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Convegno su Pietro Secchia - Torino 16/04/05


Intervento di :
Gabriele Proglio,

al convegno
LA RESISTENZA ACCUSA- Pietro Secchia antifascista, partigiano, comunista, Torino, 16 aprile 05

Pietro Secchia: Antifascismo, lotta di classe e nuova resistenza


Le componenti che costituirono la resistenza al nazifascismo furono diverse. Molti infatti erano i motivi, politici e sociali, per un’opposizione nel dopo 8 settembre. Per chi era comunista e partigiano la resistenza significava anche lotta di classe perché dietro alla cacciata di Mussolini e del fascismo, oltre ovviamente del nazismo, c’era la progettualità della costruzione di un’Italia nuova. Il comunismo in Italia guarda con attenzione alle vicende russe, alla rivoluzione d’ottobre e alla continuità nel dopo Lenin, ma scopre una dimensione che è rivoluzionaria perché internazionale.

Il sogno, la voglia, la lotta per un paese fuori dal capitalismo e dentro a dinamiche più sociali e comunitarie alimenta il fuoco delle idee e azioni in un contesto di guerra globale come punto massimo dell’espressione del capitalismo in mutazione (secondo le dottrine si parla di crisi o di allargamento del capitalismo; comunque e sempre un fenomeno di mutazione delle piattaforme socioeconomiche per la creazione di un contesto differente). Chi nell’autunno del 43 decise per la lotta armata ereditava un passato di persecuzioni e di clandestinità perché comunista. Ecco allora che una strategia insurrezionale non è vista per una sola liberazione dal presente ma volta all’allargamento all’Italia dello stato di agitazione per la rivoluzione. Tutte le formazioni partigiane comuniste, dai Gap alle semplici garibaldine, vedevano però un unico referente politico-militare; ovvero il Partito Comunista Italiano.

Lotta di classe e lotta di liberazione; si perché all’interno della seconda vi sono molte motivazioni e valutazioni del perché della prima. Prima di tutto il fascismo aveva trovato nella media/grande impresa, la borghesia, un fedele alleato. A loro si rivolgeva l’interesse economico e politico, a loro il fascismo guardava con apprensione nei momenti di crisi. Secchia scriveva “la Resistenza italiana, a differenza di quella di altri paesi, fu caratterizzata dall'intrecciarsi delle lotte delle masse operaie lavoratrici con le azioni militari dei partigiani. Le une sostenevano ed erano presupposto per lo sviluppo delle altre”[1]. Dopo il 15 novembre del 43, data del “primo” sciopero generale a Torino, la protesta si estende ad altre città, prima Genova e Milano e poi le altre, coinvolgendo in un crescendo avvincente le masse operaie all’interno del progetto di opposizione sociale. In un primo momento Mussolini strizzò l’occhio al proletariato e ai contadini per allargare una base di consenso; ma quando la situazione iniziò a barcollare il fascismo scaricò la classe operaia e minacciò quella contadina. La simbiosi tra resistenza e operaismo vive della consapevolezza di un unico progetto comune.

Cosa che ovviamente non poteva essere conciliabile con la linea bianca del CLN. “Noi comunisti pensavamo che era possibile dare una giusta impostazione ed imprimere slancio possente alla lotta di liberazione nazionale solo se al tempo stesso si portava avanti con forza la difesa degli interessi immediati, economici, sociali e quelli più generali delle classi lavoratrici. Non abbiamo mai accantonato (il che d'altronde sarebbe stato impossibile) né sottovalutato la lotta di classe: essa si esprimeva non soltanto nell'azione contro l'occupante tedesco, ma contro i grandi industriali "collaborazionisti" del nazifascismo. Questa fu la linea politica, l'indirizzo costante della direzione del PCI per l'Alta Italia, profondamente persuasi com'eravamo che gli interessi della classe operaia non erano in contrasto con quelli della nazione. Tutti gli scioperi politici organizzati durante la Resistenza partivano ed avevano come base rivendicazioni economiche. Essi erano indirizzati contro i nazifascisti ed i grandi industriali "collaborazionisti". La lotta per il pane, per il salario, contro lo sfruttamento, in difesa della dignità diventa al tempo stesso lotta nazionale per la cacciata dell'invasore tedesco e la sconfitta del fascismo. Gli operai ed i lavoratori erano stimolati all'azione dalle condizioni stesse della loro esistenza, ma a sua volta la spinta della lotta di classe muoveva e trascinava ogni giorno un numero sempre maggiore di uomini a partecipare alla lotta di liberazione.

