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Tsipras, l'euro e l'anticapitalismo

Gulio Palermo

11/02/2014

Se oggi conosciamo tutti Alexis Tsipras (il giovane senza cravatta che piace tanto all'intellighenzia-bene un po' ribelle) è perché ha guidato la sinistra greca verso la sua ultima sconfitta elettorale.

Non è il momento di chiedersi perché il popolo greco non abbia voluto seguirlo. Oggi la questione riguarda invece i motivi per cui il proletariato europeo dovrebbe affidare a quest'uomo il compito di rappresentarlo in un'istituzione che non conta niente.
Io di motivo non ne vedo proprio nessuno.

1. Il ruolo delle elezioni e del Parlamento europeo

Che le elezioni europee siano un momento culturale che non apre l'accesso ad alcuna stanza dei bottoni è un dato. In Europa, le leggi non le fa il Parlamento europeo, bensì la Commissione europea (su istanza dei lobbisti, anche se nella maggior parte dei paesi dell'Unione l'attività di lobby è illegale). Le candidature alla Presidenza della Commissione, poi, le avanza il Consiglio europeo, non il Parlamento. Il Parlamento vota le proposte del Consiglio o quelle della Commissione ma non può proporre un bel niente. E il suo parere non è nemmeno decisivo ai fini dell'approvazione delle leggi. Questa è l'Unione europea.

Perciò, se un giorno il vostro Tsipras otterrà la poltrona di Presidente della Commissione europea, sarà grazie ai Consigli dei potenti, non grazie al voto del popolo. E se invece resterà un parlamentare tra tanti, potrà alzare la mano per approvare o disapprovare ma, come gli altri, non conterà niente. È per questo che il nuovo leader della sinistra radicale europea continua a dispensare promesse al grande capitale. Perché quella è la condizione per essere presi in considerazione da chi il potere decisionale ce l'ha veramente.

Ma se almeno la candidatura di Tsipras stimolasse la crescita di una cultura politica antagonistica sarebbe già qualcosa.
Peccato però che la sua esperienza in Grecia non sia proprio incoraggiante: prima delle elezioni, Tsipras ha fatto più sforzi per tranquillizzare i mercati che per trovare un accordo col partito comunista. L'euro non si tocca - ha detto - e i debiti si pagano. Ma, sia chiaro - ha subito aggiunto, sbattendo il pugno sul tavolo - si dilazionano nel tempo! Un vero rivoluzionario insomma.

Oggi ci riprova con tutti noi. E i nostri intellettuali, sempre assenti nei luoghi di conflitto in cui i lavoratori lottano per la decenza della vita, scattano a spianargli la strada, ritagliandosi il loro angolino di visibilità politica. Con le stesse promesse al capitale e all'Europa lanciate da Atene: l'euro non si tocca e il debito si paga. Ma a rate!

2. I finti dilemmi della sinistra borghese

In Europa, il problema oggettivo è portare il saggio di sfruttamento al livello compatibile con il saggio di profitto richiesto dal capitale internazionale. In Grecia, Tsipras aveva tutte le carte in regola per riuscire nell'impresa: un po' di politiche keynesiane, nelle strette maglie concesse dagli accordi europei, un piano di rientro dal debito, concordato con banche e istituzioni internazionali, e una bella favola da raccontare ai lavoratori, per tenerli buoni mentre perdono diritti e salario.

Il problema è che quando la sinistra arretra e non osa e, soprattutto, non si sporca le mani col comunismo, la destra dilaga. E sappiamo tutti com'è andata: ha vinto il partito dell'austerity e i neonazisti la fanno da padroni.

D'altra parte, quando la politica si riduce a trovare il miglior modo per assecondare le esigenze del capitale, questo è il risultato: partito dell'austerity da una parte (cioè tagli e licenziamenti subito); e partito della crescita dall'altra (ben inteso, "crescita" dello sfruttamento, perché è così che si pagano debiti e profitti), con aggravio dei conti pubblici nell'immediato e, di conseguenza, maggiore rigore fiscale in futuro. Vi facciamo pagare oggi o vi facciamo pagare domani (con gli interessi)? Questo è il dilemma borghese: Hayek o Keynes? Un Von o un Lord?

Pagare oggi o pagare domani è il dilemma politico di chi vuole il potere, nel rispetto delle regole del capitale. È un finto dilemma, nel quale cade solo la sinistra borghese, incapace di capire le cause della crisi (e pronta a tutto pur di impedire il comunismo).

Secondo Hayek, il problema nasce dall'eccessivo intervento dello stato, che distorce i segnali del mercato e spiazza gli investimenti privati. Secondo Keynes, nasce invece dall'insufficiente intervento dello stato, che non sostiene adeguatamente la domanda e impedisce il pieno impiego. Due ricette contrapposte, accomunate però dalla stessa concezione dello stato, secondo la quale l'intervento pubblico deve essere al livello imposto dalle esigenze remunerative del capitale.

