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Se di attentato alla Costituzione si tratta, ci vuole altro che la solita "controffensiva democratica e di sinistra"
 
Sergio Manes
 
10/04/2013
 
In seguito all'aggravarsi della crisi, all'inefficacia della risposta della "politica", alla "disinvoltura" con cui il presidente della repubblica interpretava il proprio ruolo e, infine, al completo discredito e alla totale incertezza istituzionale che il risultato elettorale ha sancito - in molti si sono interrogati sul senso di quanto sta accadendo e si è giunti da parte di qualcuno a fare dei parallelismi con la repubblica di Weimar. Naturalmente - come sempre accade ai politici italiani, attenti solo ad inseguire le contingenze quotidiane - a tratti questa preoccupazione si smorza, per riemergere quando le alchimie politiciste si mostrano inadeguate. Infine, dopo la nomina del tutto irrituale dei dieci "saggi" da parte di Napolitano e la sua pervicace volontà di determinare una qualche soluzione, in tanti sono tornati a chiedersi quali saranno gli "sviluppi" di questa crisi istituzionale senza precedenti.
 
Nel coro di preoccupazioni allarmistiche c'è, però, qualcuno che è rimasto un po' indietro - che si è perso le puntate precedenti - e si chiede oggi, sbigottito e indignato, se siamo diventati, senza saperlo, una repubblica presidenziale: è come se, già inzuppati dalla testa ai piedi dagli scrosci temporaleschi, ci chiedessimo se rischia di piovere. E, passando dalle constatazioni alle intenzioni sul che fare, lo stesso sagace qualcuno auspica l'ennesima "controffensiva democratica e di sinistra": vale a dire che pensa di potersi riparare - tardivamente - con un ombrellino piccolo e logoro.
 
Altri - con ben diversa attenzione alla storia recente e con una differente dose di maturità e di concretezza politica - colgono il salto di qualità e registrano come ci sia una accelerazione dell'"involuzione patologica" - già in atto e ulteriormente favorita dal "protagonismo autoritario" di Napolitano - che porta rapidamente "al sovvertimento, non più strisciante, ma esplicito, dei principi fondanti la democrazia parlamentare e alla costituzione di un potere che si pone fuori da ogni legittimità costituzionale". Questa analisi, lucida e concreta, va ben oltre il timore di un incombente o già esistente generico presidenzialismo e giunge coerentemente alla conclusione che si sia in presenza di "un esecrabile attentato alla Costituzione". Di conseguenza, il contrasto proposto non è quello dei pannicelli caldi della solita e generica "controffensiva" (???) "democratica e di sinistra, che coinvolga….tutte le forze progressive del paese"(!!!), ma di "perseguire" l'attentato alla Costituzione.
 
È un approccio del tutto diverso per comprendere e contrastare la effettiva gravità e la drammaticità del salto di qualità che il potere di una borghesia finanziaria italiana - faccendiera, profittatrice e subordinata - sta operando per gestire la sua stessa crisi - economica, sociale, culturale, istituzionale - se non per risolverla, almeno per assicurarsi definitivamente rapporti tra le classi e assetti giuridici più favorevoli e senza contrasti.
 
Oggi certamente possiamo vedere quanto miope, conservatrice e perdente sia stata la parola d'ordine - tardiva, sommessamente e malamente agitata e, perciò, restata anche minoritaria - di semplice "difesa" della Costituzione. L'immagine che i "riformatori" reazionari proiettavano della Carta costituzionale, dell'assetto istituzionale e delle forme della politica (e dei partiti) era di un loro logorio, di un "evidente" invecchiamento. A questa lettura - veicolata con dovizia di mezzi, per certi aspetti veritiera ma assolutamente distorta della realtà - i "democratici", la "sinistra" e i "comunisti" non hanno mai saputo dare una risposta che non fosse l'arroccamento su una semplicistica difesa dell'esistente, consentendo una paradossale inversione dei ruoli per cui i reazionari hanno potuto assumere la maschera degli innovatori mentre i progressisti vestivano i panni della conservazione.
 
Per decenni nessuno aveva posto la questione di una attuazione delle garanzie e dei diritti che la Costituzione del 1947-'48 aveva sancito e, ancor meno, di uno sviluppo delle prospettive e degli orizzonti programmatici che essa pure conteneva. Eppure già all'indomani della sua promulgazione, nonostante l'immaturità delle condizioni e le obbiettive difficoltà del tempo, il Pci e la Cgil operarono per renderne concreti diritti, garanzie e sviluppi: già un anno dopo, nel 1949, veniva lanciato il "Piano del Lavoro" e, addirittura, nel 1952 Di Vittorio proponeva uno "Statuto dei diritti dei lavoratori"! Qualunque sia il giudizio storico-politico che vi voglia dare della politica togliattiana delle "riforme di struttura", resta il fatto che il dettato costituzionale non fu considerato una acquisizione statica, ma l'alveo entro cui far scorrere proposte e lotte per un ulteriore avanzamento della democrazia, della partecipazione e del miglioramento delle condizioni materiali delle classi subalterne. Rivendicazioni e proposte che trovarono solo parziale realizzazione negli anni successivi, in un contesto tuttavia mutato, quando la classe lavoratrice riuscì a passare all'offensiva.
 
