Convegno su Pietro Secchia - Torino 16/04/05
Intervento di :
Gabriele Proglio,
al convegno
LA RESISTENZA ACCUSA- Pietro Secchia antifascista, partigiano, comunista,
Torino, 16 aprile 05
Pietro Secchia: Antifascismo, lotta di
classe e nuova resistenza
Le componenti che costituirono la resistenza al nazifascismo furono diverse.
Molti infatti erano i motivi, politici e sociali, per un’opposizione nel dopo 8
settembre. Per chi era comunista e partigiano la resistenza significava anche
lotta di classe perché dietro alla cacciata di Mussolini e del fascismo, oltre
ovviamente del nazismo, c’era la progettualità della costruzione di un’Italia
nuova. Il comunismo in Italia guarda con attenzione alle vicende russe, alla
rivoluzione d’ottobre e alla continuità nel dopo Lenin, ma scopre una
dimensione che è rivoluzionaria perché internazionale.
Il sogno, la voglia, la lotta per un paese fuori dal capitalismo e dentro a
dinamiche più sociali e comunitarie alimenta il fuoco delle idee e azioni in un
contesto di guerra globale come punto massimo dell’espressione del capitalismo
in mutazione (secondo le dottrine si parla di crisi o di allargamento del
capitalismo; comunque e sempre un fenomeno di mutazione delle piattaforme
socioeconomiche per la creazione di un contesto differente). Chi nell’autunno
del 43 decise per la lotta armata ereditava un passato di persecuzioni e di
clandestinità perché comunista. Ecco allora che una strategia insurrezionale
non è vista per una sola liberazione dal presente ma volta all’allargamento
all’Italia dello stato di agitazione per la rivoluzione. Tutte le formazioni
partigiane comuniste, dai Gap alle semplici garibaldine, vedevano però un unico
referente politico-militare; ovvero il Partito Comunista Italiano.
Lotta di classe e lotta di liberazione; si perché all’interno della seconda vi
sono molte motivazioni e valutazioni del perché della prima. Prima di tutto il
fascismo aveva trovato nella media/grande impresa, la borghesia, un fedele
alleato. A loro si rivolgeva l’interesse economico e politico, a loro il
fascismo guardava con apprensione nei momenti di crisi. Secchia scriveva “la
Resistenza italiana, a differenza di quella di altri paesi, fu caratterizzata
dall'intrecciarsi delle lotte delle masse operaie lavoratrici con le azioni militari
dei partigiani. Le une sostenevano ed erano presupposto per lo sviluppo delle
altre”[1]. Dopo il 15 novembre del 43, data del “primo”
sciopero generale a Torino, la protesta si estende ad altre città, prima Genova
e Milano e poi le altre, coinvolgendo in un crescendo avvincente le masse
operaie all’interno del progetto di opposizione sociale. In un primo momento
Mussolini strizzò l’occhio al proletariato e ai contadini per allargare una
base di consenso; ma quando la situazione iniziò a barcollare il fascismo
scaricò la classe operaia e minacciò quella contadina. La simbiosi tra
resistenza e operaismo vive della consapevolezza di un unico progetto comune.
Cosa che ovviamente non poteva essere conciliabile con la linea bianca del CLN.
“Noi comunisti pensavamo che era possibile dare una giusta impostazione ed
imprimere slancio possente alla lotta di liberazione nazionale solo se al tempo
stesso si portava avanti con forza la difesa degli interessi immediati,
economici, sociali e quelli più generali delle classi lavoratrici. Non abbiamo
mai accantonato (il che d'altronde sarebbe stato impossibile) né sottovalutato
la lotta di classe: essa si esprimeva non soltanto nell'azione contro
l'occupante tedesco, ma contro i grandi industriali
"collaborazionisti" del nazifascismo. Questa fu la linea politica,
l'indirizzo costante della direzione del PCI per l'Alta Italia, profondamente
persuasi com'eravamo che gli interessi della classe operaia non erano in
contrasto con quelli della nazione. Tutti gli scioperi politici organizzati
durante la Resistenza partivano ed avevano come base rivendicazioni economiche.
