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Il contributo di Frantz Fanon al processo di liberazione dei popoli
 
da Franz Fanon, I dannati della terra:
Nota biografica
Prefazione (di Jean Paul Sartre)
Della violenza nel contesto internazionale
 
Il contributo di Frantz Fanon al processo di liberazione dei popoli
 

da Frantz Fanon, I dannati della terra, Einaudi, 1962
trascrizione a cura di Valerio per www.resistenze.org  per l'anniversario della morte di Fanon (06/12/1961)
 
Nota biografica
 
A cura di Giovanni Pirelli
 
Frantz Fanon è nato il 25 luglio 1925 a Fort-de-France, in Martinica, sotto dominazione francese. È il quarto di sette figli. Il padre era impiegato alle dogane, la madre gestiva un piccolo bazar. Della prima giovinezza di F. si sa soltanto che era un cattivo scolaro e un focoso capobanda, ma, già nell'adolescenza, mentre studiava alle scuole medie, egli viene descritto come appassionato lettore dei maestri del pensiero e della letteratura europea. Nel 1944, insieme a due compagni, prende clandestinamente il largo su una piccola imbarcazione, raggiunge l'isoletta di St. Lucy, sotto dominazione inglese, passa in Marocco, si presenta volontario a un campo di raccolta delle FFI (Forces Françaises de l'Intèrieur), completa a Bougie, in Algeria, l'addestramento militare. All'inizio del 1945 sbarca a Tolone con un reparto della 1ª Armata francese sotto il comando del generale De Lattre de Tassigny, risale la valle del Rodano e raggiunge l'Alsazia dove sono in corso grandi combattimenti. È ferito durante l'attraversamento del Reno. Dopo un breve periodo all'ospedale, raggiunge il proprio reparto impegnato nelle operazioni conclusive nel territorio tedesco confinante con la Svizzera. Smobilitato, rientra in Martinica, vi ottiene una borsa di studio e torna in Europa. Studia medicina a Lione iniziando, al terzo anno, la specializzazione in neurochirurgia e neuropsichiatria. Nel 1952 si laurea con una tesi su un caso di «malattia di Friedrich con delirio di possesso». Durante il periodo di medico interno consegue le specializzazione in medicina legale e in patologia tropicale pur orientandosi decisamente verso l'esercizio della psichiatria. Il suo interesse per la filosofia, e in particolare per il marxismo, l'esistenzialismo e la fenomenologia, lo conduce conseguire anche una licence in filosofia. Sono del 1952 le sue prime pubblicazioni: il saggio Le syndrome nord-africain (in «Esprit», febbraio 1952, ripubblicata in Pour la révolution africaine, Maspéro, Paris 1954) e una raccolta di saggi sulla negrità e il razzismo, Peau noire, Masques blancs (Editions du Seuil, Paris 1952, con una prefazione di Francis Jeanson; nella versione italiana: Il negro e l'altro. Il Saggiatore, Milano 1965). Di questo stesso anno è la stesura di un dramma, dal titolo Les mains parallèles, rimasto inedito, ambientato tra i portuali lionesi. Negli ultimi mesi trascorsi in Francia egli è psichiatra all'ospedale di Saint-Albain in Lozère e di Pontorson in Normandia, consegue a Parigi il médicat des hôpiteaux psychiatriques, sposa una cittadina francese, studentessa in lettere conosciuta a Lione, da cui avrà un figlio di nome Olivier.
 
Nel 1953 egli compie la scelta che deciderà della sua successiva esistenza: chiede ed ottiene di essere assegnato a un ospedale in Algeria. Nei tre anni vissuti all'ospedale di Blida-Joinville, a cavaliere tra una situazione «nornale», l'esplodere e il dilagare dell'insurrezione armata e il generalizzarsi della «pacicazione» francese, F. elabora un modello assolutamente orginale di analisi dell'alienazione colonialista osservata attraverso le malattie mentali del colonizzato e in relazione con le tradizioni etico-culturali del mondo arabo. La sua posizione a Blida diventa via via più precaria quando viene sospettato di collusione con il Fronte di Liberazione Nazionale algerino e in seguito all'attenzione che egli richiama su di sé con l'intervento al Primo Congresso degli Scrittori e Artisti Neri tenutosi alla Sorbonne nel settembre del ‘56 (pubblicato con il titolo Racisme et culture in «Présence Africaine», numero speciale, giugno-novembe 1956, ripubblicato in Pour la révolution africaine cit.; nel febbraio 1955 «Esprit» aveva pubblicato un altro suo saggio, Anitillais et africains, anch'esso ripubblicato nella citata raccolta). Verso la fine del ‘56 F. è costretto ad abbandonare il suolo algerino. In quell'occasione scrive la Lettre au Ministre Résident (in Pour la révolution africaine cit.) in cui denuncia la «disumanizzazione sistematica» dell'arabo sotto la dominazione coloniale francese.
 
Il passaggio di F. a Tunisi, sede del Comitato di Coordinazione ed Esecuzione (CCE) del FLN, divenuto poi Governo Provvisorio della Repubblica Algerina (GPRA), è la prima conseguenza pratica della sua decisione di diventare, secondo le sue stesse parole, cittadino della rivoluzione algerina, Da questo momento, accanto all'attività psichiatrica, sede anch'essa di intensa ricerca e di audaci innovazioni, prende maggior rilievo il diretto impegno del militante entro la disciplina dell'organizzazione rivoluzionaria. Il lavoro nel Ministero dell'Informazione e quindi in quello degli Affari esteri del GPRA, l'elaborazione teorico-politica nei corsi agli studenti dell'Università di Tunisi e ai quadri delle formazioni militari dislocate lungo la frontiera algero-tunisina, la ricerca del rapporto tra lavoro culturale e azione rivoluzionaria, il tentativo di inserire l'esperienza algerina in una prospettiva di unità africana e di iniziativa estesa a tutto il «terzo mondo», rappresentano non tanto i successivi momenti quanto i diversi livelli, le dimensioni in cui si manifesta la maturità di F., gli aspetti concomitanti di una battaglia condotta in uno stato di ininterrotta, lucida, accanita tensione. L'evolversi del pensiero e l'allargarsi degli interessi di F. tra il ‘56 e il ‘61 sono documentati dagli scritti delle sezioni IV e V della citata raccolta Pour la révolution africaine, nel gruppo di saggi dedicati alla rivoluzione algerina (L'an V de la révolution algérienne, Maspéro, Paris 1960; nella versione italiana: Sociologia della Rivoluzione algerina, Einaudi, Torino 1963) e infine nei saggi teorici scritti tra il marzo e il giugno del ‘61 in drammatica gara con la malattia che lo stava uccidendo (fa eccezione il saggio Sulla cultura nazionale, comunicazione al Secondo Congresso degli Scrittori e Artisti Neri; Roma 1959), pubblicati alla vigilia della sua morte con il titolo Les damnés de la terre (Maspéro, Paris 1961), usciti l'anno seguente nella collana dei Libri bianchi Einaudi e oggi tradotti, ampiamente conosciuti e discussi in molti paesi d'Europa, negli Stati Uniti, in America Latina, in Africa e in Asia, Scarse, invece, sono le testimonianze sulle vicende che fanno di F., nel giro di pochi anni, un personaggio di primissimo piano nel continente africano. Si hanno notizie su viaggi compiuti ad Addis Abeba, nel Ghana, in Guinea, nel Mali, nel Congo, alcuni dei quali per partecipare a conferenze tra stati africani o afroasiatici, altri di carattere diplomatico, altri ancora clandestini; su incontri, e sulla sua amicizia, con alcuni tra i massimi leader africani, quali Sékou Touré, Félix Moumié, Lumumba; sul periodo (primavera-estate 1960) in cui F. è rappresentante dei GPRA ad Accra e progetta l'apertura del «Fronte dei Mali» per alimentare dal Sud la lotta armata; sul ruolo decisivo che egli ebbe nel sollecitare Holden Roberto ad iniziare la guerriglia in Angola. Sono, purtroppo, indicazioni sporadiche che dovranno essere coordinate e integrate per una più completa biografia di F. nonché per la conoscenza della storia dell'Africa con particolare riferimento agli anni cruciali ‘59 e ‘60.
 
