articolo di fondo del n. 2/2006 di
contropiano
Guerra sporca in Iraq ma guerra “pulita” in Afganistan?
Il tragico inganno del “peace keeping”
Le manifeste ambizioni del nucleo duro del governo Prodi
di Sergio Cararo*
Il tragico inganno del “peace keeping”
In un mondo
minacciato dalla guerra e dalla disperata ricerca degli Stati Uniti tesa a
mantenere ed estendere la propria egemonia globale, in molti ambiti cerca di
riaffacciarsi l’ambizione ad un multilateralismo nella gestione delle relazioni
internazionali che ridimensioni la supremazia statunitense, ricostruendo così
quelle condizioni di equilibrio che, nel bene e nel male, il bipolarismo
est-ovest aveva assicurato dalla fine della II Guerra mondiale alla fine degli
anni Ottanta.
Nella crisi e nella guerra irachena, gli Stati Uniti ed i loro alleati più stretti si sono posizionati sul terreno della guerra preventiva e sulla strategia della sicurezza nazionale USA, mentre il resto del mondo – incluse potenze di un certo rilievo come Francia, Germania, Russia, Cina – si sono sottratte al coinvolgimento in una aggressione militare diretta come quella scatenata in Iraq. Lo stesso posizionamento non è avvenuto però sull’Afganistan (dove sono aumentate ad esempio le truppe spagnole ritirate invece dall’Iraq) né sulla destabilizzazione della Siria (dove Francia e USA parlano lo stesso linguaggio) né sulla neutralizzazione delle ambizioni nucleari iraniane.
Nel dibattito sull’urgenza di un nuovo multilaterismo nelle relazioni
internazionali si è affacciata una sorta di divaricazione tra i sostenitori
dell’hard power cioè dell’esercizio diretto, brutale e frontale della forza
militare nelle aree strategiche ed i sostenitori del soft power che affida
invece ad un mix di pressioni diplomatiche, tavoli di negoziato, sanzioni
economiche, interventi militari con la copertura dell’ONU, l’eliminazione dei
problemi o dei governi scomodi ed il controllo delle aree strategiche.
Su questa seconda opzione si sono schierati i governi, le elitè intellettuali, le forze politiche moderate, progressiste o liberali che hanno rigettato il brutale intervento militare anglo-statunitense contro l’Iraq. In realtà queste forze hanno sostenuto anche posizioni incoerenti, rendendosi responsabili dell’aggressione alla Jugoslavia o dell’occupazione dell’Afganistan come modello di intervento “multilaterale”, ma criticando l’attacco e l’occupazione dell’Iraq in quanto modello di intervento “unilaterale”. Su tutti pesano poi le opzioni in cantiere sia negli USA che in Europa per neutralizzare l’Iran, destabilizzare la Siria, occupare il Darfur per tenere la Cina fuori dagli assetti africani, determinare chi vincerà la competizione tra il progetto statunitense del “Grande Medio Oriente” o quello europeo del “Mercato Unico Euro-Mediterraneo” del 2010.
Soft
power, peace keeping, governance: il nuovo lessico del colonialismo
Il cuore della opzione fondata sul soft power e l’intervento “multilaterale”, coincide in larga parte con i principali governi europei, alle prese anch’essi con la definizione di una propria dottrina di politica militare ed internazionale adeguata alle possibilità e alle ambizioni del processo che ha portato alla moneta unica, all’Unione Europea ed al suo Trattato Costituzionale comune.