Un gioco di ruoli per un obiettivo comune. Il poliziotto cattivo che vuole la confessione subito a suon di sganassoni e il poliziotto buono che ti dà prima un bicchiere d'acqua, così poi parli meglio. Ma sempre in gabbia ti sbattono. Destra e sinistra, moderati e radicali, liberisti e socialdemocratici, Hayek e Keynes, due strategie diverse per ottenere lo stesso risultato: portare il saggio di sfruttamento al limite della sopportazione sociale come condizione per massimizzare i profitti di banche e imprese nel lungo periodo.
Se lo spettro che oggi si aggira per l'Europa è quello di Tsipras, l'unica classe che ha ragione di tremare è quella dei lavoratori.

3. Le leggi del capitale e le "promesse" di Tsipras

Caro Tsipras e cari intellettuali di sinistra, vi è sfuggito un passaggio. Nella vostra mistificazione ci cascate ormai solo voi stessi. Perché la nostra bussola politica è semplice: quello che per il capitale è una promessa, per il lavoro è una minaccia. Se fa bene a voi, fa male a noi. Hayek e Keynes ve li potete tenere entrambi. Non fanno parte della storia politica della classe lavoratrice.

In Italia, tolte le spese per il pagamento degli interessi, è dal 1992 che le tasse superano la spesa pubblica (in termini tecnici, si dice che il "bilancio primario" – quello che non considera la spesa per interessi – è in attivo). Sono cioè ventidue anni che lo stato incassa dai contribuenti più di quanto spenda e che gira la differenza alle banche (che costituiscono il principale soggetto che detiene i titoli del debito). Ma intanto il debito pubblico è aumentato, poiché il surplus primario non è bastato a coprire interamente la spesa annuale per interessi.

In cifre, ogni anno lo stato versa alle banche circa 80 miliardi di euro (questo è l'ammontare annuo della spesa per interessi sul debito pubblico) frutto unicamente del nostro lavoro. Ma dal 1992 a oggi, mentre di anno in anno pagavamo tutti questi soldi alle banche, il debito pubblico è quasi raddoppiato (passando da 1300 a 2100 miliardi di euro). Non c'è trucco, non c'è inganno. Questo è il capitalismo: noi diamo i soldi alle banche, ma il loro credito nei nostri confronti aumenta.

In media, grazie al nostro stato capitalista - che ha regalato alle banche private pure l'istituto d'emissione - ogni italiano, vecchio o neonato, uomo o donna, lavoratore o capitalista, paga 1600 euro l'anno di interessi sul debito pubblico. E se uno non paga, grazie al commercialista, al conto in Svizzera o ai sonni della Guarda di finanza, sarà il lavoratore disgraziato a pagare per lui.

Non sono i nostri eccessi di consumo che ci rendono debitori. Ma le promesse al capitale che lo stato borghese ha fatto per noi. Questo è il vero ruolo dello stato su cui Hayek, Keynes e tutti i borghesi del mondo alla fine convengono: un dispositivo per trasferire valore da chi lo produce a chi se ne appropria. L'euro, da questo punto di vista, è solo la forma istituzionale più efficace trovata dal capitale europeo per estorcere nuovo lavoro e valore alla classe lavoratrice.

E il nuovo aspirante leader dell'anticapitalismo europeo che fa? Rassicura le banche che l'euro non si tocca e che continueremo a pagare per sempre. Perché il profitto è sacro e l'interesse ne è una parte. "Di tutto il resto si può discutere, starò accanto ai popoli e difenderò i più umili" (nei limiti imposti dai vincoli dell'Europa). "Ma le leggi del capitale non si toccano!"

4. L'anticapitalismo nel capitalismo

Senza accorgersi, o fingendo di non sapere, che se non tocchi le leggi del capitale non puoi discutere proprio di niente: regna il "paghi oggi o paghi domani". Ma comunque paghi.

Come ci ricorda la bandiera dell'Unione europea - che per chi non lo sapesse, prende ispirazione dall'Immacolata concezione - solo l'euro nasce senza peccati. I cittadini d'Europa sono invece tutti in debito sin dal giorno in cui vengono al mondo.

Sia chiaro: il debito pubblico esisteva anche prima dell'euro ma almeno erano i governi nazionali a stabilire se, come e quando pagarlo veramente. Con una banca centrale di stato, ad esempio, il debito pubblico poteva essere azzerato (o quanto meno sensibilmente ridotto), semplicemente stampando moneta (cosa ovviamente poco gradita alle banche visto che l'inflazione riduce il valore dei loro crediti). Oggi invece tutto questo non è più possibile. Grazie all'euro, le scelte politiche ed economiche ora le prendono direttamente i creditori: le banche.

