Convegno su Pietro Secchia - Torino 16/04/05
Intervento di :
Marcello Graziosi,
al convegno
LA RESISTENZA ACCUSA- Pietro Secchia antifascista, partigiano, comunista,
Torino, 16 aprile 05
Pietro
Secchia: Vita di un Rivoluzionario
Care compagne, cari compagni,
considero un onore poter tirare le somme della straordinaria discussione di
quest’oggi. Tenterò solamente di essere all’altezza della responsabilità
affidatami.
Ciò che ci viene richiesto quest’oggi è una riflessione collettiva sulla figura
di Pietro Secchia, la sua vita e la sua militanza comunista. Ragionare
dell’attività politica di Secchia significa, di fatto, soffermarsi a riflettere
su trent’anni di storia del Partito Comunista Italiano e, di più, su non pochi
passaggi nodali nella storia del movimento operaio italiano ed internazionale
del ‘900. Da qui una premessa di carattere metodologico assolutamente
indispensabile: ciascuno dei punti di analisi richiamati in seguito meriterebbe
ulteriori approfondimenti, ricerche accurate, un duro lavoro di elaborazione e
riflessione. In questa sede è possibile fornire solamente elementi analitici di
carattere generale, ed avremo raggiunto l’obiettivo se in chi ascolta
riusciremo a suscitare la curiosità, la tensione ideale ed intellettuale utili
ad approfondire la conoscenza dei singoli aspetti di questa figura di
straordinario ed instancabile militante e dirigente comunista, piemontese, classe 1903.
Dopo aver vissuto, nonostante la giovane età, la disastrosa condizione popolare
nel periodo immediatamente successivo al primo conflitto mondiale, Secchia
inizia la propria militanza politica iscrivendosi alla Camera del Lavoro e
costituendo, nel 1919, il primo circolo socialista del proprio paese,
Occhieppo, sorretto da una grande tensione ideale derivante in larga misura
dall’influenza dell’Ordine Nuovo, ma anche dalla migliore
tradizione massimalista del movimento operaio italiano. La Rivoluzione
d’Ottobre ed il bolscevismo avevano suscitato in lui una grande e positiva
impressione, che mai, come vedremo, lo avrebbe abbandonato.
“Attendevo
la rivoluzione come si attende una persona che deve arrivare da un giorno
all’altro”, avrebbe ricordato lo stesso Secchia. Senza dubbio
un’ingenua pulsione giovanile ma anche, come giustamente osservato da Collotti,
“la
consapevolezza che le occasioni si costruiscono, che nulla c’è di fatale o di
provvidenziale nella storia e nella vita politica…, che una prospettiva si
costruisce tappa su tappa, giorno dopo giorno”. Con una linea
politica adeguata ma anche con un duro, incessante, metodico e quotidiano
lavoro di organizzazione e mobilitazione di massa.
Questo atteggiamento caratterizza l’intera militanza politica di Secchia, a
partire dalla fase immediatamente successiva alla nascita del Partito Comunista
d’Italia, nel contesto dell’avanzata e dell’affermazione del fascismo. E’
questo l’ambito nel quale occorre collocare la discussione, anche aspra, che
attraversa il partito fino alla Resistenza ed alla Liberazione, relativa alle
contromisure da adottare, all’atteggiamento da tenere nelle diverse fasi, alle
diverse modalità di lotta, a partire dalla resistenza armata. Discussione,
questa, di grande rilevanza generale, che ben difficilmente avrebbe potuto
evitare di intrecciarsi con quanto accadeva negli stessi anni all’interno del
Comintern.
Il fascismo si abbatte come un uragano sulla debole struttura del partito e sul
movimento operaio uscito sconfitto dal “biennio rosso”, costringendo le forze
politiche antifasciste, di fatto incapaci di costruire qualsiasi resistenza,
prima all’angolo ed in seguito, a partire dal 1926, l’anno dell’arresto di
Gramsci e delle leggi speciali, alla clandestinità. Con la sola, possibile
esperienza potenzialmente ampia di resistenza, gli Arditi del Popolo, affossata
dal settarismo e dal massimalismo ideologico ed astratto di Bordiga, con
Secchia protagonista di una coraggiosa presa di distanza dal partito a sostegno
di quell’esperienza.
