Uno spettro si aggira per l'Europa - lo spettro del comunismo. Tutte le potenze della vecchia Europa, il papa e lo zar, Metternich e Guizot, radicali francesi e poliziotti tedeschi, si sono alleati in una santa caccia spietata contro questo spettro.
Il dibattito sulla disuguaglianza si è recentemente infervorato, anche a causa dell'uscita del libro di Thomas Piketty[1], variamente accolto e commentato da economisti e sociologi marxisti e non. Diciamo subito che questo libro, come l'autore dichiara apertamente, non solo non ha nulla a che fare con l'opera di Marx, ma costituisce una critica al capitalismo diametralmente opposta a quella del grande maestro di Treviri, da cui anzi l'economista francese si "smarca" fin dall'introduzione[2].
Vi sono cose interessanti in questo testo.
Per esempio è interessante dal punto di vista metodologico l'uso non tanto di una misura "media" della disuguaglianza, come il diffusissimo indice di Gini[3], quanto piuttosto l'osservazione dell'andamento della proprietà detenuta dall'1% o addirittura dell'1‰, che evidenzia con maggiore precisione il peso degli strati superiori e la consistenza degli strati intermedi.
Inoltre è vera l'osservazione che, mentre le società del passato erano più dicotomizzate[4], quelle moderne, attraverso la creazione di una cospicua classe media, hanno creato un cuscinetto di protezione del potere capitalistico. Tale classe è evidente che oggi si sta sgretolando, per ragioni legate alla crisi e al costante afflusso di profitti dal basso verso l'alto, cosa che si manifesta col ritorno a profili di disuguaglianza nei patrimoni simili a quelli di un secolo fa. La novità che si scopre è che tali disuguaglianze ora sono presenti anche nelle fasce più elevate dei redditi e non solo dei patrimoni come era nei secoli passati[5].
Riassumiamo i tre punti salienti dell'opera di Piketty.
La diagnosi. La causa di tutti i mali viene additata nel fatto che ci sia un rendimento del capitale r superiore al tasso di crescita g; questo porta – sottratti i consumi dei capitalisti – a una accumulazione di capitali senza limiti. Questa è una costante di tutte le civiltà tecnologiche, alla quale si è fatto fronte con le crisi distruttive e le guerre. La crescita (demografica e/o economica) è limitata da fattori tecnologici e fisici, e anzi è strozzata proprio dall'accumulazione; d'altro lato non è un buon mezzo quello di aspettare che si arrivi a un rendimento del capitale tanto basso quanto la bassa crescita, perché ciò si avrebbe solo quando il capitale sarebbe così spaventosamente grande da rendere pochissimo.
Soluzioni inefficaci. L'inflazione non è mai stata un buono strumento di egualitarismo, anzi tende a redistribuire i patrimoni a favore dei grandi ed espropriando i piccoli. (Stessa cosa, aggiungiamo noi, in un mondo a tassi di rendimento garantiti (titoli di Stato) molto bassi o nulli[6].)
La Soluzione: l'imposta progressiva del reddito. Si ricorda che negli USA negli anni che vanno dai Quaranta ai Settanta esisteva una tassazione applicata allo scaglione massimo di oltre il 90% e una imposta di successione di oltre il 70%, tassazione che passò nel 1980 al 70% e al 28% nel 1988 e imposta che ora è al 35%. «… se si vuole riprendere davvero il controllo del capitalismo, non esiste altra scelta se non quella di scommettere fino in fondo sulla democrazia, soprattutto su scala europea»[7].
A parte il fatto che è deprimente che si liquidi tutta l'esperienza sovietica, l'unico Stato che si occupò davvero di ridurre la disuguaglianza tra i membri della società, con due parole di pura propaganda[8], vediamo che, al di là della pur meritoria messe di dati storici e contemporanei che viene presentata, la "soluzione" di Piketty è tutta interna, e dichiaratamente, al filone democratico-borghese.