Ma, da allora, lentamente, quella concezione e quella spinta si andarono spegnendo e per troppi anni non fu fatto niente - o fu fatto troppo poco da troppo pochi - per richiedere e imporre - quanto meno - l'attuazione del dettato costituzionale. Cristallizzata nella sua accezione storico-formale, ossificata dalla accettazione dell'orizzonte democratico-borghese come frontiera della storia, sacralizzata dalla retorica resistenziale della sinistra democratica (dopo tutto molto compresa e soddisfatta di sé), la Costituzione divenne un feticcio, un totem intangibile, compiuto, neppure perfettibile.
 
Ma, "panta rei": era prevedibile e inevitabile che, nel momento in cui cambiamenti epocali tracimavano dal campo della produzione ad in ogni ambito della società a livello planetario, tutto - ma proprio tutto - quello che era stato espressione ed aveva regolato l'assetto che ora andava così rapidamente e radicalmente mutando, dovesse cambiare. Il crollo del muro di Berlino, la disgregazione dell'URSS (e, poi, della Jugoslavia), lo scioglimento di partiti comunisti, la "fine delle ideologie", il liberismo più sfrenato come traguardo della storia, le guerre "preventive" e permanenti, la distruzione sistematica dello "stato sociale", le migrazioni senza precedenti a livello mondiale, l'aumento della disoccupazione, la distruzione dei percorsi di formazione, la precarizzazione del lavoro come risposta padronale all'esigenza di flessibilità, il rigurgito del sindacalismo "giallo" e l'incancrenirsi di quello collaborativo e "concertativo", il depauperamento crescente di intere classi e strati sociali a fronte dell'ulteriore arricchimento di esigue minoranze, la crisi e la completa finanziarizzazione dell'economia, l'accresciuto inquinamento e l'inarrestabile distruzione dell'ambiente, l'esigenza di "governabilità", etc. etc.: tutti fenomeni che sono stati ben visti e subiti, ma separatamente, ciascuno a sé e in sé, non come espressioni concrete, nei rispettivi ambiti, dello straordinario e generale cambiamento in atto.
 
Questa mancanza d'orizzonte non poteva non ripercuotersi nei tentativi di risposta che la "sinistra" - e gli stessi comunisti - provarono tardivamente a mettere in campo: parcellizzati, asfittici, di basso profilo, di nessun respiro strategico. Nessuno pensò a dare respiro e a collegare le diverse proposte proprio perché nessuno aveva collegato i fenomeni. Eppure era inevitabile che, di fronte a simili e generalizzate trasformazioni della realtà materiale, emergessero anche problemi di adeguatezza dell'assetto e degli strumenti giuridici e istituzionali corrispondenti. Non sarebbe stato impossibile leggerli correttamente, se opportunamente collegati. Se, ad esempio, in parallelo, da un lato venivano sciolti i partiti storici - per intenderci quelli che avevano realizzato lo storico compromesso costituzionale - ed era dichiarata la "fine delle ideologie" e, dall'altro, veniva posto in modo pressante l'esigenza di "governabilità" e, di conseguenza, si metteva mano alle leggi elettorali e si lavorava - dichiaratamente e consensualmente - a sbilanciare il rapporto tra i poteri costituzionali in favore dell'esecutivo, come non si riusciva a vedere che si marciava a vele spiegate verso una "riforma" antidemocratica dello Stato? Molto meno importante è, allora, se l'approdo potrà essere ora - nel migliore dei casi - una forma o l'altra di presidenzialismo o di "premierato". E diventa complicato e astratto invocare il rispetto assoluto e "indefettibile" dell'autonomia dei partiti come principio fondante della sovranità popolare e della democrazia parlamentare quando i partiti - quelli veri, non gli attuali marchingegni elettorali - non ci sono più e gli stessi comunisti si mostrano incapaci di ricostruire il proprio.
 
Ma la necessità di adeguamento istituzionale alle mutate esigenze, inavvertita dalla "sinistra di alternativa", è sta sempre ben chiara invece a chi ha gestito le sue istituzioni e ne ha percepito difficoltà ed esigenze, naturalmente dal suo punto di vista. Chi aveva già fatto una definitiva e coerente scelta di campo ha di buon grado condiviso la spinta "riformatrice", semmai preferendo soluzioni più graduali, parziali, meno scopertamente reazionarie. Chi, invece, quelle scelte non aveva ancora fatto - o, almeno, non le aveva fatte completamente o consapevolmente - non è riuscito ad andare oltre una posizione di semplice conservazione che raramente si è spinta a obbiettare timidamente che la Costituzione era, in realtà, stata attuata soltanto parzialmente. Dello strano ed eterogeneo agglomerato che è la "sinistra di alternativa" neppure i comunisti sono stati capaci di vedere il cambiamento strutturale in atto e, dunque, di realizzare che la spinta al cambiamento era fondata, oggettiva, di respiro strategico e rispetto alla quale non si poteva lasciare il campo all'avversario, ma sarebbe stato inderogabile articolare una proposta innovativa adeguata, propria, connotata da un punto di vista politico democratico e di classe, capace di sfruttare la contraddizione che si era aperta per realizzare quel salto di qualità che per oltre quarant'anni era stato dimenticato, ma che ora era giunto a maturazione e finalmente diventava possibile.
 
