza.
Con il maturare
delle condizioni economiche si formano anche le basi per la costruzione di
alcuni dei maggiori partiti moderni.
Il 23 marzo del
1919 si costituisce a Milano il Movimento Fascista.
Sempre nel 1919
attorno alla rivista "l' Ordine Nuovo”, senza un grosso seguito fuori
Torino, si sviluppa il movimento politico comunista guidato da Gramsci, mentre
attorno al "Soviet", il giornale a cui fa capo Bordiga, si
organizzano la Federazione Giovanile Socialista e la corrente comunista del
PSI, facendo assumere al giornale un ruolo nazionale.
Ancora in
quell'anno un prete siciliano, Luigi Sturzo, fonda il Partito Popolare.
Nel PSI le
correnti principali che allora influenzavano il movimento operaio erano tre:
1- la corrente riformista, che costituiva la
minoranza nel PSI ma che aveva in mano l'apparato centrale della CGL, della
federazioni di mestiere, della Lega delle cooperative, e la maggioranza dei
municipi socialisti, oltre al gruppo parlamentare;
2- la corrente massimalista, detta
anche "comunista unitaria", che era in realtà una corrente centrista: diretta da Serrati, aveva
nelle mani l'apparato del PSI e la direzione del quotidiano del partito,
'"l'Avanti!";
3- la corrente comunista
astensionista (cosiddetta perché favorevole all'astensione elettorale), diretta
da Amedeo Bordiga, che disponeva di numerosi gruppi e aveva l'appoggio della
Federazione Giovanile Socialista.
C'era anche un'altra corrente, che però non aveva consistenza nazionale:
limitata a Torino, faceva capo ad Antonio Gramsci e al gruppo torinese Ordine
Nuovo e aveva la sua base nel movimento dei Consigli.
6. Il "biennio rosso" e la nascita del
PCd'I
In quegli
anni il movimento dei Consigli ebbe un'importanza notevole per la classe
operaia. La controprova fu che gli industriali tentarono di stroncarlo (aprile
1920), dopo che Agnelli fallì il tentativo di assorbire il gruppo dell'Ordine
Nuovo in nome della «concordanza di
interessi fra capitalisti e operai». I membri dei Consigli, eletti reparto
per reparto da tutti i lavoratori, si chiamavano “commissari di reparto”. I Consigli non solo eleggevano la Commissione Interna, ma si occupavano di
tutti i problemi della categoria e della classe operaia nel suo insieme; questo
creava grosse contraddizioni al sindacato diretto dai riformisti con i quali le
C.I. entravano spesso in contrasto.
Il 17 agosto
del 1920 la FIOM decide l'occupazione delle officine metallurgiche di tutta
Italia come risposta alla serrata fatta dai padroni di fronte alle richieste
salariali dei lavoratori torinesi. Gli operai continuarono la produzione,
iniziando contemporaneamente a costruire in fabbrica le armi per difendersi da
un'eventuale azione di forza del governo.
Il movimento
stava uscendo dai confini di una lotta salariale; ma il sabotaggio dei
dirigenti riformisti della CGL, le incertezze presenti all'interno del gruppo
dell' Ordine Nuovo e la trattativa subito avviata con il sindacato dal governo
e dagli industriali riportarono la lotta nel campo sindacale.
L'occupazione
delle fabbriche dell' agosto-settembre 1920 aveva visto alla testa della lotta
partita alla FIAT gli operai dell'USI, dell'Ordine Nuovo e del
"Soviet" (dal nome del giornale della tendenza di Bordiga). Appena
conclusa la lotta, la repressione colpisce questa avanguardia, in particolare
gli anarcosindacalisti: nell'ottobre successivo tutti i dirigenti della
segreteria dell'USI vengono arrestati. Finiva così quello che fu poi chiamato
il "biennio rosso".
Ormai un nuovo
ciclo del capitale si sta esaurendo. Il relativo "benessere" del
precedente ciclo economico era stato la base materiale su cui poggiava la
politica riformista di Giolitti, che aveva creato le condizioni per il
conglobamento nel sistema economico dell'aristocrazia operaia, rappresentata
dal PSI e dalla CGL.
La crisi
economica che scoppiò nel 1921 rese più acuti i contrasti di classe e politici,
facendo crollare i presupposti su cui si fondava il riformismo. Alcune classi
non si riconoscevano più nelle vecchie organizzazioni e nei partiti politici
esistenti; l'accanita lotta di classe acuita dalla crisi imponeva nuove forme
di organizzazione.
I contadini e
gli operai, che sotto le armi si erano sentiti promettere ampie concessioni,
una volta passato il pericolo e tornati a casa, scoprivano che non solo le
promesse non erano state mantenute, ma che le loro condizioni venivano
addirittura aggravate dagli effetti della crisi.
L'esempio della
vittoria della Rivoluzione bolscevica in Russia dava inoltre grande forza al
movimento di massa provocato dalla crisi.
La grande borghesia
(finanziaria, terriera, industriale) trovò nel fascismo la soluzione per la
salvaguardia del profitto, mentre il proletariato industriale ed agricolo trovò
nel Partito Comunista d'Italia (PCd'I) la nuova forma di organizzazione
politica: infatti nel 1921 a Livorno dalla spaccatura con il PSI nasce il
PCd'I, Sezione italiana
dell'Internazionale Comunista. Anche se
la nascita del PCd'I, a differenza del Partito bolscevico, è frutto di
una spaccatura della socialdemocrazia e di mediazioni fra le varie correnti
contenenti già dall'inizio posizioni opportuniste, ciò non sminuisce la sua
portata storica. Con la formazione del PCd'I, anche in Italia avviene un
processo simile a quello avvenuto in Russia: la saldatura fra socialismo
scientifico e movimento operaio: dopo quasi 40 anni dalla fondazione del
Partito Operaio, il proletariato italiano si presenta sulla scena politica con
un suo partito di classe indipendente.
Terza parte: 1923 -1947
Dal
sindacalismo fascista alla C.G.I.L.
1. Il sindacalismo fascista
Il fascismo
rappresentava agli occhi dei grandi capitalisti e degli agrari il garante dei
loro interessi. Infatti, il Partito Fascista appena salito al potere decise una
serie di misure a favore del grande capitale: tra l'altro, abolisce il limite massimo
di otto ore per la giornata lavorativa, conquistato dagli operai dopo le lotte
del 1919-20, riducendo contemporaneamente i salari.
In seguito alla
marcia su Roma—che potè compiersi perché Vittorio Emanuele III fece ritirare le
truppe che erano schierate a difesa di Roma, dando via libera ai fascisti — il
re aveva offerto a Mussolini l'incarico di formare il nuovo governo (28 agosto
1922); ma la svolta decisiva verso la costruzione della dittatura fascista
avvenne successivamente, all'inizio del 1925.
Fu allora che
venne imposto il sindacalismo fascista: il 13 aprile 1926 la legge Rocco
stabiliva il riconoscimento giuridico dei sindacati, con il monopolio di quelli
fascisti, i contributi obbligatori, l'istituzione del tribunale del lavoro e la
soppressione della libertà di sciopero, oltre che delle Commissioni Interne.
La vita dei
sindacati diventa dura, sia per quelli di classe che per quelli bianchi; il 14
giugno del 1927 i dirigenti della CGL sciolgono di propria iniziativa
l’organizzazione. Contemporaneamente alcuni dei massimidirigenti (Rigola,
D'Aragona, Colombino, Calda, Azimonti, Maglione, Reina) costituiscono un
"Centro lo studio dei problemi del lavoro» perché come affermano, «il regime fascista è una realtà e, come
tutte le realtà, deve essere preso in considerazione, anche se ciò
implica—ovviamente—1' abbandono del principio della di classe».
Il
programma del fascismo fu enunciato nella Carta del lavoro.
Essa prevedeva l'eliminazione della lotta di classe attraverso la creazione
delle "Corporazioni", cioè di associazioni di categoria che univano
insieme lavoratori e padroni con lo scopo di conciliare i loro rispettivi
interessi in nome del supremo interesse della collettività nazionale.
Ciò che avvenne in realtà fu che il fascismo diede mano libera al
capitale finanziario, industriale e agrario.
Inoltre, con i
Patti Lateranensi dell'11 febbraio 1929, il regime fascista si
assicurava la benevolenza del Vaticano, riconoscendo la Città del Vaticano come
stato indipendente pagandogli inoltre l'indennità per gli espropri subiti ai
tempi dell'unità d'Italia. Dopo anni burrascosi, i rapporti tra lo stato
italiano e la chiesa cattolica vennero così pacificati in modo venale con il versamento di centinaia
di milioni delle lire di allora.
Altri importanti
aspetti del Concordato furono l'impegno a impartire l'insegnamento religioso
cattolico nella scuola, la negazione dei diritti civili a sacerdoti colpevoli
di eresia e di abbandono dello stato sacerdotale, la proibizione di ogni
attività politica all'Azione Cattolica.
Allo
scioglimento della CGL i comunisti si opposero, ricostituendola nella
clandestinità con la parola d'ordine: «fuori dai sindacati fascisti, aderire
alla CGL». Ma la vita di un'organizzazione di massa nella clandestinità era
difficile.
Il fascismo,
dopo aver distrutto qualsiasi forma diorganizzazione operaia, costrinse gli operai ad iscriversi ai sindacati
fascisti: infatti, anche se nessuno era obbligatogiuridicamente ad iscriversi, in realtà tutti gli
operai —iscritti o non iscritti al sindacato — dovevano pagare lequote sociali e chi si
rifiutava di pagare veniva schedatocome sovversivo dalla polizia. Senza contare che unoperaio non iscritto
era il primo a perdere il posto di
lavoroin caso di licenziamento, e
non avrebbe trovato un altro posto nel caso in cui fosse rimasto disoccupato.