Essi erano indirizzati contro i nazifascisti ed i grandi industriali
"collaborazionisti". La lotta per il pane, per il salario, contro lo
sfruttamento, in difesa della dignità diventa al tempo stesso lotta nazionale
per la cacciata dell'invasore tedesco e la sconfitta del fascismo. Gli operai
ed i lavoratori erano stimolati all'azione dalle condizioni stesse della loro
esistenza, ma a sua volta la spinta della lotta di classe muoveva e trascinava
ogni giorno un numero sempre maggiore di uomini a partecipare alla lotta di
liberazione.
Le rivendicazioni economiche erano messe avanti sia per "coprire",
per quanto possibile, gli scioperanti dalla reazione tedesco-fascista, sia
perché esse toccavano tutti gli strati di lavoratori, da quelli che stavano
all'avanguardia sino alla parte più arretrata, meno progredita, che non
s'interessava di politica, ma voleva difendere il proprio diritto alla vita”[2]. Il contesto nel quale avvengono gli scioperi è molto teso;
riaffermare un diritto economico significava principalmente lottare per una
liberazione della persona – quindi sia personale che globale – e non per un
interesse individuale. Dopo gli scioperi del 43, e successivamente a una
solidarietà dimostrata dal Clnai, persino alcuni rappresentanti del Cln si
opposero allo sciopero come strumento di lotta al nazifascismo e per le
rivendicazioni di classe affermando che avrebbero potuto compromettere la
futura unità nazionale andando a toccare interessi privati. Secchia non solo
contestò fortemente queste prese di posizione ma lavorò segretamente per la
costituzione di un comitato di agitazione in ogni fabbrica.
Il modello adottato fu quello di edificare in seno del capitalismo, e della sua
esemplificazione singola – la fabbrica -, la risposta diretta costituendo
cellule in grado di interpretare gli umori e la possibilità politica,
organizzare le forze operaie, dirigere lo svolgimento della protesta. “Spetta
ai comunisti -dicevano le direttive del Pci - promuovere la formazione di
questi comitati di agitazione clandestini, esserne gli animatori, farli
sorreggere da tutta la maestranza, affinché siano in grado di assolvere ai loro
compiti che vanno dalle rivendicazioni immediate, quotidiane, al compito
politico supremo: la preparazione dell'azione armata per la cacciata dei
tedeschi, per la radicale eliminazione del fascismo [3]. Gli
scioperi, organizzati dalla dirigenza del Pci e non frutto del caso, andarono
ad aumentare man mano, fino alla data del 1 marzo quando si sviluppò in tutta
l’Alta Italia uno sciopero generale che si concluse soltanto l’8.
Secchia dalle pagine del Monterosa è sceso a Milano “Lo sciopero generale
preparato durante alcuni mesi di lavoro, riuscì in modo grandioso e superiore
ad ogni aspettativa, fu certamente il più vasto movimento di massa che abbia
avuto luogo in Europa durante la guerra, nei territori occupati dai tedeschi. I
grandi centri industriali di Milano e Torino furono per otto giorni
completamente paralizzati. A Milano durante tre giorni scioperarono compatti
anche i tranvieri, i postelegrafonici e gli operai del «Corriere della Sera».
Lo sciopero si estese dal Piemonte e dalla Lombardia al Veneto, alla Liguria,
all'Emilia ed alla Toscana. Due milioni di operai parteciparono al movimento
appoggiato da forti manifestazioni di contadini e di donne della campagna,
specialmente nell'Emilia. Tutte le misure preventive e repressive della polizia
fascista e delle SS non riuscirono ad impedire, né a limitare lo sciopero,
malgrado che il nemico ne conoscesse la data e gli obiettivi. Con lo sciopero
generale i lavoratori chiedevano l'indispensabile per vivere, chiedevano di non
lavorare per la guerra, di poter essere liberi nelle loro case, di non essere
fermati, arrestati, deportati, torturati dai nazifascisti, chiedevano che i
loro figli non fossero arruolati dallo straniero. Ancora una volta i grandi
industriali si dimostrarono in generale solidali con gli occupanti tedeschi;
salvo casi singoli si rifiutarono di trattare e di ricevere le delegazioni
operaie, arrivarono persino a passare ai tedeschi le liste degli operai
scioperanti compiendo a fondo l'opera di aperto tradimento della nazione in
guerra”[4]. La fabbrica diventa “il fulcro della lotta
contro i tedeschi e i fascisti, le agitazioni degli operai appoggiarono le
azioni partigiane e queste a loro volta contribuirono a rendere più facile il
successo delle rivendicazioni dei lavoratori”.
