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- osservatorio - italia - politica e società - 27-02-17 - n. 622
Non è la tecnologia che opprime ma il profitto capitalista
Enzo Pellegrin
28/02/2017
Si sente spesso parlare della "proletarizzazione del ceto medio" come fenomeno sociale dell'attuale epoca economica. Recentemente, sull'Espresso, discorrendodei recenti tumulti romani di tassisti e ambulanti, l'editorialista Gilioli aveva modo di notare come "con un po' di lucidità e lungimiranza oggi potremmo mettere da parte l'antipatia per capire come la campana ora suona per loro ma domani o dopo suonerà per tutti noi - anzi per molti ha già suonato.[…] i conducenti di auto bianche sono obsoleti, è evidente. Oggi c'è Uber, c'è Enjoy, c'è Car2go, ci sono pure ZigZag e Scooterino, e tutte o quasi funzionano meglio, a minor prezzo. Tra un po' ci sarà pure l'auto che si guida da sola e buonanotte, il taxista finirà come il casellante, il linotipista, lo spazzacamini. […] Poi però accadrà che altre tecnologie - altre app, altri sensori, altri robot, altri outsourcing, altre intelligenze artificiali - renderanno altrettanto obsoleto quello che facciamo noi, cioè il nostro modo per portare a casa un reddito. Ci saranno soluzioni più soddisfacenti per i consumatori di quanto siamo noi, a un costo minore. Nessuno, fuori, ci rimpiangerà."
Viene spontanea una riflessione: il progresso tecnologico non ha un effetto neutro: dipende dalle mani e dai cervelli che lo possiedono.
Personalmente non vedo affatto negativamente un mondo in cui un certo tipo di lavoro divenga obsoleto e vi siano dei mezzi tecnici per evitarlo. Se la produzione di ricchezza fosse collettivamente determinata, distribuita a ciascuno in base ai propri bisogni ed alle proprie aspirazioni e finalizzata alle necessità reali della collettività e dell'ambiente, non avrei nulla in contrario verso i mezzi che rendono obsoleta la fatica per produrla. In queste condizioni tutti ne avremmo un equo vantaggio. Lavoreremmo di meno per produrre un valore a vantaggio di tutti.
Perché ci si dovrebbe opporre al fatto che l'ente collettivo trasporti i passeggeri con una navetta ad intelligenza artificiale a tutte le ore anziché utilizzando la fatica di un'autista? Se quell'autista, per questo, non perde un lavoro, ma ci guadagna un vantaggio, potendo impiegare diversamente il proprio tempo ed il proprio lavoro altrove a vantaggio proprio e del collettivo, perché essere contrari?
Nel mondo nostro, all'interno del capitalismo globalizzato, non è però così.
Ogni innovazione tecnologica è - nel nostro sistema economico - finalizzata a produrre il maggior profitto per il capitalista privato che la promuove e ne sfrutta i vantaggi.
I vantaggi delle innovazioni tecnologiche consistono spesso nella possibilità di diminuire la quantità di lavoro umano necessaria per produrre una data quantità di ricchezza.
Ma non sempre.
Alcune innovazioni tecnologiche consistono, invece, nella possibilità di sfruttare una forza lavoro di minor costo e più ricattabile. Per certi versi, questa è la caratteristica di applicazioni della sharing economy come quella di Uber. Il vantaggio economico non è solamente dato dalla possibilità di individuare velocemente autisti sul territorio disposti ad effettuare la corsa, ma anche dalla disponibilità di autisti pronti a prestare il proprio lavoro a condizioni e tariffe di minore costo rispetto ai titolari di licenze.
Da una parte abbiamo alcuni uomini che perdono una posizione di rendita sociale, dall'altra uomini che sono costretti a vendere il proprio lavoro in condizioni di sfruttamento. Categoria, quest'ultima, altrettanto e forse maggiormente sfruttata dal sistema.
Tuttavia, il semplice lamento sulla tecnologia che sostituisce l'uomo manca di una considerazione fondamentale su chi ne trae vantaggio e come viene distribuita la ricchezza che deriva dall'innovazione tecnologica.
Allo stesso modo, non è per niente detto che le posizioni economiche compromesse dall'innovazione dividano con altri oppressi la comune aspirazione o il comune obiettivo al mutamento del sistema che li opprime.
La dimensione dei loro interessi dipende da quanto del sistema intendono cambiare.