All'inizio del ‘61 F. sa di essere colpito da una malattia tuttora in guaribile, la leucemia; conseguenza, secondo taluni, delle ferite riportate quando la vettura su cui viaggiava nei pressi di Biserta, nell'estate del ‘6o, veniva rovesciata dallo scoppio di una mina (e non si trattava certo d'incidente; anche nella clinica romana dove veniva trasportato d'urgenza sotto falso nome egli sfuggiva fortunosamente a un attentato da parte di membri dell'OAS). A Mosca, dove si reca per tentare una nuova cura, gli viene prescritto un lungo periodo di riposo come condizione essenziale onde evitare il rapido progresso della malattina. Ma F. non si rassegna e torna a Tunisi. Al principio dell'autunno, dopo gli incontri romani con Sartre, le sue condizioni si aggravano. Parte per Washington dove, per intralci di carattere burocratico, rimane otto giorni in albergo prima di essere ricoverato all'ospedale dove giunge in stato di coma. Intense cure da parte di specialisti e, annota sua moglie, una caparbia volontà di sopravvivere favoriscono un discreto miglioramento, grazie al quale F. può prendere contatti con diversi esponenti africani all'ONU e progettare nuovi lavori (uno di carattere scientifico sulla crisi attraverso cui egli stesso è passato, dal titolo La leucémie et son double, uno sulla storia dell'ALN). Sopraggiunte comp1icazoni broncopolmonari pongono fine alla sua resistenza. F. muore il 6 dicembre 1961. Il suo corpo viene trasportato in aereo e sepolto in terra algerina, lungo il confine con la Tunisia, in zona di combattimento.
 

da Frantz Fanon, I dannati della terra, Einudi, 1962
trascrizione a cura di Valerio per www.resistenze.org  per l'anniversario della morte di Fanon (06/12/1961)
 
Prefazione (di Jean Paul Sartre)
 
Settembre 1961
 
Or non è molto, la terra contava due miliardi d'abitanti, ossia cinquecento milioni d'uomini e un miliardo e cinquecento milioni d'indigeni. I primi disponevano del Verbo, gli altri se ne servivano. Tra quelli e questi, reucci venduti, feudatari, una falsa borghesia inventata di tutto punto fungevano da intermediari. Nelle colonie la verità si mostrava nuda; le «metropoli» la preferivano vestita; bisognava che l'indigeno le amasse. Come madri, in certo modo. L'élite europea prese a fabbricare un indigeno scelto; si selezionavano gli adolescenti, gli si stampavano in fronte, col ferro incandescente, i principi della cultura occidentale, gli si cacciavano in bocca bavagli sonori, parole grosse glutinose che si appiccicavano ai denti; dopo un breve soggiorno in metropoli, li si rimandavano a casa, contraffatti. Quelle menzogne viventi non avevano più niente da dire ai loro fratelli; risonavano; da Parigi, da Londra, da Amsterdam noi lanciavamo parole: «Partenone! Fratellanza!», e da qualche parte, in Africa, in Asia, labbra si aprivano: «... tenone! lanza!» Erano i tempi d'oro.
 
Finirono: le bocche s'aprirono da sole; le voci gialle e nere parlavano ancora del nostro umanesimo, ma era per rimproverarci la nostra inumanità. Ascoltavamo senza scontento quei cortesi elaborati d'amarezza. Dapprima fu un bello stupore: ma come? Parlan da soli? Vedete, però, che cosa abbiamo fatto di loro! Non dubitavamo che accettassero il nostro ideale, poiché ci accusavano di non essergli fedeli; questa volta, l'Europa credette alla sua missione: aveva ellenizzato gli asiatici, creato questa specie nuova, i negri greco - latini. Fra noi, soggiungevamo molto praticamente: lasciamoli sbraitare, li consola; can che abbaia non morde.
 
Venne un'altra generazione, che spostò la questione. I suoi scrittori i suoi poeti, con incredibile pazienza cercarono di spiegarci che i valori nostri aderivano male alla verità della loro vita, che essi non potevano né affatto respingerli né assimilarli. All'incirca questo voleva dire: voi fate di noi dei mostri, il vostro umanesimo ci pretende universali e le vostre pratiche razziste ci particolarizzano. Li ascoltavamo, molto disinvolti: gli amministratori coloniali non son pagati per leggere Hegel, e infatti lo leggono poco, ma non han bisogno di quel filosofo per sapere che le coscienze infelici s'impigliano nelle loro contraddizioni. Efficacia nessuna. Dunque, perpetuiamo la loro infelicità, non ne verrà fuori che fumo. Se ci fosse, ci dicevan gli esperti, un'ombra di rivendicazione nei loro piagnistei, sarebbe quella dell'integrazione. Mica accordarla, beninteso: si sarebbe rovinato il sistema che poggia, come sapete, sul supersfruttamento. Ma basterà — dicevano — tener loro davanti agli occhi quella carota: galopperanno. Quanto a ribellarsi, eravamo tranquillissimi: quale indigeno cosciente si sarebbe messo a massacrare i bei figli d'Europa al solo scopo di diventare europeo come loro? Insomma, incoraggiavamo quelle malinconie e non ci parve male, per una volta, di attribuire il Premio Goncourt a un negro: era prima del '39.
 
I961. Sentite: «Non perdiamo tempo in sterili litanie o in mimetismi stomachevoli. Abbandoniamo quest'Europa che non la finisce di parlare dell'uomo pur massacrandolo dovunque lo incontra, in tutti gli angoli delle sue stesse strade, in tutti gli angoli del mondo. Sono secoli … che in nome d'una pretesa "avventura spirituale" essa soffoca la quasi totalità dell'umanità », Questo tono è nuovo. Chi osa pigliarlo? Un africano, uomo del Terzo Mondo, ex colonizzato. Egli soggiunge: «L Europa ha assunto una velocità cosi pazza, disordinata … che va verso abissi da cui è meglio allontanarsi». In altre parole: è fottuta. Una verità che non è bella da dire, ma di cui — vero, cari coabitatori del continente? — siam tutti, tra pelle e pelle, convinti.
 
C'è da fare una riserva, però. Quando un francese, per esempio, dice ad altri francesi: «Siamo fottuti!» — il che, a conoscenza mia, accade pressoché tutti i giorni dal 1930 — è un discorso passionale, scottante di rabbia e d'amore, l'oratore ci si mette dentro con tutti suoi compatrioti. E poi soggiunge generalmente: «A meno che …» È chiaro di che cosa si tratta: non si devono più commettere altri sbagli; se le raccomandazioni sue non sono seguite alla lettera, allora e soltanto allora il paese si disintegrerà. Insomma, è una minaccia seguita da un consiglio e quei discorsi urtano tanto meno in quanto scaturiscono dall'intersoggettività nazionale. Quando Fanon, invece, dice dell'Europa che corre alla sua rovina, lungi dal levare un grido d'allarme, egli propone una diagnosi. Questo medico non pretende di condannarla senza scampo — si son visti miracoli — né di darle i mezzi per guarire: constata che agonizza. Dal di fuori, basandosi sui sintomi che ha potuto raccogliere. Quanto a curarla, no: ha altri pensieri pel capo; che crepi o sopravviva, lui se ne infischia. Per questo motivo, il suo libro è scandaloso. E se voi sussurrate, giovialoni e imbarazzati: «Quante ce ne dice!», la vera natura dello scandalo vi sfugge: giacché Fanon non «ve ne dice» affatto; la sua opera — così scottante per altri — rimane per voi gelida; si parla di voi spesso, a voi mai. Finiti i Goncourt neri e i Nobel gialli: non ritornerà più il tempo dei premiati colonizzati. Un ex indigeno «di lingua francese» piega quella lingua a esigenze nuove, ne usa e si rivolge ai soli colonizzati: «Indigeni di tutti i paesi sottosviluppati, unitevi!» Che scadimento: per i padri, eravamo gli unici interlocutori; i figli non ci considerano nemmeno più come interlocutori validi. Siamo gli oggetti del discorso. Certo Fanon ricorda di passata i nostri delitti famosi, Sétif, Hanoi, Madagascar, ma non perde fatica a condannarli: li adopera. Se smonta le tattiche del colonialismo, il gioco complesso delle relazioni che uniscono e oppongono i coloni ai «metropolitani», è per i suoi fratelli; lo scopo suo è di insegnar loro a sventare i nostri colpi.
 