Esiste un filo rosso che unisce l’analisi di Secchia sul fascismo, la
resistenza e i rapporti interni-esterni con il Pci con la stagione dei
movimenti del 68. Una linea che è figlia delle lotte operaie di inizio secolo
nel nostro paese. Esiste anche una continuità storica ed ideologica all’interno
delle dimensioni della lotta, esiste una interrelazione tra resistenti
partigiani e resistenti operai, nasce e si sviluppa la concezione che la lotta
del proletariato è finalizzata ad una rivoluzione globale, certamente
finalizzata al locale ma con sguardi internazionali. I popoli in lotta e gli
sfruttati sono figli di una stessa madre e quindi accomunati da un forte
sentimento di solidarietà, di interesse e a volte programmaticità rispetto al
futuro. L’anello di congiunzione tra il passato e il futuro trova in Secchia
uno straordinario presente capace di unire dove le mire partitiche auspicavano
per un risultato individuale e di rianimare la complessità del movimento comunista
attraverso l’affermazione di un minimo comune denominatore: la lotta per la
liberazione. Ecco allora che le soggettività in causa, negli specifici ambiti
di lotta, diventa non un ostacolo per l’unità della classe ma un collante che
definisce meglio di ogni regola matematica la determinazione della società
nuova; la società socialista dove la lotta settorializzata – gli operai nelle
fabbriche, gli studenti nelle scuole e università, i partigiani sulle colline –
andrà a determinare le parole d’ordine e gli sviluppi della lotta oltre che
ovviamente il tipo di obiettivo da raggiungere per liberare e rivoluzionare il
contesto. Ciascuno sa come procedere perché, pur facendo parte di un contesto
internazionale, nel proprio ambito diventa motore trainante della protesta
attorno alla progettualità frutto dell’applicazione della cultura di classe al
contesto di lotta. Esiste quindi una unica grande classe, quella proletaria,
che si specializza e cresce creando consensi e sviluppando antagonismo e
proposte per la rivendicazione dei bisogni, per l’affermazione dei diritti, per
lo svolgimento della politica di classe.
Ma partiamo dall’analisi sul fascismo. Per Secchia il fascismo non è solo un
momento della storia italiana, non ha una data di nascita e quindi di morte, ma
ha motivi di esistere più profondi che vanno ricercati nella mutazione della
dirigenza del capitalismo all’inizio degli anni 20. Al posto di una classe
latifondista ma con poca liquidità in tasca in Italia si afferma una
industriale con ampie possibilità economiche. La funzionalità del fascismo a
questa nuova forma di capitalismo, che andrà ad affermarsi e trasformarsi nel
dopoguerra fino alla fine degli anni 70, è palese. “Il fascismo, allora, è sempre incombente come arma della
borghesia, a determinate condizioni: che si sviluppi la crisi del capitale,
opera delle proprie contraddizioni interne e per la spinta del conflitto
sociale, e che vi sia forza oggettiva e debolezza soggettiva del movimento
operaio organizzato”[5]. La concezione del fascismo con la
formulazione classica dell’Internazionale Comunista come “forma aperta della
dittatura dei gruppi più reazionari della borghesia” si evolve, seguendo
un’impostazione terzinternazionalista e formazioni gramsciane e togliattiane,
in “rivoluzione passiva” o “regime reazionario di massa” [6].