Dopo un primo arresto da parte degli apparati repressivi fascisti ed una fuga
in Francia, egli rientra in Italia nel maggio 1924 per organizzare una rete
clandestina, lavorando alla FIAT ed entrando in contatto con Giacinto Menotti
Serrati, esponente di spicco del “massimalismo unitario” e collegamento con la
cosiddetta “ala terzinternazionalista”, elemento determinante per la sconfitta
dell’ala bordighiana, costituitasi nel frattempo in frazione. Dopo aver
scontato l’ennesima condanna subita per attività cospirativa, Secchia assume un
ruolo di primo piano nell’organizzazione della lotta antifascista in Italia, a
partire da un’intensa e continua opera di propaganda, svolgendo un instancabile
quanto determinante lavoro come responsabile del collegamento centro-periferia
per la Federazione Giovanile Comunista e lavorando nella sezione militare e
come corriere per il partito. Un ruolo delicato e rischioso, che lo mette però
in contatto nella clandestinità assoluta con decine di compagni e quadri
attivi, un “rivoluzionario di professione” di leniniana memoria, in grado di
lasciare un segno indelebile, anche personale, nella costruzione del partito e
della sua organizzazione.
Quando si apre la II Conferenza del PCdI a Basilea (gennaio 1928), Secchia è
Segretario della Federazione Giovanile e prende parte al dibattito apertosi nel
partito relativamente alla sorte del fascismo ed alle prospettive della lotta
antifascista; dibattito che ha visto in parte contrapporsi il Centro Interno a
quello Estero, costituitosi tra la fine del 1926 e l’inizio del 1927. La
critica di Secchia è senza mezzi termini, anche perché la situazione era, a dir
poco, drammatica, con arresti a ripetizione e persecuzioni di ogni sorta:
“Tra
l’altro noi in Italia avevamo l’impressione che il Centro estero studiasse,
discutesse, scrivesse tante belle cose, ma non stesse sufficientemente dietro
alla situazione italiana, alle nostre difficoltà, alla gravità dei colpi che il
partito subiva”. Nel corso del dibattito Secchia e Longo spingono
con decisione per concentrare l’attenzione sull’Italia più che sul lavoro
dall’estero, alternando quelle che possono essere considerate “azioni legali”
(rispetto ovviamente all’epoca prefascista) con le “azioni illegali”, inclusa
la lotta armata, considerata, a ragione, la forma più avanzata di lotta
politica. Questa proposta, che sarebbe stata adottata successivamente alla
“svolta” del 1929-1930, non partiva, contrariamente a quanto sostenuto anche da
Togliatti, da una lettura ottimistica dei rapporti di forza in Italia; al
contrario, l’analisi alla base della proposta è fin troppo realistica, tanto
che le azioni illegali avrebbero dovuto svolgere una funzione prettamente
difensiva, per coprire le spalle ad eventuali scioperi e fornire alle masse un
segno tangibile di presenza.
“Sarebbe
stato necessario- sono parole di Secchia - portare subito il centro di attività
del partito laddove si trovavano le masse, nel seno stesso delle organizzazioni
del fascismo, potenziando nel tempo stesso l’attività clandestina, combinando
le forme di lotta illegali con quelle semilegali”.
Il dibattito dentro il PCdI prosegue, pur nella drammaticità degli eventi
(arresti dell’aprile 1928 e relativo processone), con Secchia e Longo che si
astengono rispetto al programma presentato da Togliatti nel CC del giugno 1928.
Segno evidente di una discussione reale.
Il quadro si modifica, come per incanto, dopo il VI Congresso del Comintern
(luglio-settembre 1928), il congresso del “socialfascismo”, della ipotizzata
rapida crisi del sistema capitalistico e della conseguente necessità di
superare politiche di alleanza con forze democratiche e riformiste per spingere
sul pedale della lotta rivoluzionaria. I dispositivi del Comintern, senza voler
su questo aprire alcuna discussione (la linea del VI Congresso sarebbe stata
totalmente modificata al VII dell’estate 1935, il congresso di Dimitrov e dei
Fronti Popolari), si inseriscono in una discussione già avviata
nell’organizzazione italiana e la maggioranza del gruppo dirigente, incluso
Togliatti, nonostante le critiche di due compagni quali Gramsci e Terracini,
assume i nuovi orientamenti, respingendo la prospettiva unitaria con le altre
forze antifasciste (Assemblea Repubblicana). Non esiste, da questo punto di
vista, una trasposizione meccanica tra gli orientamenti del Comintern e la
“svolta” nel partito italiano. E’ fuor di dubbio il fatto che i primi possano
aver agevolato la seconda, ma per molti militanti comunisti “svolta”
significava semplicemente una maggiore decisione nella conduzione della lotta
antifascista, a partire dalla ricostruzione di un centro interno, e -perché
no?- teorizzare la trasformazione della resistenza contro il fascismo in lotta
rivoluzionaria, per la dittatura del proletariato, senza transizioni
intermedie. Siamo nel 1930, non nel 1943-44. Per dirla con Leo Valiani, “la svolta
era invero desiderata, indipendentemente da Stalin, dalla gioventù comunista
italiana diretta da Longo e da Secchia, così come dalla maggior parte dei
militanti che gremivano le carceri”.