Insomma, il Terzo Mondo si scopre e si parla con questa voce. Si sa che esso non è omogeneo e che comprende ancora popoli asserviti, altri che hanno acquisito una falsa indipendenza, altri che si battono per conquistare la sovranità, altri infine che hanno raggiunto la libertà plenaria ma vivono sotto la minaccia costante di un'aggressione imperialista. Queste differenze sono nate dalla storia coloniale, quanto dire dall'oppressione. Qui la Metropoli si è accontentata di pagare qualche feudatario: là, dividendo per imperare, ha fabbricato di tutto punto una borghesia di colonizzati; altrove ha fatto colpo doppio: la colonia è nello stesso tempo di sfruttamento e di popolamento. Così l'Europa ha moltiplicato le divisioni, le opposizioni, forgiato classi e talvolta razzismi, tentato con tutti gli espedienti di provocare e di accrescere la stratificazione delle società colonizzate. Fanon non dissimula nulla: per lottare contro di noi l'ex colonia deve lottare contro se stessa. O piuttosto i due fanno uno. Al fuoco della pugna, tutte le barriere interne devono liquefarsi, l'impotente borghesia di affaristi e di compradores, il proletariato urbano, sempre privilegiato, il Lumpenproletariat dei bidonvilles, tutti devono allinearsi sulle posizioni delle masse rurali, vero serbatoio dell'esercito. nazionale e rivoluzionario; in queste contrade di cui il colonialismo ha deliberatamente arrestato lo sviluppo, il ceto contadino, quando si rivolta, appare prestissimo come la classe radicale: esso conosce l'oppressione nuda, ne soffre molto più dei lavoratori delle città e, per impedirgli di morire di fame, non occorre niente di meno che un'eversione di tutte le strutture. Trionfi, la Rivoluzione nazionale sarà socialista; arrestino il suo slancio, la borghesia colonizzata prenda il potere, il nuovo Stato, ad onta d'una sovranità formale, resta nelle mani degli imperialisti. È quel che illustra assai bene l'esempio del Katanga. Cosi l'unità del Terzo Mondo non è fatta: è un'impresa in corso che passa per l'unione, in ogni paese, dopo l'indipendenza come prima, di tutti i colonizzati sotto il comando della classe contadina. Ecco quel che Fanon spiega ai suoi fratelli d'Africa, d'Asia, d'America latina: attueremo tutti assieme e dappertutto il socialismo rivoluzionario o saremo battuti ad uno ad uno dal nostri antichi tiranni. Non dissimula niente; né le debolezze, né le discordie, né le mistificazioni. Qui il movimento parte male; là, dopo folgoranti successi, sta perdendo velocità; altrove si è fermato: se si vuoi che riprenda, occorre che i contadini gettino la loro borghesia a mare. Il lettore è severamente messo in guardia contro le alienazioni più pericolose: il leader, il culto della persona, la cultura occidentale, ma altresì il ristorno del remoto passato della cultura africana: la vera cultura è la Rivoluzione; il che vuol dire che essa si modella a caldo. Fanon parla a voce alta; noi europei, possiamo udirlo: prova ne sia che tenete questo libro tra le mani; forse non teme che le potenze coloniali traggano profitto dalla sua sincerità?
 
No. Non teme nulla. I nostri procedimenti non son più aggiornati: possono ritardare talvolta l'emancipazione, non la fermeranno. E non figuriamoci di poter ridimensionare i nostri metodi: il neocolonialismo, sogno pigro della Metropoli, è fumo; le «Terze Forze» non esistono oppure sono le borghesie fasulle che il colonialismo ha già messo al potere. Il nostro machiavellismo ha poca presa su quel mondo sveglio che ha snidato una dopo l'altra le nostre menzogne. Il colono ha solo un rifugio: la forza, quando gliene resta; l'indigeno ha solo una scelta: la servitù o la sovranità. Cosa può importargliene, a Fanon, che voi leggiate o no la sua opera? Egli denuncia ai suoi fratelli le nostre vecchie furbizie, sicuro che non ne abbiamo di ricambio. È a loro che dice: l'Europa ha messo le zampe sul nostri continenti, occorre trinciarle fino a che le ritiri; il momento ci favorisce: niente succede a Biserta, a Elisabethville, nel bled algerino senza che la terra intera ne sia informata; i blocchi assumono partiti contrari, si tengono in rispetto, approfittiamo di questa paralisi, entriamo nella storia e la nostra irruzione la faccia universale per la prima volta; battiamoci: in mancanza d'altre armi la pazienza del coltello basterà.
 
Europei, aprite questo libro, andateci dentro. Dopo qualche passo nella notte vedrete stranieri riuniti attorno a un fuoco, avvicinatevi, ascoltate: discutono della sorte che riserbano alle vostre agenzie generali di commercio, ai mercenari che le difendono. Vi vedranno, forse, ma continueranno a parlar tra loro, senza neanche abbassare la voce. Quell'indifferenza colpisce al cuore: i padri, creature dell'ombra, le vostre creature, erano anime morte, voi dispensavate loro la luce, non si rivolgevano se non a voi, e voi non vi prendevate la briga di rispondere a quegli zombies[1]. I figli vi ignorano: un fuoco li rischiara e li riscalda, che non è il vostro. Voi, a rispettosa distanza, vi sentirete funtivi, notturni, agghiacciati: a ciascuno il suo turno; in quelle tenebre da cui spunterà un'altra aurora, gli zombies siete voi.
 
In tal caso, direte voi, buttiamo quest'opera dalla finestra. Perché leggerla giacché non è scritta per noi? Per due motivi, di cui il primo si è che Fanon vi spiega ai suoi fratelli e smonta per loro il meccanismo delle nostre alienazioni: approfittatene per scoprirvi a voi stessi nella vostra verità d'oggetti. Le nostre vittime ci conoscono dalle loro ferite e dai loro ferri: questo rende la loro testimonianza irrefutabile. Basta che ci mostrino quel che abbiam fatto di i loro perché conosciamo quel che abbiam fatto di noi. É utile? Sì, poiché l'Europa è in gran pericolo di crepare. Ma, direte voi ancora, noi viviamo nella Metropoli e condanniamo gli eccessi. È vero: non siete coloni, ma non valete di più. Quelli sono i vostri pionieri, voi li avete inviati oltremare, vi hanno arricchiti; li avevate avvertiti: se facevano scorrere troppo sangue, li avreste sconfessati in punta di labbra; allo stesso modo, uno Stato — quale che sia — tiene all'estero una turba di agitatori, di provocatori e di spie che sconfessa quando li prendono. Voi, cosi liberali, cosi umani, che spingete l'amore della cultura fino al preziosismo, fate finta di dimenticare che avete colonie e che là massacrano in vostro nome. Fanon rivela ai suoi compagni — a certuni di loro, soprattutto, che restano un po' troppo occidentalizzati — la solidarietà dei «metropolitani» e dei loro agenti coloniali. Abbiate il coraggio di leggerlo: per questo primo motivo che vi farà vergogna e la vergogna, come ha detto Marx, è un sentimento rivoluzionario. Vedete: anch'io non posso sciogliermi dall'illusione soggettiva. Anche io vi dico: «Tutto è perduto, a meno che …» Europei, io rubo il libro d'un nemico e ne faccio un mezzo per guarire l'Europa. Approfittatene.
 
Ed ecco il secondo motivo: se scartate le chiacchiere fasciste di Sorel, troverete che Fanon è il primo dopo Engels a rimettere in luce l'ostetrica della storia. E non crediate che un sangue troppo vivo o sventure d'infanzia gli abbian dato per la violenza non so qual gusto singolare: egli si fa interprete della situazione, nient'altro. Ma ciò gli permette di ricostruire, una fase dopo l'altra, la dialettica che 1'ipocrisia liberale vi nasconde e che ha prodotto noi quanto lui.
 
Nel secolo scorso, la borghesia considera gli operai come invidiosi, sregolati da grossolani appetiti ma ha cura d'includere quei gran ferini nella nostra specie: a meno di essere uomini e liberi, come potrebbero vendere liberamente la loro forza di lavoro? In Francia, in Inghilterra, l'umanesimo si pretende universale.
 