La crisi del sistema capitalistico, che dalla dottrina ha andamenti ciclici,
può generare sia un movimento reazionario, sia uno rivoluzionario. L’agire
politico quindi diventa fondamentale per caratterizzare il periodo storico e
“l’azione politica di resistenza che si dispiega in controffensiva” è uno dei
motivi che uniscono la resistenza a Secchia e al 68 [7]. E
forse anche per questo motivo che porterà una visione nuova, giovane, di
proposta ed avanguardia all’interno del Pci rispetto ai movimenti.
Quando Longo nel 68 chiamerà i rappresentanti degli studenti per discutere
delle idee e proposte, operazione che molti definirono opportunista, Secchia si
schiererà immediatamente al fianco dei movimenti. Non solo non apprezzata la
linea vecchia e rigida del suo partito, tanto per intenderci quella
togliattiana, ma intendeva allargare l’agire politico alle dimensioni degli
studenti, degli operai, delle avanguardie che scenderanno in piazza in quegli
anni. All’interno del Pci, contro il correntone integralista ma allo stesso
tempo contro le divisioni interne, per una coesione di partito e di movimento
finalizzata alla programmazione, gestione e sviluppo delle lotte e
dell’iniziativa rivoluzionaria. Secchia capì da subito che doveva esistere una
continuità alle lotte fatte durante il fascismo, alla resistenza partigiana. E
proprio per la matrice istituzionale e commemorativa dell’antifascismo, prima
rappresentato dalle volontà del Cln, la via da perseguire non poteva che essere
quella di un nuovo modo di rappresentare e vivere la lotta alla restaurazione
fascista. Quest’ ultima infatti fu frutto di più componenti che, nel
dopoguerra, si sommarono ottenendo un risultato sconcertante; ad un anno di
distanza dal 25 aprile la burocrazia fascista era riabilitata sia come persone,
molti dei funzionari erano nuovamente al posto di comando, sia per il giudizio
normativo, l’amnistia di Togliatti consegnerà alla storia un’assoluzione piena
dei crimini fascisti. Era ovvio che chi inseguiva ancora la realizzazione del
sogno comunista doveva slegarsi dalle posizioni granitiche assunte dal partito
per dare vita ad un’avanguardia, che Secchia concepisce nella sua sintesi politica,
che sapesse agire anche contro il parere della massa per la finalità di
sviluppare nuovi contesti di lotta e nuovi spiragli di mobilitazione.
Proprio per questo motivo all’antifascismo istituzionale si affiancherà uno
militante. La data che fa da spartiacque è il 12 dicembre del 1969: a Milano –
alla Banca Nazionale dell’Agricoltura in Piazza Fontana – scoppia una bomba. In
un primo momento si accusano gli anarchici dell’attentato (Pinelli viene ucciso
in questura e Valpreda arrestato). Poi proprio grazie all’opera di ricerca e
controinformazione del movimento si scopre la trama nera; ad organizzare e
realizzare l’attacco – che costò la vita a decine di persone – furono servizi
d’inteligence italiani assieme a gruppi neofascisti. “La Nuova Sinistra
incominciò a sentirsi erede del “vero antifascismo” e della vera resistenza e
se ne assunse tutta la responsabilità. La strage dimostrava che la Resistenza
doveva continuare”. Sintatticamente “strage di stato” è un termine cognato dal
movimento – e in particolare da Lotta Continua – e assunto come tale dai
maggiori filoni storiografici. E’ quindi il movimento a fare la storia con
un’intuizione e un’interpretazione che sarà progettuale per chi si troverà a
militare a sinistra del Pci.