In questa
ambizione europea va inquadrato il nuovo governo Prodi, un governo il cui
nucleo duro è rappresentato dagli interessi che spingono verso il Partito
Democratico (dai DS al Corriere della Sera, dalla Margherita alla
Confindustria) contornato dai partiti che hanno dato vita all’Unione e che
sembrano destinati ad un ruolo di garanzia della stabilità e di
marginalizzazione dai poteri decisionali. Il governo Prodi maneggia questi
problemi assai meglio del suo predecessore Berlusconi, troppo limitato da un
appiattimento controproducente sulle posizioni statunitensi e israeliane. Il
nuovo esecutivo lancia suggestioni accattivanti utilizzando anglismi che non
inquietano più di tanto l’opinione pubblica ed anche settori della sinistra: soft power, peace keeping e governance
saranno categorie che sentiremo spesso aleggiare quando il governo italiano
dovrà decidere di prendere parte a missioni militari all’estero o a contribuire
al depotenziamento della resistenza globale emersa in questi anni a livello
internazionale contro il neocolonialismo e l’imperialismo.
In
Italia riecheggiano i toni della “guerra umanitaria”
Attendere ancora per sganciare l’Italia dalla guerra, potrebbe essere fatale, sia per chi è presente sul campo a Nassiriya o in Afganistan, sia per le conseguenze all’interno del nostro paese, sia per la prevedibile escalation regionale e globale della guerra in Medio Oriente.
Mentre la
guerra contro il popolo iracheno e afgano continua, le prospettive di una nuova
aggressione all’Iran si fanno ogni giorno più forti, tornano a farsi sentire
anche i templari del “peace keeping” che quelle truppe, magari, vorrebbero
portarle rapidamente anche in Sudan e in Africa. Due esempi tra tutti: il
discorso di investitura di Giorgio Napoletano e la coraggiosa trasmissione Report, che domenica 14 maggio ci ha
invece offerto un servizio sui militari italiani in Afghanistan decisamente
“embedded” e che non avrebbe affatto sfigurato nelle trasmissioni delle reti
Mediaset come la famigerata “Terra” di Toni Capuozzo. Dunque l’arrivo dei DS al governo, ci riconsegna un TG3 e le sue
rubriche pronte a legittimare il modello del “peace keeping” e a riaprire e
ripetere la vergognosa pagina del 1999, quando sostennero apertamente e
spudoratamente i bombardamenti “umanitari” contro la Jugoslavia.
La cornice dentro cui il governo Prodi intende dispiegare la sua azione politica e internazionale, risiede ancora nel ruolo e nelle ambizioni dell’Unione Europea.
Il primo ministro belga Guy Verhofstadt, qualche tempo fa, riassumeva bene il ruolo, la percezione e le ambizioni internazionali dell’Europa “L’Unione Europea gode nel mondo di una fama più moderata che gli Stati Uniti. L’Europa è rappresentata come un esempio di cooperazione multilaterale. E’ chiamata per mediare e pacificare nell’ambito di conflitti complessi. L’Europa è vista come un continente sensibile alle sfide sociali ed ecologiche” (1).
A questa immagine dell’Europa come soggetto capace di cooperazione multilaterale e di mediazione dei conflitti, fa la sponda anche Romano Prodi, attuale Presidente del Consiglio in Italia: “L’Europa si presenta al mondo come il più straordinario esempio di governo democratico della globalizzazione … Dal Baltico ai Balcani l’Europa sta dimostrando in modo tangibile quanto essa sia in grado di fare, come potenza regionale, per la sicurezza e la stabilità internazionale”. Rivendicando “con serenità e con orgoglio” come l’Europa abbia fatto la sua parte nel Kosovo (sic!), Prodi va un po’ oltre e sottolinea come in questa prospettiva regionale, “ le sfide saranno quella del Mediterraneo e dell’arco dei paesi che si collocano immediatamente al di là delle frontiere dell’Europa riunificata”. Prodi definisce dunque una precisa area di influenza del modello europeo e del modello concettuale/operativo con cui intervenire in questa area che nel 2010 dovrà entrare a far parte del Mercato Unico Euro-Mediterraneo.(2)
Dal peace keeping al peace-enforcement. Fare
la guerra senza dirlo
Secondo un assioma del tutto informale, la divaricazione sugli strumenti di intervento ed ingerenza nelle crisi internazionali corrisponderebbe anche ad un posizionamento politico: l’hard power e il peace enforcement sarebbero di destra mentre il soft power e il peace keeping sarebbe di sinistra.