Col lavoro forzato, è tutto l'opposto: niente contratto; per giunta, occorre intimidire; dunque l'oppressione si palesa. I nostri soldati, oltremare, respingendo l'universalismo metropolitano, applicano al genere umano il numerus clausus: poiché nessuno può — senza reato — spogliare il suo simile, asservirlo od ucciderlo, pongono a principio che il colonizzato non è il simile dell'uomo. La nostra forza d'assalto ha ricevuto missione di mutare quell'astratta certezza in realtà: ordine è dato di abbassare gli abitanti del territorio annesso al livello della scimmia superiore per giustificare il colono di trattarli da bestie da soma. La violenza coloniale non si propone soltanto lo scopo di tenere a rispetto quegli uomini asserviti, cerca di disumanizzarli. Niente sarà risparmiato per liquidare 1e loro tradizioni, per sostituire le nostre lingue alle loro, per distruggere la loro cultura senza dar loro la nostra; li si abbrutirà di fatica. Denutriti, malati se ancora resistono la paura finirà l'opera: si puntano sul contadino fucili; vengono civili che si stabiliscono sulla sua terra e lo costringono con lo scudiscio a coltivarla per loro. Se resiste, i soldati sparano, lui è un uomo morto; se cede, si degrada, non e più un uomo; la vergogna e la paura incrineranno il suo carattere, disintegreranno la sua persona La cosa si fa senza dar fiato, ad opera d'esperti: i «servizi psicologici» non datano da oggi. Né il lavaggio del cervello. Eppure, nonostante tanti sforzi, lo scopo non è raggiunto da nessuna parte: nel Congo, in cui si tagliavano le mani dei negri; mica meglio che in Angola dove, or non è molto, si foravano le labbra ai malcontenti per chiuderle con lucchetti. Né io pretendo che sia impossibile cambiare un uomo in bestia: dico che non vi si arriva senza indebolirlo considerevolmente; i colpi non bastano mai, occorre forzare sulla denutrizione. È questa la seccatura, con la servitù: quando si addomestica un membro della nostra specie, se ne diminuisce il rendimento, e per poco che gli si dia, un uomo da cortile finisce per costare più di quanto frutti. Per questo motivo i coloni son costretti ad arrestare l'addestramento a metà: il risultato, né uomo né bestia, è l'indigeno. Picchiato, sottoalimentato, ammalato, impaurito, ma fino ad un certo punto soltanto, egli ha, giallo, nero o bianco, sempre gli stessi tratti di carattere: è un pigro, dissimulatore e ladro, che vive di nulla e non conosce altro che la forza.
 
Povero colono: ecco la sua contraddizione messa a nudo. Dovrebbe, come fa, si dice, il genio, uccidere quelli che saccheggia. Il che purtroppo non è possibile: o non è forse necessario che li sfrutti? Mancando ai spingere il massacro fino al genocidio, e la servitù fino all'abbruttimento, perde il controllo, l'operazione si capovolge, un'implacabile logica la porterà fino alla decolonizzazione.
 
Non subito. Dapprincipio l'europeo impera: ha già perduto ma non se e accorge; non sa ancora che gl'indigeni son falsi indigeni: fa loro male, a sentirlo, per distruggere o ricacciare il male che hanno in loro; in capo a tre generazioni, i loro perniciosi istinti non rinasceranno più. Quali istinti? Quelli che spingono lo schiavo a massacrare il padrone? Come non riconosce la sua stessa crudeltà rivoltarsi contro di lui? L'asprezza selvaggia di quei contadini oppressi, come non vi ritrova la sua asprezza selvaggia di colono che quelli hanno assorbita da tutti i pori e da cui non guariscono? La ragione è semplice: quel personaggio imperioso, spiritato dalla sua onnipotenza e dalla paura di perderla, non si ricorda più chiaramente di essere stato un uomo: si crede uno scudiscio o un fucile; è giunto a pensare che l'addomesticamento delle «razze inferiori» si ottiene col condizionamento dei loro riflessi. Trascura la memoria umana, .i ricordi incancellabili; e poi, soprattutto, c'è quello che egli forse non ha mai saputo: noi non diventiamo quello che siamo se non con la negazione intima e radicale di quel che han fatto di noi. Tre generazioni? Fin dalla seconda, appena aprivano gli occhi, i figli hanno visto percuotere i loro padri. In termini psichiatrici, eccoli «traumatizzati ». Per la vita. Ma quelle aggressioni senza tregua rinnovate, anziché spingerli a sottomettersi, li buttano in una contraddizione insopportabile di cui l'europeo, presto o tardi, farà le spese. E dopo, li si addestri a loro volta, gli si insegni la vergogna, il dolore e la fame: non si susciterà ne loro corpi che rabbia vulcanica la cui potenza è uguale a quella della pressione che viene esercitata su di loro. Non conoscono, dicevate, se non la forza? Certo; dapprima sarà soltanto quella del colono e ben presto, soltanto la loro, il che vuol dire: la medesima che si ripercuote su di noi come il nostro riflesso ci viene incontro dal fondo d'uno specchio. Non illudetevi; attraverso quel pazzo rovello, per quella bile e quel fiele, attraverso il loro desiderio costante di ucciderci, per la contrazione costante di muscoli potenti che han paura di sciogliersi, essi sono uomini: attraverso il colono, che li vuole uomini di fatica, e contro di lui. Cieco ancora, astratto, l'odio è il loro solo tesoro: il padrone lo provoca perche cerca di imbestialirli, non riesce a spezzarlo, perché i suoi interessi l'arrestano a mezza strada; così i falsi indigeni sono umani ancora, per la potenza e l'impotenza dell'oppressore che si trasformano, in loro, in rifiuto caparbio della condizione animale. Quanto al resto abbiamo capito; son pigri, certo: ma è sabotaggio. Dissimulatori, ladri: caspita; i loro furtarelli segnano l'inizio d'una resistenza non ancora organizzata. Non basta: ce ne sono che si affermano buttandosi a mani nude contro i fucili; sono i loro eroi; e altri si fanno. uomini assassinando europei. Li si ammazza: briganti e martiri, il loro supplizio esalta le masse atterrite.
 
Atterrite, sì: in questo nuovo momento, l'aggressione colonialista s'interiorizza in Terrore nei colonizzati. Con ciò non intendo soltanto il timore che essi provano davanti ai nostri inesauribili mezzi di repressione, ma anche quello che ispira loro il loro stesso furore. Son stretti tra le nostre armi che li prendono di mira e quelle spaventevoli pulsioni, quei desideri omicidi che salgono dal fondo dei cuori e che essi non sempre riconoscono: giacché non è, da principio, la loro violenza, è la nostra, rivoltata, che cresce e li strazia; e il primo moto di quegli oppressi è di seppellire profondamente quell'inconfessabile ira che la morale loro e nostra condannano e non è però che l'ultimo ridotto della loro umanità. Leggete Fanon: saprete che, nel tempo della loro impotenza, la pazzia omicida è l'inconscio collettivo dei colonizzati.
 
Questa furia rattenuta, non potendo scoppiare, gira a tondo e sconvolge gli oppressi stessi. Per liberarsene, giungono a massacrarsi tra loro: le tribù si battono le une contro le altre non potendo affrontare il nemico vero — e potete contare sulla politica coloniale per mantenere le loro rivalità; il fratello, alzando il coltello contro suo fratello, crede di distruggere, una volta per tutte, l'aborrita immagine del loro avvilimento comune. Ma quelle vittime espiatore non placano la loro sete di sangue; si tratterranno dal marciare contro le mitragliatrici solo facendosi nostri complici: quella disumanizzazione che respingono, ne accelereranno per conto loro i progressi. Sotto gli occhi divertiti del colono, si premuniranno contro se stessi con barriere soprannaturali, ora ravvivando vecchi miti terribili, ora legandosi stretti con riti meticolosi: così l'ossessionato fugge la sua esigenza profonda infliggendosi manie che lo reclamano ad ogni istante. Danzano: ciò li tiene occupati; ciò scioglie loro i muscoli dolorosamente contratti; e poi la danza mima in segreto, spesso a loro insaputa, il «no» che non possono dire, gli omicidi che non osano commettere. In certe regioni si servono di quest'ultima risorsa: la possessione. Ciò che un tempo era il fatto religioso nella sua semplicità, una certa comunicazione del fedele col sacro, essi ne fanno un'arma contro la disperazione e l'umiliazione: gli zar, i loa[2], i Santi della Santeria discendono in loro, governano la loro violenza e la sprecano in trances sino all'esaurimento. Nello stesso tempo quegli alti personaggi li proteggono: ciò vuoi dire che i colonizzati si difendono dall'alienazione coloniale esagerando l'alienazione religiosa. Con quest'unico risultato, in fin dei conti, di cumulare le due alienazioni e che ciascuna si rafforza con l'altra. Così, in certe psicosi, stanchi di esser insultati tutti i giorni, gli allucinati si immaginano un bel mattino di udire una voce d'angelo che li complimenta; i frizzi non cessano per questo: ma si alternano con le felicitazioni. È una difesa ed è il termine della loro avventura: la persona è dissociata, il malato si avvia alla demenza. Aggiungete, per qualche infelice rigorosamente selezionato, quell'altra ossessione di cui ho parlato più su: la cultura occidentale. Al loro posto, direte voi, preferirei ancora i miei zar che l'Acropoli. Be'; avete capito. Ma non del tutto, giacché non siete al loro posto. Non ancora. Altrimenti sapreste quelli non possono scegliere: cumulano. Due mondi, fan due ossessioni: si danza tutta la notte, all'alba ci si accalca per ascoltare la messa; di giorno in giorno la lesione aumenta. Il nostro nemico tradisce i suoi fratelli e si fa nostro complice; i suoi fratelli fanno altrettanto. L'indigenato è una nevrosi introdotta e mantenuta dal colono nei colonizzati col loro consenso.
 