La strage era stata anticipata da altri attentati a Padova, Torino, Roma e
Milano. Era chiara la strategia voluta dallo stato; attaccare, criminalizzare
il movimento e far piombare in un clima di terrore i militanti delle
organizzazioni di sinistra oltre che ovviamente far respirare un’aria pesante a
tutto il paese. Il movimento studentesco – che cresceva e rappresentava sempre
di più un soggetto politico pericoloso per il potere – era già stato colpito in
modo netto almeno altre quattro volte prima; il 28 aprile del 66 con l’uccisione
da mano fascista di Paolo Rossi (con conseguente mobilitazione ed occupazione
dell’università di Roma), l’ottobre del 1967 con l’occupazione a catena di più
università – in primis la facoltà di sociologia di Torino – che daranno un
respiro ideologico al movimento producendo testi come i Quaderni rossi, quelli
Piacentini, classe operaia, ecc…,
nella battaglia di Valle Giulia nel marzo del 68 quando la polizia
intervenne per sgomberare l’università occupata spostando il piano dello
scontro (150 poliziotti feriti e 50 compagni feriti, oltre 220 fermi), e nella
successiva azione di rappresaglia del 16 ad opera di un gruppo di fascisti
guidati da Giorgio Almirante nella quale rimasero feriti diversi compagni.
L’atteggiamento del Partito Comunista fu quanto mai ambiguo; se Longo chiamò a
se – come se fosse un padre – i leader del movimento comunque la linea era
quella di sviluppare le prospettive di lotta all’interno del partito e di
guardarsi dagli “scapestrati” che comunque stavano facendo emergere contraddizioni
di un partito non più al passo con i tempi e troppo legato ad interessi di
potere.
Il contesto nazionale era governato dal “compromesso storico” del Pc-Dc mentre
quello internazionale da eventi di stimolo alle velleità rivoluzionarie
come il Vietnam, Cuba e il Che, la
rivolta francese e il movimento culturale cinese, l’assassinio di Martin Luther
King, la guerriglia uruguayana dei tupamaros e le rivolte studentesche
messicane.
Ma già dal dopoguerra esiste in Secchia la necessità di dover continuare
l’esperienza antifascista e resistenziale. Luigi Cortesi ricorda “Era un uomo
del suo tempo, fedele al ruolo dell’Urss come tutti comunisti. Eppure nel 1941
al confino criticò a fondo e per iscritto la Storia del Pcb di Stalin. La
accusava di schematismo catechistico, di non aver capito la rivolta di
Kronstadt e persino di incomprensione del ruolo della Nep, che già Lenin a suo
dire aveva applicato con ritardo”[8]. E dal 25 aprile in poi, attraverso una
impostazione terzointernazionalista ma aperta alle forme organizzate [9] e attenta alle dinamiche interne al Pci, Secchia si porrà
come anello di congiunzione tra le lotte e il partito. Questo anche perché “in
tutti i paesi capitalistici la borghesia si serve di due metodi di lotta contro
il movimento operaio e i partiti operai. Il primo è quello della violenza,
della persecuzione, del divieto, della repressione. Il secondo (..)consiste nel
dividere i lavoratori, nel disorganizzare le loro file, nel corrompere singoli
rapresentanti o singoli gruppi del proletariato per farli passare dalla parte
della borghesia”[10]. Il fascismo infatti è uno strumento al
servizio della borghesia per la continuazione e conservazione del capitalismo.
Questo pensiero diventa azione in molte occasioni nel dopoguerra. Dalla rivolta
di Santa Libera dell’agosto del 1946, quando alcuni partigiani astigiani e
cuneesi prenderanno di nuovo la via delle colline per protestare contro la
riabilitazione della burocrazia fascista e per il trattamento dello costituente
stato nei confronti dei partigiani [11], all’assedio di
Genova del 1960 contro il convegno dei fascisti [12],
dall’opposizione alle violenze del governo Tambroni alla lotta contro la
pesante presenza americana in Italia.
Ecco come Che Guevara diventa nella nuova espressione di Secchia un simbolo
della continuazione della resistenza perché include nel proprio significato la
rivoluzione comunista e l’organizzazione del proletariato. “Il fascismo voleva
impedirci di parlare e noi intendevamo affermare il diritto di pensare, di parlare e di scrivere; intendevamo
anche dimostrare che il fascismo non aveva la forza per impedirci l’esercizio
di quei diritti”scriveva Secchia sul 1928-29. Da sempre, dai primi anni di
lotta al fascismo, fu contro la corrente attendista; quella cioè che aspettava
un segnale alleato o comunque delle condizioni più favorevoli per sferrare
l’attacco al nazifascismo. “La resistenza come lotta di popolo, come movimento
di massa, non opera di vertici ma di un profondo processo di politicizzazione
alla base; non frutto di spontanee iniziative individuali ma di tenace e
capillare lavoro di organizzazione”[13].