Al di là di categorie consolatorie o peggio ancora auto-assolutorie, niente di ciò sarebbe più errato.
L’esperienza fatta nel teatro di crisi africano dalle missioni militari dell’Unione Europea in Congo o da quelle francesi in Costa d’Avorio, fa ritenere ad alcuni osservatori militari come “Il peace-keeping tradizionale stia lasciando il passo a forme di tutela della pace decisamente più risolute” e che l’Unione Europea potrebbe diventare protagonista anche di un intervento militare nel Darfur, in Sudan (3)
In realtà, come analizzano egregiamente due giuristi - Luisa Lerda e Vincenzo Di Ferdinando - siamo in presenza di una “evoluzione” degli strumenti di intervento militare internazionale.
La dottrina del peace keeping ha raggruppato le operazioni di pace – a seconda del contesto e del periodo storico – in tre categorie: operazioni di prima, di seconda e di terza generazione (4).
1) Nelle prime vengono comprese tutte le operazioni poste in essere nel periodo della guerra fredda e portate a compimento prima del crollo del muro di Berlino. Esse vengono giustificate in base al capo VI della Carta delle Nazioni Unite che si occupa della soluzione pacifica delle controversie. Queste operazioni prevedono l’impiego di militari con compiti di interposizione previo consenso dello Stato ospite e le forze militari devono mantenersi neutrali tra le parti in conflitto. E’ previsto l’uso delle armi solo per legittima difesa.
2) Le operazioni di “seconda generazione” hanno visto crescere i compiti di natura civile e attenuarsi la presenza militare (rimpatrio dei rifugiati, controllo della regolarità di elezioni o referendum, assistenza umanitaria). Permangono le caratteristiche di neutralità delle forze impiegate e del consenso degli Stati che ospitano i contingenti delle missioni;
3) Le operazioni di “terza generazione” si differenziano sostanzialmente dalle prime due. Le forze militari sono legittimate all’uso della violenza con il fine non più di mantenere la pace ma di imporla (peace-enforcement). Dunque rispetto alle prime due generazioni, i contingenti militari non sono più neutrali e possono operare anche in assenza del consenso degli Stati in cui intervengono i contingenti militari delle missioni internazionali. Questo meccanismo sarebbe consentito dal capo VII della Carta delle Nazioni Unite che autorizza l’intervento in caso di minaccia alla pace, ma questo concetto è stato esteso a dismisura andando oltre la minaccia alla pace ed inserendovi le “catastrofi umanitarie”. La guerra umanitaria nasce dentro questa ambiguità.
Già con il Trattato Europeo di Amsterdam era emersa un’ampia delega all’Unione Europea per la costituzione e gestione di operazioni militari di mantenimento della pace che spaziano dal peace keeping di prima generazione a quelle più “intrusive” che prevedono l’uso della forza (peace enforcement). Il recente Trattato Costituzionale europeo va ben oltre.
Il
crescente ruolo delle ONG nelle missioni militari
Se fino ad oggi il peace-keeping ha rassicurato gli animi e consentito alle forze progressiste di nascondere dietro un dito le proprie ambiguità su missioni militari neocoloniali o sulle ingerenze militari umanitarie, nel movimento per la pace sarà bene sbarazzarsi di ogni benevolenza verso questa categoria.
Il crescente coinvolgimento delle ONG nelle operazioni militari di ingerenza umanitaria, non deve consentire alcuna forma di complicità. Anche perché i pianificatori militari del Pentagono, della NATO e dell’Unione Europea condividono ormai il modello di vero e proprio “outsorcing della guerra” che affida ad agenzie “civili” sia numero sia ambiti della sicurezza sia la cooptazione delle missioni umanitarie dentro le operazioni militari vere e proprie.
Questo connubio immorale tra forze armate e organizzazioni civili, ha fatto che
oggi il peace-keeping sia diventato addirittura materia di insegnamento nelle
università italiane. E’ il caso delle università di Bologna, Roma, Firenze,
Pisa, Ferrara, Milano,Torino per citarne alcune.