2.
La "grande" crisi del
1929 e la svolta del PCI
Una gigantesca
crisi di sovrapproduzione inceppa il modo di produzione capitalistico a livello
mondiale. Questa crisi ha origine negli Stati Uniti e scuote dalle fondamenta
tutto il sistema capitalistico.
La
disoccupazione raggiunge punte altissime: solo negli Stati Uniti d'America i
disoccupati diventano 13 milioni: in Italia alla fine del 1930 la
disoccupazione industriale era aumentata del 70% e quella agricola del 50%.. In
nome dell'interesse dell'economia nazionale, nel periodo giugno 1927-dicembre
1928, tramite accordi tra i sindacati fascisti e i padroni, i salari furono
ridotti del 20% con il pretesto della rivalutazione della lira. Nel 1929 furono
ulteriormente ridotti del 10%. Nel '30
ci fu un'altra riduzione che andava da un minimo dell'8% per alcune
categorie al massimo del 25%. Secondo dati ufficiali la disoccupazione passa
dalle 320.787 unità del 1929 a
1.018.953 del 1933. Questo provoca
inevitabilmente un accentuarsi degli scioperi e delle agitazioni, ma nonostante ciò l'organizzazione di massa clandestina dei comunisti non si
sviluppa. La crisi cambia il rapporto fra le classi e l'evoluzione del PCI
procede di pari passo. All'alleanza operai-contadini, perno della sua politica
classista, il PCI va sostituendo quella interclassista, basata sugli appelli ai
"fratelli in camicia nera",
affinché prendano coscienza delle "malefatte" del regime. In seguito
agli arresti subiti e ancor più
alla presa d'atto dell'aumento dei lavoratori iscritti al sindacato fascista
(dal 50% del 1930 al 71% del 1933), il PCI scelse di entrare nei sindacati
fascisti: tenendo conto che questi erano costretti a mantenere un certo
contatto con i lavora-tori riunendoli ogni tanto nelle assemblee, anche per
procedere all'elezione dei fiduciari di fabbrica, il PCI poteva approfittarne
per rafforzare la sua organizzazione. Ma il fascismo non fu solo repressione:
la tattica del regime era quella del bastone e della carota. Mentre
sottometteva agli interessi dell'economia nazionale (cioè degli industriali e
degli agrari) gli operai, diede vita anche all'istituto degli assegni familiari
(1934), alla legge sulla maternità a tutela dell'infanzia, a leggi contro gli infortuni,
nel tentativo di legare a sé gli operai; però soltanto la gerarchia di fabbrica
e le nuove fasce di aristocrazia operaia (che avevano soppiantato la vecchia
nel nuovo processo di ristrutturazione) trovarono nel fascismo la forma
politica che difendeva i loro interessi. Anche negli anni sotto il fascismo vi
furono importanti lotte sindacali, sia pure inferiori per numero e intensità
rispetto al periodo precedente. La resistenza operaia sbocciòin un
grande movimento di massa solo nel 1943 con lo sciopero delle grandi fabbriche
di Torino (FIAT in testa), che si diffuse rapidamente in tutta Italia.
3. Lo scioglimento della 3ª Internazionale
Molti
cambiamenti erano avvenuti nel primo paese in cui gli operai avevano preso il
potere. In URSS il capitalismo si andava sempre più affermando.
Intanto il 15
maggio 1943 viene ufficialmente sciolta la Terza Internazionale, in nome della
comune tattica decisa al suo interno, per cui i partiti comunisti dei singoli
paesi avrebbero dovuto adeguare la
loro azione tattica alle circostanze e alle esigenze nazionali per far
fronte al comune nemico.
Il 28 maggio
dello stesso anno, rispondendo in un'intervista ad un corrispondente della
Reuter, Stalin dichiarava: «lo
scioglimento dell'Internazionale Comunista è giusto e tempestivo, perché
facilita l'organizzazione dell'attacco comune di tutte le nazioni che amano la
libertà sul comune nemico, l'hitlerismo». Inoltre, aggiunge Stalin, «lo scioglimento dell'Internazionale avrebbe
dimostrato la falsità di chi sosteneva che Mosca voleva usare i partiti
comunisti non nell'interesse del proprio paese, ma per immischiarsi nella vita
degli altri stati per bolscevizzarli».
La lotta contro
il comune nemico, l'hitlerismo, verrà utilizzata in seguito dai vari Togliatti,
Torez (capo del PCF), ecc, per
giustificare la loro collaborazione di classe con le proprie "borghesie democratiche e progressiste".
Con lo
scioglimento della Terza Internazionale si sciolse anche l'Internazionale
Sindacale Rossa.
4. Il
sindacalismo "libero": nasce la C.G.I.L.
Alla crisi del
fascismo seguì immediatamente quella del suo sindacato: dopo il 25 luglio del
1943 il governo Badoglio incaricò alcuni vecchi esponenti del movimento
sindacale "libero" di reggere provvisoriamente le Confederazioni
Sindacali Fasciste.
Nel settembre
del 1943, a Napoli, ci fu il primo esempio di insurrezione popolare di massa
contro il nazifascismo. Per quattro giorni il popolo napoletano combattè contro
un nemico forte e potente, anticipando quello che due anni dopo sarebbe
successo in tutto il paese. Un ruolo importante in questa insurrezione fu
quello dato dagli operai napoletani, in particolare da quelli dell'ILVA e dai
portuali, che porterà successivamente un grosso contributo alla costituzione
della Camera del Lavoro di Napoli. La posizione ambigua, ed il ruolo del tutto
marginale, che ebbe il PCI in questa lotta, si evidenziò anche
sull'organizzazione di classe.
Intanto
nell'Italia "liberata" occupata dall'esercito alleato (il resto
dell'Italia era occupata dall'esercito tedesco), da Napoli alla Sicilia
vivevano circa 10.000.000 di persone. A Napoli nel novembre del 1943 per opera
di alcuni comunisti dissidenti (Enrico Russo, Libero Villone e Vincenzo Iorio)
e di operai e militanti del PSI e del Partito d'Azione si costituirono la Camera
del Lavoro e la CGL.
La Camera del
Lavoro di Napoli, che nel 1944
organizzava oltre 40.000 tesserati, si impegnò a costituire la nuova CGL nelle
zone liberate, ostacolata nel suo lavoro dal PCI ufficiale, che non vedeva di
buon occhio la politica dei dirigenti napoletani del sindacato, i quali
sostenevano l'indipendenza dai partiti e si basavano su una politica classista
che mal si conciliava con la politica di unità nazionale portata avanti dal
C.L.N. (Comitato di Liberazione Nazionale). Con il rientro di Togliatti dall' URSS la politica del
PCI si spostò su posizioni collaborazioniste verso il governo Badoglio
ed il re.
La nuova
posizione assunta dal PCI, anche se viene vista dalla maggioranza dei militanti
del partito come una tattica temporanea in attesa del momento favorevole per
scatenare la rivoluzione, genera parecchi contrasti nella base operaia, che il
PCI risolve con la repressione dei dissidenti.
Il caso più
significativo, oltre a quello di Napoli, è quello di Torino. Per sfuggire alla repressione
scatenata dopo gli scioperi del marzo 1943, il comitato federale del PC
torinese si era trasferito sulle montagne, lasciando senza un centro in città
gli operai e i militanti torinesi. Nel giugno del 1944 la direzione del PCI attacca duramente un gruppo di
militanti del partito che stampava "Stella Rossa", un giornale
clandestino in cui si sosteneva la
necessità di una politica più classista, criticando quindi la politica del
partito che privilegiava i rapporti nel CLN con i partiti antifascisti.
Questo gruppo,
che conta a Torino città 2.000 iscritti che pagano le quote (contro i 5.000 del
PCI ufficiale), sostiene che, come nell'immediato è giusto lottare contro i
fascisti e i tedeschi che in quel periodo occupano militar-mente l' Italia fino
a Roma (infatti molti militanti di
questo gruppo fanno parte delle formazioni partigiane in Valle Susa e nel
Vercellese), così domani bisognerà lottare per farla finita con i capitalisti.
Secondo "Stella Rossa" non basta ricostruire lo stato borghese antifascista,
ma occorre instaurare la Repubblica Sovietica Italiana.
Il PCI
ufficiale interviene contro queste posizioni con un articolo di Pietro Secchia,
che accusa "Stella Rossa" di essere un gruppo di spie della polizia e
di traditori. Questi operai comunisti dissidenti, sottoposti a una campagna
diffamatoria ed esposti alla violenza del partito, oltre che a quella
dell'avversario di classe, vengono perseguitati; alcuni di loro sono uccisi,
mentre la maggioranza rientrerà nei ranghi del partito dopo lo scioglimento del
gruppo.
Intanto avviene
la prima lottizzazione del sindacato "libero": il 4 giugno del 1944, alla vigilia della
liberazione di Roma, Di Vittorio per il PCI, Grandi per la DC e Canevari per il
PSI firmano una dichiarazione comune nota come il Patto di Roma, che
pone le basi della nuova organizzazione sindacale unitaria.
Dal 28 gennaio
al 1° febbraio 1945 si tenne a Napoli il primo congresso delle organizzazioni
della C.G.I.L. (Confederazione Generale Italiana dei Lavoratori) dell'alta
Italia liberata, a cui fu costretta ad aderire la CGL di Napoli.
5. Dalle conquiste operaie dell'immediato dopo guerra all'estromissione delle
sinistre dal governo
Dopo anni di
compressioni salariali e normative che facevano degli operai italiani i peggio
pagati d'Europa, venne il momento di livellare le condizioni; così furono
notevoli le "conquiste" che gli operai ottennero in questo periodo.