Il fenomeno della piccola borghesia stritolata dall'evoluzione dei modi di produzione del capitalismo non è monopolio dei nostri giorni, ma è connaturato ad ogni epoca in cui il sistema di produzione capitalista rivoluziona i suoi modi di produrre ed operare.
Nel Manifesto del Partito Comunista, Marx ricordava come "La scoperta dell'America, il periplo dell'Africa crearono un nuovo terreno per la borghesia rampante […] L'attività industriale fino ad allora vincolata a moduli feudali o corporativi non poteva più fronteggiare le crescenti aspettative prodotte dai nuovi mercati. Al suo posto comparve la manifattura. I maestri artigiani vennero soppiantati dal ceto medio industriale; la divisione del lavoro tra le varie corporazioni scomparve di fronte alla divisione del lavoro nella stessa singola officina. Ma i mercati continuavano a crescere e con essi le aspettative. Anche la manifattura non bastava più. Il vapore e le macchine rivoluzionavano la produzione industriale. Al posto della manifattura si affermò la grande industria moderna, al posto del ceto medio industriale apparvero gli industriali milionari, i comandanti di intere armate industriali, i moderni borghesi.".
Ogni sviluppo del modo di produzione mette in discussione le rendite di posizione fondate sulla dimensione corporativa legata ad un mestiere, una professione, un'arte. La borghesia stessa, legata al sistema di produzione capitalistico, non può esistere senza rivoluzionare di continuo i propri mezzi di produzione. Ciò consolida tutta una serie di tensioni tra quegli strati della borghesi che legavano una posizione di rentier a differenti modi di produzione. Già all'indomani della marcia su Roma, lo storico Luigi Salvatorelli parlava di "lotta di classe della piccola borghesia, inchiodata nella dialettica tra capitalismo e proletariato" (Gramsci: fascismo e classi dirigenti nella storia d'Italia, Gianni Fresu, http://www.resistenze.org/sito/te/cu/an/cuan8d22-003000.htm) e Antonio Gramsci, nell'articolo Il popolo delle scimmie pubblicato il 2 gennaio 1921 su Ordine Nuovo, affermava che "Il fascismo è stato l'ultima rappresentazione offerta dalla piccola borghesia urbana nel teatro della vita politica italiana. La miserevole fine dell'avventura fiumana è l'ultima scena della rappresentazione. Essa può assumersi come l'episodio più importante del processo di intima dissoluzione di questa classe della popolazione" (Antonio Gramsci, Socialismo e Fascismo, Einaudi, Torino 1978. pag. 9., cit. in Gramsci: fascismo e classi dirigenti nella storia d'Italia, Gianni Fresu, http://www.resistenze.org/sito/te/cu/an/cuan8d22-003000.htm#_ftn9 ).
Questo è sufficiente per farci ipotizzare che le classi sociali, le quali sono oggettivamente determinate, possono avere diversi interessi e diversi modi di reazione ai meccanismo che le opprime.
Quando una rendita di posizione viene attaccata, la prima reazione è quella di agire per la conservazione dei propri confini sociali. Sul come agire influisce in modo importante lo stato del sistema politico, il quale dovrebbe prendere in considerazione questi interessi. In un sistema politico e giuridico in cui interessi di questo tipo possono essere metabolizzati e sostenuti dalle istituzioni, la via scelta sarà quella di rivolgersi agli spezzoni istituzionali della borghesia che sono in grado di generare un concreto compromesso. Qualora invece lo stesso sistema sia divenuto totalmente avulso da tali interessi, o non consenta l'esercizio di influenza alcuna, la strada maestra è l'esercizio della pressione sociale.
Qui nasce il successivo problema: pressione sociale per fare che cosa?
Sempre Gramsci, nello stesso articolo, descriveva quella che fu la scelta della piccola borghesia italiana dall'avvento della sinistra postunitaria al potere fino alla nascita del fascismo. Egli pone l'accento sul fatto che la finanziarizzazione del capitalismo prebellico aveva esautorato la piccola borghesia dalle funzioni produttive, gettandola nel puro esercizio delle funzioni parlamentari in seno alle istituzioni albertine. E' qui che Gramsci utilizza la famosa locuzione del "cretinismo parlamentare", per definire quell'esercizio dell'azione politica compiuto solamente attraverso meccanismi istituzionali, svuotati di contenuto ed inadeguati ad esprimere gli interessi reali dei corpi sociali del paese. Un meccanismo molto simile a quello che oggi viene utilizzato per descrivere la "casta" dei politici" ovvero la "partitocrazia". La sensazione superficiale era data (come è data oggi) dall'assoluta lontananza della macchina del potere dai "bisogni reali dei cittadini". Gramsci discorreva appunto di un Parlamento che nelle varie epoche del giolittismo, del trasformismo e del riformismo socialista, era divenuto "bottega di chiacchiere e scandali, […] mezzo al parassitismo".