Le rivendicazioni economiche erano messe avanti sia per "coprire", per quanto possibile, gli scioperanti dalla reazione tedesco-fascista, sia perché esse toccavano tutti gli strati di lavoratori, da quelli che stavano all'avanguardia sino alla parte più arretrata, meno progredita, che non s'interessava di politica, ma voleva difendere il proprio diritto alla vita”[2]. Il contesto nel quale avvengono gli scioperi è molto teso; riaffermare un diritto economico significava principalmente lottare per una liberazione della persona – quindi sia personale che globale – e non per un interesse individuale. Dopo gli scioperi del 43, e successivamente a una solidarietà dimostrata dal Clnai, persino alcuni rappresentanti del Cln si opposero allo sciopero come strumento di lotta al nazifascismo e per le rivendicazioni di classe affermando che avrebbero potuto compromettere la futura unità nazionale andando a toccare interessi privati. Secchia non solo contestò fortemente queste prese di posizione ma lavorò segretamente per la costituzione di un comitato di agitazione in ogni fabbrica.

Il modello adottato fu quello di edificare in seno del capitalismo, e della sua esemplificazione singola – la fabbrica -, la risposta diretta costituendo cellule in grado di interpretare gli umori e la possibilità politica, organizzare le forze operaie, dirigere lo svolgimento della protesta. “Spetta ai comunisti -dicevano le direttive del Pci - promuovere la formazione di questi comitati di agitazione clandestini, esserne gli animatori, farli sorreggere da tutta la maestranza, affinché siano in grado di assolvere ai loro compiti che vanno dalle rivendicazioni immediate, quotidiane, al compito politico supremo: la preparazione dell'azione armata per la cacciata dei tedeschi, per la radicale eliminazione del fascismo [3]. Gli scioperi, organizzati dalla dirigenza del Pci e non frutto del caso, andarono ad aumentare man mano, fino alla data del 1 marzo quando si sviluppò in tutta l’Alta Italia uno sciopero generale che si concluse soltanto l’8.

Secchia dalle pagine del Monterosa è sceso a Milano “Lo sciopero generale preparato durante alcuni mesi di lavoro, riuscì in modo grandioso e superiore ad ogni aspettativa, fu certamente il più vasto movimento di massa che abbia avuto luogo in Europa durante la guerra, nei territori occupati dai tedeschi. I grandi centri industriali di Milano e Torino furono per otto giorni completamente paralizzati. A Milano durante tre giorni scioperarono compatti anche i tranvieri, i postelegrafonici e gli operai del «Corriere della Sera». Lo sciopero si estese dal Piemonte e dalla Lombardia al Veneto, alla Liguria, all'Emilia ed alla Toscana. Due milioni di operai parteciparono al movimento appoggiato da forti manifestazioni di contadini e di donne della campagna, specialmente nell'Emilia. Tutte le misure preventive e repressive della polizia fascista e delle SS non riuscirono ad impedire, né a limitare lo sciopero, malgrado che il nemico ne conoscesse la data e gli obiettivi. Con lo sciopero generale i lavoratori chiedevano l'indispensabile per vivere, chiedevano di non lavorare per la guerra, di poter essere liberi nelle loro case, di non essere fermati, arrestati, deportati, torturati dai nazifascisti, chiedevano che i loro figli non fossero arruolati dallo straniero. Ancora una volta i grandi industriali si dimostrarono in generale solidali con gli occupanti tedeschi; salvo casi singoli si rifiutarono di trattare e di ricevere le delegazioni operaie, arrivarono persino a passare ai tedeschi le liste degli operai scioperanti compiendo a fondo l'opera di aperto tradimento della nazione in guerra”[4]. La fabbrica diventa “il fulcro della lotta contro i tedeschi e i fascisti, le agitazioni degli operai appoggiarono le azioni partigiane e queste a loro volta contribuirono a rendere più facile il successo delle rivendicazioni dei lavoratori”.