Un limite e una miopia micidiali che, oltre tutto, espungendo dalla lotta il diverso ruolo - alternativo o, quanto meno, di contrasto - che il livello sovrastrutturale riguardante l'assetto istituzionale e costituzionale avrebbe potuto avere con una proposta alternativa, hanno consentito che le scelte dell'avversario influissero ancor di più sull'andamento rovinoso degli avvenimenti su ogni piano: economico, sociale, politico, etc.
 
Un limite e una miopia con differenti cause, di diversa importanza, ma tra loro intrecciate.
 
In primo luogo - come già accennato - l'appannamento del patrimonio teorico. In particolare e prima di tutto l'abituale disattenzione rispetto ad uno dei principi elementari e fondanti della concezione materialistica e dialettica della storia: quando l'uomo strappa alla natura nuove conoscenze e le applica al modo di produzione - fosse pure, nel nostro caso, ancora di tipo capitalistico - determina inevitabilmente ripercussioni in tutti i rapporti di quella determinata società: sociali, culturali, giuridici, istituzionali, etc.. Come sempre, inevitabilmente, la sovrastruttura si adegua alla struttura, per poi, a sua volta, influire - poco o molto - sulla base strutturale. E più grande è la quantità e la qualità del sapere che viene socializzato, più grandi e profondi sono i cambiamenti che induce. Sviluppare analisi, ragionamenti e proposte prescindendo da questa verità scientifica è, purtroppo, diventato quasi l'unico modo di analizzare, di ragionare, di proporre dei comunisti che muovono sempre - o quasi - direttamente dal livello sovrastrutturale del problema prescindendo dalla sua base materiale. In tal modo si smarriscono l'origine; l'orizzonte e il fine della propria iniziativa.
 
In secondo luogo la concezione sacrale della Costituzione fatta maturare - con l'utilizzo sconsiderato e incontrastato della retorica resistenziale - all'interno di una scelta gradualista e socialdemocratica del percorso storico intrapreso, che ha portato ad una pregiudiziale - non soltanto psicologica e culturale, ma teorica e politica - di sua intangibilità e di difesa acritica e inerte: la "Costituzione uscita dalla Resistenza", per quanto inattuata, è divenuta il quadro permanente e intangibile degli assetti istituzionali e dei rapporti tra le classi in una aperta accettazione della via evoluzionista e parlamentare, nel rifiuto definitivo di ogni alternativa dialettica e rivoluzionaria. Una totale confusione - sul piano della storico come su quelli della politica e della teoria - della scelta tattica con la prospettiva strategica fatte impropriamente coincidere.
 
Con grande realismo la Costituzione del 1947-'48 sanciva formalmente quello che era il compromesso possibile nel clima di anticomunismo e di guerra fredda del dopoguerra, con l'Italia assoggettata e "vigilata" dalle truppe americane. Un compromesso tuttavia molto positivo, al punto che portò ad avere la Carta costituzionale più avanzata e democratica di qualsiasi altro Paese dell'Occidente capitalistico grazie allo straordinario contributo nella guerra di Liberazione e al consenso politico che i comunisti seppero coagulare intorno a loro nel Paese e nell'Assemblea costituente. Ma pur sempre una costituzione borghese, che conteneva elementi cardine, prospettive esplicite e "promesse" implicite di ulteriori sviluppi, ma che, necessariamente, non poteva essere, non era ancora e non sarebbe mai stata di tipo socialista. Vale a dire un successo nelle condizioni difficili del dopoguerra, l'espressione più avanzata di democrazia borghese - cioè il guscio sovrastrutturale migliore possibile per gli allora esistenti rapporti di produzione -, un possibile e formidabile strumento di lotta per conquiste più avanzate, ma non il traguardo della storia. Non è certo questo il luogo per un giudizio qualsiasi sulle scelte e sulla politica del PCI nel primo decennio successivo alla guerra mondiale. Ma è da quelle scelte e da quella politica, in seguito involutasi e privata di alternativa strategica, che sono derivati limiti ed errori dei decenni successivi, non ultima l'accettazione del quadro istituzionale e costituzionale dato come orizzonte unico di una democrazia raggiunta, per quanto ancora perfettibile.
 
Da questa gabbia concettuale e politica nasce un terzo intreccio di limiti e di miopia politica alla radice degli errori che oggi scontiamo: la cultura e la pratica - totalizzanti e paralizzanti -dell'emergenzialismo. Certo, la storia italiana, è stata segnata ininterrottamente, fin dalle origini, dalle politiche antipopolari e dagli atti criminali della borghesia: dalla repressione contro il "brigantaggio meridionale, alle violenze criminali di Bava Beccaris, dal macello della prima guerra mondiale al fascismo e alla ferocia nazifascista contro i combattenti partigiani e le popolazioni inermi, dalle stragismo (comunque di Stato) alle violenze scelbine (e non solo), al "tintinnar di sciabole", al complottismo permanente e al golpismo strisciante o all'uso del terrorismo e della criminalità neofascista. Unico argine - quando c'è stato e quando è riuscito ad esserlo - è stato il movimento operaio, esso stesso organizzato e capace di tener salde intorno a sé le altre classi subalterne.
 