Nei confronti della crescente sfiducia verso l'istituzione politica, da un lato, il proletariato, sulle orme delle avanguardie marxiste, si mobilita nella settimana rossa del giugno 1914 con la parola d'ordine del socialismo.
Dall'altro lato, la piccola borghesia, venutasi a trovare a margine del sistema produttivo, volendo reagire agli arbitri del potere, scende in piazza con le parole d'ordine del nazionalismo e dell'interventismo, le quali diverranno, dopo la Grande Guerra, terreno di coltura del fascismo. Gramsci ebbe modo di dire che la piccola borghesia "scimmieggiava" i modi della classe operaia. Il contenuto e l'obiettivo era però ben diverso. Egli noterà in seguito come questa posizione barricadiera non si porrà contro il sistema capitalistico, unendo i propri interessi a quelli della classe operaia. I leader della piccola borghesia ritennero sufficiente, per la protezione della loro posizione sociale, allearsi invece con gli agrari e con gli industriali, attorno alla difesa della proprietà industriale ed agraria. A sua volta, la classe proprietaria credette nella proficuità e nell'utilità di questa alleanza: ritenne che fosse il miglior mezzo per contrastare la classe operaia in via di organizzazione e mobilitazione, soprattutto dopo l'esempio e la spinta della Rivoluzione d'Ottobre del 1917.
In questa saldatura di interessi nasce il brodo di coltura per l'esperienza autoritaria del ventennio. Gramsci ebbe modo di sottolineare - a conferma di tale tesi - come gli interventi "rivoluzionari" del fascismo ebbero sempre il fine di combattere l'organizzazione del proletariato. Fu così per la legge sulle associazioni segrete, la quale, nonostante avesse come bandiera quella di combattere le collusioni e la corruzione della Massoneria, aveva in realtà come scopo primo quello di sostituirsi alla stessa Massoneria come partito dirigente della borghesia in Italia, come scopo ulteriore quello di sopprimere le libertà democratiche, come scopo ultimo quello di contrastare le organizzazioni dei lavoratori (fine caro alla proprietà industriale ed agraria), chiamando molta della piccola borghesia al ruolo di gendarme contro il comunismo, attraverso l'organizzazione paramilitare e l'arditismo (aspetto che restituiva un ruolo a questi ultimi ceti messi a margine del sistema produttivo).
La storia ci dice pertanto che in tale occasione la piccola borghesia non reagì all'oppressione del sistema alleandosi con le classi lavoratrici che volevano sostituirlo con il socialismo, ma preferì una strada che semplicemente restituisse loro una posizione perduta.
Ciò aiuta a comprendere come spesso l'estrema destra odierna cerchi di inserirsi ed egemonizzare i tumulti della piccola borghesia posta ai margini produttivi del sistema. La strada che propongono è la stessa, gli obiettivi diversi. Anche questa volta non viene messo in discussione il modo economico di produzione, il capitalismo, ma semplicemente si sposta l'attenzione sulla necessità di tutelare le posizioni "degli italiani", di chi ha investito la vita nella propria azienda o nella propria attività, contro "lo Stato", "le banche", le "multinazionali". Il rimedio viene spesso visto in un esercizio della sovranità statale che "decida proteggendo" le posizioni che subiscono le contraddizioni, ripristinando nello stato economico antecedente le posizioni di rendita, contro i grandi fattori economici che le vogliono pregiudicare.
Anche oggi può riconoscersi una simile sfiducia nei confronti delle istituzioni politiche, alle quali vengono addebitate più o meno fondatamente collusioni, corruzione, eterodirezione da parte dei grandi monopoli internazionali o addirittura da stati stranieri egemoni come la Germania.
La differenza - non poco importante - con la situazione dell'Italia dopo la grande guerra, è l'assenza di un potente e cosciente movimento operaio che conduca un efficace conflitto di classe. Questo fattore fu di indubbia importanza nella saldatura di interessi tra piccola borghesia marginalizzata e monopoli dominanti.
