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- osservatorio - economia - 23-10-07 - n. 199
Dietro l’impennata del prezzo del petrolio
di Domenico Moro
Il petrolio è forse la merce più importante e l’andamento del suo prezzo è insieme indicatore e causa di importanti modificazioni nell’economia mondiale. Per questo ha suscitato sensazione il recente aumento del prezzo del barile a 88 dollari e l’annuncio, da parte di vari esperti, che il prezzo salirà entro l’anno fino a 90-95 dollari, per raggiungere nel 2008 la soglia “psicologica” di 100 dollari a barile.
In realtà, l’aumento del greggio è costante dal 2001 ad oggi, e, in meno di due mesi, dopo la crisi dei subprime, è aumentato di quasi 20 dollari. Le ragioni sono molteplici, alcune evidenti, altre, forse quelle per certi aspetti più significative, meno. In primo luogo, l’aumento di lungo periodo del prezzo del greggio è dato dallo sviluppo vertiginoso della produzione industriale e quindi della domanda energetica delle economie del Bric, Brasile, Russia e soprattutto India e Cina, il cui fabbisogno è destinato a crescere dell’8-10% annuo, e che importano la maggior parte del petrolio consumato. Ad esempio, l’India ha importato 111 dei 145 milioni di tonnellate del petrolio utilizzato l’anno scorso. E’ notizia di oggi che, proprio per diminuire la dipendenza dall’estero ed aumentare la quota di produzione domestica, l’India ha in programma di assegnare le più vaste prospezioni di nuovi giacimenti della sua storia.
L’impennata recente del prezzo del greggio viene, invece, attribuita ai timori di invasione turca del Kurdistan, eventualità che sicuramente ha il suo peso, ma che non spiega tutto, un po’ perché la produzione kurda è ancora scarsa e poi perché le grandi compagnie petrolifere hanno contratti di fornitura pluriennali ed ampie riserve, che le mettono al riparo da improvvise oscillazioni del prezzo e delle forniture. Neanche la scarsità della materia prima e la crescita della domanda mondiale spiegano interamente l’entità della crescita delle quotazioni del greggio, visto che oggi ci sono 117 miliardi di barili di riserve provate e sfruttabili in più rispetto al 2002. Del resto, l’aumento del prezzo rende economicamente conveniente lo sfruttamento dei giacimenti posti in acque profonde o in zone inospitali.
Le ragioni principali dell’impennata del prezzo del petrolio sono da ricercarsi nei meccanismi di funzionamento dei mercati finanziari mondiali, legati alla speculazione valutaria e di borsa. In particolare, sull’aumento dei prezzi del greggio ha inciso la recente crisi dei subprime, che ha portato al restringimento del credito e del dollaro, che si è avvicinato negli ultimi giorni al suo minimo storico. Infatti, visto che il petrolio viene quotato internazionalmente in dollari, il crollo del dollaro ha ridotto il prezzo reale di questa materia prima. Questo ha provocato due conseguenze: la prima è stata l’aumento della domanda da parte dei paesi la cui valuta si apprezza sul dollaro e l’altra è la tendenza dei paesi produttori di petrolio a compensare in qualche modo le perdite in termini reali.
Il risultato combinato di questi due fattori ha portato al forte rialzo del prezzo del barile. Ma non è tutto. Infatti, la crisi dei subprime ha determinato ingenti perdite negli hedge fund e nei fondi pensione e la drastica contrazione degli utili di banche ed imprese. Di conseguenza, gli investitori internazionali si sono spostati dagli investimenti tradizionali per rivolgersi verso i cosiddetti beni rifugio, al riparo dalle tensioni dei mercati finanziari. A beneficiare di questo spostamento sono stati i titoli futures legati alle commodities, tra le quali è appunto il petrolio. Del resto, a crescere sono state un po’ tutte le commodities,soprattutto i metalli, a cominciare dall’oro, il più classico dei beni rifugio, che ha recentemente raggiunto i suoi massimi degli ultimi 27 anni. Il prezzo dell’oro aumenta soprattutto quando cala il dollaro. Infatti, anche il prezzo dell’oro è fissato in dollari e quando il biglietto verde va giù cresce l’appetibilità del metallo giallo.
L’aumento del prezzo del petrolio è, quindi, legato alla crisi dell’economia e dell’area valutaria statunitensi ed è sostenuto sia dalla crescita della domanda reale che da quella speculativa. Lo scenario futuro non cambierà, visto che la crisi dei subprime non è risolta ed anzi se ne prevede l’impatto negativo nel 2008 sull’economia mondiale e soprattutto americana. Di conseguenza il dollaro calerà ancora ed il petrolio salirà. Questo porterà all’aumento della liquidità nelle mani dei paesi produttori, rafforzandone la tendenza ad investire all’estero, mediante lo strumento dei “fondi sovrani”, gestiti dai loro governi. Tale situazione peserà soprattutto sugli Usa, dal momento che, data la debolezza del dollaro, le loro imprese diventeranno appetibili per questi fondi, mentre il loro doppio deficit, del commercio estero e federale, troverà sempre più difficoltà ad essere finanziato dall’estero, visto che, come abbiamo detto, il surplus del risparmio mondiale tende a spostarsi dalle riserve in dollari e dai titoli del Tesoro Usa verso l’acquisto di assets.
Da questo deriverà l’inasprirsi della lotta su scala mondiale per le materie prime. Infatti, gli Usa non possono perdere il controllo sulle materie prime se non vogliono rischiare il collasso definitivo del dollaro ed insieme ad esso del loro sistema finanziario. Ciò, infine, ha l’effetto di spingere gli Usa a ricercare in un’altra azione di forza, questa volta contro l’Iran, la soluzione alle loro difficoltà. Del resto, l’Iran, oltre ad essere un importante produttore, è la chiave di volta dell’area che va dal Medio Oriente, dove è localizzato il 61% delle riserve di petrolio, al Mar Caspio, area che rappresenta la maggiore speranza per le future estrazioni di greggio. Infatti, l’Iran controlla lo stretto di Hormuz, dove passa l’autostrada del mare che dal Golfo Persico arriva fino in Estremo Oriente e le zone dove dovrebbero passare gli oleodotti che porteranno gas e petrolio dall’Asia Centrale all’Europa.
(22 ottobre 2007)
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