In un master
di “Peace-keeping and security studies” dell’Università di Roma Tre è prevista
la partecipazione di 30 civili e 26 ufficiali e dirigenti della Difesa. In un master della facoltà di Scienze
Politiche dell’Università di Milano, su 9 docenti, cinque sono civili e quattro
sono ufficiali delle forze armate. La presentazione di questo master afferma
esplicitamente che “Il master si propone di favorire la condivisione di una
base di conoscenza e di linguaggio comune tra militari e civili, tanto più
necessaria quanto frequente diviene il loro impiego coordinato”.
Un analista militare italiano, Giuseppe Romeo, ci toglie da ogni imbarazzo: “Le missioni di peace-keeping si sono rivelate la nuova frontiera delle Forze Armate…Le missioni di peace-keeping non possono esaurire se stesse soltanto nel concepire l’impiego delle Forze Armate esclusivamente in missioni umanitarie…In Iraq non si gioca una partita di peace-keeping ma una partita di vera e propria peace-enforcing” (5)
Questo salto di qualità è stato incubato e sperimentato proprio nella ex Jugoslavia e con l’aggressione NATO del 1999 contro la Serbia.
I suoi teorici spaziano da Bernard Kouchner (esponente dei MSF/Francia ed oggi deputato del PSF) alle teste d’uovo di Soros riunitesi in quell’International Crisis Group (da adesso ICG) che porta enormi responsabilità nella dissoluzione della Jugoslavia, nella campagna serbofobica che l’ha accompagnata finanche alla privatizzazione e annessione delle miniere di Trepca in Kosovo ed oggi nella crisi dell’Ucraina.
Alla guida dell’ICG c’è il sig. Gareth Evans, ex ministro degli esteri laburista australiano e candidato al premio Nobel per la Pace nel 1994 (che invece fu poi assegnato a Yasser Arafat ed a Shimon Peres) (6).
Secondo
Evans, i conflitti e le catastrofi umanitarie vanno prevenute. Come? “Le strategie di prevenzione strutturale
implicano la consueta miscela di tecniche – strategie di sostegno diplomatico,
economico, politico, mezzi militari – associate alla minaccia di un intervento
militare e perfino al preventivo dispiegamento di truppe come è successo in
Macedonia nel 1998”. Quello indicato da Evans è un contesto molto
significativo perché è esattamente lo stesso in cui il generale inglese Jackson
confessava in una famosa intervista, che i militari inglesi e americani erano
in Macedonia per restarvi a protezione dei corridoi strategici e degli
oleodotti che sarebbero transitati in quel territorio(7)
L’idea di
peace-keeping di Evans e dell’ICG è anch’essa emblematica: “Esistono diversi livelli di utilizzo della forza militare. Uno di
questi è la minaccia in contesto di prevenzione, finalizzata a mettere i cattivi
sull’avviso che in caso di superamento del limite si troveranno a fronteggiare
una reazione militare. Un altro, corollario della democrazia preventiva,
consiste nella spiegamento preventivo di forze sul campo, finalizzato a dare un
segnale immediato di impegno simbolico. Il terzo è costituito dal tradizionale
sistema previsto dalla Carta delle
Nazioni Unite consistente nel sostegno della resistenza contro le aggressioni
esterne. Il quarto livello è quello propriamente peace-keeping cioè di tutela
di quelle situazioni in cui si è stabilita una qualche forma di pace e la
presenza militare ha scopi di supervisione, monitoraggio e verifica della tregua” (8). Dunque il
peace-keeping non è la prima ma l’ultima opzione ad esser presa in
considerazione dei teorici dell’ingerenza umanitaria.
La conclusione che possiamo trarne è che il peace-keeping di terza generazione e nelle condizioni del XXI° Secolo è ormai una dottrina politico-militare di ingerenza di un altro paese da parte delle principali potenze in seno all’ONU, alla NATO o all’Unione Europea.