Esiste un filo rosso che unisce l’analisi di Secchia sul fascismo, la resistenza e i rapporti interni-esterni con il Pci con la stagione dei movimenti del 68. Una linea che è figlia delle lotte operaie di inizio secolo nel nostro paese. Esiste anche una continuità storica ed ideologica all’interno delle dimensioni della lotta, esiste una interrelazione tra resistenti partigiani e resistenti operai, nasce e si sviluppa la concezione che la lotta del proletariato è finalizzata ad una rivoluzione globale, certamente finalizzata al locale ma con sguardi internazionali. I popoli in lotta e gli sfruttati sono figli di una stessa madre e quindi accomunati da un forte sentimento di solidarietà, di interesse e a volte programmaticità rispetto al futuro. L’anello di congiunzione tra il passato e il futuro trova in Secchia uno straordinario presente capace di unire dove le mire partitiche auspicavano per un risultato individuale e di rianimare la complessità del movimento comunista attraverso l’affermazione di un minimo comune denominatore: la lotta per la liberazione. Ecco allora che le soggettività in causa, negli specifici ambiti di lotta, diventa non un ostacolo per l’unità della classe ma un collante che definisce meglio di ogni regola matematica la determinazione della società nuova; la società socialista dove la lotta settorializzata – gli operai nelle fabbriche, gli studenti nelle scuole e università, i partigiani sulle colline – andrà a determinare le parole d’ordine e gli sviluppi della lotta oltre che ovviamente il tipo di obiettivo da raggiungere per liberare e rivoluzionare il contesto. Ciascuno sa come procedere perché, pur facendo parte di un contesto internazionale, nel proprio ambito diventa motore trainante della protesta attorno alla progettualità frutto dell’applicazione della cultura di classe al contesto di lotta. Esiste quindi una unica grande classe, quella proletaria, che si specializza e cresce creando consensi e sviluppando antagonismo e proposte per la rivendicazione dei bisogni, per l’affermazione dei diritti, per lo svolgimento della politica di classe.

Ma partiamo dall’analisi sul fascismo. Per Secchia il fascismo non è solo un momento della storia italiana, non ha una data di nascita e quindi di morte, ma ha motivi di esistere più profondi che vanno ricercati nella mutazione della dirigenza del capitalismo all’inizio degli anni 20. Al posto di una classe latifondista ma con poca liquidità in tasca in Italia si afferma una industriale con ampie possibilità economiche. La funzionalità del fascismo a questa nuova forma di capitalismo, che andrà ad affermarsi e trasformarsi nel dopoguerra fino alla fine degli anni 70, è palese.  “Il fascismo, allora, è sempre incombente come arma della borghesia, a determinate condizioni: che si sviluppi la crisi del capitale, opera delle proprie contraddizioni interne e per la spinta del conflitto sociale, e che vi sia forza oggettiva e debolezza soggettiva del movimento operaio organizzato”[5]. La concezione del fascismo con la formulazione classica dell’Internazionale Comunista come “forma aperta della dittatura dei gruppi più reazionari della borghesia” si evolve, seguendo un’impostazione terzinternazionalista e formazioni gramsciane e togliattiane, in “rivoluzione passiva” o “regime reazionario di massa” [6]. La crisi del sistema capitalistico, che dalla dottrina ha andamenti ciclici, può generare sia un movimento reazionario, sia uno rivoluzionario. L’agire politico quindi diventa fondamentale per caratterizzare il periodo storico e “l’azione politica di resistenza che si dispiega in controffensiva” è uno dei motivi che uniscono la resistenza a Secchia e al 68 [7]. E forse anche per questo motivo che porterà una visione nuova, giovane, di proposta ed avanguardia all’interno del Pci rispetto ai movimenti.