Impossibile, qui, tracciare un bilancio reale di questa esperienza, elemento
che ha suscitato un dibattito ampio ed articolato per decenni all’interno del
PCI e che costituisce anche oggi un grande patrimonio politico ed ideale per le
nuove generazioni, sempre più lontane da quegli avvenimenti ma con il diritto -
dovere di studiarli con impegno e passione.
Difficile, ancora, dare torto a Secchia quando, in sede di bilancio storico e
personale, afferma:
“Il
grande valore della svolta non consistette soltanto nel fatto che il PCI riuscì
ad essere fisicamente presente con molti dei suoi militanti e dei suoi quadri
dirigenti attivi in quegli anni in Italia, ma nell’aver fatto acquisire a tutto
il partito alcune posizioni ideologiche e politiche che non saranno più perdute:
1) la persuasione che le situazioni non si creano spontaneamente; 2) la
coscienza che il partito non può essere presente politicamente se non lo è
anche organizzativamente… Se all’8 settembre 1943 i comunisti si trovarono ad
essere tra i primi e più preparati organizzatori della resistenza, alla quale
portarono il contributo decisivo, è perché il PCI, malgrado tutto, non aveva
mai cessato di essere attivamente presente in Italia… Furono ancora una volta
in gran parte “gli svoltisti” del 1930, insieme ai combattenti delle nuove
generazioni, a battersi contro ogni forma di attesismo”.
Dall’aprile 1931 al 18 agosto 1943 Secchia, arrestato in Italia mentre era
impegnato senza sosta nell’organizzazione del IV Congresso del partito di
Colonia, rimane nelle mani del nemico, impegnandosi in un duro lavoro di
lettura e studio (l’Università del carcere e del confino) Una volta liberato,
dopo il 25 luglio, rientra prontamente in clandestinità e, dopo aver
partecipato alla sfortunata difesa di Roma, si trasferisce a Milano per
diventare componente della Direzione Alta Italia del partito e Commissario
Generale delle Brigate Garibaldi. Instancabile organizzatore di azioni e
mobilitazioni, Secchia costruisce negli anni della Resistenza quel tessuto
organizzativo che avrebbe consentito al partito, dopo il 1945, di reggere
l’urto della Guerra Fredda e delle politiche violentemente anticomuniste ed
antioperaie dei governi centristi di De Gasperi. Come storico, soprattutto
negli anni successivi al proprio isolamento politico, egli sarebbe stato tra i
più lucidi analisti degli anni tanto terribili quanto straordinari della lotta
antifascista, dalla clandestinità alla resistenza, senza alcun fastidioso
elemento di staticità, senza alcuna liturgia, con l’obiettivo di dare continuità
e nuove prospettive alla lotta antifascista negli anni ’60 e ’70, con una
grande attenzione ai giovani ed ai fermenti che stavano attraversando la
società italiana.
A partire da un ragionamento semplice e lineare:
“La forza
della resistenza è stata in diretta proporzione allo sviluppo dei movimenti
antifascisti durante gli anni della clandestinità”.