Il "difetto" del sistema starebbe tutto nella "eccessiva" concentrazione, che comunque, entro certi limiti, è opportuna, in quanto il "mercato" non è in grado di "autoregolarsi" (almeno questa "pia illusione" gli economisti borghesi più accorti, dopo i disastri degli ultimi anni del capitalismo, non la avanzano più). La categoria di sfruttamento capitalistico non è neanche presa in considerazione, così come non la conoscevano i fondatori della economia politica "volgare", già fatti a pezzi da Marx. Non mettendo in discussione i fondamenti del capitalismo, ossia il plusvalore, che cosa resta al nostro economista come "soluzione"? La più vecchia delle cure: ossia prendere il toro non per le corna, ossia dal lato della produzione, affrontando le vere cause della crisi capitalistica, cosa che metterebbe in discussione prima di tutto i rapporti di produzione capitalistici; ma per la coda, ossia dal lato della distribuzione, scambiando l'effetto (la disuguaglianza) per la causa dei mali e cercando la soluzione alla febbre anziché alla malattia.
Naturalmente in ciò si trascurano alcuni elementi "secondari". Vediamo:
1) chi potrebbe mai imporre un livello di tassazione sui redditi e una patrimoniale così forte? Quale classe sociale si imporrebbe "sacrifici" (si fa per dire) da sola, se non in una situazione di estremo e immediato pericolo, quale quella che si presentò al capitalismo negli anni a cavallo della Seconda Guerra Mondiale? Marx ci ha insegnato che il capitalismo è innanzitutto "anarchico" nel senso che il risultato dell'azione collettiva è la sommatoria di azioni individuali volte al massimo profitto. Ma Marx e Lenin ci hanno anche insegnato che i governi borghesi sono il comitato d'affari della borghesia e quindi sono camere di compensazione dei loro interessi. Perché un'intera collettività di capitalisti a livello internazionale (infatti, a causa dell'interconnessione dei mercati di oggi, i livelli di tassazione devono essere più o meno uguali in tutti i paesi, come riconosce esplicitamente lo stesso Piketty) dovrebbe fare una cosa così? L'imperialismo non è in guerra al momento né calda né fredda, non deve affrontare velocemente tassi di ricapitalizzazione molto forti dovuti alle distruzioni belliche, né deve fronteggiare una minaccia costituita da un potente campo socialista che costituisce una attrazione per le classi subalterne. Anzi, oggi il problema è fare fruttare il più possibile una massa enorme, e soprattutto crescente, di capitali alla caccia famelica di una remunerazione che non si riesce più a trovare nella produzione ai tassi richiesti; e quindi si passa al saccheggio dei beni pubblici, alla riduzione dei diritti dei lavoratori e dei cittadini e alla tassazione sempre più forte imposta alle classi subalterne, non solo al proletariato, ma anche ai piccoli e medi imprenditori, che ancora riescono con mezzi sempre più disumani a estorcere plusvalore. La tendenza internazionale è opposta a quella auspicata da Piketty, perché ciò che dà le linee strategiche alla politica, in ultima analisi, è l'economia, e la musica che suonano oggi le oligarchie internazionali è ben altra. Davvero pensiamo che le "idee giuste" che non camminano sulle gambe degli interessi delle classi sociali possano cambiare il corso della storia?
2) Ma ammesso, per eccesso di idealismo e per puro spirito speculativo, che si arrivasse ai livelli di tassazione auspicati da Piketty, fino a ridurre la capacità di accumulazione capitalistica al livello del tasso di sviluppo demografico-economico della società, ciò risolverebbe il problema della crisi capitalistica? A parte le difficoltà tecniche di tassare il capitale (sia i redditi, ma ancor di più i grandi patrimoni accumulati), ciò spingerebbe proprio i capitali maggiori ad aumentare la necessità di sovra-rendimento proprio per limitare l'erosione fiscale. I capitalisti meno aggressivi sarebbero spazzati via, perché al loro capitale non si riuscirebbe ad assicurare una remunerazione che già oggi viene ritenuta inadeguata. Invece resterebbero a galla gli squali più famelici, che farebbero fuori prima o poi quelli meno dinamici. Insomma una giungla ancora più competitiva di quella di oggi. Su chi ricadrebbero le condizioni di una così esasperata competizione capitalistica e inevitabilmente imperialistica? Sui lavoratori e su tutti i popoli che come al solito pagano sempre il conto, ma anche, e in misura ancora più accelerata di quanto non accada già oggi, le classi intermedie. D'altro lato, i lauti proventi di questa tassazione dove andrebbero? Verrebbero distribuiti a pioggia sulle classi subalterne, si aumenterebbe il welfare, si allargherebbero i diritti dei lavoratori? Ciò non è dato sapere come questi problemi rientrano nelle strategie dell'economista francese. Vediamo invece nella realtà del capitalismo monopolista, quello vero, come vengono usati i proventi della tassazione. Questi soldi vengono drenati per redistribuire sì capitali, ma tra i monopoli, le grandi multinazionali che si fanno le leggi a loro convenienza. Questi soldi vengono drenati per aumentare le spese di guerra, in vista dei prossimi conflitti inter-imperialistici. Quindi probabilmente, se mai il capitalismo monopolistico internazionale dovesse prendere in considerazione la ricetta Piketty, sarebbe solo per opprimere anche i medio-grandi capitali regionali e prepararsi a una guerra internazionale.