Quando Longo nel 68 chiamerà i rappresentanti degli studenti per discutere delle idee e proposte, operazione che molti definirono opportunista, Secchia si schiererà immediatamente al fianco dei movimenti. Non solo non apprezzata la linea vecchia e rigida del suo partito, tanto per intenderci quella togliattiana, ma intendeva allargare l’agire politico alle dimensioni degli studenti, degli operai, delle avanguardie che scenderanno in piazza in quegli anni. All’interno del Pci, contro il correntone integralista ma allo stesso tempo contro le divisioni interne, per una coesione di partito e di movimento finalizzata alla programmazione, gestione e sviluppo delle lotte e dell’iniziativa rivoluzionaria. Secchia capì da subito che doveva esistere una continuità alle lotte fatte durante il fascismo, alla resistenza partigiana. E proprio per la matrice istituzionale e commemorativa dell’antifascismo, prima rappresentato dalle volontà del Cln, la via da perseguire non poteva che essere quella di un nuovo modo di rappresentare e vivere la lotta alla restaurazione fascista. Quest’ ultima infatti fu frutto di più componenti che, nel dopoguerra, si sommarono ottenendo un risultato sconcertante; ad un anno di distanza dal 25 aprile la burocrazia fascista era riabilitata sia come persone, molti dei funzionari erano nuovamente al posto di comando, sia per il giudizio normativo, l’amnistia di Togliatti consegnerà alla storia un’assoluzione piena dei crimini fascisti. Era ovvio che chi inseguiva ancora la realizzazione del sogno comunista doveva slegarsi dalle posizioni granitiche assunte dal partito per dare vita ad un’avanguardia, che Secchia concepisce nella sua sintesi politica, che sapesse agire anche contro il parere della massa per la finalità di sviluppare nuovi contesti di lotta e nuovi spiragli di mobilitazione.

Proprio per questo motivo all’antifascismo istituzionale si affiancherà uno militante. La data che fa da spartiacque è il 12 dicembre del 1969: a Milano – alla Banca Nazionale dell’Agricoltura in Piazza Fontana – scoppia una bomba. In un primo momento si accusano gli anarchici dell’attentato (Pinelli viene ucciso in questura e Valpreda arrestato). Poi proprio grazie all’opera di ricerca e controinformazione del movimento si scopre la trama nera; ad organizzare e realizzare l’attacco – che costò la vita a decine di persone – furono servizi d’inteligence italiani assieme a gruppi neofascisti. “La Nuova Sinistra incominciò a sentirsi erede del “vero antifascismo” e della vera resistenza e se ne assunse tutta la responsabilità. La strage dimostrava che la Resistenza doveva continuare”. Sintatticamente “strage di stato” è un termine cognato dal movimento – e in particolare da Lotta Continua – e assunto come tale dai maggiori filoni storiografici. E’ quindi il movimento a fare la storia con un’intuizione e un’interpretazione che sarà progettuale per chi si troverà a militare a sinistra del Pci.