Nel luglio 1945
venne estesa a tutti i lavoratori dell'industria dell'Italia settentrionale
l'indennità di contingenza stabilita in un accordo precedentemente
raggiunto in provincia di Milano. Nel dicembre dello stesso anno la CGIL riuscì
a concludere un accordo definitivo per la gratifica natalizia assicurando
agli operai il corrispettivo di 200 ore lavorative e agli impiegati la 13ª
mensilità.
Fu inoltre
istituita la Cassa Integrazione in caso di sospensione dal lavoro, già
prevista per altro dalle leggi fasciste del 1941.
Nel 1946 si
ottennero i contributi assicurativi a carico dei datori di lavoro. Nel
settembre dello stesso anno anche gli statali ottennero la 13ª mensilità, oltre
a un aumento contrattuale del 70%.
Nel 1945 il
PCI, posto davanti ad un'ipotesi di smembramento della FIAT, ceduta al capitale
"straniero" (la FORD), chiedeva al governo di vigilare ed operare «in senso conforme agli interessi nazionali».
Nel giugno di
quell' anno anche il sindacato era sceso in campo sul terreno generale
invitando i lavoratori a votare per la repubblica nel referendum.
Intanto la
borghesia italiana, prima monarchica liberale con Giolitti, poi monarchica
fascista con Mussolini, cambia nuovamente rappresentanza politica diventando
repubblicana e democristiana con De Gasperi. Ormai la borghesia non ha più
bisogno di tenersi buono il PCI di Togliatti: è arrivato il momento in cui buttarlo
fuori dal governo, dandogli il benservito. Nel suo discorso del gennaio 1947
alla Costituente, mentre sta per essere estromesso dal governo, Togliatti
dichiara:
«Si parla di ondate di scioperi politici che
avrebbero scosso e scuoterebbero la compagine nazionale. Ho fatto in proposito
una ricerca: noi siamo il paese dove hanno luogo meno scioperi. Non ha avuto luogo negli ultimi
anni nessuno sciopero politico. Questa è la realtà. Anzi, io desidero andare
più in là: siamo un paese nel quale le organizzazioni operaie hanno firmato una
tregua salariale, cioè
un patto che è unico nella storia del movimento sindacale, perché è un patto nel
quale non si fissa un minimo, ma un massimo di salario; cosa questa che non era mai
avvenuta, poiché la classe operaia ha sempre lottato per dei minimi e non ha
mai accettato dei massimi. Orbene, questo patto lo hanno accettato i nostri
operai, lo hanno accettato i nostri sindacati e lo hanno firmato senza che
dall' altra parte venisse preso un impegno dì osservare un massimo di prezzi.
Questo è l'assurdo della situazione economica nella quale noi viviamo: da
partedelle classi
lavoratrici e dei sindacati operai si danno tutti gli esempie si compiono tutti gli atti necessari per compiere la disciplina della
produzione, l'ordine e la "pace sociale».
Naturalmente
la"tregua salariale" di cui parla Togliatti nessun operaio l'aveva
sottoscritta. Ma, come sempre succede, anche in questo caso DC, PCI, PSI e
sindacati, arrogandosi il diritto di rappresentanza, si erano presi la delega
per decidere i "sacrifici" che altri avrebbero dovuto fare.
Dopo la definitiva estromissione della sinistra dal governo, in un altro
discorso alla Costituente Togliatti dichiara: «L'onorevole Cappi sviluppa ampiamente la tesi che i ceti produttori
capitalistici hanno diritto di vivere e dì contribuire alla ricostruzione del
paese ... Sappiamo benissimo che per la ricostruzione del paesesono necessarie queste forze e infinite
volte abbiamo detto loro "collaboriamo" e
abbiamo teso loro la mano; abbiamo elaborato programmi di ricostruzione di
fabbriche, di zone industriali di città, di province intere ... Ma gli operai hanno fatto di più: hanno
moderato il loro movimento, l 'hanno frenato, l'hanno contenuto nei limiti in
cui era necessario contenerlo per non turbare l'opera di ricostruzione: hanno
accettato la tregua salariale, cioè una sospensione degli aumenti salariali,
senza che vi fosse la corrispondente sospensione degli aumenti dei prezzi...
I nostri operai comunisti e socialisti vedranno al governo i rappresentanti del
ceto ricco, dei grandi capitalisti come Pirelli ad esempio; non vedranno gli
uomini in cui essi hanno fiducia. E' evidente quindi che la loro fiducia nel
governo come tale non potrà esistere o sarà per lo meno una fiducia molto
ridotta. Questa è la cosa che più ci preoccupa!»
«... Stia tranquillo, onorevole Corbino. Lei ha
dimostrato la sua soddisfazione per il fatto che il nostro partito, messo fuori
dal governo, non ha lanciato la parola d'ordine dell'insurrezione. La cosa ci
meraviglia. Lei, onorevole Corbino, avrebbe il dovere di conoscerci meglio!».
1947-1988 Quarta parte:
La classe operaia dal dopoguerra ad oggi
1. La ricostruzione e la tregua salariale
Subito dopo
la fine della guerra la lotta per la terra nel Meridione d'Italia assume
caratteristiche di massa. Nel 1946 si hanno dure lotte in Lazio, Puglia,
Calabria e Sicilia.
Nella cittadina
di Andria (in Puglia) i contadini ed i braccianti, sostenuti da tutta la
popolazione, insorgono contro gli agrari che si barricano nei loro palazzi. La
polizia, intervenuta a difesa degli agrari, spara contro i rivoltosi e sul
campo rimangono sette morti e centinaia di feriti. La situazione diventa
insurrezionale.
Per cercare di
riportare la protesta negli ambiti istituzionali, il ministro degli interni
mette un aereo a disposizione di Di Vittorio affinché riprenda il controllo del
movimento e "condanni ogni violenza".
Il 2 maggio
1947, il bandito separatista Salvatore Giuliano, messosi al servizio degli
agrari e della DC, spara su una pacifica manifestazione di contadini a Portella
della Ginestra (in Sicilia), ammazzandone 7 e ferendone 33. In questa
situazione la CGIL si avviava al congresso.
Il primo
congresso nazionale della CGIL fu tenuto a Firenze dall'1 al 7 giugno 1947 e fu
unitario nonostante l'esclusione del PCI e del PSI dal governo. In questo
congresso si discusse fra l'altro il ruolo delle ACLI, le quali (istituite
dall'Azione Cattolica dopo la liberazione di Roma con il compito di agire nel
campo educativo ed assistenziale) tendevano in realtà ad interferire nel campo
sindacale.
In quel periodo
fra le conquiste da ricordare ci sono:
-il raddoppio
delle ferie degli operai;
-l’istituzione e il miglioramento del trattamento di quiescenza degli operai
(cioè la liquidazione, o indennità di licenziamento);
-il pagamento delle festività infrasettimanali.
-Intanto le
contraddizioni fra i partiti dividono anche ilsindacato. Nell'ottobre del 1946 la CGIL stabilisce
una tregua salariale rinnovata anche nel maggio del 1947. Questo comporta una diminuzione
del salario reale.
Facendo pari a
100 l'indice dei salari e dei prezzi nel 1938, nel settembre 1947 i salari
arrivano a quota 4.670, mentre il costo della vita raggiunge quota 5.334. Il
numero dei disoccupati passa da 1.654.880 nel 1946 a 2.025.140 nel 1947 e a
2.142.474 nel 1948.
Questo è il
prezzo pagato dai lavoratori alla politica collaborazionista dei suoi leaders
sindacali e politici. In questo periodo la borghesia fa sempre più
frequentemente ricorso alla serrata per arginare le lotte degli operai, che
spesso decidono all'interno delle fabbriche forme di lotta non condivise dal
sindacato e dal PCI.
Durante
l'autunno del '47 i licenziamenti di massa colpiscono le fabbriche: sono oltre
100.000 i licenziati nelle fabbriche milanesi e torinesi.
Nel 1848
avvengono due fatti tra i più importanti del dopoguerra.
Il 14 luglio,
alla notizia dell'attentato a Togliatti, a Milano, Torino e in parecchi altri
centri le fabbriche vengono occupate spontaneamente dagli operai armati.
A Torino il
presidente della FIAT, Valletta, ed altri 16 dirigenti sono sequestrati dagli
operai nei loro uffici; nella notte Scelba (ministro dell'interno
democristiano) dà ordine alla questura di attaccare la FIAT e di liberare
Valletta, ma le autorità torinesi — di fronte all'ampiezza raggiunta dal
movimento che si andava armando — si guardano bene dal far eseguire l'ordine.
In parecchie
città la protesta assume un carattere insurrezionale; ma il PCI sconfessa le
frange più radicali della protesta e, «coerente
con l'impegno democratico» assunto fin dalla guerra di liberazione in
difesa della legalità repubblicana, riporta la protesta nell'ambito della
legalità, la CGIL fa apertamente opera di "pompieraggio" e dopo due
giorni (il 16 luglio) blocca lo sciopero generale; ma in molte località lo
sciopero continua.
A Milano la
mattina del 16 luglio migliaia di operai invadono la Camera del Lavoro per
protestare contro la cessazione dello sciopero; ma la Celere (lo speciale
reparto antisommossa della polizia), avvisata della manifestazione da alcuni
dirigenti sindacali, si scaglia violentemente contro gli operai. La
Camera del Lavoro nel
pomeriggio dirama un comunicato nel quale invita i lavoratori ad evitare
"assembramenti" e smentisce che l'intervento della polizia sia stato
richiesto dai dirigenti sindacali.
Il bilancio
delle vittime del luglio '48, secondo dati forniti dal ministro Scelba, è di 16
morti e 244 feriti da arma da fuoco, quasi tutti operai.
