Convegno su Pietro Secchia -
Torino 16/04/05
Intervento di :
Luigi Saragnese,
al convegno
LA RESISTENZA ACCUSA- Pietro Secchia antifascista, partigiano, comunista,
Torino, 16 aprile 05
Sul revisionismo storico in Italia
Il significato
di questa iniziativa, mi pare, è quella di riconoscere, attraverso la
ricostruzione del valore e della statura politica di Pietro Secchia,
l’importanza decisiva, come ricordava anche recentemente Angelo D’Orsi in una
intervista a Liberazione, dell’apporto dato dai comunisti nella guerra di
liberazione; apporto ormai larghissimamente sottaciuto, se non negato, come
dimostra la pubblicistica storica più recente.
E’ questo un aspetto specifico del revisionismo, che in questo caso consiste
nel riscrivere la storia espellendo da essa ciò che per fini politici odierni è
ritenuto scomodo. Siccome non è possibile cancellare la presenza maggioritaria
dei comunisti e il loro ruolo di direzione nella Resistenza, (…41% dei
partigiani erano comunistisecondo Leo Valiani) conviene allora che non se ne
parli più. E’ una forma moderna di damnatio memoriae, quel provvedimento di
condanna, presso gli antichi romani, consistente nella cancellazione di ogni
elemento (iscrizioni, immagini,...) che possa ricordare un potente, morto o decaduto, o la memoria
di una civiltà precedente.
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Vorrei iniziare
il mio ragionamento sul tema del revisionismo col citare due diversi episodi
che, a mio parere, sono particolarmente significativi perché rendono espliciti
sia la dimensione internazionale del problema, sia l’attualità dei temi in
discussione:
1) Il revisionismo in alcuni paesi dell'Est recentemente acquisiti alla UE,
sembra aver preso le forme di una vera e propria mania fino sfociare nel
parossismo. Tale modo di leggere la storia, per di più, è anche contagioso,
come dimostra l'apertura di credito subito concessa da alcuni esponenti di
destra del Parlamento europeo. Sto parlando della richiesta degli eurodeputati
polacchi, ungheresi e baltici (del PPE) di mettere fuori legge i simboli del
comunismo, in quanto giudicati alla stessa stregua della svastica nazista. A
questo, la signora Vaira Vike-Freiberga, Presidente della Repubblica di
Lettonia (nota anche come la "Lady di ferro del Baltico"), ha pensato
bene di aggiungere qualcosa di suo. Ha infatti chiesto, pubblicamente, ai suoi
colleghi europei dell'UE (soprattutto quelli che erano preventivamente più che
ben disposti ad assecondarla), di esortare la Russia - in previsione delle
cerimonie prossime venture del 60° anniversario della vittoria sul nazismo, da
celebrare il prossimo 9 maggio - a chiedere scusa, per aver occupato l'Europa
centrale e orientale.
2) Il secondo è una citazione, tratta
da “Fregati dalla scuola”, Effedieffe, Milano 1999 di Rino Cammilleri e
pubblicata sul sito internet storialibera.it,
che rappresenta una specie di summa dei temi sui quali più
frequentemente interviene la pubblicistica revisionista: “ E' ormai acquisito alla storiografia più seria che la Resistenza non
fu affatto un'epica lotta di popolo ma riguardò solo una minoranza, e fu un
fenomeno localizzato in alcune zone del Nord. La mitologia resistenziale ha
invece occultato il ruolo svolto dall'esercito regolare italiano che combatté a
fianco degli Alleati. I comunisti in breve riuscirono a egemonizzare i comitati
di liberazione e, nei cosiddetti «triangoli della morte», ne approfittarono per
sbarazzarsi di avversari politici. Oltre a ex fascisti, anche preti, e perfino
partigiani non comunisti finirono uccisi in questi regolamenti di conti
ideologici, tesi a sgombrare preventivamente il terreno da futuri oppositori.
Al confine con la Jugoslavia i partigiani titini procedevano alla «pulizia
etnica» degli Italiani nelle famigerate foibe. L'attentato di via Rasella, a
Roma, veniva perpetrato per scatenare, con la rappresaglia tedesca, l'odio
della popolazione civile. E anche per eliminare quella componente comunista «di
sinistra» che non aveva intenzione di obbedire alle direttive politiche di
Stalin. Infatti gli attentatori, malgrado le ripetute intimazioni tedesche, non
si consegnarono (tra l'altro la bomba aveva ucciso solo Italiani, cioè
Altoatesini arruolati a forza dai Tedeschi, nonché alcuni civili, tra cui un
bambino) e la rappresaglia riguardò un gruppo di Ebrei e molti partigiani della
formazione «Bandiera rossa» detenuti nelle carceri romane. Nel Nord la brigata
partigiana «Osoppo» (di cui faceva parte il fratello del regista Pasolini) fu
trucidata dai partigiani comunisti.