Nel contesto di un lavoro ponderoso ed instancabile, ma preziosissimo, di
pubblicazione di documenti e testimonianze, emergono alcuni elementi di analisi
che abbiamo il dovere di richiamare sinteticamente:
il ruolo centrale del partito nella costruzione della resistenza antifascista e
nella direzione della lotta armata. Centraltà che, però, trova un elemento di
freno e condizionamento non solamente nella presenza in Italia delle truppe
anglo-americane e nei rapporti di forza che si andavano delineando sul piano
internazionale (sfere di influenza e divisione del mondo), ma anche all’interno
degli stessi CLN;
nonostante il grande impegno profuso e l’alto prezzo pagato in termini di vite
umane, il PCI e la classe operaia non sono stati i soggetti egemoni nella lotta
di liberazione. All’interno dei CLN l’unità era necessaria, ma difficile. “Nel momento
stesso – avrebbe scritto Secchia – in cui si poneva il problema di
allargare il fronte unitario ed antifascista alle forze monarchico-badogliane
non certo orientate a sinistra, noi ci proponemmo subito di allargare “a
sinistra”, di portare nei CLN dei rappresentanti di larghi strati di lavoratori
sino a quel momento non adeguatamente rappresentati: i contadini, i
sindacalisti, i giovani. Concetti che saranno via via sempre più sviluppati ed
articolati, sino poi a vedere nei CLN futuri organismi di potere alla base
della nuova struttura dello stato italiano”. Per poi aggiungere: “Criticammo
apertamente la posizione assunta da certi CLN, l’unità per noi non era un’arca
sacra, un altare davanti al quale i dovessero sacrificare gli interessi della
classe operaia e dei lavoratori”. Il progetto politico dei comunisti
non era la trasformazione della lotta di liberazione in lotta rivoluzionaria,
ma un reale cambiamento del paese in senso democratico: “Non si lottava – è ancora
Secchia che parla - per il socialismo ma per un’Italia veramente
rinnovata e democratica basata su nuove strutture sociali i cui pilastri
avrebbero dovuto essere le formazioni partigiane, tutte le organizzazioni e gli
organismi sorti durante la guerra di liberazione. L’insurrezione nazionale per
la quale lottavamo non si poneva e non poteva porsi il problema della
realizzazione della rivoluzione socialista, della dittatura del proletariato,
ecc., ma neppure si poneva il ritorno alla vecchia democrazia prefascista;
lottavamo per realizzare una nuova democrazia, una democrazia progressiva che
avrebbe potuto realizzarsi soltanto con delle profonde riforme strutturali e
sociali, col ricreare dalle fondamenta tutto lo apparato amministrativo e
statale”;
l’utilizzo della lotta armata è qualificante rispetto all’obiettivo, pone al
centro il problema del potere. E’ questo un nodo teorico
(rapporto tra azione politica, azione militare e potere) di grande complessità,
argomento di dibattito continuo e costante all’interno del movimento operaio e delle singole forze
politiche, da rapportarsi certamente ai singoli contesti in discussione, che
mai può essere svilito, come invece accaduto anche di recente, ad affermazioni
di pura propaganda politica esterna. E, su questo terreno, il PCI si è trovato
in grande difficoltà durante la resistenza, nonostante l’eroismo ed il sacrificio
di tanti suoi quadri e militanti partigiani, come del resto è stato ricordato
qui oggi: “Passarono
molti anni, – avrebbe notato Secchia – ma non fu facile neppure allora mettere
in piedi la resistenza armata, proprio perché non esisteva tra i lavoratori
italiani una sufficiente preparazione mentale, psicologica ed ideale alla lotta
armata. Appunto perché si tratta del mezzo più avanzato e più duro di lotta non
vi si arriva facilmente se non vi sono predisposizioni, allenamento, abitudine.
La resistenza italiana ha avuto i suoi limiti: almeno in parte questi sono
stati la conseguenza della mancanza nel popolo e nella sua stessa avanguardia
di tradizioni insurrezionali, di esperienze e attitudini alla lotta armata”.
Mentre gli altri partiti antifascisti erano su questo terreno quasi
completamente assenti “poiché erano partiti d’ordine, di pace sociale
– sono parole di Secchia -, timorosi delle masse in lotta e soprattutto delle
masse in armi”.
Questa lettura dei fatti, tutto sommato inusuale, che rifugge da toni
apologetici e liturgici, consente, da una parte, di cogliere non solamente i
limiti esterni ma anche interni della resistenza, e, dall’altra, una
valutazione maggiormente realistica delle involuzioni che hanno caratterizzato
il quadro politico italiano dopo la Liberazione, almeno fino alle elezioni del
giugno 1953.