2. La rottura della CGIL
Il 1948
registra anche un'altra novità di rilievo: la corrente sindacale democristiana
abbandona la CGIL. Nel maggio del 1949 anche i repubblicani ed i saragattiani
abbandoneranno la CGIL, costituendo la Federazione Italiana del Lavoro.
Nonostante la pratica di collaborazione attuata nel periodo di ricostruzione
dai dirigenti della CGIL, i capitalisti italiani e americani (molto forte era
l'influenza di questi ultimi) hanno spinto decisamente nella direzione
dell’indebolimento della CGIL. A Napoli nel febbraio del 1950 avviene perciò la
fusione fra la Federazione Italiana (repubblicani e saragattiani) e la corrente
sindacale democristiana: il nuovo sindacato assume il nome di Confederazione
Italiana dei Sindacati Liberi (CISL).
A questa nuova
organizzazione si rifiutano di aderire parecchi socialdemocratici e
repubblicani, che costituiscono l'Unione Italiana del Lavoro (UIL).
Alla nascita di
queste nuove organizzazioni, che di fatto indebolivano il movimento operaio,
furono di grande aiuto i dollari americani.
Gli effetti
della crisi economica nel dopoguerra cominciano intanto a farsi sentire; nel
1949 gli iscritti agli uffici di collocamento sono circa 2 milioni, mentre si
calcola che gli occupati marginali siano 4 milioni.
Il PCI tende
sempre più a rappresentare i nuovi strati di aristocrazia operaia che si sentono
salvaguardati nella ricostruzione e nella politica di collaborazione tra le
classi.
Dopo la rottura
dell'unità sindacale, al 2° congresso della CGIL (tenuto a Genova dal 4 al 9
ottobre 1949) Giuseppe Di Vittorio propone il "piano del lavoro". Partendo dall'idea che nella ricostruzione
è possibile una collaborazione verso il "risanamento e il progresso", la CGIL vede questo piano basato
su un vasto programma di opere pubbliche (strade, telefoni, acquedotti, ecc.)
di edilizia popolare, scolastica e ospedaliera. Per il finanziamento del piano,
Di Vittorio dice senza mezzi termini che i «lavoratori
salariati e stipendiati sarebbero felici di dare il loro contributo avviando
nelle fabbriche i "consigli di gestione"».
Il governo ed i
padroni però rispondono negativamente. Angelo Costa, presidente della
Confindustria, risponde che «l'evidente
finalità politica del piano economico non consente una vera collaborazione
».
Gli anni fra il
1950 e il 1955 sono anni di grande sviluppo dell'industria italiana, che aumenta
notevolmente la sua capacità competitiva sui mercati internazionali. Uno
sviluppo notevole avviene in alcuni settori come la siderurgia, la chimica,
l'elettricità e l'automobile.
Nello stesso
periodo la produzione aumenta ad un ritmo del 10% l'anno, mentre l'incremento
dei profitti nelle aziende industriali è dell'86% per gli utili netti
distribuiti. Invece i salari reali fra il 1950 e il 1961 rimangono quasi
stazionari
3. La repressione alla FIAT
La
ristrutturazione in questi anni avviene attraverso una duplice manovra, che
comporta due tipi di intervento:
-la
normalizzazione dei rapporti politici con la sinistra;
-la repressione delle frange più estreme.
Il 9 gennaio del 1950, di fronte alla protesta degli operai di una fabbrica di
Modena contro la chiusura di uno stabilimento, il governo fa intervenire la
polizia: sul campo rimangono 6 morti e 50 feriti, a cui vanno aggiunti i
licenziamenti per rappresaglia, i trasferimenti, le perquisizioni e le
discriminazioni che da questo momento diventano una pratica costante,
particolarmente alla FIAT.
Inizia così la
grande repressione contro le avanguardie di lotta, gli operai non più disposti
ad abbassare la testa.
Nel febbraio
del 1954 l'ambasciatore degli Stati Uniti in Italia, la signora Clara Booth
Luce, chiese esplicitamente a Valletta, presidente della FIAT, di «ripulire la
FIAT dai comunisti», pena la perdita delle commesse militari che il Pentagono
passava alla sua industria. La repressione in FIAT comporterà l'espulsione di
decine di migliaia di operai, oltre all'istituzione dei
"reparti-confino" per isolare i potenziali agitatori: il più noto di
questi era l'Officina Sussidiaria Ricambi, detta anche "Officina Stella
Rossa", creata nel 1952.
In questa
situazione anche la più normale agitazione si trasformava in una prova di forza
tra capitale e lavoro salariato; tant' è che nell'autunno del 1953, alla
Mirafiori, alla SPA e alla Grandi Motori, la FIAT instaurò dei tribunali di
fabbrica, composti da dirigenti e dall'ispettore del corpo di sorveglianza, per
giudicare gli operai che non rispettavano la normale disciplina del lavoro e
punirli di conseguenza: e spesso la pena era il licenziamento (notare che le
guardie erano reclutate normalmente tra ex agenti di polizia ed ex
carabinieri).
Non è un caso
che le lotte siano perciò rifluite, e che dall'inverno del 1953 alla primavera
del 1962 in pratica non si ebbero più scioperi.
4. Riprendono le lotte: l'assalto alla
UIL di Torino
Gli anni fra il
1960 e il 1963 registrano una notevole ripresa della lotta operaia. Una nuova
classe operaia fa i conti con la prima fase di sviluppo impetuoso che segnala la fine del ciclo del
dopoguerra.
Nel 1955 si
registrano 45 milioni di ore di sciopero e 1.383.000 adesioni agli scioperi;
nel 1962 le ore di sciopero arrivano a 181milioni e le adesioni a 2.900.000.
Gli operai
della FIAT hanno sempre avuto una funzione importante per l'insieme del
movimento operaio, e dopo un decennio di relativa passività, essi ripresero il
posto nel movimento. L'occasione fu
lo sciopero nazionale di 72 ore (il 7, il 9 e il 10 luglio 1962), che
vide gli operai scendere in lotta massicciamente (quasi al 100%), nonostante
l'accordo firmato separatamente nella notte fra il 6 e il 7 dalla UIL e dal
SIDA (un sindacato aziendale filopadronale costituito nel 1958).
Il pomeriggio
del 7 luglio una manifestazione di operai FIAT marcia contro la sede della UIL,
in piazza Statuto a Torino; la polizia carica il corteo e cominciano scontri
violentissimi che durano tre giorni fra operai FIAT, giovani e abitanti del
quartiere da una parte, e polizia e carabinieri dall'altra.
Il bilancio
della lotta si incaricano di farlo i giornali, e tra essi in particolare la
Stampa e l'Unità: 1.215 fermati, 90 arrestati e rinviati a giudizio per
direttissima, più di 100 denunciati a piede libero furono il prezzo pagato
dagli operai, mentre nel campo avversario si registrarono 169 feriti tra
poliziotti e carabinieri.
La ritorsione
della FIAT arrivò puntuale, il 2 eil
3 agosto: 88 lettere di licenziamento per rappresaglia colpirono gli operai più
combattivi.
5. Le lotte operaie del 1968-69
Il retroterra
delle lotte del 1968-69 sta nelle condizioni materiali degli operai italiani.
La crisi del 1964-1966 aveva generato una forte ristrutturazione, con la
conseguente espulsione dalle fabbriche di ingenti quantitativi di forza lavoro;
cresce quindi in tutto il paese la tensione che investe ampi settori di operai
colpiti dalla crisi.
Ancora una
volta l'inizio di un nuovo ciclo di lotte viene inaugurato dagli operai della
FIAT, che il 30 marzo del 1968 scendono in sciopero per l'orario di lavoro e il
cottimo. Il 19 aprile del 1968 a Valdagno (Vicenza), gli operai della Marzotto
in segno di protesta contro il paternalismo padronale, durante una lotta per aumenti salariali, abbattono la statua
del fondatore dell'azienda. Pochi mesi dopo, nell'estate, lotte dure scoppiano
a Porto Marghera e alla Pirelli Bicocca di Milano.
Le lotte, nate
alla FIAT, si estendono su tutto il territorio nazionale.
Per contrastare
l'azione padronale e la linea sindacale considerata da molti lavoratori
"troppo moderata", in alcune località operai e impiegati, insieme,
danno vita a nuove forme di organizzazione unitaria: i Comitati di Lotta. A
Cagliari (Italallumina, Rumianca) ed a Napoli (Italsider, Ignis Sud), attraverso
i comitati di lotta, vengono sperimentate nuove forme di organizzazione.
Alla Pirelli di
Milano, nella lotta per il controllo dei cottimi e agganciarli all’inflazione,
si diffonde a livello di massa la critica contro i partiti, compreso quello comunista,
accusati da consistenti gruppi di operai di avere più a cuore gli interessi dei
capitalisti che quelli degli operai. La composizione di classe è cambiata
perché l'emigrazione dal Sud e dalla campagna ha creato nuovi strati operai:
entra nella lotta il cosiddetto "operaio-massa", con una mentalità
poco incline ai compromessi, per cui si realizza una radicalizzazione delle
lotte.
Anche alla
Pirelli si sperimentano nuove forme di organizzazione (i Comitati Unitati di
Base: CUB, e i Consigli dei Delegati), che nel 1969 si diffondono ovunque.
Tutto questo
preoccupa i sindacati, che sono costretti in molte occasioni a rincorrere le
lotte.
Nel contratto
nazionale del 1969 i metalmeccanici, oltre agli aumenti salariali uguali per
tutti, ottengono la riduzione d'orario a 40 ore settimanali, aprendo la strada
a tutte le altre categorie.