Tutto sommato la Resistenza non accelerò affatto la dipartita dei Tedeschi;
anzi trasformò in un calvario di rappresaglie (ai danni dei civili inermi)
quella che poteva essere una ordinata ritirata. Lo scopo era quello di
permettere ai comunisti, che non avevano fino a quel momento alcun ruolo
rilevante nella vita politica e sociale italiana, di guadagnarsi un posto di
primo piano nel futuro assetto del paese.
Anzi l'idea era quella di prendere il potere tramite la «rivoluzione», come era
stato in Russia (qui, infatti, i bolscevichi approfittarono dello sbandamento
cagionato dalle prime disastrose sconfitte russe nella Grande Guerra per
sbarazzarsi prima dello zar e poi dei menscevichi). I socialisti, di cui faceva
parte il futuro presidente Pertini, prima dell'avvento di Craxi erano
praticamente loro succubi. Finita la guerra i comunisti scateneranno la guerra
civile in Grecia. L'Italia se la cavò perché ormai Stalin a Yalta vi aveva
rinunciato.
Si potrebbe continuare ricordando il recente editoriale del settimanale Domenicale di Dell’Utri con la richiesta
di abolire il 25 aprile, ma credo che ciò non aggiungerebbe niente di
qualitativamente nuovo e prenderebbe troppo tempo. Conviene, perciò andare al
cuore dei problemi ponendoci la domanda
Che cos’è il revisionismo?
Per Losurdo:“ il revisionismo storico è
un movimento storiografico, culturale, anche politico, che procede alla
demonizzazione del ciclo rivoluzionario, che va dal 1789 al 1917. Una volta
bollata, come criminale, sin dall'inizio, la Rivoluzione d'Ottobre, viene
delegittimata anche la Resistenza e vengono delegittimati anche i movimenti
anticoloniali che ovviamente hanno tratto ispirazione dalla Rivoluzione
d'Ottobre. Ecco, questo è il revisionismo storico. E naturalmente assieme a
questa demonizzazione della tradizione rivoluzionaria, c'è in qualche modo, se
non la riabilitazione, la bagatellizzazione di fenomeni come il nazismo e il
fascismo che si sono collegati sin dall'inizio in aspra polemica contro questa
tradizione rivoluzionaria”.
Una volta che si prenda in
considerazione questa definizione del revisionismo storico, cioè la
liquidazione della tradizione rivoluzionaria nel suo complesso, è chiaro che le
conseguenze politiche sono immediate, come chiari sono i rapporti tra cultura e politica, tra
rilettura storica e lotta politica.
Se prendiamo in considerazione, ad esempio, il giudizio sul fascismo italiano e
sulla Resistenza, non possiamo non concordare con quanto ha scritto
Santomassimo a proposito dell’opera di De Felice: “Il risultato della lunga e ininterrotta mitizzazione giornalistica di
De Felice è stato, già a partire dagli anni Ottanta, l'instaurazione di un
nuovo senso comune che stravolgendo completamente la storia del paese ha
raffigurato l'antifascismo come sinonimo di faziosità, pregiudizio ideologico e
sterile moralismo, e, al contrario, la rivisitazione benevola e giustificativa
del fascismo come sinonimo di anticonformismo, apertura mentale e
spregiudicatezza.
Il ragionamento della storiografia revisionista aveva al suo centro la
scoperta della questione del consenso
al regime , scoperta, in realtà
apparente per almeno due motivi: in primo luogo perché l'intuizione e la
spiegazione di come il fascismo fosse
riuscito a creare un consenso di massa, ferme restando le sue origini
violente e sopraffattorie, era il
contenuto delle fondamentali "lezioni sul fascismo" tenute da Palmiro
Togliatti a Mosca nel 1935 e recentemente ripubblicate da Laterza, incentrate
appunto sulla nozione del fascismo come "regime
reazionario di massa"; e inoltre perché quel consenso - che non fu né
costante né indiscusso - è stato generalmente documentato con carte degli
Archivi dell’OVRA e della polizia, strumenti la cui attendibilità è dubbia se
non ingannevole, e andrebbe dunque studiato in modo ben altrimenti critico.