Da una parte, il quadro internazionale ed il passaggio, traumatico, dalla
vittoria contro il nazifascismo alla Guerra Fredda (Hiroshima e Nagasaki,
Dottrina Truman e Piano Marshall, costituzione della NATO), al bipolarismo. Con
l’URSS costretta sulla difensiva ed a serrare i ranghi (Cominform) per evitare
lo scontro frontale. Dall’altra, prende corpo nel nostro paese, parte
integrante del nascente blocco occidentale, un’offensiva reazionaria del grande
capitale agrario ed industriale per frenare l’espansione del movimento operaio
e bloccare proprio quella “democrazia progressiva” che era alla base del
progetto dei comunisti. Caduto il governo Parri, questo progetto reazionario
prende rapidamente corpo, soprattutto a partire dal 1947, con il viaggio di De
Gasperi a Washington, la cacciata delle sinistre dal governo di unità
nazionale, l’arresto ed i processi
contro i partigiani e la contemporanea riabilitazione dei
collaborazionisti di Salò, la mancata epurazione ai vertici degli apparati
dello stato e delle forze armate, la scissione socialista e quella sindacale,
la repressione antioperaia ed anticontadina.
Come si colloca il PCI in questo difficile contesto? Quali le discussioni e le prospettive?
Quali gli elementi comuni e condivisi? Alternative reali alla collocazione del
PCI in un contesto di democrazia strutturata sul modello occidentale non
avrebbero potuto essere praticate. Lo sapeva bene Stalin, che avrebbe
sconsigliato personalmente i comunisti greci dal porre all’ordine del giorno la
conquista del potere, limitando le azioni armate ad ottenere rapporti di forza
più favorevoli nel contesto di una Grecia appartenente al blocco occidentale,
lo sapevano bene i comunisti italiani. Da qui nasce quella condizione di
“doppiezza” che non appartiene ad un singolo dirigente, ma ad una linea
politica e ad un intero partito che da clandestino si trasforma gradualmente in
un partito di massa. Un partito che teorizza la rivoluzione ma che è costretto
ad inserirsi nel quadro determinato dalle forze della borghesia. Basti, per
tutte, la precedente osservazione di Secchia.
Se non esistevano alternative reali alla linea del “partito nuovo” e della
“democrazia progressiva”, vi erano però possibili e diverse gestione della
stessa. E’ questo, con ogni probabilità, il terreno sul quale si manifesta il
dissenso tra Secchia e Togliatti che, come vedremo, è tanto politico quanto
organizzativo. Dissenso iniziato fin dalla “svolta di Salerno”, con Togliatti
legato ai governi del sud, e Secchia alla prospettiva di fare dei CLN gli
organismi di un’Italia libera, democratica e rinnovata. Il dissenso nasce e si
approfondisce, insomma, sulla gestione della linea, su alcuni obiettivi
intermedi e, non è da escludersi, anche su alcuni elementi di prospettiva.
Nota, a tal proposito, Collotti, che solamente la necessità di difendersi
dall’offensiva reazionaria ha limitato l’emergere di quello che tendeva a
manifestarsi come “il conflitto latente tra chi conservava ancora
l’eredità della resistenza come parte di un patrimonio rivoluzionario e
guardava a una transizione verso la rivoluzione socialista e chi mirava a
realizzare consapevolmente il disegno di una collocazione democratica e
riformistica del PCI, come erede del movimento dei lavoratori e grande forza
popolare destinata ad operare conquiste graduali assieme ad altre forze
popolari, o ritenute tali, mirando non soltanto ad evitare lo scontro frontale
con le masse cattoliche ma soprattutto a ricomporre l’unità di cammino con le
stesse”.
A chi lo ha accusato, dentro e fuori il PCI, soprattutto dopo la propria
estromissione politica, di aver sostenuto una linea insurrezionalistica, di
“sognare la lotta armata”, secondo l’infelice ed intenzionalmente strumentale
definizione di Miriam Mafai, Secchia risponde con grande efficacia e fermezza
in uno dei suoi Quaderni: “Che cosa volevo? Fare la rivoluzione? No, questa è la
solita baggianata, la solita stolta accusa mossa da chi ha interesse a falsare
le posizioni dell’avversario per poterle combattere, “liquidare”. Non penso
affatto che nel 1945 si potesse fare la rivoluzione. Il nostro paese era
occupato dagli anglo-americani, ecc. Condivido pienamente l’analisi fatta dal
partito in quel periodo e le conclusioni cui è giunto. Ma si trattava di
difendere di più certe posizioni e di fare qualcosa di serio e di positivo
quando eravamo al governo. Inoltre gli anglo-americani ad un certo momento se
ne sono andati e noi avremmo dovuto puntare maggiormente i piedi”.