Il 12 dicembre del 1969 una bomba esplode a
Milano nella Banca Nazionale dell'Agricoltura causando 17 morti e 88 feriti,
inaugurando la strategia della tensione. Settori della borghesia e apparati
statali, nel tentativo di arginare le lotte operaie, aprono il capitolo delle
stragi di stato, tuttora impunite, e dei tentativi di golpe. L'incapacità della
sinistra riformista di dare risposte adeguate genera un forte malcontento fra
settori di lavoratori. Consistenti nuclei di proletari e di piccola borghesia,
rompendo con il PCI, assumono posizioni sempre più radicali ingrossando le fila
dei gruppi extraparlamentari o creando le condizioni per costituirne di nuovi.
Nel maggio 1970
diventa legge lo Statuto dei Lavoratori.
In questi anni,
approfittando della congiuntura favorevole, gli operai adeguano le loro
condizioni economiche a quelle degli operai degli altri paesi europei,
conquistando nel 1975 il punto unico di contingenza.
Negli anni
seguenti, la crisi di sovrapproduzione esplode violenta in alcuni settori a
livello mondiale. Uno dei più colpiti è il settore dell'automobile che in
Italia racchiude la più grossa concentrazione operaia.
6. Crisi del '76: ristrutturazione e “terrorismo”
In seguito
alla crisi del 1976, mentre le condizioni materiali degli operai subiscono duri
colpi, nasce il governo di "solidarietà democratica" con l'ingresso
del PCI nella maggioranza di governo, anche se da esterno.
Gli anni che
vanno dal '76 al '78 vedono nel PCI il maggior sostenitore delle decisioni
governative in fabbrica; Luciano Lama e gli altri uomini del PCI nel sindacato,
in nome degli interessi della
nazione, nel 1977 impongono la cosiddetta linea dell'EUR basata sui
"sacrifici". Secondo CGIL-CISL-UIL, gli operai occupati avrebbero
aiutato il paese a diventare "più competitivo", contenendo le loro
richieste salariali e aumentando la produzione; in cambio i padroni avrebbero
riversato una parte dei profitti nelle aziende, creando nuovi posti di lavoro
per i disoccupati.
Nonostante la
resistenza passiva della grande massa e quella attiva di piccole minoranze di
operai, purtroppo divisi fra loro e disorganizzati, in questi anni padroni e
governo (con la complicità degli apparati sindacali e del PCI) impongono una
serie di accordi-capestro.
L'introduzione
delle nuove tecnologie nei processi produttivi aumenta la produttività del
lavoro e l'intensità dello sfruttamento, contribuendo ad accelerare
l'espulsione di manodopera dal processo produttivo.
La crisi, che
in alcuni settori si acuisce velocemente, richiede continuamente nuovi livelli
di sfruttamento, pena l'uscita dal mercato internazionale.
Ma la
resistenza operaia tende a crescere; gli operai si accorgono che la rinuncia a
difendere i loro interessi non solo non è servita ai disoccupati, ma che gli
ulteriori investimenti produttivi hanno ridotto il numero degli occupati.
Piccoli gruppi di operai cominciano a mettere in discussione il sistema nel suo
complesso, ponendo il problema del potere politico anche all' interno delle
assemblee di fabbrica e riscuotendo sempre più consensi. Perciò padroni,
governo, sindacati e partiti decidono di stroncarli, usando come pretesto la
lotta al terrorismo.
Le azioni dei
gruppi armati (Brigate Rosse, Prima Linea, ecc.) hanno come risposta
l'organizzazione di scioperi a difesa dello stato, criminalizzando come
potenziali terroristi tutti coloro che non partecipano a questi scioperi o che
criticano il sindacato per la sua politica filopadronale: così, fra il 1976 e
il 1983 si instaura nelle fabbriche un clima di caccia alle streghe.
Particolarmente attivo in questa campagna si dimostra il PCI che invita
continuamente alla delazione e alla repressione contro gli ipotetici
fiancheggiatori del terrorismo.
Quei pochi
operai che nelle fabbriche continuano a lottare per i loro interessi contro i
padroni (e contro il governo) riconoscendoli come i veri nemici principali,
vengono estromessi dal sindacato, licenziati, repressi, intimiditi con continue
perquisizioni domiciliari e, dove questo non basta, incarcerati. La lotta al
terrorismo fornisce su un piatto d'argento ai padroni e ai partiti (PCI
compreso) l'occasione per reprimere l'opposizione di classe in fabbrica senza
neanche pagarne il prezzo politico.
7. I 35 giorni di lotta alla FIAT
La strada è
aperta ancora una volta alla FIAT che, il 9 ottobre del 1979, licenzia 61
operai degli stabilimenti di Mirafiori, Rivalta e Lancia Chivasso; la
maggioranza dei 61 sono operai attivi nelle lotte. L'azienda giustifica il loro
licenziamento come una misura per combattere il terrorismo in fabbrica. In
realtà la strategia dei dirigenti FIAT tende a ridurre il più possibile il
personale per realizzare una profonda ristrutturazione del settore auto.
Infatti, dopo
il licenziamento dei 61, la direzione aziendale continua l'espulsione del
personale, prima con i licenziamenti per assenteismo (che colpiscono ammalati,
invalidi, donne in maternità, ricoverati in ospedale), poi con i licenziamenti
in massa.
Il 10 settembre
del 1980 a Roma avviene la rottura delle trattative con la FLM (il sindacato
unitario dei metalmeccanici): la FIAT voleva mettere in mobilità esterna
migliaia e migliaia di lavoratori; la FLM rifiutava questa impostazione,
considerandola "un'anticamera dei licenziamenti" e proponeva il
ricorso alla cassa integrazione, con la rotazione dei cassintegrati, la
mobilità interna, il blocco del turn-over.
Rotte le
trattative, la FIAT annuncia che avvierà la procedura di licenziamento per
14.000 dipendenti; il giorno 11 settembre gli operai del primo turno di
Mirafiori proclamano 8 ore di sciopero e la lotta continua ad oltranza nei
giorni successivi.
In questo
periodo il PCI soffia sul fuoco della protesta operaia, nel tentativo di
arginare le sue emorragie elettorali, dovute alla politica dei sacrifici di cui
si è fatto gestore in prima persona nelle fabbriche. Ma con il passare dei
giorni aumentano le
difficoltà degli scioperanti: il numero degli operai attivi tende a
calare, tant'è che il sindacato e il PCI rinforzano i picchetti portando a
Torino delegati da ogni città.
Nel frattempo
la direzione FIAT trova dei servi intelligenti che le organizzano una
manifestazione per le vie diTorino
dei capi e dei crumiri raccolti da tutti gli stabilimenti del gruppo, per
rivendicare il proprio "diritto al lavoro".
Dopo 35 giorni
di sciopero ad oltranza, viene firmato a Roma un accordo fra sindacato e FIAT
che non corrisponde affatto all'impostazione iniziale della FLM, perché non
contiene la rotazione della cassa integrazione. Le assemblee sono tenute
personalmente dai capi delle tre confederazioni sindacali per far approvare a
tutti i costi l'accordo; ma il giudizio della grande maggioranza degli operai è
negativo e Lama, Benvenuto e Carniti rischiano di essere malmenati dagli operai
furibondi e sono costretti a scappare, ingloriosamente protetti dalla polizia.
8. La disdetta della scala mobile e il referendum
Nel giugno
del 1982 la Confindustria annuncia ufficialmente che non intende rinnovare la
firma dell'accordo del 1975 sul punto unico di contingenza. Nelle maggiori
fabbriche gli operai abbandonano il lavoro e scendono nelle piazze.
Il 22 gennaio
del 1983 CGIL-CISL-UIL, riconoscendo nel costo del lavoro un fattore di
inflazione, concordano unitariamente con i padroni il primo taglio della scala
mobile (in realtà un primo taglio della scala mobile avvenne nel 1977 all'epoca
in cui il PCI faceva parte della maggioranza di governo).
Il 14 febbraio
un decreto del governo guidato dal socialista Craxi, con il pieno appoggio di
Benvenuto (UIL), Carniti (CISL) e Del Turco (minoranza socialista della CGIL),
taglia di 4 punti la scala mobile.
Pur
riconoscendo la necessità della riduzione del "costo del lavoro" e
degli automatismi salariali, la maggioranza della CGIL (egemonizzata dal PCI)
si schiera contro il decreto, in quanto contraria allo spirito
"decisionista" del governo Craxi.
Come
conseguenza di questa spaccatura, i capi sindacali decidono lo scioglimento
delle forme unitarie, prima fra tutte la FLM. Cresce sempre più, a partire da
questo momento, un atteggiamento competitivo fra le varie organizzazioni sindacali, che tuttavia su un punto
rimangono concordi: la necessità per i padroni dei profitti, a cui qualunque
rivendicazione operaia deve essere subordinata; nasce la teoria della "compatibilità".
Alla fine del
1984 i disoccupati ufficiali sono 2 milioni e mezzo. I cassintegrati hanno
raggiunto il numero di 438 mila, mentre le ore di sciopero (31 milioni) per la
prima volta sono scese, avvicinandosi al minimo storico del 1952 (28 milioni di
ore).
Intanto un
milione di lavoratori stranieri (un numero superiore al totale degli operai
metalmeccanici) che lavorano in condizioni disagiate, sottopagati, costretti a
subire continui ricatti sotto la minaccia del rimpatrio, cominciano —sia pur timidamente—a comparire sulla scena
della lotta di classe.