È giusto e comprensibile, allora, che siano sempre state mantenute alte la vigilanza e la tensione politica contro i tentativi, scoperti e mascherati, di rompere o sfilacciare l'equilibrio democratico del Paese. Ma questa sacrosanta preoccupazione, quando è stata privata di un orizzonte di lotta per una democrazia diversa ed è stata incardinata in quello più angusto della democrazia borghese già data, ha finito per distorcersi e far leggere come in una lente deformante la realtà e le scelte politiche. I comunisti finirono per identificarsi con questo Stato e con le sue istituzioni e ne divennero i campioni, i più coerenti e accaniti difensori, anche e proprio nei momenti più critici, nelle forme più violente, nei modi più odiosi e, perfino, infami.
 
In contemporanea, lo sfilacciamento prima e l'abbandono poi della propria cultura di classe portarono a mettere in dubbio l'esistenza stessa della dottrina marxista dello Stato e approdarono alla sponda opposta: non soltanto gli organismi rappresentativi e i poteri dello Stato borghese divennero a tutti gli effetti gli organismi e i poteri "di tutto il popolo" - e dunque, era compito della parte più consapevole del popolo assumerne coerentemente la difesa -, ma i suoi organi, i suoi strumenti, i suoi metodi furono assunti acriticamente come propri. La magistratura, gli organi di polizia, l'esercito persero magicamente la loro connotazione e la loro funzione di classe: tutti gli apparati repressivi furono purgati delle enormi responsabilità antipopolari accumulate e del ruolo di guardiani degli interessi della classe dominante: divennero, anzi, all'opposto, senza colpo ferire, essi i veri "garanti della legalità repubblicana e democratica". L'innesto della ossessione permanente dell'emergenzialismo in una siffatta cultura dello Stato e della democrazia divenne - inconsapevolmente per i più, volutamente per alcuni - il modo più rapido e più semplice per far introdurre surrettiziamente e far crescere elementi di involuzione e degenerazione dei rapporti sociali e delle stesse istituzioni.
 
Nessuna meraviglia, allora, che i comunisti, pervenuti a questo approdo concettuale e politico, abbiano mostrato un incredibile ritardo e, perfino, una assoluta insensibilità rispetto al logorio inarrestabile delle istituzioni, a partire dalle forme della rappresentanza. Una crisi ininterrotta, emersa in modo prorompente agli inizi degli anni '90 con l'operazione "mani pulite" - affidata, guarda caso, al potere "indipendente" della magistratura - in corrispondenza non casuale con i cambiamenti introdotti nel ciclo di produzione, della mondializzazione, del crollo del "socialismo reale", e che dura ormai da vent'anni con clamorosi picchi di recrudescenza in coincidenza con i tentativi di adeguamento alle esigenze dell'economia, dei rapporti sociali e della politica e scandita dal discredito crescente e generalizzato verso le forme e i modi della politica.
 
All'inizio, nei primi anni '90, grazie allo strumento scelto per il "rinnovamento", il discredito, il disgusto e la rabbia popolari furono canalizzati verso i partiti e quei loro esponenti che erano stati "trovati" con le mani nel sacco o che erano visibilmente compromessi non soltanto con le appropriazioni e le malversazioni, ma con un sistema di potere blindato. I comunisti sanno che corruzione e malaffare sono fisiologici nella gestione borghese del potere e, dunque, non i suoi singoli esponenti né i partiti erano i veri colpevoli da censurare e colpire, ma il sistema stesso. Questa semplice verità fu dimenticata e si consentì che le istituzioni fossero allora soltanto lambite dal discredito che fu fatto riverberare piuttosto sulle regole di gestione del potere che avevano consentito ai partiti e ai loro "malfattori" di piegarle ai loro fini e impedire una governabilità "autenticamente trasparente e democratica".
 
I partiti furono criminalizzati, non nella loro degenerazione fenomenologica e contingente, ma nella loro natura concettuale e furono spazzati via, tutti. Con essi fu messo in discussione l'altro pilastro del delicato equilibrio su cui si reggeva l'architrave della democrazia costituzionale "uscita dalla Resistenza": il sistema proporzionale. In tal modo le istituzioni in quanto tali, così come connotate dalla Costituzione, erano lasciate formalmente al riparo dal discredito e dalla crisi; in modo più sottile e in attuazione di una ben strutturate strategia, venivano rimosse le radici stesse della partecipazione e della sovranità popolari, almeno nelle forme in cui erano state previste e possibili.
 
La "fine delle ideologie" e l'"esigenza primaria di governabilità" furono i due feticci condivisi che giustificarono e accompagnarono il primo passo della involuzione autocratica, del vero e proprio colpo di stato strisciante - "step by step" - diluito nel tempo che soltanto ora va verso il suo epilogo. Le figure, i ruoli e le prerogative delle diverse istituzioni non vennero ancora messe in discussione; in compenso vennero cancellate le forme organizzate (e, perciò, le uniche reali e potenzialmente efficaci e "pericolose") prima di partecipazione popolare al dibattito e alla lotta politica e poi di effettiva rappresentanza nelle istituzioni.
 