Reclamare e rinnegare, simultaneamente, la condizione umana: la contraddizione è esplosiva. Perciò esplode, lo sapete quanto me. E noi viviamo al tempo della deflagrazione: che l'incremento delle nascite accresca la penuria, che i nuovi venuti debbano temere di vivere quasi più che di morire, il torrente della violenza travolgerà tutte le barriere. In Algeria, in Angola, si massacrano a vista gli europei. E il momento del boomerang, il terzo tempo della violenza: essa ritorna su di noi, ci percuote e, mica più delle altre volte, noi non capiamo che è la nostra. I «liberali» restano storditi: riconoscono che non eravamo abbastanza gentili con gli indigeni, che sarebbe stato più giusto e prudente accordar loro certi diritti nei limiti del possibile; non chiedevan di meglio che di ammetterli per infornate e senza padrini in questo club così chiuso, la nostra specie: ed ecco che quello scatenamento barbaro e pazzo non li risparmia mica più dei cattivi coloni. La Sinistra Metropolitana sta a disagio: conosce la vera sorte degl'indigeni, l'oppressione senza quartiere di cui sono oggetto, non condanna la loro rivolta, sapendo che abbiamo fatto di tutto per provocarla. E tuttavia, pensa, ci sono dei limiti: quei guerrilleros dovrebbero avere a cuore di mostrarsi cavallereschi; sarebbe il miglior mezzo di provare che sono uomini. Talvolta li strapazza: «siete degli esagerati, noi non vi appoggeremo più». Quelli se ne fottono: per quel che vale l'appoggio ch'essa loro accorda, può altrettanto bene metterselo al sedere. Appena la loro guerra è cominciata, hanno scorto questa verità rigorosa: noi ci valiamo tutti quanti siamo, abbiamo tutti approfittato di loro, non hanno niente da provare, non faranno trattamenti di favore a nessuno. Un solo dovere, un solo obbiettivo: cacciare il colonialismo con tutti i mezzi. E i più avverti di noi sarebbero, a rigore, pronti ad ammetterlo, ma non possono far a meno di vedere, in questa prova di forza, il mezzo tutto inumano che sottouomini hanno preso per farsi largire uno statuto d'umanità: lo si accordi al più presto e cerchino allora, con imprese pacifiche, di meritarlo. Le nostre anime belle sono razziste.
 
Avran vantaggio a leggere Fanon; questa violenza irrefrenabile, egli lo mostra perfettamente, non è un'assurda tempesta né il risorgere d'istinti selvaggi e nemmeno effetto del risentimento:è l'uomo stesso che si ricompone. Questa verità, noi l'abbiamo saputa, credo, e l'abbiamo dimenticata: i segni della violenza, nessun dolore li cancellerà: è la violenza soltanto che può distruggerli. E il colonizzato si guarisce dalla nevrosi coloniale cacciando il colono con le armi. Quando la sua rabbia scoppia, egli ritrova la trasparenza perduta, si conosce nella misura stessa in cui si fa; da lontano noi consideriamo la sua guerra come il trionfo della barbarie; ma essa procede da se stessa all'emancipazione progressiva del combattente, fuga in lui e fuori di lui, progressivamente, le tenebre coloniali. Appena comincia, è senza quartiere. Occorre restare atterriti o diventar tremendi; ciò vuol dire: abbandonarsi alle dissociazioni d'una vita falsata o conquistare l'unità natale. Quando i contadini toccano il fucile, i vecchi miti impallidiscono, gli interdetti sono rovesciati ad uno ad uno: l'arma d'un combattente, è la sua umanità. Giacché, nel primo tempo della rivolta, occorre uccidere; far fuori un europeo è prendere due piccioni con una fava, sopprimere nello stesso tempo un oppressore e un oppresso: restano un uomo morto e un uomo libero; il sopravvissuto, per la prima volta, si sente un suolo nazionale sotto la pianta dei piedi. In quell'istante la Nazione non si allontana da lui: la si trova dove egli va, dove egli è — mai più lontano, essa si confonde con la sua libertà. Ma, dopo la prima sorpresa, l'esercito coloniale reagisce: occorre unirsi o farsi massacrare. Le discordie tribali si attenuano, tendono a sparire: anzitutto perché mettono in pericolo la rivoluzione, e più profondamente perché non avevano altro ufficio che di deviare la violenza verso falsi nemici. Quando esse permangono — come nel Congo — è che sono alimentate dagli agenti de colonialismo. La Nazione si mette in marcia: per ogni fratello essa è dovunque altri fratelli combattono. Il loro amore fraterno è il rovescio dell'odio che nutron per voi: fratelli in questo, che ognuno di loro ha ucciso, può da un momento all'altro aver ucciso. Fanon mostra ai suoi lettori i limiti della «spontaneità», la necessità e i pericoli dell'« organizzazione». Ma quale che sia l'immensità del compito, ad ogni sviluppo dell'impresa la coscienza rivoluzionaria si approfondisce. Gli ultimi complessi si dileguano: vengano un po' a parlarci del «complesso di dipendenza» nel soldato dell'ALN. Liberato dai paraocchi, il contadino prende coscienza dei suoi bisogni: gli davan la morte ma lui tentava d'ignorarli; li scopre come esigenze infinite. In quella violenza popolare — per reggere cinque anni, otto anni come hanno fatto gli algerini — le necessità militari, sociali e politiche non possono separarsi. La guerra — non fosse che col porre la questione del comando e delle responsabilità — istituisce nuove strutture che saranno le prime istituzioni della pace. Ecco dunque l'uomo instaurato in tradizioni nuove, figlie future d'un orrendo presente, eccolo legittimato da un diritto che sta per nascere, che nasce ogni giorno in prima linea: con l'ultimo colono ucciso, rimbarcato o assimilato, la specie minoritaria scompare, cedendo il posto alla fratellanza socialista. E ancora non basta: quel combattente brucia le tappe; potete ben pensare che non rischia la pelle per ritrovarsi al livello del vecchio uomo «metropolitano». Osservate la sua pazienza: forse sogna talvolta una nuova Dien-Bien-Phu; ma potete credere che non ci conta davvero: è un pezzente che lotta, nella sua miseria, contro ricchi potentemente armati. Aspettando le vittorie decisive e, spesso, senza aspettarsi nulla, riduce a poco a poco gli avversari allo sconforto. Ciò non avverrà senza perdite terribili; l'esercito coloniale diventa feroce: perquisizioni sistematiche, rastrellamenti, raggruppamenti, spedizioni punitive; si massacrano le donne e i bambini. Lui lo sa: quest'uomo nuovo comincia la sua vita d'uomo dalla fine; si considera come un morto in potenza. Sarà ucciso: non è soltanto che ne accetta il rischio, è che ne ha la certezza; quel morto in potenza ha perso sua moglie, i suoi figli; ha visto tante agonie che vuol vincere piuttosto che sopravvivere; altri approfitteranno della vittoria, non lui: è troppo stanco. Ma questa fatica del cuore e all'origine di un incredibile coraggio. Noi troviamo la nostra umanità al di qua della morte e della disperazione, lui la trova al di là dei supplizi e della morte. Noi siamo stati i seminatori di vento; la tempesta, è lui. Figlio della violenza, attinge in essa ad ogni istante la sua umanità: eravamo uomini a sue spese, si fa uomo alle nostre. Un altro uomo: di qualità migliore.
 