La strage era stata anticipata da altri attentati a Padova, Torino, Roma e Milano. Era chiara la strategia voluta dallo stato; attaccare, criminalizzare il movimento e far piombare in un clima di terrore i militanti delle organizzazioni di sinistra oltre che ovviamente far respirare un’aria pesante a tutto il paese. Il movimento studentesco – che cresceva e rappresentava sempre di più un soggetto politico pericoloso per il potere – era già stato colpito in modo netto almeno altre quattro volte prima; il 28 aprile del 66 con l’uccisione da mano fascista di Paolo Rossi (con conseguente mobilitazione ed occupazione dell’università di Roma), l’ottobre del 1967 con l’occupazione a catena di più università – in primis la facoltà di sociologia di Torino – che daranno un respiro ideologico al movimento producendo testi come i Quaderni rossi, quelli Piacentini, classe operaia, ecc…,   nella battaglia di Valle Giulia nel marzo del 68 quando la polizia intervenne per sgomberare l’università occupata spostando il piano dello scontro (150 poliziotti feriti e 50 compagni feriti, oltre 220 fermi), e nella successiva azione di rappresaglia del 16 ad opera di un gruppo di fascisti guidati da Giorgio Almirante nella quale rimasero feriti diversi compagni.

L’atteggiamento del Partito Comunista fu quanto mai ambiguo; se Longo chiamò a se – come se fosse un padre – i leader del movimento comunque la linea era quella di sviluppare le prospettive di lotta all’interno del partito e di guardarsi dagli “scapestrati” che comunque stavano facendo emergere contraddizioni di un partito non più al passo con i tempi e troppo legato ad interessi di potere.
Il contesto nazionale era governato dal “compromesso storico” del Pc-Dc mentre quello internazionale da eventi di stimolo alle velleità rivoluzionarie come  il Vietnam, Cuba e il Che, la rivolta francese e il movimento culturale cinese, l’assassinio di Martin Luther King, la guerriglia uruguayana dei tupamaros e le rivolte studentesche messicane.

Ma già dal dopoguerra esiste in Secchia la necessità di dover continuare l’esperienza antifascista e resistenziale. Luigi Cortesi ricorda “Era un uomo del suo tempo, fedele al ruolo dell’Urss come tutti comunisti. Eppure nel 1941 al confino criticò a fondo e per iscritto la Storia del Pcb di Stalin. La accusava di schematismo catechistico, di non aver capito la rivolta di Kronstadt e persino di incomprensione del ruolo della Nep, che già Lenin a suo dire aveva applicato con ritardo”[8].  E dal 25 aprile in poi, attraverso una impostazione terzointernazionalista ma aperta alle forme organizzate [9] e attenta alle dinamiche interne al Pci, Secchia si porrà come anello di congiunzione tra le lotte e il partito. Questo anche perché “in tutti i paesi capitalistici la borghesia si serve di due metodi di lotta contro il movimento operaio e i partiti operai. Il primo è quello della violenza, della persecuzione, del divieto, della repressione. Il secondo (..)consiste nel dividere i lavoratori, nel disorganizzare le loro file, nel corrompere singoli rapresentanti o singoli gruppi del proletariato per farli passare dalla parte della borghesia”[10]. Il fascismo infatti è uno strumento al servizio della borghesia per la continuazione e conservazione del capitalismo. Questo pensiero diventa azione in molte occasioni nel dopoguerra. Dalla rivolta di Santa Libera dell’agosto del 1946, quando alcuni partigiani astigiani e cuneesi prenderanno di nuovo la via delle colline per protestare contro la riabilitazione della burocrazia fascista e per il trattamento dello costituente stato nei confronti dei partigiani [11], all’assedio di Genova del 1960 contro il convegno dei fascisti [12], dall’opposizione alle violenze del governo Tambroni alla lotta contro la pesante presenza americana in Italia.

Ecco come Che Guevara diventa nella nuova espressione di Secchia un simbolo della continuazione della resistenza perché include nel proprio significato la rivoluzione comunista e l’organizzazione del proletariato. “Il fascismo voleva impedirci di parlare e noi intendevamo affermare  il diritto di pensare, di parlare e di scrivere; intendevamo anche dimostrare che il fascismo non aveva la forza per impedirci l’esercizio di quei diritti”scriveva Secchia sul 1928-29. Da sempre, dai primi anni di lotta al fascismo, fu contro la corrente attendista; quella cioè che aspettava un segnale alleato o comunque delle condizioni più favorevoli per sferrare l’attacco al nazifascismo. “La resistenza come lotta di popolo, come movimento di massa, non opera di vertici ma di un profondo processo di politicizzazione alla base; non frutto di spontanee iniziative individuali ma di tenace e capillare lavoro di organizzazione”[13].