Ciò non vuol però dire che, in tal caso, ogni settore della piccola borghesia, il quale veda marginalizzate le proprie rendite di posizione, si ponga automaticamente come alleato sociale degli interessi della classe proletaria, sia perché quest'ultima soffre oggi di una grande frammentazione e polverizzazione, sia perché non è detto che la piccola borghesia marginalizzata non trovi, anche in questa occasione storica, un'altra via politica sufficiente a rassicurarla circa le proprie posizioni corporative, ma tesa comunque alla conservazione del sistema.
Proprio per tale motivo, la formulazione di una qualsivoglia teoria del conflitto e delle alleanze sociali tra la classe operaia e altre classi poste ai margini del processo produttivo non può prescindere prima di tutto dallo sforzo teso ad unificare una cosciente e militante classe operaia.
Prima occorrerebbe forse capire "dove sono i nostri": individuare quei segmenti della classe operaia che possono mettere in campo una cosciente ed efficace mobilitazione, riprendendo le indicazioni che derivano dall'approfondita analisi dell'omonimo saggio dei Clashcityworkers (Clash City Workers, Dove sono i nostri, Lavoro, classe e movimenti nell'Italia della crisi, La Casa Usher).
Solo agendo da una consolidata e cosciente posizione di classe può essere in seguito proposta un'alleanza sociale la quale conduca ad un efficace antagonismo nei confronti del sistema economico.
Diversamente, queste classi produttive marginalizzate saranno portate ad individuare la soluzione corporativa più immediata, la quale è suscettibile di saldarsi con gli interessi di un sistema che temporaneamente e parzialmente avversano non tanto perché coscienti delle sue contraddizioni insanabili, ma perché le imputano semplicemente alla negligenza ed alla corruzione dell'intermediario politico.
Peraltro, dal punto di vista della classe operaia, senza scendere in campo con una precisa composizione ed organizzazione dei propri interessi di classe, si rischia di fare la parte del servo in commedia. In questo caso, gli interessi della classe operaia che non hanno una precisa caratterizzazione, organizzazione ed ideologia, finiscono per essere subordinati ad un interesse di classe completamente diverso. La piccola borghesia che si spinge nel proletariato finisce spesso per portarvi la propria ideologia del momento, fenomeno che ha sempre dato luogo a esiti infausti per entrambi. Così, ad esempio, è successo ad quei movimenti di sinistra che hanno appoggiato i tumulti ucraini contro il governo legittimo, superficialmente individuando come "rivoluzionarie" mobilitazioni che invece erano da un lato egemonizzate da interessi tutt'altro che proletari, divisi tra rivendicazioni dell'estrema destra ed interessi dell'imperialismo occidentale di USA UE e NATO, i quali hanno apertamente sostenuto le rivolte ed il colpo di stato in Ucraina.
Tuttavia, la storia del ventennio, la rovina politica ed economica del fascismo, mostrano altresì alla piccola borghesia marginalizzata come la scelta di una strada politica convergente con la conservazione del sistema economico capitalista si riveli sempre fallimentare. Ciò per una ragione eminentemente strutturale: il capitalismo nel quale siamo immersi non può sussistere senza rivoluzionare profondamente i suoi mezzi di produzione, scartando prima o popi le figure economiche ai suoi margini. Ogni proposta politica che ne confermi la direzione economica, non può che essere succube prima o poi del potere economico di quelle classi dominanti che possiedono i più rilevanti mezzi di produzione e la tecnologia in grado di innovarli e rivoluzionarli ad uso del loro esclusivo profitto, riducendo sia il costo del lavoro che il ricorso ad intermediari economici inutili. Se l'innovazione tecnologica non è mai autonoma ed indipendente dalle mani che la possiedono, coloro che la governano, progettano ed applicano difficilmente potranno rinunciare ai vantaggi di profitto e potere che ne derivano, vogliano o non vogliano coloro che ne sono sospinti ai margini.
L'alternativa non sta nella temporanea difesa corporativa di posizioni di rendita, ma nell'impadronirsi dei mezzi di produzione e dell'innovazione tecnologica per organizzare collettivamente produzione e progresso, non per i profitti delle grandi corporations o delle istituzioni finanziarie, ma per i bisogni dell'umanità intera. Non si tratta di conservare o difendere i vantaggi di pochi, ma di acquistare i vantaggi per il 100% dell'umanità, pena l'essere prima o poi subordinati a pochissimi.
I fatti economici gridano spesso a volume tanto alto, quanto inascoltato dalle coscienze sorde.
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