Ogni stato è entrato nell'Unione monetaria con il suo debito pubblico e, ora che non può più nemmeno stampare moneta, è costretto a stritolare il proprio popolo come unico modo per ripagarlo. Noi italiani nasciamo con un peccato da 35.000 euro cadauno (2100 miliardi di debito pubblico divisi per 60 milioni di residenti) e non c'è inflazione o svalutazione che possa ridurne il valore reale. Dobbiamo pagarlo.

Ma non siamo i soli peccatori d'Europa. Nella periferia, ad esempio, i greci nascono con un debito procapite di poco inferiore: 29.000 euro. E anche nei paesi centro le cose non vanno poi molto meglio: alla nascita, francesi e tedeschi hanno infatti anche loro i loro fardelli di 28.000 e 25.000 euro rispettivamente.

Insomma, come lavoratori - come soggetti cioè che creano la ricchezza che la società si spartisce - siamo tutti in debito, anche se non abbiamo mai chiesto un euro in prestito e se non abbiamo mai detto la nostra su questo modello di sfruttamento internazionale. E ora arriva Tsipras che ci promette che, piano piano, pagheremo tutto.

5. Rigore fiscale e condizioni di tenuta dell'euro

Chi si propone di combattere il capitalismo, o anche semplicemente di governarlo, due nozioni di economia farebbe bene ad averle. L'unione monetaria senza indipendenza della banca centrale e senza rigore fiscale semplicemente non tiene: produce tensioni sui tassi d'interesse, che non si correggono da sole, bensì tendono ad esplodere. Credevo che almeno questa semplice legge dell'economia capitalistica Tsipras l'avesse imparata, visto che la sua dimostrazione empirica è avvenuta proprio sulla pelle del popolo greco.

Di certo, comunque, la conoscono bene banchieri, capitalisti e governanti d'Europa. I quali, da quando si è cominciato a parlare di euro, hanno subito inserito nel pacchetto di riforme anche il Patto di Stabilità e crescita. E appena l'euro ha cominciato a vacillare hanno forzato affinché il rigore fiscale diventasse un automatismo iscritto nelle leggi degli stati o, ancora meglio, nelle loro Costituzioni.

Così, mentre negli ultimi anni la crisi comprimeva i salari e calpestava i diritti, nelle istituzioni europee si parlava solo del Six pack (non della cartucciera da sei lattine di birra cui inneggiano i Black Flag ma dei sei pacchetti di misure di rinforzo del patto di stabilità e di smantellamento dei diritti - comprendenti il taglio dei salari, la decentralizzazione delle relazioni industriali e le riforme di sanità, pensioni e servizi sociali - voluti dalle banche tedesche). E subito dopo, per consolidare l'euro e la vittoria del capitale sul lavoro, l'Europa ci ha regalato l'"Euro plus" e il "Fiscal compact", nuovi strumenti per irrigidire il rigore fiscale e sottrarlo anche ai residui margini di manovra dei governi nazionali. Questi sono i corollari dell'euro. Altrimenti salta tutto. Il rigore fiscale, nelle aree valutarie, non è un'opzione politica ma una necessità economica.

Ma evidentemente, il leader dell'anticapitalismo greco ed europeo oltre ad ignorare il ruolo assegnato alla Grecia nell'unione monetaria incentrata su Germania e Francia non conosce nemmeno le condizioni di tenuta del nuovo modello di sfruttamento europeo.

6. Chi paga, chi incassa

Quando l'euro è stato introdotto, nel 1999, la Germania aveva una bilancia delle partite correnti in passivo (importava cioè più di quanto esportava). Oggi registra invece un forte attivo. Che si accompagna al degrado delle bilance delle partite correnti della Grecia e di tutti i paesi periferici della zona euro. I lavoratori greci lo vedono ogni giorno: il ruolo della Grecia nell'euro è di sostenere l'economia tedesca, che è infatti quella da cui oggi la Grecia importa di più. Se solo Tsipras avesse qualche contatto con loro, glielo spiegherebbero pure, tra un'occupazione di fabbrica e una manifestazione di piazza. Ma chi ambisce a entrare nei salotti del capitale non ha tempo per i lavoratori e la teoria economica preferisce farsela spiegare direttamente da Draghi.

Questo è il prezzo che la Grecia e tutta la periferia europea devono pagare per stare nell'euro. Un prezzo alto che si scarica interamente sulle classi lavoratrici nazionali, messe le une contro le altre in nome della competitività internazionale.

Ma anche un prezzo che le classi capitaliste di tutt'Europa sono ben contente di pagare, comprese quelle periferiche: esporteranno pure un po' di meno ma in cambio hanno finalmente un esercito di lavoratori disciplinati che non ha più nemmeno il diritto di lottare. Altrimenti ci pensa lo spread!

Alla fine, Tsipras o non Tsipras, pagheremo tutto: i profitti delle imprese e gli interessi delle banche, il debito dello stato e i fallimenti delle corporation. Ma solo con la forza.

Noi gli uomini che piacciono ai mercati non li votiamo. E quando l'Europa s'infiamma, non chiamiamo certo i pompieri.


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