da Liberazione del
03/02/2006
Strage del Cermis, paradigma della storia delle ingerenze Usa in Italia
di Claudio Grassi
Il 3 febbraio del 1998, sulla funivia che collega il centro abitato di Cavalese
al monte Cermis, venti persone vennero condannate a morte da un caccia
americano di stanza nella base militare Nato di Aviano. L’aereo volava al di
sotto della quota di 500 piedi e tranciò i cavi della funivia su cui
viaggiavano le vittime. Ne venne fuori un vero e proprio bollettino di guerra,
provocato dal ruolo di gendarme mondiale al di sopra di ogni giustizia
auto-attribuitosi dalla potenza americana e dalle sue forze armate disseminate
in tutti i continenti.
A otto anni da quell’immane tragedia, ennesima prevaricazione delle forze
armate americane, le famiglie e i parenti delle vittime - che insieme a
giuristi e movimenti hanno dato vita al “Comitato 3 Febbraio” - chiedono verità
e giustizia per i loro cari. Una verità e una giustizia rese sinora
irraggiungibili dagli Stati Uniti, che non hanno mai riconosciuto l’inchiesta
aperta in Italia dalla Procura di Trento e conclusasi con la richiesta di
rinvio a giudizio del colonnello Durigon, responsabile della base di Aviano.
Gli Stati Uniti oppongono alle richieste della magistratura italiana
l’inaccettabile sentenza emessa dalla Corte Marziale dei marines, con la quale
il capitano Richard Ashby (pilota del caccia) è stato assolto da tutti i reati
imputatigli: una sentenza inaccettabile, avallata poco più di un anno dopo la
tragedia (il 4 marzo del ’99) dall’allora presidente del Consiglio D’Alema che,
durante una visita negli Usa, ai giornalisti che gli chiedevano un giudizio
sulla decisione della Corte militare statunitense, oppose un vergognoso “No
comment" (salvo poi, resosi conto della gaffe, definire la sentenza
“sconcertante").
Ma forse è proprio la prima reazione di D’Alema - quel non voler commentare le
sentenze in un Paese straniero - a inquadrare la strage del Cermis nella giusta
cornice. Nella sua drammaticità, la strage del Cermis si colloca infatti
all’interno della peculiare storia italiana che, dal secondo dopoguerra, è una
storia di sudditanza nei confronti dell’alleato d’Oltreoceano. Una storia in
cui la sovranità dello Stato italiano è stata (e tuttora è) gravata da una
fortissima limitazione. Di questo si tratta quando parliamo della collocazione
internazionale del nostro Paese nel corso degli ultimi sessant’anni. L’adesione
all’alleanza atlantica prima e alla Nato poi nacque da una menzogna, quella
proferita dall’allora capo del Governo De Gasperi che, rispondendo a un
Togliatti fortemente preoccupato per la limitazione della sovranità della
giovane Repubblica, ebbe l’ardire di affermare: «nessuno ci ha mai chiesto basi
militari». Si avviava così quella sequenza di inganni, di segreti, di umiliazioni,
che Calamandrei pose all’origine dell’«isolamento dall’Est europeo, sbocco
naturale dei nostri rapporti economici e diplomatici», e della stessa «acuta
divisione interna» del nostro Paese.
Il caso Cermis non si comprende se non alla luce delle ripetute violazioni e
vessazioni perpetrate dai militari americani nelle aree costrette ad ospitare
le basi militari dell’alleanza. E’ forse solo il caso di ricordare, a questo
proposito, quanto accadde a Napoli nei primi anni Cinquanta, le continue violenze
impunemente commesse dai marines di stanza in città. Ma a voler essere più
precisi, il contesto in cui va inquadrata la vicenda del Cermis rimanda a un
ambito ancor più generale, e precisamente alla messa sotto tutela dell’Italia
sotto il profilo politico-istituzionale.
L’inizio di questa vicenda è ampiamente noto: è l’esclusione dall’area di
governo dei comunisti (cioè di quanti avevano pagato il prezzo più alto in
termini di vite umane nella lotta di liberazione), suggellata dal viaggio di De
Gasperi negli Usa e dal ruolo svolto dai servizi segreti americani durante le
elezioni del 1948. Meno nota è forse la lunga durata di questa vicenda. Per
questo riteniamo sia giunto il momento di fare un bilancio delle ingerenze dei
servizi segreti “alleati” nel corso degli “anni di piombo" che vanno dalla
strage di piazza Fontana ai primi anni Ottanta con la vicenda di Sigonella,
passando per i cieli di Ustica e i ripetuti tentativi di colpo di Stato
militare (quello del ’64 ad opera del generale De Lorenzo e dell’allora
presidente Segni, e quello del ’72 con il comandante repubblichino Borghese).
Di fronte all’arroganza dimostrata dagli Usa nei confronti del nostro Paese, le
reazioni dei nostri governi continuano a rivelarsi insoddisfacenti e confermano
una tradizione di sottomissione che non si è interrotta nemmeno con i governi
di centro-sinistra degli anni Novanta. Non dimentichiamo che l’on. D’Alema era
a capo del governo anche durante la vicenda Ocalan, in conseguenza della quale
il leader curdo è oggi detenuto in un carcere turco di massima sicurezza,
vittima di torture e di continue violazioni delle più elementari garanzie
giuridiche. La stessa arroganza “imperiale” degli Stati Uniti l’abbiamo da
ultimo registrata con la vicenda della liberazione di Giuliana Sgrena, costata
la vita al funzionario del Sisde Nicola Calipari, morto sotto il “fuoco amico”
dei marines senza che si siano potute accertare, e giudicare, le gravi
responsabilità delle forze militari statunitensi.
In questa situazione l’unico vero atto di giustizia nei confronti dei venti
morti del Cermis e di tutte le altre vittime italiane della impunita violenza
statunitense sarebbe l’immediata revisione dei trattati internazionali sulla
dislocazione di basi militari straniere sul territorio nazionale. Avendo di
mira, finalmente, la soppressione di quell’antistorico strumento bellico che è
la Nato.