La continuazione della resistenza vista come opposizione alle mire
espansionistiche americane in Italia e all’estero, la lotta senza quartiere
contro l’imperialismo e le forme da esso assunte nel dopoguerra “nel corso
della guerra di liberazione si era creata una unità di tutti gli italiani
amanti della libertà. Nella lotta contro i tedeschi e i fascisti, popolo ed
esercito, operai e carabinieri, contadini ed agenti di polizia, soldati e
partigiani avevano lottato, sofferto e combattuto spalla a spalla. Là, per la
prima volta il popolo italiano si era sentito veramente unito contro lo
straniero, contro l’oppressore, contro la tirannia. Per alcuni anni dopo il 25
aprile forze dell’esercito e della polizia non furono impiegate contro i
lavoratori, non intervennero nelle lotte tra capitale e lavoro. Le cose sono
cambiate da quando l’onorevole Scelba andò al Viminale, da quando il partito
del Vaticano e dell’America riuscì ad impossessarsi del potere…dove vuole
arrivare questo governo? Vuole forse che ogni sciopero diventi una cruenta
lotta di strada e che ogni aumento di salario debba essere pagato dai
lavoratori col sangue? Può darsi che tutto questo sia nel programma di coloro
che prendono ordini da Washington e da Londra. Ma questo non è nel programma di
milioni di lavoratori; questo non è nel programma delle forze schierate del
Fronte popolare, questo non è il programma degli italiani che si sono battuti
per fare un’Italia libera, unita, repubblicana.” Infatti già dal dopo 25 aprile
i partigiani, in special modo quelli comunisti, verranno sistematicamente fatti
oggetto di persecuzioni sia dal punto
di vista del lavoro statale, sia politicamente: “(i casi) di violenza inauditi
perpetrati a danno dei partigiani sono innumerevoli…nelle caserme e nelle
scuole di polizia gli agenti vengono educati ad odiare i lavoratori, a
considerare i comunisti, i socialisti, i partigiani come “sovversivi”, come i nemici della patria e della società
proprio come erano considerati
all’epoca del fascismo”[14].
E’ quindi fondamentale rivolgere ai giovani un nuovo messaggio, diverso dalla
commemorazione, differente dalle pagine di storia. L’insegnamento di Secchia è
quello di ridare vigore e riappropriarsi della capacità di essere resistenza
civile, politica e sociale. Essere nuovi partigiani di pace capaci di
individuare e sviluppare le contraddizioni del capitalismo e della sua
concretizzazione nella globalizzazione dell’imperialismo finanziario. Capaci di
essere motori di lotte e organizzatori della rivoluzione e di individuare
ancora un conteso nel quale la lotta unisce; l’appartenenza al proletariato.
Così i giovani di oggi non devono vedere negli ideali del passato solo delle
cose passate o le schiere di tanti altri giovani come loro, oggi, caduti sui campi
di battaglia, fucilati, impiccati, torturati, bruciati viti. No, la Resistenza
non è un cimitero, né oggetto soltanto di celebrazioni e neppure soltanto lotte di un tempo
passato. La Resistenza è la lotta di oggi per attuare la Costituzione…La
Resistenza è opposizione al conformismo, lotta per il rinnovamento democratico
del paese, è rinnovamento continuo dell’uomo, della società, è lotta per
attuare la Costituzione. E questa Costituzione di cui tanto parliamo non è
soltanto il patto che racchiude la storia del nostro popolo, è soprattutto
presente e avvenire: il presente che vogliamo cambiare, l’avvenire che deve
essere conquistato”.