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Recentemente anche l'OCSE nel suo rapporto ha affrontato il tema delle disuguaglianze[9]. Ma di cosa sono preoccupati i governanti del mondo? Come mai si preoccupano di questo fenomeno? È credibile che lo facciano per filantropia, per amore dei poveri?
Nel rapporto si legge[10] «La crescita della disuguaglianza dei redditi pertanto ha un impatto significativo sulla crescita economica, in gran parte poiché essa riduce la capacità dei segmenti più poveri – il 40% più povero della popolazione, per essere precisi – di investire nelle loro competenze e educazione». In breve: «l'incremento della disuguaglianza è un male per la crescita di lungo periodo»[11]. Gli osservatori dell'OCSE scoprono che «Rendere più ricchi i ricchi, mentre i redditi del 40% più povero restano bassi, potrebbe essere sensato da un punto di vista economico, dopo tutto qualcuno sta meglio e nessuno sta peggio. Tuttavia le politiche che portano a questo risultato possono non essere economicamente sensate se una maggiore disuguaglianza riduce la capacità del 40% inferiore di migliorare la propria posizione e quella dei propri figli in futuro»[12].
Quindi ce lo stanno dicendo senza girarci intorno: il problema della disuguaglianza è un problema anche per i ricchi che potrebbero trovarsi in un prossimo futuro con una base così impoverita da non essere più utile a estrarre da questa sufficiente profitto. Anche la proletarizzazione dei ceti medi, abbiamo già commentato noi, sarà un problema per le classi dominanti, perché verrà a mancare la base sociale sulla quale si è costruito il consenso che ha consentito alla borghesia monopolistica di esercitare la propria egemonia su tutta la società; i segni di tale sfaldamento culturale e sociale già si vedono soprattutto nelle società più provate, come quelle del sud Europa.
Il sistema capitalistico, come abbiamo ricordato, è fondamentalmente anarchico e il mercato tende inevitabilmente a far deragliare il treno. Gli studiosi del potere borghese devono escogitare le ricette da offrire perché la politica che conta (non il teatrino che ci fanno vedere in TV) ci metta riparo.
Ma non illudiamoci che ciò possa significare un'inversione di tendenza nelle politiche antipopolari.
Il rapporto continua, infatti, «Ma non perché la disuguaglianza è un male per la crescita, non significa che tutte le politiche che riducono la disuguaglianza siano un bene per la crescita»[13]. Le osservazioni sui disastri presenti e venturi sono a loro chiari, non si dica che sono ciechi difronte alla realtà[14], e ne hanno paura[15].
Si fa notare che, tutte quelle cose che nel passato il capitalismo aveva assicurato per i propri esclusivi interessi alla classe operaia, oggi si stanno pericolosamente assottigliando. In particolare:
una crescente disuguaglianza ha influenza sulla crescita economica perché impedisce, soprattutto alle classi inferiori di assicurare una adeguata istruzione ai propri figli; infatti nel passato il capitalismo ha cresciuto una forza lavoro istruita, che "rende" di più di una semianalfabeta
aumenta il numero di lavori "non standard", ossia quei lavori che, anche se assicurano al singolo capitalista uno sfruttamento maggiore, inaridiscono la fonte dei produzione di plusvalore; al capitalismo nel suo complesso conviene avere dei limiti legali allo sfruttamento in modo da regolarne la corsa selvaggia ed evitarne il rapido deterioramento
riprendendo l'allarme suonato da Piketty, si fa notare che l'eccesso di concentrazione della ricchezza, ormai molto superiore a quella del reddito, come era nei secoli passati, può portare al collasso della società anche per la realizzazione di una crisi di debito
infatti il rapporto si concentra non tanto sulla povertà estrema, quanto sul deterioramento delle condizioni di vita dei lavoratori e dello strato medio-basso.