La continuazione della resistenza vista come opposizione alle mire espansionistiche americane in Italia e all’estero, la lotta senza quartiere contro l’imperialismo e le forme da esso assunte nel dopoguerra “nel corso della guerra di liberazione si era creata una unità di tutti gli italiani amanti della libertà. Nella lotta contro i tedeschi e i fascisti, popolo ed esercito, operai e carabinieri, contadini ed agenti di polizia, soldati e partigiani avevano lottato, sofferto e combattuto spalla a spalla. Là, per la prima volta il popolo italiano si era sentito veramente unito contro lo straniero, contro l’oppressore, contro la tirannia. Per alcuni anni dopo il 25 aprile forze dell’esercito e della polizia non furono impiegate contro i lavoratori, non intervennero nelle lotte tra capitale e lavoro. Le cose sono cambiate da quando l’onorevole Scelba andò al Viminale, da quando il partito del Vaticano e dell’America riuscì ad impossessarsi del potere…dove vuole arrivare questo governo? Vuole forse che ogni sciopero diventi una cruenta lotta di strada e che ogni aumento di salario debba essere pagato dai lavoratori col sangue? Può darsi che tutto questo sia nel programma di coloro che prendono ordini da Washington e da Londra. Ma questo non è nel programma di milioni di lavoratori; questo non è nel programma delle forze schierate del Fronte popolare, questo non è il programma degli italiani che si sono battuti per fare un’Italia libera, unita, repubblicana.” Infatti già dal dopo 25 aprile i partigiani, in special modo quelli comunisti, verranno sistematicamente fatti oggetto di  persecuzioni sia dal punto di vista del lavoro statale, sia politicamente: “(i casi) di violenza inauditi perpetrati a danno dei partigiani sono innumerevoli…nelle caserme e nelle scuole di polizia gli agenti vengono educati ad odiare i lavoratori, a considerare i comunisti, i socialisti, i partigiani  come “sovversivi”, come i nemici della patria e della società proprio come erano considerati  all’epoca del fascismo”[14].

E’ quindi fondamentale rivolgere ai giovani un nuovo messaggio, diverso dalla commemorazione, differente dalle pagine di storia. L’insegnamento di Secchia è quello di ridare vigore e riappropriarsi della capacità di essere resistenza civile, politica e sociale. Essere nuovi partigiani di pace capaci di individuare e sviluppare le contraddizioni del capitalismo e della sua concretizzazione nella globalizzazione dell’imperialismo finanziario. Capaci di essere motori di lotte e organizzatori della rivoluzione e di individuare ancora un conteso nel quale la lotta unisce; l’appartenenza al proletariato.

Così i giovani di oggi non devono vedere negli ideali del passato solo delle cose passate o le schiere di tanti altri giovani come loro, oggi, caduti sui campi di battaglia, fucilati, impiccati, torturati, bruciati viti. No, la Resistenza non è un cimitero, né oggetto soltanto di celebrazioni  e neppure soltanto lotte di un tempo passato. La Resistenza è la lotta di oggi per attuare la Costituzione…La Resistenza è opposizione al conformismo, lotta per il rinnovamento democratico del paese, è rinnovamento continuo dell’uomo, della società, è lotta per attuare la Costituzione. E questa Costituzione di cui tanto parliamo non è soltanto il patto che racchiude la storia del nostro popolo, è soprattutto presente e avvenire: il presente che vogliamo cambiare, l’avvenire che deve essere conquistato”.