Qui Fanon si ferma. Ha indicato la strada: portavoce dei combattenti, ha reclamato l'unione, l'unità de continente africano contro tutte le discordie e tutti particolarismi. Il suo scopo è raggiunto. Se volesse descrivere il fatto storico della decolonizzazione, gli occorrerebbe parlare di noi: il che non è certo il suo intento. Ma quando abbiamo chiuso il libro, esso continua in noi, nonostante il suo autore: giacché noi sentiamo la forza del popoli in rivoluzione e vi rispondiamo con la forza. C'è dunque un nuovo momento della violenza ed è a noi, questa volta, che occorre ritornare, poiché essa sta cambiandoci nella misura in cui il falso indigeno si cambia attraverso di essa. A ciascuno fare le riflessioni che preferisce. Purché tuttavia rifletta: nell'Europa d'oggi, tutta stordita dai colpi che le sono inferti, in Francia, in Belgio, in Inghilterra, la minima distrazione del pensiero è una complicità delittuosa con il colonialismo. Questo libro non aveva nessun bisogno d'una prefazione. Tanto meno in quanto non si rivolge a noi. Ne ho scritta una, tuttavia, per portare fino in fondo la dialettica: anche noi, gente d'Europa, ci si decolonizza: ciò vuol dire che si estirpa, con un'operazione sanguinosa, il colono che è in ciascuno di noi. Guardiamoci, se ne abbiamo il coraggio, e vediamo quel che avviene di noi.
 
Occorre affrontare intanto questo spettacolo inaspettato: lo streap-tease del nostro umanesimo. Eccolo qui tutto nudo, non bello: non era che un'ideologia bugiarda, la squisita giustificazione del saccheggio; le sue tenerezze e il suo preziosismo garantivano le nostre aggressioni. Bella figura, i nonviolenti: né vittime né carnefici! Andiamo! Se non siete vittime, quando il governo che avete plebiscitato, quando l'esercito in cui i vostri fratelli più giovani han prestato servizio, senza esitazione né rimorso, si sono accinti a un «genocidio», siete indubbiamente carnefici. E se scegliete d'essere vittime, di rischiare un giorno o due di prigione, voi scegliete semplicemente di tirarvi fuori dal gioco. Non vi tirerete via affatto: bisogna che ci restiate fino in fondo. Capite finalmente questo: se la violenza è cominciata stasera, se lo sfruttamento o l'oppressione non sono mai esistiti in terra, forse la nonviolenza ostentata può placare il dissidio, Ma se il regime per intero e fin i vostri nonviolenti pensieri son condizionati da un'oppressione millenaria, la passività vostra non serve che a schierarvi dal lato degli oppressori.
 
Voi sapete bene che siamo degli sfruttatori. Sapete bene che abbiam preso l'oro e i metalli, poi il petrolio dei «continenti nuovi» e li abbiamo riportati nelle nostre vecchie metropoli. Non senza risulta eccellenti: palazzi, cattedrali, città industriali; e poi, quando la crisi minacciava, i mercati coloniali eran lì per estinguerla o stornarla. L'Europa, satura di ricchezze, accordò de jure l'umanità a tutti suoi abitanti: un uomo, da noi, vuol dire un complice, giacché abbiamo approfittato tutti dello sfruttamento coloniale. Questo continente grasso e smorto finisce per incorrere in quel che Fanon chiama giustamente il «narcissismo ». Cocteau s'irritava di Parigi, «città che parla continuamente di se stessa». E l'Europa, che altro fa? E quel mostro supereuropeo, l'America del Nord? Che cicaleccio: libertà, uguaglianza, fratellanza, amore, onore, patria, che so io? Questo non c'impediva di tenere nello stesso tempo discorsi razzisti, porco negro, porco ebreo, porco arabo. Spiriti buoni, liberali e delicati — neocolonialisti, insomma — si pretendevano urtati da questa incongruenza; errore o malafede: niente di più congruo, da noi, che un umanesimo razzista, poiché l'europeo non ha potuto farsi uomo se non fabbricando degli schiavi e dei mostri. Fintanto che ci fu un indigenato, quella impostura non fu smascherata; si trovava, nel genere umano, un'astratta postulazione d'universalità che serviva a coprire pratiche più realiste; cera, dall'altra parte dei mari, una razza di sottouomini che, grazie a noi, tra mille anni forse, sarebbe arrivata al nostro stadio. Insomma, si confondeva il genere con l'élite. Oggi l'indigeno rivela la sua verità; di colpo, il nostro club così chiuso rivela la sua debolezza: non era altro che una minoranza. C'è di peggio: poiché gli altri si fanno uomini contro di noi, si vede chiaro che noi siamo i nemici del genere umano; l'élite rivela la sua vera natura: una banda di malfattori. I nostri cari valori perdono le ali; a guardarli da vicino, non se ne troverà uno che non sia macchiato di sangue. Se vi occorre un esempio, ricordatevi quelle gran parole: com'è generosa, la Francia. Generosi, noi? E Sétif? E questi otto anni di guerra feroce che sono costati la vita a più d'un milione di algerini? E gli elettrodi? Ma capite bene che non ci si rimprovera d'aver tradito non so qual missione: per la bella ragione che non ne avevamo alcuna. È la generosità stessa ad esser in causa; questa bella parola sonante non ha che un senso: statuto elargito. Per gli uomini di fronte, nuovi e liberati, nessuno ha il potere né il privilegio di dar niente a nessuno. Ognuno ha tutti i diritti. Su tutti; e la nostra specie, quando un giorno si sarà fatta, non si definirà come la somma degli abitanti del globo ma come l'unità infinita delle loro reciprocità. Mi fermo qui; finirete il lavoro voi senza fatica; basta guardare in faccia, per la prima e l'ultima volta, le nostre aristocratiche virtù: esse stanno crepando; come sopravviverebbero all'aristocrazia di sottuomini che le ha generate? Alcuni anni or sono, un commentatore borghese — e colonialista — per difendere l'Occidente non ha trovato altro che questo: «Non siamo angeli. Ma noi, almeno, abbiamo rimorsi». Che confessione! Un tempo il nostro continente aveva altre tavole di salvezza: il Partenone, Chartres, i Diritti dell'Uomo, la svastica. Si sa adesso quello che valgono: e non si pretende più di salvarci dal naufragio se non col sentimento molto cristiano della nostra consapevolezza. È la fine, come vedete: l'Europa fa acqua da tutte le parti. Che è dunque successo? Questo, molto semplicemente, che eravamo i soggetti della storia e che ne siamo adesso gli oggetti. Il rapporto delle forze si è rovesciato, la decolonizzazione è in corso; tutto quel che i nostri mercenari possono tentare è ritardarne il compimento.
 