I punti generali caratterizzanti del
"revisionismo" di De Felice- secondo Santomassimo - si possano
così riassumere nella tendenza a sfumare
o negare la dimensione internazionale del fenomeno fascista, acuendo differenze
e contrasti tra fascismo italiano, fascismo tedesco e altre esperienze
fasciste; nella tendenza a rivalutare momenti e aspetti del regime fascista
tanto nella sua veste "modernizzatrice" dell'economia e della società
quanto nel suo superiore "senso dello Stato e dei doveri civili" nel
raffronto con l'esperienza dell'Italia repubblicana; nella propensione a
ridimensionare ruolo e portata dell'antifascismo e della Resistenza nella
storia d'Italia.
Un altro punto più importante della pubblicistica revisionista è la
tendenziale negazione del fascismo come
fenomeno europeo. Si sostiene, così, che e' possibile parlare di singoli fascismi, ma non di un fascismo
internazionale, al di là di un minimo
comun denominatore puramente politico che col passare degli anni diviene
sempre più insignificante fino a dissolversi del tutto. Gli esiti estremi di
questa scomposizione e frammentazione dell'esperienza fascista sono tanto più
singolari se contrapposti alla tendenza, propria del revisionismo storico a
ricondurre ogni aspetto della storia di altri movimenti, come quello comunista,
a un modello unico e immutabile, che non può conoscere autentici percorsi
nazionali e autonomi.
Nella popolarizzazione operata dai dei mass-media, e soprattutto dalla
televisione (pensiamo al recente sceneggiato televisivo “Il cuore nel pozzo” ,
è anche attraverso questa via che si suggerisce agli spettatori il
"salvataggio" del fascismo, riproponendone quella immagine bonaria
già largamente proposta da cinema e letteratura: i toni di una commedia,
abissalmente distanti da quelli della cupa tragedia del fascismo tedesco.
Permettetemi, a tal proposito, un breve inciso: proprio giovedì 14 su
Repubblica lo storico tedesco Klinkhammer affermava che agli italiani, oltre a
visitare Dachau, farebbe bene, per combattere il mito di italiani “brava
gente”, visitare il campo di concentramento di Arbe, nell’ex Jugoslavia, dove
durante la seconda guerra mondiale l’esercito italiano rinchiuse oltre 20.000
civili jugoslavi.
Anche secondo Nicola Gallerano, l’interpretazione moderata del «fenomeno
fascista» è la caratteristica centrale del revisionismo storico in Italia
perché – dice Gallerano - restituisce una
immagine aconflittuale della società italiana durante il fascismo” (…) “esprime
e legittima un giudizio sul fascismo condiviso dall’opinione pubblica moderata
che così può essere riassunto: il
fascismo è un fenomeno politico moderno, progressista, consensuale; è
autoritario ma senza eccessi, è una dittatura all’acqua di rose: nulla a che
vedere con il nazismo, che è il vero responsabile delle efferatezze che, per la
sua minore forza contrattuale, il fascismo fu costretto ad avallare.”In questo modo la coscienza nazionale
è salva e così il rapporto con il più recente passato.
Se queste sono le tesi che si sono ormai largamente diffuse e che non
tarderanno, io credo, a permeare i prossimi manuali scolastici riscritti per
ottemperare i nuovi programmi previsti
dalla riforma Moratti (non a caso nei nuovi programmi di Storia del
novecento termini quali fascismo e nazismo sono sostituiti dal
termine totalitarismo) , credo
sia utile anche chiederci quando è cominciato tutto questo, e se è possibile ,
in altre parole , trovare un filo conduttore
utile a capire la genesi e l’evoluzione di questo fenomeno.
Può essere utile, allora, provare a
riflettere sui mutamenti sensibili degli orientamenti collettivi. In una
raccolta di saggi del 1999 intitolata “la verità della Storia”, Gallerano
ricostruisce questo mutamento di orientamento, utilizzando due saggi pubblicati
a distanza di dieci anni l’uno dall’altro dalla rivista teorica del PSI “Mondo operaio”
Nel 1975, l’editoriale di “Mondoperaio” in occasione del 25 aprile, a firma di
Federico Coen. portava il titolo Continuità
della Resistenza. La celebrazione della Resistenza —scriveva Coen — non è un rito formale ma un fatto politico”.
Contro la “rinnovata virulenza
dell’infezione neofascista, che suscita ancora una volta in tutto il paese una
spontanea reazione di rigetto”, per la verifica della crisi politica,
economica e sociale che costringe tutti i partiti a fare i conti con se
stessi”, il richiamo alla Resistenza e ai valori che ne furono espressione” è “un punto di riferimento obbligato”.
Coen proseguiva affermando che, grazie alla
“spontanea mobilitazione popolare” la resistenza si era presentata come “il principio di un processo generale di rinnovamento
della vita del paese. Nonostante la rottura dell’unità antifascista lo spirito
della Resistenza [...]vive ancora.