Giorgio Bocca, nella sua biografia di Togliatti, riporta un episodio
indicativo, testimoniatogli dallo stesso Secchia, nel contesto della dura
opposizione organizzata dallo stesso al Senato contro la legge-truffa. Alle
insistenze di quest’ultimo sulla necessità di accelerare ed approfondire la
battaglia politica, Togliatti avrebbe risposto: “Già, e poi che facciamo, la
rivoluzione?”. “No, - avrebbe controbattuto Secchia - non facciamo
la rivoluzione. Ma se ascoltiamo te non facciamo mai niente”.
Al di là dell’episodio, lo scontro è tra due modi differenti di concepire la
battaglia politica, pur se all’interno di uno stesso orizzonte. Togliatti,
sulla base di una lettura attenta dei rapporti di forza internazionali, vede
con scetticismo la possibilità di spostare in avanti i rapporti di forza in
Italia, intravedendo come rischio maggiore l’isolamento del PCI e la
conseguente necessità di operare per costruire, in prospettiva, un accordo
duraturo con la DC e le masse cattoliche. Secchia, al contrario, con una
visione solo in teoria più schematica del quadro internazionale che considera
la presenza stessa dell’URSS come un elemento di garanzia e di prospettiva per
la possibile avanzata del movimento operaio anche in Occidente (ed oggi, per
inciso, a quindici anni dal dissolvimento dell’URSS e dalla riconquistata
egemonia mondiale del capitalismo, con il passaggio dal multilateralismo
aggressivo di Clinton alla guerra preventiva di Bush, al massacro sociale in
atto anche nei paesi a capitalismo avanzato, dovremmo poter rivalutare questa
posizione), avrebbe preferito una linea più aggressiva, meno tatticista, con
l’obiettivo di sottrarre le masse lavoratrici cattoliche all’abbraccio della DC
e della reazione. Questo a maggior ragione dopo la metà del 1947, quando era
ormai chiara l’involuzione della DC ed il fallimento della politica di unità
nazionale di Togliatti. Azione parlamentare e conflitto di classe,
mobilitazione dal basso. Una sterzata decisa, insomma, ma sempre all’interno
della linea della “democrazia progressiva”.
Il rapporto che Secchia sottopone ai sovietici ed a Stalin nel corso
dell’incontro del dicembre del 1947 contiene alcune di queste indicazioni,
soprattutto sulla necessità di dare maggior vigore all’azione del partito in
Italia, posizione che gli sarebbe stata rinfacciata nel corso del vero e
proprio processo politico che avrebbe subito tra la fine del 1954 ed i primi
mesi del 1955. Anche per questo, forse, nella vulgata Secchia viene considerato
uno stalinista (come se, allora, tutto il PCI non lo fosse). In realtà, occorre
soffermarsi sul fatto che a Stalin ed alla politica estera sovietica era
maggiormente congeniale la linea di Togliatti anche se, e non lo si può
escludere a priori, lo stesso Stalin non avrebbe forse disdegnato una tattica
maggiormente aggressiva ed un partito impostato ed organizzato sul modello
terzinternazionalista.
Una modifica dei rapporti di forza in Italia da conseguire attraverso un
partito in grado di “diventare un partito di massa – sono
parole di Secchia – acquistando le qualità di un partito di quadri”.
“Partito
nuovo, il nostro, - siamo a Milano, nel gennaio 1945, ancora in
clandestinità - appunto perché partito comunista, perché partito della classe operaia,
perché la sua ideologia è l’ideologia del marxismo e del leninismo… Noi dobbiamo
creare un partito di massa, il quale attinga alla classe operaia le sue forze
decisive, al quale si accostino gli elementi migliori dell’intellettualità
d’avanguardia, gli elementi migliori delle classi contadine, ed abbia in sé
tutte le forze e tutte le capacità per dirigere le grandi masse lavoratrici
nella lotta per liberare e ricostruire l’Italia…”.
A questo dedica tutto il proprio lavoro, dopo essere stato nominato
responsabile nazionale della sezione di organizzazione ed essere entrato a far
parte della Segreteria Nazionale del partito già nel giugno del 1945, per poi
essere nominato Vicesegretario del partito dal febbraio 1948, ruoli che ricopre
fino al luglio del 1954. Questa impostazione, di fatto, si sarebbe rivelata
forse inconciliabile con quel processo di “rinnovamento” politico ed
organizzativo che il PCI pone in essere a seguito dell’avanzata elettorale del
giugno 1953, processo ancora troppo poco indagato e studiato.