Il 9 giugno
1985 si fa il referendum contro il decreto di 4 punti di contingenza tagliati, organizzato con raccolte di
firme dal PCI. Sul referendum non tutto il PCI è compatto. Alcune componenti
del partito e una parte di quella "comunista" della CGIL, con a capo
Lama, attuano un'azione di sabotaggio. La campagna elettorale si infiamma, e in
alcune fabbriche si arriva a scontri fisici fra operai e sindacalisti. Su un
problema che riguarda essenzialmente il salario si chiamano ad esprimersi tutte
le classi sociali; e, come inevitabilmente succede nelle elezioni generali, il
sistema mette in minoranza gli operai.
9. Il costo del profitto
Nello stesso
anno l'occupazione, che in tutto il paese è in continuo calo, alla FIAT subisce
un vero tracollo: dal 1979 al 1985 il numero degli occupati della FIAT-Auto
diminuisce di 50 mila unità, mentre la produttività per addetto è quasi
raddoppiata, come dimostrano le prime due tabelle che riproduciamo nell'ultima
pagina.
Nel 1986 su un
totale di 18 milioni di lavoratori, gli iscritti a CGIL-CISL-UIL sono
6.688.208. A questi vanno aggiunti un altro milione e mezzo di lavoratori
iscritti ai vari sindacati autonomi. Nonostante il grande sviluppo del
movimento sindacale dopo la seconda guerra mondiale, i sindacati non
organizzano ancora la maggioranza dei lavoratori.
Intanto
aumentano fra gli iscritti fenomeni di insofferenza: la nascita dei COBAS
(Comitati Unitari di Base) in alcune categorie e settori (ferrovieri, insegnanti
e in generale nel pubblico impiego) testimonia il malessere esistente contro la
politica filopadronale dei sindacati confederali.
Mentre è ormai
di moda parlare di "scomparsa" della classe operaia, di "operai
in camice bianco", tutti i giorni e le notti della settimana, compresi i sabati e le domeniche,
Natale, Pasqua e Capodanno (mentre tutti gli altri si divertono e si riposano)
migliaia e migliaia di operai continuano a varcare i cancelli delle fabbriche
senza che ciò faccia notizia.
E, salvo casi clamorosi, su cui si stende subito dopo un velo di silenzio, non
fa neppure notizia la strage che dentro le fabbriche avviene giorno e notte.
Nel 1988 in Italia si è registrato un record di morti sul lavoro: 8 al giorno
(vedere la tabella 3 della pagina
seguente). Secondo i dati forniti dall'INPS ci sono stati 3.026 omicidi bianchi
(50% in più dell'87). Se si tiene conto che l'INPS registra come infortuni
mortali solo i decessi avvenuti entro il diciottesimo giorno, si può intuire
che la cifra dei morti è largamente sottostimata.
Se a questo si
aggiunge che l'80% delle malattie professionali e degli infortuni è concentrata
nel settore industriale, risulta evidente quanto sia alto il prezzo che gli
operai devono pagare per far arricchire i loro padroni. Dietro l'apparente
"pace sociale" si nasconde una guerra di classe il cui prezzo sempre
più alto viene pagato solo dagli operai. Ma fino a quando gli operai saranno
disposti a tollerarlo?
Quinta parte: 1989-1993
Crisi della
rappresentanza e "autorganizzazione"
1. Il crollo dei “regimi” dell'Est
Nel 1990 la
crisi acuisce i contrasti sociali rimettendo in movimento le varie classi
sociali, che cercano nuove rappresentanze politiche. Allo sfaldamento dei
vecchi partiti corrisponde la nascita di altri raggruppamenti e il
rafforzamento dei nuovi, come la Lega Lombarda, la Rete, ecc.
Il crollo dei
partiti comunisti e dei “regimi” dell'Est hanno come conseguenza
l'instaurazione di nuovi regimi che accelerano il processo di restaurazione del
capitalismo. L'introduzione del libero mercato ha come conseguenza milioni di
disoccupati che cominciano a muoversi premendo alle frontiere dei paesi vicini
alla ricerca di un tozzo di pane. I vari partiti comunisti vengono sciolti o
cambiano nome a cominciare dal PCUS. In Italia il PCI, ormai da tempo
socialdemocratico, si scinde in due partiti. La maggioranza, sotto la guida di
Occhetto (segretario del vecchio PCI) dà vita al PDS (Partito Democratico della
Sinistra), mentre la minoranza — insieme al partito di Democrazia Proletaria—dà
vita al Partito della Rifondazione Comunista.
Questo nuovo
partito della sinistra riformista composto, da militanti e dirigenti dell'exPCI, rimane completamente
legato alla storia compromissoria del vecchio partito di Togliatti e Berlinguer
al quale continua a richiamarsi.
Nel gennaio del
1991, usando il pretesto dell'invasione del Kuwait da parte degli iracheni, gli
USA e gli eserciti delle maggiori potenze imperialiste (fra cui l'Italia) sotto
l'egida dell'ONU dichiarano guerra all'Iraq. Tonnellate di bombe vengono
scaricate sulla popolazione. Le segreterie nazionali di CGIL-CISL-UIL e la
maggioranza dei partiti giustificano la guerra imperialista e cercano di
impedire ogni mobilitazione. Nel paese la guerra, con l'intervento diretto
dell'aviazione militare italiana nei bombardamenti, crea forte indignazione, a
cui seguono mobilitazioni, spontanee, di lavoratori e di studenti.
Allo scoppio
della guerra, i Consigli di fabbrica della Breda, dell'Ansaldo e
dell'ElettroCondutture della zona di Sesto San Giovanni, decidono autonomamente
lo sciopero contro la guerra chiamando tutti gli operai milanesi a partecipare
alla manifestazione in piazza San Babila. Più di ventimila
lavoratori rispondono all'appello richiedendo lo sciopero generale. Sotto la pressione
degli operai, CGIL-CISL-UIL di Milano dichiarano per il giorno dopo lo sciopero
generale con un corteo in centro che vede la partecipazione di migliaia di
lavoratori e di studenti. Purtroppo questi esempi rimarranno isolati a poche
situazioni, perché la maggioranza dei lavoratori non verrà mobilitata.
Intanto la
sospirata ripresa dell'economia capitalistica, conseguenza della guerra del
Golfo, prevista da tutti i maggiori economisti, non arriva e questo acuisce gli
effetti della crisi economica. Mentre le condizioni del proletariato italiano
peggiorano, la conflittualità cala. Nei dieci anni che vanno dal 1981 al 1990
le ore perse per conflitti di lavoro sono passate da 115.201.000 del 1981 a
35.377.000 del 1990, con una diminuzione in percentuale del 69,3%. Al più alto
periodo di ristrutturazione, corrisponde il periodo di più bassa
conflittualità. Se, nella fase precedente, pur in un quadro di compatibilità
gli scioperi erano serviti per adeguare il salario e le condizioni normative al
costo della vita, con la ristrutturazione gli operai non solo sono costretti a
contrattare la perdita delle condizioni precedentemente
"conquistati", ma addirittura a contrattare la perdita del posto di
lavoro. La crisi, ricompattando tutte le forze politiche e sindacali sulla
necessità dei sacrifici da imporre ai lavoratori, costringe la borghesia
imperialista ad una ristrutturazione e razionalizzazione del potere politico e
dello stato.
Il risultato di
questa politica è un impoverimento generalizzato della classe operaia e delle
masse proletarie che in alcune zone del paese rasenta la disperazione.
Nel Sud, in
particolare a Napoli e in Calabria, la disoccupazione supera il 35%, e questo
trasforma spesso ogni chiusura di fabbrica in sommosse popolari a cui
partecipano altri strati proletari, primi fra tutti i disoccupati che a Napoli,
a differenza di altre città, possiedono proprie organizzazioni.
La durezza e la
radicalità che vanno assumendo al
Sud e nelle isole gli scioperi preoccupano il governo che, per bocca del
ministro dell'interno, cerca di prevenire gli eventi criminalizzando i
movimenti. A questo scopo il governo attua delle prove generali mobilitando
l'esercito e militarizzando, con i pretesti più vari, intere zone della
Calabria, della Sicilia e della Sardegna.
2. La ripresa delle lotte operaie ed i bulloni ai sindacalisti
La caduta
degli scioperi ed il calo della conflittualità operaia continua fino all'agosto
del 1992. In questo periodo, la partecipazione agli scioperi e la frequenza,
raffrontati nel periodo gennaio-maggio 1991 e 1992, diminuisce in assoluto
rispetto al periodo dell’anno precedente di 62,6 punti.
Il
peggiorare della crisi economica porta padroni, governo e sindacati a
sottoscrivere un patto sociale basato sul taglio dei salari. Nella notte del 31
luglio del 1992, mentre le fabbriche chiudono per ferie, il governo, presieduto
dal socialista Amato, firma un accordo con CGIL-CISL-UIL che abolisce
l'indennità di contingenza. Nel mese di settembre il governo svaluta la lira
del 15% e continua nella politica di smantellamento dello stato sociale, a
cominciare dalle pensioni. Ma, come si toccano le pensioni, i lavoratori
dell'Alfa Romeo di Arese (Mi) scendono in lotta.
I sindacati
confederali, pur con alcuni "distinguo", sostengono la manovra governativa.
Secondo i "rappresentanti" dei lavoratori, i sacrifici sono necessari
purché distribuiti "equamente". Di diverso avviso è una parte
consistente dei lavoratori, i quali sostengono che il problema non è tanto che
tutti paghino le tasse, compresi i ricchi: caso mai il problema è che i ricchi
e gli sfruttatori esistano.
Un'ondata di
scioperi, spesso spontanei o organizzati da gruppi di delegati, investe tutto
il paese e in piazza scende un movimento operaio che va sempre più
radicalizzandosi. Ovunque gli operai rivendicano lo sciopero generale nazionale
e in alcuni casi occupano le sedi sindacali. A Sesto San Giovanni (Mi) gli
operai che, in sciopero, escono dalle fabbriche e occupano la sede regionale di
CGIL-CISL-UIL si vedono minacciare dai dirigenti sindacali che a loro
protezione chiamano polizia e carabinieri.