Ma bisogna ancora che le vecchie «Metropoli» ce la mettano tutta, che impegnino tutte le loro forze in una battaglia perduta in anticipo Quella vecchia brutalità coloniale che ha fatto la dubbia gloria dei Bugeaud [[3]], la ritroviamo, alla fine dell'avventura, decuplicata, insufficiente. S'invia il contingente in Algeria, esso vi si trattiene da sette anni senza esito. La violenza ha cambiato senso; vittoriosi l'esercitavamo senza che sembrasse alterarci: essa decomponeva gli altri, e,noi, gli uomini, il nostro umanesimo restava intatto; uniti dal guadagno, i metropolitani battezzavano fratellanza, amore, la comunità dei loro delitti; oggi la stessa, bloccata dovunque, ritorna su di noi attraverso i nostri soldati, s'interiorizza e ci possiede. L'involuzione comincia: il colonizzato si ricompone e noi, ultras e liberali, coloni e «metropolitani» ci decomponiamo. Già la rabbia e la paura son nude: si mostrano allo scoperto nelle «cacce all'arabo» d'Algeri. Dove sono i selvaggi, adesso? Dov'è la barbarie? Non manca nulla, nemmeno il tam-tam: i clacson ritmano «Algeria francese», mentre gli europei fan bruciare vivi dei mussulmani. Non molto tempo fa, Fanon lo ricorda, psichiatri a congresso si addoloravano della delinquenza indigena: quelli si ammazzan tra loro, dicevano, non è normale; la corteccia dell'algerino deve essere sotto sviluppata. In Africa centrale altri hanno stabilito che «l'africano impiega pochissimo i lobi frontali». Questi studiosi avrebbero interesse oggi a proseguire l'inchiesta in Europa e particolarmente presso i francesi. Giacché anche noi, da qualche anno, dobbiamo essere colpiti da pigrizia frontale: i patrioti assassinano un po' i loro compatrioti; in caso di assenza, fanno saltare la loro portinaia o la loro casa. Non è che un inizio: la guerra civile è prevista per l'autunno o per la prossima primavera. Pure i nostri lobi sembrano in perfetto stato: non sarebbe forse piuttosto che, non potendo schiacciare l'indigeno, la violenza ritorna su se stessa, s'accumula in fondo a noi e cerca uno sfogo? L'unione del popolo algerino produce la disunione del popolo francese: su tutto il territorio dell'ex metropoli, le tribù danzano e si preparano al combattimento. Il terrore ha lasciato l'Africa per impiantarsi qui: ci sono dei furiosi puri e semplici, che voglion farci pagare col sangue la vergogna d'esser stati battuti dall'indigeno, e poi ci son gli altri, tutti gli altri, altrettanto colpevoli (dopo Biserta, dopo i linciaggi di settembre, chi mai è sceso in istrada per dire: basta?), ma più posati: i liberali, i duri duri della Sinistra molle. Anche in loro sale la febbre. E l'astio. Ma che fifa! Si occultano la rabbia con miti, con riti complicati; per ritardare il regolamento dei conti finale e l'ora della verità, han messo alla nostra testa un Grande Stregone il cui ufficio è di mantenerci ad ogni costo all'oscuro. Non serve a niente; proclamata dagli uni, ricacciata dagli altri, la violenza gira in tondo; un giorno scoppia a Metz, l'indomani a Bordeaux; è passata di qui, passerà di là, è il gioco dell'anello. A nostra volta, passo per passo, percorriamo la strada che porta all'indigenato. Ma per diventare indigeni completamente, occorrerebbe che il nostro suolo fosse occupato dagli antichi colonizzati e noi crepassimo di fame. Non sarà così: no, è il colonialismo decaduto a possederci, sarà presto lui a cavalcarci, rammollito e superbo; è questo il nostro zar, il nostro loa. E vi persuaderete, leggendo l'ultimo capitolo di Fanon, che è meglio essere un indigeno nel peggior momento della miseria che non un ex colono. Non è bene che un funzionario della polizia sia costretto a torturare dieci ore al giorno: a quel ritmo, i suoi nervi crolleranno, a meno che si proibisca ai carnefici, nel loro stesso interesse, di far ore supplementari. Quando si vuol proteggere con il rigore delle leggi il morale della Nazione e dell'Esercito, non è bene che questo demoralizzi sistematica mente quella. Né che un paese di tradizione repubblicana affidi, a centinaia di migliaia, i suoi giovani ad ufficiali putschisti. Non è bene, compatrioti miei, voi che conoscete tutti i reati commessi in nostro nome, non è davvero bene che non ne facciate parola con nessuno, nemmeno con l'anima vostra, per tema di dovervi giudicare. All'inizio ignoravate, voglio crederlo, in seguito avete dubitato, adesso sapete ma tacete sempre. È degradante, otto anni di silenzio. E invano: oggi, l'accecante sole della tortura è allo zenit, rischiara tutto il paese; sotto quella luce, non c'è più riso che suoni giusto, né volto che non si trucchi per mascherare l'ira o la paura, né atto che non tradisca i nostri disgusti e le nostre complicità. Basta oggi che due francesi s'incontrino perché ci sia un cadavere tra di loro. E quando dico: uno ... La Francia, tempo fa, era il nome d'un paese; attenti che non sia, nel 1961, il nome d'una nevrosi.
 
Guariremo? Sì. La violenza, come la lancia d'Achille, può cicatrizzare le ferite che ha prodotte. Oggi, noi siamo incatenati, umiliati, malati di paura: al punto più basso. Fortunatamente ciò non basta ancora all'aristocrazia colonialista: essa non può compiere la sua missione ritardatrice in Algeria senza aver terminato prima di colonizzare i francesi. Indietreggiamo ogni giorno davanti alla mischia, ma siate certi che non l'eviteremo: ne hanno bisogno, gli uccisori; si scaglieranno contro di noi e picchieranno nel mucchio. Così finirà il tempo degli stregoni e dei feticci: dovrete battervi o marcire nei campi. È l'ultimo momento della dialettica: voi condannate questa guerra ma non osate ancora dichiararvi solidali con i combattenti algerini; niente paura, contate sui coloni e sui mercenari: vi faranno saltare il fosso. Forse, allora, con le spalle al muro, libererete finalmente quella violenza nuova che suscitano in voi vecchi misfatti riscaldati. Ma questa, come si dice, è un'altra storia. Quella dell'uomo. Il tempo s'avvicina, ne sono sicuro, in cui ci uniremo a quelli che la fanno.
 
Jean-Paul Sartre
 
Traduzione di Carlo Cignetti


[1] Cadaveri risuscitati da pratiche rituali del culto vodù [N. d. T.]
[2] Protagonisti soprannaturali di riti possessivi del culto vodù [N. d. T.]
[3] Bugeaud, grand'ufficiale della Legion d'onore, fu nominato governatore generale dell'Algeria dal ministro Thiers nel 1840. Bugeaud finì per disporre di oltre 100.000 uomini. Contornato di generali, La Moricière, Changarnier, Bedeau, Cavaignac, Bugeaud impiegò nuovi metodi di guerra ispirati alla sua esperienza di lotta antipartigiana della guerra di Spagna. Centinaia di abitanti dei villaggi, tra cui donne e bambini, furono asfissiati o sepolti nelle grotte dove si erano rifugiati tentando di resistere alle «colonne mobili». Molte "fumate” — «Canrobert rievoca un precedente, cui personalmente partecipò, un anno prima. "Ero col mio battaglione in una colonna comandata da Cavaignac. Gli Sbéahs avevano assassinato dei coloni e dei funzionari nominati dai francesi; noi dovevamo punirli. Dopo due giorni di corsa folle al loro inseguimento, arrivammo davanti ad una enorme falesia a picco. Nella falesia c'era una fenditura profonda formante una grotta. Gli arabi erano appostati là, e, da dietro le rocce dell'entrata, ci tiravano contro. Quando fummo abbastanza vicini iniziammo a parlamentare. Promettemmo salva la vita agli arabi se fossero usciti. La conversazione fece cessare i colpi di fucile. Il capitano Jouvencourt uscì da dietro la roccia che lo riparava e avanzò verso l'entrata. Stava parlamentando, quando partì una scarica di fucili, e cadde morto, colpito da diverse palle. Non ci fu bisogno d'altro: dopo aver gettato petardi all'entrata della grotta vi accumulammo balle di paglia e sterpi. La sera il fuoco fu acceso. Il giorno dopo alcuni Sbéahs si presentarono all'entrata della grotta; i loro compagni, le donne e i bambini erano tutti morti. I medici e i soldati offrirono ai sopravvissuti il poco d'acqua che avevano e ne restituirono diversi alla vita; la sera le truppe rientrarono a Orléansville. Quello fu il primo episodio riguardo alle grotte".» — furono registrate, distribuite in un periodo totale di cinque anni. A Orléanville, l'11 giugno 1845, Bugeaud consigliò ai subordinati, per ridurre la resistenza delle popolazioni della regione del Chélif: «Se si ritirano nelle loro caverne, fate come Cavaignac agli Sbéhas! Affumicateli come volpi nelle tane». Il 18 giugno 1845, il colonnello Pélissier non esitò ad asfissiare oltre 1.000 persone, uomini, donne, bambini di Ouled Riah, che si erano rifugiati nella grotta di Ghar-el-Frechih nel Dahra. Un soldato scrisse: «Le grotte sono immense; abbiamo contato 760 cadaveri; una sessantina di persone in tutto sono uscite, quasi morte; quaranta non sono sopravvissuti, dieci sono in ospedale, in gravi condizioni; gli ultimi dieci, che potevano ancora camminare, sono stati lasciati liberi di tornare alle loro tribù; non possono altro fare che piangere su delle rovine». Dopo tale azione, Pélissier rispose a qualche buona coscienza inquieta: «La pelle di uno solo dei miei tamburi era più preziosa della vita di tutti quei miserabili». Il 12 agosto 1845, Saint-Arnaud a sua volta, vicino Ténès, trasformò altre grotte «in un vasto cimitero»: «cinquecento briganti» vi furono sepolti.
 

da Frantz Fanon, I dannati della terra, cap.I-1, Einaudi, 1962
trascrizione a cura di Valerio per www.resistenze.org  per l'anniversario della morte di Fanon (06/12/1961)
 
Della violenza nel contesto internazionale
 
Abbiamo cento volte segnalato nelle pagine precedenti che nelle regioni sottosviluppate il responsabile politico è sempre in atto di chiamare il suo popolo alla lotta. Lotta contro il colonialismo, lotta contro la miseria e il sottosviluppo, lotta contro le tradizioni che steriliscono. La terminologia che adopera nei suoi appelli è una terminologia da capo di stato maggiore: «mobilitazione delle masse», «fronte dell'agricoltura», «fronte dell'analfabetismo», «disfatte subite», «vittorie riportate». La giovane nazione indipendente evolve per i primi anni in un'atmosfera da campo di battaglia. Il fatto sì è che il dirigente politico dì un paese sottosviluppato misura con spavento la strada immensa che deve percorrere il suo paese. Si rivolge al popolo e gli dice; «Cingiamoci le reni e lavoriamo». II paese, colto tenacemente da una specie dì follia creatrice, si slancia in uno sforzo gigantesco e sproporzionato. Il programma è non soltanto di cavarsela, ma di raggiungere le altre nazioni con i mezzi di bordo. Se i popoli europei, si pensa, sono giunti a quello stadio di sviluppo, è a seguito dei loro sforzi. Proviamo dunque al mondo e a noi stessi che siamo capaci delle stesse attuazioni. Questa maniera di impostare il problema dell'evoluzione dei paesi sottosviluppati non ci sembra né giusta né ragionevole.
 