Tra la fuga del suo collaboratore più stretto, Seniga, con soldi e documenti
riservati (luglio 1954), giustificata strumentalmente dallo stesso con la
necessità di aprire uno scontro dentro il PCI contro la linea di Togliatti, e
l’estromissione dal centro del partito, Secchia subisce un vero e proprio
processo politico. L’interrogativo da porre al centro della nostra analisi
riguarda l’esistenza o meno di una proporzione tra le effettive responsabilità
di Secchia ed i provvedimenti attuati nei suoi confronti. Basta leggere la
documentazione riportata a tal proposito nell’Archivio Pietro Secchia per
rendersi conto che questa proporzione non esiste e che quello inscenato contro
Secchia è stato un processo staliniano (senza alcuna intenzione di voler
utilizzare questo termine come categoria generale di analisi, abusandone, ma come
elemento circoscritto ad una determinata fase storica del movimento operaio)
dopo la morte di Stalin, una delle pagine più buie della storia del PCI.. Per
qualcuno, l’estromissione di Secchia sarebbe stato il contributo dato dal
partito alla destalinizzazione prima del XX Congresso del PCUS e l’VIII del
PCI. In realtà si è voluto colpire quello che poteva divenire il maggiore
ostacolo al dispiegamento della nuova linea politica del “rinnovamento”
politico ed organizzativo. Un punto di riferimento per tanti dirigenti e quadri
intermedi. Poco prima dell’affare Seniga Secchia incontra Molotov a Mosca
(siamo nel luglio del 1953, dopo la morte di Stalin e l’esplosione del caso
Beria), e viene messo in guardia dai rischi del culto della personalità e
spronato affinché il partito italiano adotti al più presto una direzione
collegiale. Elemento, questo, destinato ad allontanare ancora di più Secchia da
Togliatti, che rifiuta di discutere dell’argomento in direzione.
Una commissione presieduta da Scoccimarro, dalla quale sarebbe emerso un quadro
del partito non proprio edificante e criticità che andavano nella direzione di
accrescere il pluralismo e la democrazia interni, muove a Secchia diverse
contestazioni di tipo politico, organizzativo e disciplinare. Così come la
Segreteria Nazionale approva il 17 novembre 1954 un duro documento di critica.
Tre sono i testi di autocritica redatti da Secchia, due respinti ed uno,
tremendo, approvato dalla Direzione del 15 gennaio 1955. Documento che, per
utilizzare un’espressione dello stesso Secchia, ne avrebbe sancito la “squalifica
politica”. Mai, il PCI, ha fornito giustificazione esterna
dell’allontanamento di Secchia dal centro e dalla direzione, e fino alla metà
degli anni ’70 una fitta nebbia avvolge tutto quanto.
Nonostante questo, Secchia continua la propria militanza nel partito, come
componente del CC e Senatore fino alla morte, avvenuta in circostanze
misteriose il 7 luglio 1973, di ritorno da un viaggio in quello che ancora per
pochi mesi sarebbe stato il Cile di Allende.
Fino all’ultimo, anche nel suo lavoro prezioso ed incessante di ricostruzione
storica, Secchia sarebbe rimasto fedele alla propria impostazione bolscevica e
terzinternazionalista, con la severità ed il rigore esercitati prima di tutto
verso se stessi, con una identificazione pressoché totale con la causa per la
quale si era battuto, con il disinteresse personale ma il grande rispetto per
la persona umana e per il lavoro dei compagni.
Poco prima di essere ricoverato per poi trovare la morte Secchia consegna
all’editore Mazzotta la sua ultima fatica, la raccolta La Resistenza accusa,
osservando: “Vi consegnerò la prefazione, ma questa non sarà lunga, entro giugno o
metà luglio e se per coincidenza non ci sarò più, bah, vedete un po’
d’arrangiarvi voi, ricordandovi magari che prima di diventare un uomo di
lettere ero un uomo d’azione”. E, aggiungiamo noi, un grande
dirigente comunista, che tanto ha ancora da insegnare ad oltre trent’anni dalla
morte alle giovani generazioni che si accostano alla lotta politica ed alla
militanza comunista.Con Secchia contro i fascismi di ieri e di oggi, contro i
revisionismi di ieri e di oggi. Teniamo alta la nostra bandiera e la nostra
prospettiva di pace, democrazia, socialismo e libertà.