Gabriele Proglio
Alba, 27 marzo 2005
Note:
[1] Secchia (1973), Il
Partito comunista italiano e la guerra di Liberazione, Feltrinelli, Milano,
1975, pp. 201-205 articolo “le masse scendono in lotta”.
[2] Secchia (1973), Il Partito comunista italiano e la guerra
di Liberazione, Feltrinelli, Milano, 1975, pp. 201-205 articolo “le masse
scendono in lotta”.
[3] La fabbrica fulcro della lotta contro i tedeschi, contro i
fascisti e contro gli industriali profittatori, in La Nostra lotta, novembre
1943, n. 3-4.
[4] Secchia, Moscatelli, Il Monterosa è sceso a Milano, G.
Einaudi Editore, Torino, 1958, pp.. 179-183
[5] Dubla, Secchia il Pci e il ’68, Datanews – 1998 pp 28
[6] Le analisi prese in considerazione sono due; la prima
quella dei Quaderni, la seconda quella delle lezioni di Togliatti del 1935.
[7] Secchia ricorda nelle Armi del fascismo (1921-1971) che “le
forze più reazionarie, senza rinunciare a operare sul terreno parlamentare e
legalitario, sono scese sul terreno antidemocratico, come sempre accade quando
la grande borghesia vede seriamente minacciato il suo potere” e che “ovunque
arrivano, le bande brigantesche incendiano le Camere del Lavoro, saccheggiano
le cooperative, distruggono le tipografie e le Case del Popolo, uccidono,
massacrano comunisti, socialisti, antifascisti, lavoratori inermi (…) La
resistenza proletaria è sempre più fiacca, confusa, disordinata. Non c’è un
piano, una linea, una direttiva.
[8] Intervista di Luigi Cortesi a l’Unità del 18.02.05 dal
titolo “A sinistra di Togliatti”
[9] Secchia non credeva nella rivoluzione spontanea, nello
spontaneismo fine a se stesso, ma nella continua ricerca di organizzazione
delle forze comuniste da parte del Pci .
[10]Lenin – I metodi degli intellettuali borghesi nelle lotte
contro gli operai (1914)
[11] La protesta di Santa Libera è un punto fondamentale per
capire la continuazione del fascismo dopo il fascismo. Oltre al trattamento per
nulla riconoscente, i partigiani non avevano neppure diritto ad una pensione o
da un lavoro perché non erano considerati soldati, si assiste alla
ristrutturazione della burocrazia fascista. Gli uomini che c’erano prima del 25
aprile vengono rimessi al loro posto, vengono creati battaglioni per reprimere
nelle piazze con ex fascisti della Rsi, vengono sistematicamente sostituiti,
nei centri di potere, i partigiani troppo scomodi. I fascisti rialzano la testa
e la magistratura avvia procedimenti anche contro i partigiani per crimini di
guerra. Le condizioni economiche sono precarie per non dire insufficienti. Poi
arriva l’amnistia di Togliatti che ridisegna una storia che non c’era; quella
di una guerra civile dove fascisti e antifascisti si sono spartiti il paese. I
fascisti possono circolare indisturbati. Questo, unito ad eventi più specifici
– il licenziamento del partigiano Lavagnino dalla questura di Asti – faranno
rinascere l’iniziativa partigiana. Ma il Pci prese subito le distanze dagli
insorti. Poi l’insurrezione si allargò a tutto il nord Italia e allora, solo
allora, gli atti del Partito riportano le rivendicazioni degli insorti –
lavoro, pensione, casa, riconoscenza di guerra , ecc – pur continuando ad avere
una linea di totale disprezzo per l’iniziativa. Arriveranno invece molti
comunicati di solidarietà dall’Anpi e da quei partigiani, come Secchia, che
seppero dividere gli interessi del partito da quelli dei comunisti.
[12] Secchia sarà uno dei pochi – assieme a Terracini - a
ricordarsi degli antifascisti arrestati per gli scontro di Genova del 1960, e a
chiederne la liberazione.
[13] Articolo comparso su I comunisti e l’insurrezione
[14] Articolo da Vie Nuove n.22 del 30 maggio del 1948