Attualmente, a differenza degli anni '90 il discredito non è stato polarizzato e circoscritto a uomini politici e partiti: è tracimato sull'intera classe dirigente - la "casta" - e sull'intero sistema di potere e, dunque, sulle istituzioni. Hanno lasciato il segno venti anni di malgoverno - per certi aspetti di gran lunga peggiori dei precedenti e senza sostanziali differenze tra i due schieramenti alternatisi al governo; ha pesato il completo abbandono dei valori e dei grandi temi concreti che aggredivano la società con il confronto politico scaduto in miserabili polemiche - perfino - sulle sconcezze di Berlusconi; infine, il colpo di grazia dato dalla subordinazione ai diktat del capitale finanziario europeo nella crisi economica e dalla sua sciagurata gestione, a guida Monti ma scopertamente "bipartizan",.
 
Questo discredito generalizzato ha portato tutti i partiti - grandi e piccoli, vecchi e "nuovi", senza eccezioni - a perdere una enorme quantità di consensi. Tra tutti, i partiti "comunisti" - sempre più invisibili e inutili - sono riusciti a far peggio di tutti e, addirittura, da andare al di sotto delle precedenti elezioni che già li avevano cancellati da un purché minima presenza nelle istituzioni. In compenso è emerso prepotentemente il fenomeno del M5S come prodotto purissimo del malcontento, del disgusto e della rabbia generalizzata dei cittadini contro quella rappresentazione della politica nel suo complesso (dunque: la "casta", ma anche i partiti e, con essi, le istituzioni discreditate e le modalità di una politica vissuta come ostile). Uno spazio politico enorme che, se sommato con l'area del non-voto - anch'essa in inarrestabile espansione - porta il "quorum" dell'elettorato ostile all'attuale sistema politico-istituzionale ad oltre il 50% degli aventi diritto! Una voragine capace di inghiottire non soltanto il PDL o il PD e compari, ma proprio l'intero sistema di potere della borghesia.
 
Lenin diceva che non è sufficiente che la borghesia non possa più governare, ma è necessario che il proletariato sappia e voglia prendere il potere: è questa la verità che emerge dai recenti avvenimenti. Ed è monumento di vergogna per i dirigenti comunisti che in decenni hanno pazientemente costruito a perenne testimonianza della propria incapacità e del proprio fallimento che hanno portato a mancare clamorosamente l'appuntamento con la storia.
 
Aver favorito, sottovalutato o, addirittura, non compreso dall'inizio la sciagurata deriva antidemocratica e aver mantenuto tale atteggiamento mentre puntualmente quella degenerazione era coerentemente realizzata negli anni successivi - sotto il loro naso, qualche volta con vigliacca complicità, sempre con inetta apatia -, è responsabilità storica e politica di una gravità estrema a cui nessun comunista o democratico può dirsi estraneo, naturalmente con graduazioni molto diverse. Mancando del tutto gli "intellettuali organici" con tutta evidenza sono stati i dirigenti politici "comunisti" ad avere il maggior carico di responsabilità nel mancato contrasto di questa strategia antidemocratica.
 
Ma, accanto ad essi, a pieno titolo - e, per certi aspetti, con responsabilità ancora maggiori - vanno collocati gli intellettuali "marxisti" che, anche in quest'ambito, hanno mostrato una volta di più la loro inadeguatezza e, perfino, la propria indifferenza e mediocrità. Diventati, ben prima che il PCI fosse sciolto, un agglomerato separato e disperso, "parallelo" rispetto alla classe organizzata e in lotta, tutti preoccupati della visibilità e dei percorsi, troppo attenti, quindi, alla collocazione nell'accademia e in organismi culturali, si sono mostrato del tutto disattenti rispetto a questo e ad altri problemi della contemporaneità. Tutti bravissimi a discutere di tutto, nessuno capace di accorgersi o di misurarsi con il nuovo. Ma chi, più degli intellettuali, aveva gli strumenti per analizzare la crisi, comprenderne la portata e i cambiamenti epocali, individuarne le esigenze e i percorsi, scovare e capire strategie e tattiche dell'avversario, suggerire gli opportuni e necessari mezzi di contrasto e impegnarso coerentemente in prima persona, come militanti, nella lotta? Come appaiono distanti i Marx, i Lenin e i Gramsci dirigenti politici, oltre che massimi teorici!
 
Attenti soltanto alle temutissime svolte reazionarie in forme conclamate, i "democratici" italiani sono stati tutti (ma, in qualche caso, volutamente) sostanzialmente indifferenti alla degenerazione strisciante del sistema istituzionale. Politici e intellettuali, in definitiva, hanno mostrato colpevole ritardo o insensibilità - perfino estraneità - anche rispetto alla involuzione autoritaria che dura ormai da decenni e che, ancora oggi, di fronte a svolte sempre più antidemocratiche e con visibili pericoli autocratici, non sanno fare di meglio che balbettare evocando lo spettro di Weimar o auspicare una vaghissima e ipotetica "controffensiva democratica e di sinistra" condotta, con tutta evidenza, da quello stesso schieramento che ha ampiamente mostrato la sua incapacità e impotenza, ivi comprese le direzioni del sindacato concertativo.
 