Il 21
settembre, a Firenze, Trentin (segretario nazionale della CGIL) duramente
contestato dai lavoratori con lancio di bulloni, uova e ortaggi, non riesce a
finire il comizio.
Stessa sorte tocca
due giorni dopo a Veronese della UIL in Piazza Duomo a Milano, costretto ad
abbandonare il palco dopo solo 4 minuti, mentre un corteo di ventimila
lavoratori abbandona Piazza Duomo recandosi all'associazione degli industriali
lombardi e in prefettura.
In tutte le
piazze, da Roma a Palermo, le tute blu — che molti avevano date per scomparse —
ritornano a imporsi sulla scena, ponendosi alla testa delle proteste contro il
governo ed i dirigenti sindacali.
Le
contestazioni, che in una prima fase vedono alla testa gli operai
dell’industria in contrasto con il sindacato, organizzatisi nei COBAS e nei
Comitati di Lotta, si vanno sempre più allargando investendo anche il pubblico
impiego che partecipa sempre più massicciamente alla lotta nonostante il grave
handicap del preavviso, che è una vera legge antisciopero.
Il 2 ottobre a
Roma, in occasione dello sciopero regionale del Lazio, scoppiano violenti
scontri tra lavoratori e studenti da un lato e forze dell’ ordine coadiuvate
dal servizio d'ordine sindacale dall'altro. Larizza (segretario generale della
UIL) conclude il comizio protetto dagli scudi di plastica dei celerini.
Centinaia di lavoratori e studenti rimangono feriti sotto i colpi dei
manganelli della celere e delle mazze del servizio d'ordine sindacale.
Dopo la
frattura fra apparato sindacale e lavoratori, il sindacato, in particolare la
FIOM, cerca di riprendere il controllo del movimento dei lavoratori applicando
una nuova tattica. Lo strumento di questa operazione sono i Consigli unitari di
CGIL-CISL-UIL. Attraverso i suoi uomini inseriti dei C.d.F, il sindacato ha da
tempo snaturato questi organismi trasformando i delegati eletti dai lavoratori
in rappresentanti di CGIL-CISL-UIL all'interno del movimento dei lavoratori.
Con il movimento dei consigli, composto da delegati "schiavi", che
non vengono rinnovati da oltre dieci anni, il sindacato riesce a fiaccare il
movimento riprendendone temporaneamente il controllo.
3. Gli aiuti "umanitari"
La più grande
crisi del dopoguerra squassa il sistema politico-industriale, figlio della
ricostruzione e dello sviluppo. Il sistema deve razionalizzarsi tagliando i
rami secchi anche al suo interno; primi fra tutti le tangenti e gli
investimenti della mafia, che si manifestano come "concorrenza
sleale" non più compatibili nella crisi. Lo scandalo delle tangenti, che
coinvolge centinaia di imprenditori e politici in tutta Italia, accelera ancora
di più la necessità del grande capitale imperialista di procedere sulla via
della riforma dei partiti e dello stato.
Agli occhi dei
lavoratori, invece, si evidenzia come i sacrifici ed il contenimento salariale,
frutto di anni di campagne contro il "costo del lavoro", servivano in
realtà a nascondere il costo del capitale e del suo sistema.
La necessità di
trovare nuovi sbocchi alla sovrapproduzione di capitale rende più aggressivi i
capitalisti che cercano nuovi mercati, usando l'esercito. Dopo aver inviato
truppe armate in Albania, verso la fine del 1992, il governo italiano, al pari
dei governi americani e francese, invia nuovamente l'esercito in Somalia, ex
colonia italiana. Con il pretesto degli aiuti "umanitari" i
capitalisti italiani realizzano ottimi affari inviando merce avariata al prezzo
di quella buona, partecipando nuovamente alla spartizione delle materie prime.
Nel gennaio del
1993, prendendo a pretesto il rifiuto del regime irakeno di far visitare il suo
territorio dagli ispettori dell'ONU, le truppe armate degli Stati Uniti, Gran
Bretagna e Francia bombardano nuovamente l' Iraq.
L'Italia questa volta non partecipa direttamente al conflitto, anche se il
governo, pur con alcuni distinguo, sostiene l'azione armata. Se la guerra a
senso unico dura pochi giorni e provoca "solo" decine di morti, il
democratico e pacifico embargo provoca più di 250 morti al giorno.
Intanto la
crisi economica va peggiorando sempre più, ed il problema della disoccupazione
diventa ogni giorno più grave. Nel paese comincia a formarsi un movimento
proletario anticapitalista.
All'inizio del
1993 gli esempi di resistenza operaia si moltiplicano. In Sardegna i minatori
del Sulcis si barricano nelle miniere, che l'ENI vuole chiudere, con 400 Kg. di
tritolo minacciando di farle saltare in caso di chiusura. Azioni analoghe
vengono attuate dai minatori siciliani, e anche in Calabria i lavoratori sono protagonisti
di dure lotte.
Il 27 febbraio
alla manifestazione indetta dai C.d.F. contro il governo partecipano più di
200.000 lavoratori. Alla fine del comizio degli oratori ufficiali, alcune
centinaia di lavoratori autorganizzati e di proletari dei centri sociali — cui
è stata negata la parola — occupano il palco e danno vita ad un proprio comizio
a cui assistono decine di migliaia di lavoratori.
Il 1° aprile
1993, a Pomigliano d'Arco (Napoli), migliaia di lavoratori dell'Alenia, dopo
l'ennesima dimostrazione in difesa dell'occupazione, invadono la sede di
CGIL-CISL-UIL mettendola a soqquadro. Il giorno dopo un comunicato sindacale
chiama provocatori i lavoratori e questo non fa che aumentare l'indignazione
popolare.
Il capitalismo,
rendendo sempre più precaria la situazione del posto di lavoro e non essendo
più in grado di garantire neanche le condizioni minime di sopravvivenza nelle
sue stesse metropoli imperialiste, dimostra il suo fallimento. La crisi
economico-politica, frutto del sistema dell'abbondanza e dell'appropriazione
del profitto nelle mani di poche migliaia di famiglie che detengono il potere
economico e politico negli "stati ricchi" del mondo, rende ancora più
intollerabile la miseria e la fame crescenti che centinaia di milioni di individui
subiscono.
Il capitalismo
ha sempre risolto le sue crisi con le guerre, facendo massacrare fra loro i
proletari e i popoli del mondo per i suoi interessi. Quindi, perché i
lavoratori dovrebbero sostenere un sistema sociale che trova il suo
sostentamento sul loro sfruttamento e sul sovrapprofitto estorto e realizzato
sulla pelle dei popoli del mondo?
La storia del
movimento operaio e proletario e quella della lotta delle classi subalterne
dimostrano che quando ci si organizza si può anche dare "l'assalto al cielo"
e vincere.
Riusciranno i
proletari italiani, insieme al proletariato mondiale, ad abbreviare le doglie
del parto avvicinando l'alba di un nuovo giorno?
Appendice
Tabella 1
Cinquantamila in meno: l'occupazione alla FIAT Auto dal 1979 al 1985
|
1979 |
1980 |
1981 |
1982 |
1983 |
1984 |
1985 |
Operai |
113.568 |
110.049 |
97.046 |
88.312 |
78.993 |
71345 |
64.123 |
Impiegati e dirigenti |
25.381 |
24.572 |
22.156 |
20.350 |
19.175 |
18.312 |
17.735 |
TOTALE |
138.949 |
134.621 |
119.202 |
108.662 |
98.169 |
89.657 |
81.859 |
Addetti in CIG a zero ore |
— |
20.509 |
18.591 |
19.091 |
14.569 |
10.380 |
n.d. |
TOTALE NETTO |
138.949 |
110.112 |
100.611 |
89.571 |
83.600 |
79277 |
n.d |
impiegati/totale addetti (%) |
18,27 |
18,25 |
18,59 |
18,73 |
19,00 |
20,42 |
21,67 |
Tabella 2
Quasi il doppio: la produttività per addetto alla FIAT Auto dal 1979 al 1985
|
1979 |
1980 |
1981 |
1982 |
1983 |
1984 |
1985 |
Produttività vetture prodotte nell’anno per operaio (valori assoluti) |
14,8 |
16,5 |
19,4 |
21,8 |
23,9 |
25,1 |
27,7 |
Produttività Variazioni % (*) |
___ |
+11,6 |
+17,6 |
+ 12,4 |
+ 9,6 |
+10,5 |
+11,1 |
Produzione Variazioni % (*) |
___ |
-2,5 |
-12,3 |
+ 1,2 |
+8,1 |
+3,6 |
-0,2 |
(*) Le variazioni percentuali si riferiscono all’anno precedente
Tabella 3
Totale nocività: infortuni, malattie professionali, silicosi, asbestosi.
Totale luoghi di lavoro: industria, agricoltura
Anno |
Totale |
% |
Indice |
Di cui |
% |
|
|
|
x 1.000 |
mortali |
|
|
|
|
occupati |
|
|
1983 |
844.624 |
100 |
95,99 |
2.079 |
100 |
1984 |
880.593 |
104,83 |
100,83 |
2.381 |
114,5 |
1985 |
848.358 |
100,5 |
101,64 |
2.012 |
96,7 |
1986 |
741.492 |
93,7 |
96,25 |
2.004 |
96,3 |
1987 |
889.125 |
105,3 |
409,83 |
2.035 |
97,8 |
1988 |
|
|
|
3.026 |
145,5 |
NON DELEGHIAMO PIU' A NESSUNO LA DIFESA DEI NOSTRI INTERESSI
Anni di ristrutturazione
hanno cambiato completamente il volto delle fabbriche. I padroni sostengono
che, se le aziende vanno male, la colpa è dei paesi concorrenti e dei lavoratori
"fannulloni"; mentre altri sostengono che la colpa della
disoccupazione dipende dagli extracomunitari che "rubano il lavoro",
alimentando così il nazionalismo ed
il razzismo, e cercando di deviare la rabbia dei lavoratori contro di
essi.