Quest’ultima, con il Trattato Costituzionale Europeo e con il documento elaborato da Javier Solana, ha avviato un processo assai rapido per dotarsi dell’hard power militare, tecnologico e politico che le consenta – come sostiene Solana – di affrontare le nuove minacce. “In un’era di globalizzazione, le minacce lontane possono rappresentare una preoccupazione così come quelle che sono più a portata di mano” afferma Javier Solana “Il concetto di autodifesa fino alla guerra fredda si basava sulla minaccia di invasione, ma con le nuove minacce la prima linea di difesa si trova spesso all’estero. Le nuove minacce sono dinamiche e se abbandonate, diventeranno sempre più pericolose. Ciò comporta che dobbiamo essere pronti ad agire prima che si verifichi la crisi” (9).
I
signori della guerra a Washington o Bruxelles parlano la stessa lingua
E’ quasi
incredibile la connessione tra i concetti strategici espressi da persone
dell’establishment diverse tra loro. Bush e i neocons teorizzano la guerra
preventiva; un laburista come Gareth Evans teorizza l’intervento militare
preventivo sul terreno ; il rappresentante della politica estera e di sicurezza
europea Javier Solana afferma che occorre essere pronti ad agire preventivamente
anche al di fuori dei confini dell’Unione Europea. Ma non ci avevano detto che
il soft power dell’Europa e il modello del peace-keeping erano diversi e
alternativi all’hard power e alla guerra preventiva di Bush dei cattivi
americani? Ha le idee chiare su questo il prof. Arturo Colombo che,
intervistato dal Manifesto sulla espansione a sud della missione militare in
Afganistan ha sottolineato come “si
tratterà di una missione estremamente pericolosa, anche se continuerà a operare
nella finzione di un'operazione di peace keeping. Questo secondo elemento, se
rappresenta un vantaggio dal momento che fornisce all'ISAF legittimazione
ufficiale, d'altro lato - quando inizieranno ad arrivare le prime vittime -
svelerà l'ipocrisia di fondo di un'operazione che è anche di guerra mascherata
da missione di pace” (10).
Il ricorso agli anglismi nel linguaggio politico rischia di confondere non solo le parole e le categorie ma rischia di fare confusione nelle idee e nelle posizioni politiche della sinistra italiana e dei movimenti per la pace. Quel “NO alla guerra senza se e senza ma” ci risulta ancora la bussola giusta per orientare l’azione politica dei movimenti e della sinistra nei prossimi mesi.
* direttore di Contropiano per la rete dei comunisti
Note:
(1) Guy Verhofstadt “Plaidoyer pour un nouvelle atlantisme”, l’Aja, 19 Febbraio 2002
(2) Romano Prodi : « L’Europa, il sogno, le scelte », novembre 2003
(3) Report di www.equilibri.net. Aprile 2004
(4) Luisa Lerda, Vincenzo Di Ferdinando: “Le operazioni di peace-keeping” nel sistema comunitario”, in “Diritto e Diritti”, rivista giuridica ondine
(5) Giuseppe Romeo: “Sicurezza industriale” in Pagine Difesa, 2004
(6) L’ICG è stato costituito nel 1995 con le donazioni di George Soros. Tra i fondatori ci sono l’ex ambasciatore USA in Jugoslavia Morton Abramovitz, il giornalista de L’Economist Marc Malloch Brown,lo scrittore Mario Vargas Llosa, l’ex primo ministro francese Michel Rocard. Nell’attuale consiglio ci sono Emma Bonino, Jaques Delors, il generale americano Wesley Clark, Shimon Peres e l’ex ministro degli esteri polacco Geremek.
(7) Intervista del gen. Jackson ad Alberto Negri su Sole 24 Ore del 24 aprile 1999
(8) Intervista di Moises Naim a Gareth Evans, in “Global” aprile 2001.
(9) Tobias Pfuger in Informationsstelle Militarisierung, novembre 2003/Indymedia
(10)Intervista sul Manifesto del 16 maggio 2006