Le precedenti osservazioni, che solo un cieco potrebbe ormai negare, sono basate sul confronto tra vari paesi, ma scambiano però sistematicamente l'effetto per la causa[16]. Se è vero che in tutti i paesi più degradati vi è anche una concentrazione della ricchezza maggiore, non si arriva a capire che il degrado è l'effetto della concentrazione monopolistica, del posizionamento storico ed attuale nella piramide imperialista dei paesi. Per esempio, non è migliorando l'istruzione che si potranno diminuire le disuguaglianze, ma solo abbattendo il sistema capitalistico si potranno eliminare le cause delle disuguaglianza e di tutti i degradi che esso causa, tra cui la bassa o scarsa istruzione.
In sintesi, quindi, il capitalismo internazionale è preoccupato di avere stravinto momentaneamente la lotta di classe, del fatto che non c'è più una forte opposizione sindacale che ne limiti lo strapotere e che la libera concorrenza selvaggia possa tendere a inaridire la fonte del plusvalore. Per quanto l'esercito salariato di riserva mondiale sembri inesauribile, una classe operaia adeguata alle tecnologie odierne non si improvvisa. Prova di questo si ha nel fenomeno del re-shoring, ossia del ritorno ai paesi d'origine (USA e Germania, in primis) di produzioni che erano state trasferite in paesi emergenti, favorite dai bassi salari: l'abbattimento dei diritti dei lavoratori europei e americani ora rende di nuovo conveniente ritornare a produrre con classe operaia istruita e vicino ai mercati.
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Anche altri centri di ricerca stanno sempre più prestando attenzione alla disuguaglianza e soprattutto al suo veloce incremento.
Nel Primo Rapporto della Fondazione David Hume[17] si rivela che negli USA dal 2009 al 2012, pur mantenendosi stabile l'indice di Gini, il reddito dei super-ricchi (l'1% della popolazione) è passato dal 16,68% al 17,54%, mentre il numero dei poveri ha superato i 40 milioni, un cifra mai registrata prima di allora. Nel rapporto si rileva come la forbice sociale si allarga, mentre il carico fiscale per salvare le grandi banche grava sempre più sulle classi medio-basse.
Nello stesso rapporto, nella parte dedicata all'Italia, si rileva che crescono non solo le distanze tra le fasce di reddito (le famiglie che si indebitano o consumano i risparmi sono passate da circa il 10% di fine anni 2000 rapidamente al 20% e oggi intorno al 30%), ma anche quelle regionali, con un marcato incremento della disuguaglianza, soprattutto nel sud, dove si concentra circa la metà dei nove milioni di "esclusi" (lavoratori in nero, disoccupati o scoraggiati).
A livello globale, se un indice sintetico di disuguaglianza tra i paesi fa segnare una riduzione, a causa dei forti incrementi di reddito di nazioni molto popolose come Cina e India, invece sono proprio questi che forniscono i più alti tassi di incremento di disuguaglianza al loro interno. E queste distanze sono destinate ad aumentare.
Un altro recente rapporto[18] prevede dal 2014 al 2019 gli incrementi più forti nella ricchezza finanziaria per Cina (+63%), India (+ 165%) e Russia (+74%). Quindi non è vero che la disuguaglianza sta diminuendo; possiamo dire invece che è un effetto statistico, ossia: aumentando le disuguaglianze interne a paesi molto popolosi, si va a ridurre la differenza con gli altri paesi capitalistici. Non è una gran bella notizia sapere che la quota dei milionari cinesi e indiani sta aumentando vertiginosamente.