Gabriele Proglio
Alba, 27 marzo 2005


Note:


[1]  Secchia (1973), Il Partito comunista italiano e la guerra di Liberazione, Feltrinelli, Milano, 1975, pp. 201-205 articolo “le masse scendono in lotta”.
[2] Secchia (1973), Il Partito comunista italiano e la guerra di Liberazione, Feltrinelli, Milano, 1975, pp. 201-205 articolo “le masse scendono in lotta”.
[3] La fabbrica fulcro della lotta contro i tedeschi, contro i fascisti e contro gli industriali profittatori, in La Nostra lotta, novembre 1943, n. 3-4.
[4] Secchia, Moscatelli, Il Monterosa è sceso a Milano, G. Einaudi Editore, Torino, 1958, pp.. 179-183
[5] Dubla, Secchia il Pci e il ’68, Datanews – 1998 pp 28
[6] Le analisi prese in considerazione sono due; la prima quella dei Quaderni, la seconda quella delle lezioni di Togliatti del 1935.
[7] Secchia ricorda nelle Armi del fascismo (1921-1971) che “le forze più reazionarie, senza rinunciare a operare sul terreno parlamentare e legalitario, sono scese sul terreno antidemocratico, come sempre accade quando la grande borghesia vede seriamente minacciato il suo potere” e che “ovunque arrivano, le bande brigantesche incendiano le Camere del Lavoro, saccheggiano le cooperative, distruggono le tipografie e le Case del Popolo, uccidono, massacrano comunisti, socialisti, antifascisti, lavoratori inermi (…) La resistenza proletaria è sempre più fiacca, confusa, disordinata. Non c’è un piano, una linea, una direttiva.
[8] Intervista di Luigi Cortesi a l’Unità del 18.02.05 dal titolo “A sinistra di Togliatti”
[9] Secchia non credeva nella rivoluzione spontanea, nello spontaneismo fine a se stesso, ma nella continua ricerca di organizzazione delle forze comuniste da parte del Pci .
[10]Lenin – I metodi degli intellettuali borghesi nelle lotte contro gli operai (1914)
[11] La protesta di Santa Libera è un punto fondamentale per capire la continuazione del fascismo dopo il fascismo. Oltre al trattamento per nulla riconoscente, i partigiani non avevano neppure diritto ad una pensione o da un lavoro perché non erano considerati soldati, si assiste alla ristrutturazione della burocrazia fascista. Gli uomini che c’erano prima del 25 aprile vengono rimessi al loro posto, vengono creati battaglioni per reprimere nelle piazze con ex fascisti della Rsi, vengono sistematicamente sostituiti, nei centri di potere, i partigiani troppo scomodi. I fascisti rialzano la testa e la magistratura avvia procedimenti anche contro i partigiani per crimini di guerra. Le condizioni economiche sono precarie per non dire insufficienti. Poi arriva l’amnistia di Togliatti che ridisegna una storia che non c’era; quella di una guerra civile dove fascisti e antifascisti si sono spartiti il paese. I fascisti possono circolare indisturbati. Questo, unito ad eventi più specifici – il licenziamento del partigiano Lavagnino dalla questura di Asti – faranno rinascere l’iniziativa partigiana. Ma il Pci prese subito le distanze dagli insorti. Poi l’insurrezione si allargò a tutto il nord Italia e allora, solo allora, gli atti del Partito riportano le rivendicazioni degli insorti – lavoro, pensione, casa, riconoscenza di guerra , ecc – pur continuando ad avere una linea di totale disprezzo per l’iniziativa. Arriveranno invece molti comunicati di solidarietà dall’Anpi e da quei partigiani, come Secchia, che seppero dividere gli interessi del partito da quelli dei comunisti. 
[12] Secchia sarà uno dei pochi – assieme a Terracini - a ricordarsi degli antifascisti arrestati per gli scontro di Genova del 1960, e a chiederne la liberazione.
[13] Articolo comparso su I comunisti e l’insurrezione
[14] Articolo da Vie Nuove n.22 del 30 maggio del 1948