Non c'è, del resto, da stupirsene: tutti loro sono stati e sono parte integrante ed espressione di un sistema rappresentativo esausto, di una architettura istituzionale usurata e di una cultura politica obsoleta del tutto inadatti a fronteggiare le mutate esigenze e le sfide di questo tempo. Ancora una volta dimentichi ormai dell'analisi - storica e politica - marxista dello Stato borghese, essi non riescono a concepire che la sovrastruttura istituzionale e giuridica, le forme della rappresentanza ideate e modellate per il miglior funzionamento dello Stato - nazionale e liberale - borghese si mostrino inadeguate alle esigenze di una realtà che in ogni ambito - economico, politico, culturale, antropologico e sociale - tracima oltre gli ambiti tradizionali e pone perentoriamente orizzonti e problemi di portata planetaria, tra cui anche quello - irrisolvibile, come tutti gli altri, in ambito capitalistico - della contraddizione struttura-sovrastruttura.
 
Tralasciando il patetico e rudimentale tentativo della "Società delle Nazioni", a partire dal secondo conflitto mondiale la borghesia finanziaria internazionale ha ininterrottamente provato a mettere in campo strumenti informali e veri e propri organismi internazionali - su scala planetaria o di specifiche aree - nel tentativo di tenere sotto controllo le contraddizioni e di creare gli strumenti di un potere - prima multinazionale, poi anche sovranazionale - che trascendesse gli ambiti specifici e riuscisse a governare o, almeno, mediare gli interessi delle diverse componenti capitalistiche.
 
Alcuni di questi organismi hanno ben assolto il compito di cani da guardia e di strumenti di dominio del capitale, ma si sono rivelati ben lontani dall'avere la capacità di costituire già essi o di essere il germe di quella sovrastruttura necessaria al capitale per tenere sotto controllo la realtà in tumultuosa trasformazione. Lo Stato nazionale, allora, sopravvive sia per l'immaturità di un processo di concentrazione e centralizzazione del capitale, sia per le diversità e contraddizioni ancora laceranti nel mondo tra vecchi giganti capitalistici e nuove economie rampanti, sia perché restano gli unici strumenti di regolazione dei rapporti interni alla borghesia - di garanzia sul piano nazionale e di mediazione su quello internazionale - e di dominio sulle classi subalterne all'interno e, attraverso la pratica del neocolonialismo e della guerra, sui popoli. Ma le sue funzioni sono sempre più stravolte, deviate o sminuite rispetto al modello classico: gli Stati più forti e meno condizionati dai rapporti esterni son costretti sempre più non soltanto a fare della guerra la continuazione della politica, ma il modo prevalente d'essere della loro politica; gli stati meno forti e più condizionati dalle loro relazioni reciproche son costretti ad aggregazioni e a continue cessioni di sovranità che, per il permanere di diversità, squilibri ed egoismi nazionali, determinano difficoltà all'interno e diverse nuove contraddizioni all'esterno, sia nei rapporti reciproci, sia con i Paesi terzi.
 
Appaiono perciò pateticamente anacronistici e politicamente retrivi e pericolosi quei dirigenti politici e quegli intellettuali che si attardano ancora oggi ad osservare il proprio ombelico pensando che sia il centro dell'universo o si appagano di riuscire a vedere la punta del proprio naso ritenendo di avere tutta la visione strategica e dialettica della storia di cui hanno bisogno.
 
Ma, forse, non è neppure soltanto questione di vetusta ottusità o di semplice miopia, ma anche di più elementare e primordiale istinto di conservazione. Anche l'osservatore più disattento o più opportunista vede come, in parallelo con il disvelarsi dell'inadeguatezza dell'assetto istituzionale e del sistema rappresentativo, si siano manifestati due fenomeni opposti e, paradossalmente, complementari: da un lato la degenerazione antidemocratica degli organismi e dei metodi di governo, dall'altro il crescente discredito delle istituzioni presso la generalità dei cittadini, ha indotto la loro sfiducia verso i politici e la determinazione a delegare loro sempre meno i propri destini con, ad un tempo, la voglia di controllo, di attiva e diretta partecipazione, di protagonismo.
 
È fenomeno estremamente complesso e generalizzato che si manifesta in modi e forme differenti sia in ambiti locali e per questioni determinate, sia a livello generale e planetario, esso stesso espressione della mondializzazione. Naturalmente è fenomeno profondamente dinamico, ma istintivo e, come tale, presenta tutti i limiti e le caratteristiche dello spontaneismo - contraddittorietà, estemporaneità, discontinuità, etc. - complicati dalle radici culturali e dalle diversità materiali degli ambiti in cui si manifesta. C'è stato e c'è chi continua a sottovalutare questo fermento considerandolo niente più che un aspetto secondario dello sconvolgimento in atto, e c'è chi ha provato e proverà a cavalcarlo furbescamente provando a farne lo strumento del nuovismo che ciecamente insegue: tutte le diverse pulsioni sui cosiddetti "movimenti" sono nient'altro che il tentativo codista di chi non riesce a misurarsi in modo rigoroso con i problemi di questo tempo e prova pragmaticamente a restare sulla cresta dell'onda.
 