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Anche la nuova Enciclica papale[19] sui temi dell'ambiente, in particolare nel Capitolo v. Inequità Planetaria, affronta il tema della disuguaglianza[20]. Ma anche qui l'accento posto su una categoria distributiva (i poveri) e non sociale (non pretenderemmo che si adoperasse la categoria dei proletari, ma almeno quella degli sfruttati, sì) fa perdere di vista la natura delle contraddizioni e quindi le cause e quindi la ricerca delle soluzioni[21]. Si mette sotto accusa il modello redistributivo[22] preoccupati delle conseguenze della sua manifesta insostenibilità. Inoltre, se si sottolinea che ci sono «responsabilità diversificate» tra i paesi sviluppati e non, la ricetta invocata di "esportare" in questi ultimi uno «sviluppo sostenibile» non fa i conti con che cosa sono state per decenni le azioni dei monopoli internazionali «apportando risorse ai Paesi più bisognosi per promuovere politiche e programmi di sviluppo sostenibile.»[23]
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Le conclusioni politiche che possiamo trarre da queste osservazioni emergono da tutto quello che abbiamo esposto prima:
La disuguaglianza non è la causa della crisi del capitalismo monopolistico, ma ne è uno degli effetti più appariscenti. Le soluzioni non possono trovarsi all'interno di questo sistema, ma vanno ricercate nel ribaltamento dei rapporti di produzione, realizzando una società, la società socialista-comunista, che abolisca la proprietà privata dei mezzi di produzione, origine di tutte le disuguaglianze: di reddito, ma anche sociali, di genere, di razza. Questo storicamente è già stato realizzato unicamente nei sistemi socialisti. Le ricette di tutte le correnti di pensiero non marxiste, anti-marxiste, peggio pseudo-marxiste, non fanno altro che offrire false soluzioni che distolgono il proletariato dalla sua missione storica.
Il capitalismo monopolistico internazionale è seriamente preoccupato degli effetti che la crescente disuguaglianza, di cui esso è inevitabile causa, possa avere sulla stabilità del sistema stesso. Tuttavia né le regole del mercato monopolistico, ma neanche gli aggiustamenti che la politica dei suoi governi può fare, danno una soluzione al problema. Quindi è presumibile che si assisterà a una accentuazione di questa tendenza con gli ovvi risultati in termini di crisi economica e conflitti sociali.
Compito dei comunisti è smascherare tutti gli inganni che la borghesia mette in campo, indicare chiaramente che questa è ancora e sempre più l'epoca delle rivoluzioni proletarie, unire la classe operaia e aggregare intorno a essa un fronte delle forze popolari che si oppongono nettamente ai monopoli e all'imperialismo.
Note:
[1] Thomas Piketty Il Capitale nel XXI secolo, Bompiani (d'ora in poi citato come TP)
[2] Le frasi che segnano la massima distanza sono:
«La contraddizione dinamica segnalata da Marx corrisponde dunque a una vera difficoltà, la cui sola soluzione logica è la crescita strutturale, l'unica a consentire di riequilibrare – in qualche misura – il processo di accumulazione del capitale. È la crescita permanente della produttività e della popolazione a favorire l'equilibrio dell'addizione permanente di ciascuna nuova unità di capitale, come dice la legge b = s / g [Il rapporto capitale/reddito b, uguale al tasso di risparmio s diviso per il tasso di crescita g, Nota nostra]. In caso contrario i capitalisti si scaveranno davvero la fossa da soli: o dilaniandosi tra di loro, in un disperato tentativo di lottare contro la caduta tendenziale del tasso di rendimento (per esempio facendosi la guerra per ottenere i migliori investimenti coloniali…); o riservando al lavoro un valore sempre più basso nella composizione del reddito nazionale, con il rischio di scatenare una rivoluzione proletaria e un esproprio generale.» (TP, pag. 350-1)
«Riassumendo. La crescita moderna, fondata sulla crescita della produttività e sulla diffusione delle conoscenze, ha consentito di evitare l'apocalisse descritta da Marx e di equilibrare il processo di accumulazione del capitale. Ma non ha modificato le strutture profonde del capitale stesso – o quantomeno non ne ha realmente ridotto l'importanza macroeconomica in rapporto al lavoro.» (TP pag.359)
«Tuttavia … sarebbe illusorio pensare che esistano, nella struttura della crescita moderna o nelle leggi dell'economia di mercato, forze di convergenza capaci di portare naturalmente a una riduzione delle diseguaglianze patrimoniali o a una stabilizzazione in qualche misura armonica» (TP pag. 580)
[3] Un coefficiente che misura la concentrazione, per esempio, della ricchezza, che però è più sensibile al reddito delle classi medie che a quello degli estremi.