Ma ristrutturazione, cassa integrazione, licenziamenti, aumenti dei ritmi e
degli infortuni non sono altro che il prezzo che i lavoratori pagano alla
realizzazione del profitto.
I sindacati confederali, con la cogestione delle imprese, gestiscono il
peggioramento delle condizioni dei
lavoratori, rendendosi complici
delle scelte padronali e generando ovunque malcontento. In molte fabbriche i
lavoratori
hanno organizzato forme di
resistenza contro le politiche padronali e quelle collaborazioniste di Cgil
Cisl Uil.
In altre fabbriche si sono autorganizzati per rispondere agli attacchi dei
padroni; ma rischiano di restare prigionieri di
logiche localiste che portano alla
sconfitta, non costruiscono collegamenti tra loro e non si danno una visione
generale dello scontro in atto.
Per questo, come realtà autorganizzate, abbiamo concordato le seguenti
inziative:
1. promuovere la costituzione di un COORDINAMENTO NAZIONALE delle realtà
autorganizzate dell'industria;
2. promuovere iniziative di mobilitazione e di lotta il 1°MAGGIO,
caratterizzandole contro:
- la legge 223/91 (riforma CIGS, ovvero licenziamenti mascherati);
- l’accordo che cancella la scala mobile;
- i licenziamenti politici;
3. elaborare una proposta per un sindacato di classe;
4.indire un'ASSEMBLEA il 23 maggio prossimo, a Milano.
Delegati CdF Contraves (Roma), Autorganizzati Alfa-Sud (Pomigliano),
Autorganizzati Somepra (Avellino), Autorganizzati Sepi Sud (Napoli), Cobas Alfa
Romeo (Arese), Cobas Ansaldo
Componenti (Sesto S.Giovanni), Coordinamento Lavoratori Ticino Olona, Comitato
di Lotta Nuova Breda Fucine (Sesto S.Giovanni), Collettivo di Base Alcatel-Face
(Milano).
riunitisi a Firenze 1' 11 aprile
1992
CONTRO LA
GUERRA IMPERIALISTA
SOLIDARIETÀ PROLETARIA INTERNAZIONALE
Due anni di
embargo economico (che produce 250 morti al giorno) hanno ridotto alla fame
l'intera popolazione irachena. Le già pesanti conseguenze della guerra del
Golfo e dell'embargo (mancanza di medicine e di generi alimentari, epidemie)
sono oggi rese più drammatiche dalla ripresa dei bombardamenti.
Contro il
"nemico" Saddam Hussein, il "provocatore da eliminare", si
è scatenata la furia militare degli Stati Uniti d'America, della Francia e
della Gran Bretagna. Autoproclamandosi paladine dell'ONU queste potenze non
hanno esitato a bombardare la popolazione civile facendo decine di morti e
dimostrando così il volto criminale del loro imperialismo.
Nascondendosi dietro le parole di pace, ovunque nel mondo la coalizione degli
Stati ricchi, tra cui l'Italia, interviene in armi per portare il suo
"ordine" e utilizzando, a secondo della convenienza, le bombe o gli
"interventi umanitari".
Così dopo aver contribuito ad affamare le
popolazioni del cosiddetto terzo mondo, attraverso lo scambio diseguale, lo
sfruttamento e la rapina delle materie prime, come in Somalia o in Mozambico, o
allo smembramento di intere nazioni, come nella ex Jugoslavia, l'imperialismo oracerca di ergersiadifensore della pace usando le bombein Iraq.
Chi si arroga
il diritto di intervenire con la forza in ogni parte del mondo e si prepara a
spartirsi lo sfruttamento petrolifero della Somalia con l'alibi della presenza
pacificatrice, è lo stesso che in nome del profitto sfrutta gli operai nei
propri paesi costringendoli a lavorare in condizioni sempre più pesanti, provocando
i milioni di dimenticati infortuni e di morti sul lavoro. E questo lavoro viene
poi fatto addirittura passare per un lusso privilegiato se si pensa che nei
paesi dell'OCSE si prevedono 34 milioni di disoccupati mentre in America sono già 33 milioni coloro che, dopo aver perso il lavoro, vivono sotto la
soglia di povertà. E in Italia hanno ormai superato i nove milioni.
Questi dati
dimostrano che oggi nel mondo una minoranza di potenti è
responsabile della crescente massa di persone che vengono impoverite ed
affamate, indipendentemente dalla loro posizione geografica.
Per questo la
lotta di tutti gli sfruttati, in ogni parte del mondo, è la stessa.
Gli operai
e gli sfruttati non hanno nulla da
guadagnare dalle guerre dei padroni.
Le guerre sono
frutto della logica del capitalismo.
In questo
sistema sociale esiste una guerra di classe non dichiarata che in ogni paese
vede opporsi operai e padroni, e noi, come operai italiani coscienti,
mentre denunciamo le guerre imperialiste, esprimiamo la nostra solidarietà agli
operai e ai popoli del mondo che sono gli unici che pagano il peso della
guerra.
Sesto
S.Giovanni, 20. 01.1993
Comitato di
Lotta Nuova Breda Fucine
Cobas Ansaldo Componenti
CONTRO I PREPARATIVI DI INVASIONE NELLA EX JUGOSLAVIA
CONTRO TUTTE LE GUERRE IMPERIALISTE
Innome del profitto le
forze armate degli Usa, della Francia e della Gran Bretagna, coprendosi dietro
l'ONU, nei giorni scorsi, hanno bombardato la popolazione civile irachena,
dimostrando, ancora una volta, il volto criminale dell'imperialismo.
Ai 300 morti giornalieri, prodotti dall'embargo economico, che dura ormai da
due anni, si sono aggiunte le decine di morti causate dai bombardamenti.
L'imperialismo italiano, al pari degli altri, mentre licenzia migliaia di
lavoratori, smantella lo stato sociale, determinando il peggioramento delle
condizioni di vita e di lavoro dei proletari; contribuisce, attraverso lo
scambio diseguale, la politica di rapina delle materie prime e di sfruttamento,
a mantenere anche tramite l'intervento armato, sotto il suo giogo, intere
popolazioni come in Somalia, in Mozambico, in Albania.
Cosa si nasconde dietro gli interventi "umanitari", lo si è visto
chiaramente in Somalia.
La presenza "pacificatrice" armata è servita alla spartizione delle
risorse del paese tra le più grandi compagnie petrolifere.
In nome del nazionalismo e delle compatibilità, nuovi e più duri sacrifici
verranno imposti ai proletari da padroni, governo e sindacati. In Italia si
calcola che circa 1 milione di lavoratori perderanno il lavoro prossimamente,
mentre chi avrà la "fortuna" di continuare ad essere sfruttato vedrà
aumentare i ritmi di lavoro e i rischi di infortunio, come dimostrano gli oltre
3 mila morti sul lavoro all’anno.
La crisi acuisce la concorrenza e le contraddizioni interimperialiste; il
protezionismo e le guerre commerciali si vanno trasformando sempre più in
scontri armati. Dopo l' Iraq, ora tocca alla ex-Jugoslavia.
L'Imperialismo, dopo aver contribuito a smembrarla, alimentando i vari
nazionalismi, ora si prepara ad intervenire militarmente nel paese.
Ad Aviano, base americana sul territorio italiano, l'esercito USA,
"vincitore" della guerra del Golfo e responsabile della brutale
repressione della rivolta di Los Angeles, si sta preparando ad intervenire
militarmente.
Il governo italiano, da parte sua, nella prospettiva di soddisfare isuoi appetiti su ciò che
rimane della ex-Jugoslavia, concede l'utilizzo di basi militari presenti sul
territorio anche all'aviazione francese.
- Contro l'uso delle basi militari italiane a chi prepara aggressioni
imperialiste e contro il governo italiano dobbiamo scendere in lotta.
Come operai e come proletari italiani ci schieriamo a fianco dei proletari e
dei popoli oppressi di tutto il mondo contro l'imperialismo.
Come organismi di lotta ci prendiamo la responsabilità di chiamare alla
mobilitazione tutti coloro che si collocano all'interno del Movimento
Proletario Anticapitalista invitandoli a partecipare all'assemblea nazionale e
al corteo che si terranno aMiramare
di Rimini alle ore 10.00 del 21-2-1993
Volantino deciso dall'assemblea di Firenze del 31-1-1993 a cui hanno
partecipato le seguenti realtà:
Comitato di Lotta Nuova Breda Fucine Sesto San Giovanni
Comitato operaio AMCM Modena
Operai Manifattura Tabacchi Milano
CdB USL 68 Rho (Milano)
Lavoratori Appalti Pulizie Roma
Operai e delegati FIAT
Ferrovieri Firenze-Genova
Centro di Iniziativa Popolare Roma
CPA Firenze Sud
C.S “Gramigna” Padova
CISC, Roma
C.S “Esperia” Catania
Comitato occupanti case, Acerra (Napoli)
CSO “Stella Rossa” Bassano del Grappa
CPSP, Roma-Milano
Collettivo Metropolitano Bologna
Collettivo “Scontro” Pordenone
Redazione di “A pugno chiuso” Padova – Roma – Catania
Comitato di Lotta Studenti
Morgagni -Roma