Da anni sono venute prendendo forma innumerevoli e diversissime espressioni non soltanto del disagio e della sfiducia di massa verso le istituzioni e i modi tradizionali di governo e di soluzione delle contraddizioni, ma dei tentativi, negli ambiti più diversi, di ricercare e praticare percorsi e strumenti radicalmente innovativi che vedano protagonisti gli esseri umani in carne e ossa, col le loro sofferenze, i loro bisogni, le loro speranze non più affidate ad interpreti "altri": le lotte su determinati e circoscritti obbiettivi, spesso locali (sullo smaltimento dei rifiuti o sulla "No-Tav", per esempio), o quelle generali sui "beni comuni" (contro la privatizzazione dell'acqua), dalle forme di sindacalismo autonomo e autorganizzato alla sempre più esigua partecipazione alle elezioni o a fenomeni di confuso rinnovamento, spesso in termini populisti o di rabbiosa e confusa ansia di rinnovamento (in Italia, la Lega prima e il M5S poi), fino ai fenomeni di partecipazione di massa ("primavere" arabe, indignados, etc.) e alle concrete suggestioni che vengono dalle sperimentazioni di partecipazione popolare soprattutto nel continente latinoamericano.
 
Un fermento incredibile che muove dal discredito che le istituzioni e le forme della politica - a livello locale, nazionale e internazionale - hanno guadagnato nella coscienza di masse sempre più ampie e che è il portato delle straordinarie trasformazioni in corso nell'epoca della crisi terminale del capitale e che è alla ricerca - per il momento soltanto empirica e sperimentale - di forme e metodi nuovi di soluzioni condivise delle contraddizioni e di governo solidale delle comunità.
 
I comunisti - tutti - dovrebbero prestare maggiore attenzione di quanto non facciano anche a questa questione che è, in definitiva, la questione del potere, ad un tempo da scardinare e da instaurare. Un problema che costringe a misurarsi con grandi questioni teoriche che pensavamo fossero risolte una volta per tutte e che, invece, con ogni probabilità, la maturazione delle contraddizioni ci costringe a leggere, ad affrontare e risolvere fuori dai vecchi schemi.
 
La dicotomia tra "riforme o rivoluzione", ad esempio, poggiava sull'allora inevitabile concezione della scelta riformista come progressiva evoluzione, in antitesi con il salto dialettico rappresentato dal momento rivoluzionario. In tale contrapposizione - tutta racchiusa esclusivamente nella questione del potere politico e della sua sovrastruttura statuale - la scelta rivoluzionaria esauriva il ruolo attivo e creativo del proletariato e delle classi subalterne nella preparazione della cesura rivoluzionaria. Soltanto dopo di essa, preso il potere, la rivoluzione vittoriosa interveniva a demolire la macchina statale borghese abbattuta e a sostituirla con l'ordine e le strutture dello Stato proletario.
 
Ma in tal modo il salto dialettico era limitato, relegato al mero rapporto di forze sul piano strettamente politico e, tutt'al più militare. Per tutto il resto era rinviato a dopo: un prima e un poi, due tempi ben distinti che, per un verso, oscuravano, escludevano o rinviavano il ruolo attivo e positivo possibile e necessario del proletariato anche in altri ambiti; per altro verso introducevano di soppiatto una sorta di gradualismo antidialettico. Una più sofisticata articolazione del potere borghese, in uno con il suo disfacimento in ogni ambito, una diversa consapevolezza delle masse sfruttate e oppresse, la loro determinazione ad essere in qualche modo protagoniste dell'evolversi delle contraddizioni, la proletarizzazione crescente - ad un tempo dei "ceti medi" e delle sterminare masse dei popoli coloniali -, l'orizzonte dello scontro dilatato a livello planetario: tutto impone che il ruolo attivo e propositivo del soggetto rivoluzionario si esplichi da subito in ogni ambito e contraddizione dello scontro, analizzando, programmando e sperimentando soluzioni possibili che accrescano il proprio livello di consapevolezza e di capacità, che aggravino la crisi dell'avversario e creino condizioni più favorevoli al salto rivoluzionario non soltanto sul piano del potere politico e delle forme istituzionali ma in ogni ambito della realtà sociale:
 
I comunisti dovrebbero guardare a queste esperienze non per provare a gestirne le singole espressioni fenomeniche, sul breve periodo, nei rispettivi ambiti, ma per coglierne le istanze e individuare tra le loro molteplici e variegate modalità di espressione quelle con un concreto potenziale di rinnovamento e di praticabilità. I comunisti non sono soltanto quelli che possono vantare una primogenitura nelle forme di partecipazione e di esercizio diretto del potere in forme democratiche, dalla Comune di Parigi in poi, ma sono anche gli unici che, in una prospettiva di concreto e totale superamento della società divisa in classi, possono già da ora definire percorsi, contenuti e modalità di una democrazia condivisa e basata sulla partecipazione diretta e sul protagonismo effettivo dell'intera comunità. Essi hanno gli strumenti per coniugare con rigore il meglio dell'esperienza storica con quanto di positivo va emergendo, concretizzandosi e consolidandosi nell'attuale risveglio popolare, espungendo le suggestioni anarchiste e individualiste, individuando e realizzando materialmente - momento per momento - modalità di partecipazione solidale e condivisa, a partire da forme di controllo sul potere ancora esistente fino alla costruzione e alla gestione autonoma e piena delle strutture del nuovo potere proletario, una volta che il salto rivoluzionarrio avrà concluso il processo di rinnovamento che la partecipazione popolare avrà contribuito a preparare e favorire. Senza tralasciare in questo percorso di recuperare i tradizionali modi di interlocuzione e di legame con le masse accanto alla ricerca di un pieno impiego delle moderne tecnologie della comunicazione, della informazione e della formazione.
 