[4] «… nelle società stagnanti i patrimoni ereditati dal passato assumono per loro natura un'importanza considerevole.» (TP pag. 357)
[5] I primi 25 grandi dirigenti dei fondi di investimento hanno guadagnato in media a testa 465 milioni di dollari solo quest'anno per un totale di 11,62 miliardi; quindi facendo "soffrire" per un anno 25 uomini (non dando cioè loro questi soldi) si potrebbero risanare i problemi della Grecia, di tutta la Grecia. Il più ricco, un solo singolo uomo, ha guadagnato 1,2 miliardi di dollari in un anno, pari a quello che viene tagliato alla scuola pubblica italiana. Ma la bravura non c'entra, non c'entra il merito. Tra questi 25 supermanager ci sono quelli che hanno fatto guadagnare "solo" tra il 3 e il 7% anziché il 13,68% dell'incremento medio del mercato azionario (Benchmark), ossia anche la famosa scimmietta ammaestrata avrebbe fatto meglio di loro.
[6]Quantitative Easing, il mondo a testa in giù o i profitti dei capitalisti sempre più su? http://www.criticaproletaria.it/?p=284
Il titolo [Perché una minore disuguaglianza è a beneficio di tutti] è già esplicativo del particolare atteggiamento dei laboratori borghesi hanno sul tema.
[10] «Rising income inequality thus has a significant impact on economic growth, in large part because it reduces the capacity of the poorer segments – the poorest 40% of the population, to be precise – to invest in their skills and education.»
[11] «rising inequality is bad for long-term growth»
[12] «Making the rich richer, while incomes of the bottom 40% remain flat, could be seen as sensible from an economic perspective – after all, some are better off, and none are worse off. However, policies which lead to this outcome may not be even economically sensible if wider inequality reduces the capacity of the bottom 40% to improve their position and that of their children in the future.»
[13] «But just because inequality is bad for growth does not mean that all policies that reduce inequality are good for growth»
[14] «Inequality increased in good times, and it continued increasing in bad times»
[15] «Higher inequality drags down economic growth».
[16] «Rising income inequality thus has a significant impact on economic growth, in large part because it reduces the capacity of the poorer segments – the poorest 40% of the population, to be precise – to invest in their skills and education.» «Why increased non-standard work can lead to more inequality». « In sum, people are more likely to be poor or in the struggling bottom 40% of society if they have non-standard work, especially if they live in a household with other nonstandard or non-employed workers» «In summary, wealth is much more concentrated than income, and there are reasons to believe that wealth inequalities are deepening over time. The capital income generated by wealth concentration is likely to deepen income inequality still further, with implications for deteriorating economic growth. At the same time, a high level of indebtedness and/or low asset holdings further affects the ability of the lower middle class to undertake investments in human capital or others, and reduces risk taking.» «targeting poverty alone is not the solution. The analysis in this report shows that it is not only the situation of the very poorest section of the population that inhibits growth but that of a much broader group of working and lower middle class people. Policy thus needs to be directed towards the bottom 40%. As the analysis in this report shows, some – though not all – policies to reduce income inequalities will not only increase fairness but will also sustain growth.»
[20] «Ma oggi non possiamo fare a meno di riconoscere che un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale, che deve integrare la giustizia nelle discussioni sull'ambiente, per ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri.» (ibidem, punto 49)
[22] «Si pretende così di legittimare l'attuale modello distributivo, in cui una minoranza si crede in diritto di consumare in una proporzione che sarebbe impossibile generalizzare … è certo che bisogna prestare attenzione allo squilibrio nella distribuzione della popolazione sul territorio, sia a livello nazionale sia a livello globale, perché l'aumento del consumo porterebbe a situazioni regionali complesse, per le combinazioni di problemi legati all'inquinamento ambientale, ai trasporti, allo smaltimento dei rifiuti, alla perdita di risorse, alla qualità della vita.» (ibidem, punto 50)
[23] «E' necessario che i Paesi sviluppati contribuiscano a risolvere questo debito limitando in modo importante il consumo di energia non rinnovabile, e apportando risorse ai Paesi più bisognosi per promuovere politiche e programmi di sviluppo sostenibile.» (ibidem, punto 52, sottolineatura nostra)
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