Vive nel sentimento antifascista che ha messo radici sempre più profonde tra le
masse popolari e in tutta la società italiana”; “nella lotta politica
quotidiana che i lavoratori conducono per i grandi obiettivi di riforma e dì
giustizia sociale”. Richiamarsi alla
Resistenza — concludeva Coen — non è
retorica: "perché qui è ancora oggi [...]il cemento unitario della nostra Repubblica”.
L’editoriale di Coen era rappresentativo di un modo di riferirsi alla
Resistenza e all’antifascismo comune allora a tutta la sinistra, elementi di
ritualità inclusi ed esprimeva con efficacia la continuità e la carica di trasformazione di un sentimento collettivo,
fortemente unitario e potenzialmente egemone. che avrebbe trovato la sua
consacrazione anche sul terreno simbolico nell’elezione di Sandro Pertini alla
presidenza della Repubblica (1978).
Dieci anni dopo, 1985, sulla stessa rivista, il commento al 25 aprile, dal
titolo Per un antifascismo conseguente,
a firma di Ruggero Guarini. Il “sentimento
antifascista” — questa la tesi
dell’articolo — ha svolto il compito di far prevalere — tra le forze politiche
— “le loro somiglianze, a volte
tenui, sulle loro differenze, spesso
profonde”. “Ai fini di una giusta
percezione della portata e del senso del dramma epocale della modernità l’opposizione
fascismo/antifascismo è meno decisiva dell’antitesi totalitarismo/democrazia”.
Fascismo e comunismo infatti – concludeva Guarini -“condividono entrambi almeno un tratto ideologico: il rifiuto della
modernità”, e dunque della democrazia, “indissociabile”
dalla “moderna società industriale e mercantile”.
Concetti simili erano già echeggiati sul “Corriere della Sera”, dove Lucio
Colletti aveva sviluppato il sillogismo che, se la democrazia” non può non
essere antifascista, non sempre è vera
l’affermazione inversa”: e anche qui il bersaglio era il Pci (e il Psi
dell’immediato secondo dopoguerra); e dove Piero Melograni aveva rimproverato
equanimemente al fascismo e all’antifascismo i loro comuni tratti antimoderni.
Ciò che a me pare centrale è che la
critica dell’antifascismo operata da Guarini, Colletti, Melograni,
etc…era in realtà un aspetto della critica al Pci e, per estensione, all’intero
movimento sociale, politico e culturale che ha attraversato il paese negli anni
successivi al ’68 , una critica che non si collocava sul terreno delle
interpretazioni storiche (tutte legittime e tutte opinabili) ma su quello della
rimozione di alcuni fatti elementari, persino troppo ovvi da ricordare. Espellere dall’antifascismo “conseguente”
la sua componente maggioritaria, i comunisti, che ne ha determinato in larga
misura il peso e la capacità di incidenza, equivale a cancellare proprio i
caratteri peculiari del passaggio specificamente italiano alla modernità e alla
democrazia che è stata la Resistenza. Un cattolico democratico come Pietro
Scoppola ha dovuto ricordare ai sostenitori delle posizioni neo-democraticiste
che "non si può rovesciare la giusta distinzione tra antifascismo e
democrazia in una identificazione tra anticomunismo e democrazia”.
Vorrei, per concludere, ricordare una verità elementare contenuta nella frase
di G. Orwell Chi controlla il passato,
controlla il presente : la storia la scrivono i vincitori e poiché noi
stiamo vivendo la fase successiva al crollo dell'Unione sovietica nel 1991, con
l’affermarsi incontrastato
dell’imperialismo USA è evidente che per ora, e non sappiamo per quanto
tempo ancora, la storia che prevarrà sarà quella scritta dai nemici del
comunismo, dai nemici dell'antifascismo.
Il nostro compito, io credo, deve essere quello di chiarire quale è la posta in
gioco. Il recupero storiografico di una
parte più o meno grande dell'esperienza fascista e la contestuale
demonizzazione martellante dell'esperienza comunista non sono un'operazione
erudita: è un'operazione politica con voluti effetti politici. Si tratta di
rovesciare la nozione positiva di antifascismo (che assume cioè il fascismo
come male principale) e di fondare un ordine costituzionale conforme alle
aspirazioni di quei ceti che a suo tempo non esitarono ad avvallare appunto il
fascismo come rimedio.
In questo senso, l'attacco alla Costituzione repubblicana ed ai suoi principi
fondanti, per essere stata scritta anche dai comunisti, contenuta nel progetto
di revisione portato avanti dal centro destra, costituisce in qualche modo il
“naturale” versante politico del revisionismo
Luigi Saragnese