Son questi l'ambito e la prospettiva in cui si iscrivono la crisi conclamata della democrazia borghese, il logorio delle sue istituzioni ormai vicine al collasso e i tentativi reazionari di realizzare - possibilmente in modo graduale e surrettizio - una definitiva involuzione autocratica delle forme di esercizio del potere e dell'intera società. La situazione è particolarmente critica. Il discredito generalizzato verso le istituzioni e certa "politica" e la complementare domanda di cambiamento radicale sarebbero le condizioni più favorevoli ai comunisti e alla loro iniziativa: nella desolante assenza di propositività e di capacità di iniziativa queste condizioni diventano lo spazio ideale per chi in questi anni ha potuto indossare impunemente le vesti del "riformatore" e può oggi devastare definitivamente la Costituzione. È una consorteria molto ampia, che opera in nome e per conto dei poteri forti e le cui diversità interne, per quanto evidenti, sono marginali o secondarie e non la dividono sul comune obbiettivo di consegnare al capitale finanziario una "rinnovata" macchina del potere al riparo da ogni sia pur piccola turbativa proveniente dalle classi subalterne definitivamente prive di rappresentanza e di voce.
 
E non sarà, certo, il M5S a poter arginare questo scellerato proposito, privo com'è di un qualsiasi spessore politico, di una strutturata cultura dell'alternatva e di una qualsivoglia capacità programmatica e, soprattutto, di una precisa connotazione di classe che - su alcuni punti fermi e qualificanti - possa contrastare l'avversario e realizzare una vasta mobilitazione popolare, l'unica in grado di sconfiggerlo.
 
Va, ancora, annotato che, nel discredito generale che ha investito indiscriminatamente tutte le istituzioni e tutti gli uomini politici, il presidente Giorgio Napolitano è stato l'unico a restarne miracolisticamente al riparo. La sua aureola di saggio, di uomo super partes, la figura di politico lungimirante e affidabile, di collaudata esperienza, di custode dell'equilibrio costituzionale, sono state pazientemente costruite, sostenute, gonfiate, consolidate in tutti i modi in una perfetta armonia bipartisan. Approdo premiante di un percorso coerente da lui iniziato con la pionieristica presa di distanze dal comunismo, ben prima che i rottamatori della Bolognina ne facessero scempio. Ben saldo su questo meritato piedistallo si è potuto consentire d'essere la sponda o l'autore delle continue forzature e effrazioni della Costituzione. Altro che il "picconatore" Cossiga! Le difficoltà di governo della crisi gli hanno consentito, mano a mano che si avvicinava alla fine del settennato, di eccedere sempre più dai limiti e dalle prerogative che la Costituzione assegna alla carica presidenziale e di cui lascia in eredità un profilo del tutto diverso - perfino antitetico - rispetto a quello codificato nella carta costituzionale, invasivo e penalizzante rispetto agli altri poteri dello Stato. Non solo, ma, un ruolo e funzioni della Presidenza della Repubblica così configurati consentirebbero addirittura, una illimitata e impune capacità di iniziativa con l'unico limite - estremo - della messa in stato d'accusa davanti al parlamento riunito in corte di giustizia. Un'eredità pericolosissima se il prossimo inquilino del Quirinale la raccogliesse e se il parlamento lasciasse fare, come è accaduto fino ad ora.
 
Ecco perché i tradizionali allarmismi ed emergenzialismi sono assolutamente inadeguati e perché le solite inconcludenti "controffensive democratiche e di sinistra" appaiono una volta di più deboli, ridicole e paralizzanti. Per di più la partita non è - ancor meno questa volta - sull'alternativa presidenzialista, ma - tout court - sulla democrazia come spazio concreto dei diversi rapporti reali e complessi tra le classi.
 
È necessario, allora, articolare una più risoluta e chiara controffensiva che, senza infingimenti, denunci con forza la gravità, la natura e la portata del problema; che individui a chiare lettere le responsabilità dirette e indirette; che prenda con decisione e senza mezzi termini le iniziative di lotta necessarie. Su due terreni, ad un tempo. Il primo - che assume la Costituzione "uscita dalla Resistenza" come una conquista che va difesa, attuata, sviluppata -: se, dunque, un anno dopo l'altro, un atto dopo l'altro, si sta consumando un attentato continuato a questa Costituzione, ebbene, questo è reato che va denunciato e perseguito nei confronti dei colpevoli e di chi se ne fa complice occultandone, sminuendone o mistificandone portata e contenuti. Il secondo: non più rinchiusi in una logica minimalista e difensivista, occorre mettere in campo una propositività e percorsi che, senza attendere graziose elargizioni o effimere e parziali vittorie vadano ben oltre l'ambito giuridico e costituzionale, entrino negli snodi delle lotte sociali e prefigurino, sperimentino e realizzino esperienze di democrazia avanzata in cui il protagonismo di massa possa pienamente dispiegarsi e, con ciò stesso, assestare il vero micidiale colpo alle tentazioni e ai tentativi autocratici, palesi o striscianti, presenti e futuri. Proposte, iniziative e mobilitazioni, allora, debbono uscire dalla genericità e dalla indeterminatezza ed essere chiare, incisive, determinate, modellate su precisi contesti, tra loro coordinate e coerenti.
 
La posta in gioco è alta, molto alta. E non soltanto nel campo delle "agibilità democratiche".
 
10 aprile 2013
Sergio Manes
 

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