Gli Stati europei hanno compiuto la loro unità nazionale in un momento in cui le borghesie nazionali avevano concentrato nelle loro mani la maggior parte delle ricchezze. Commercianti e artigiani, dotti e banchieri monopolizzavano nel quadro nazionale le finanze, il commercio e le scienze. La borghesia rappresentava la classe più dinamica, più prospera. Il suo accesso al potere le permetteva di lanciarsi in operazioni decisive: industrializzazione, sviluppo delle comunicazioni e quanto prima ricerche di shocchi «oltre-mare».
 
In Europa, se si eccettuano alcune sfumature (l'Inghilterra, per esempio, aveva preso un certo vantaggio), i diversi Stati al momento in cui si realizzava la loro unità nazionale si trovavano in una situazione economica press'a poco uniforme. Nessuna nazione, per i caratteri dello sviluppo e dell'evoluzione, insultava davvero le altre.
 
Oggi, l'indipendenza nazionale, la formazione nazionale nelle regioni sottosviluppate rivestono aspetti completamente nuovi. In queste regioni, tranne alcune realizzazioni particolari, i diversi paesi presentano la stessa assenza d'infrastrutture. Le masse lottano contro la stessa miseria, si dibattono con gli stessi gesti e disegnano cogli stomaci rattrappiti quel che sì è potuto chiamare la geografia della fame. Mondo sottosviluppato, mondo di miseria e inumano. Ma anche mondo senza medici, senza ingegneri, senza amministratori. Di fronte a quel mondo, le nazioni europee si avvoltolano nell'opulenza più tronfia. Quest'opulenza europea è letteralmente scandalosa perché è stata edificata sulle spalle degli schiavi, viene in linea retta dal suolo e dal sottosuolo di quel mondo sottosviluppato. Il benessere e il progresso dell'Europa sono stati edificati col sudore e i cadaveri dei negri, degli arabi, degli indiani e dei gialli. E questo, noi decidiamo di non dimenticarlo più. Quando un paese colonialista, messo a disagio dalle rivendicazioni all'indipendenza di una colonia, proclama alla volta dei dirigenti nazionalisti: «Se volete l'indipendenza, prendetevela e tornate ai Medioevo», il popolo di recente indipendenza ha tendenza ad acconsentire ed accettare la sfida. E si vede effettivamente il colonialismo ritirare i capitali e i tecnici e impiantare attorno al giovane Stato un dispositivo di pressione economica[1]. L'apoteosi dell'indipendenza si trasforma in maledizione dell'indipendenza. La potenza coloniale, con mezzi enormi di coercizione, condanna al regresso la giovane nazione. In parole chiare, la potenza coloniale dice: «Giacché volete l'indipendenza, prendetevela e crepate». I dirigenti nazionalisti non hanno allora altra risorsa se non di volgersi verso il loro popolo e di chiedergli uno sforzo grandioso. Da quegli uomini affamati si pretende un regime d'austerità, a quei muscoli atrofizzati si richiede un lavoro sproporzionato. Un regime autarchico viene istituito e ogni Stato, con i mezzi miserabili di cui dispone, cerca di rispondere alla gran fame nazionale, alla gran miseria nazionale. Si assiste alla mobilitazione di un popolo che da quel momento si sfianca e si stronca di fronte all'Europa sazia e sprezzante.
 
Altri paesi del Terzo Mondo rifiutano questo cimento e accettano di sottostare alle condizioni dell'antica potenza tutelare. Usando la loro posizione strategica, posizione che li privilegia nella lotta dei blocchi, questi paesi concludono accordi, si impegnano. L'ex paese dominato si trasforma in paese economicamente dipendente. L'ex potenza coloniale che ha mantenuto intatti, e talvolta rafforzato, circuiti commerciali di tipo colonialista accetta con iniezioncelle di alimentare il bilancio della nazione indipendente. Si vede dunque che l'accesso all'indipendenza dei paesi coloniali pone il mondo di fronte a un problema capitale: la liberazione nazionale dei paesi colonizzati svela e rende più insopportabile il loro stato reale. Lo scontro fondamentale, che sembrava essere quello del colonialismo e dell'anticolonialismo, o magari del capitalismo e del socialismo, scade già d'importanza. Quel che conta oggi, il problema che sbarra l'orizzonte, è la necessità di una ridistribuzione delle ricchezze. L'umanità, sotto pena di esserne sconvolta, dovrà rispondere a questa domanda.
 
Si è potuto generalmente pensare che l'ora fosse giunta per il mondo, e particolarmente per il Terzo Mondo, di scegliere tra il sistema capitalista e il sistema socialista. I paesi sottosviluppati, che si sono serviti della competizione spietata esistente tra i due sistemi per assicurare il trionfo della loro lotta di liberazione nazionale, devono tuttavia rifiutare d'insediarsi in questa competizione. Il Terzo Mondo non deve accontentarsi di definirsi riguardo a valori che lo hanno preceduto. I paesi sottosviluppati devono invece sforzarsi di mettete in luce valori che siano loro propri, dei metodi e uno stile che siano loro specifici. Il problema concreto davanti a cui ci troviamo non è quello della scelta, costi quel che costi, tra il socialismo e il capitalismo come sono stati definiti da uomini di continenti e di epoche diverse. Noi sappiamo, certo, che il regime capitalista non può, in quanto modo di vita, permetterci di realizzare il nostro compito nazionale e universale. Lo sfruttamento capitalistico, i trusts e i monopoli, sono nemici dei paesi sottosviluppati. Invece la scelta di un regime socialista, di un regime tutto rivolto all'insieme del popolo, basato sui principio che l'uomo è il bene più prezioso, ci permetterà di andar più svelti, più armoniosamente, rendendo cosi impossibile quella caricatura di società in cui alcuni pochi detengono l'insieme dei poteri economici e politici senza curarsi della totalità nazionale.
 
Ma affinché quel regime possa validamente funzionare, affinché noi possiamo ad ogni istante rispettate i principi a cui ci ispiriamo, ci occorre altro che l'investimento umano. Certi paesi sottosviluppati manifestano in tal senso uno sforzo colossale. Uomini e donne, giovani e vecchi, entusiasti, si arruolano in un vero lavoro forzato e si proclamano schiavi della nazione. II dono di sé, lo sprezzo d'ogni preoccupazione che non sia collettiva, fanno esistere una morale nazionale che conforta l'uomo, gli ridà fiducia nel destino del mondo e disarma gli osservatori più reticenti. Crediamo tuttavia che un simile sforzo non potrà continuare a lungo a quel ritmo infernale. Quei paesi giovani hanno accettato di raccogliere la sfida dopo il ritiro incondizionato dell'ex paese coloniale. Il paese si ritrova tra le mani della nuova équipe, ma in realtà occorre ricominciar tutto, ripensar tutto. Il sistema coloniale, difatti, s'interessava a certe ricchezze, a certe risorse, quelle appunto che gli alimentavano le industrie; nessun bilancio serio era stato fatto fino a quel momento del suolo o del sottosuolo. Perciò la giovane nazione indipendente si vede costretta a continuare i circuiti economici instaurati dal regime coloniale. Essa può, certo, esportare verso altri paesi, verso altre zone monetarie, ma la base delle sue esportazioni non è fondamentalmente modificata. Il regime coloniale ha cristallizzato circuiti e si è costretti sono pena di catastrofi a mantenerli. Bisognerebbe forse ricominciare tutto, cambiare la natura delle esportazioni e non soltanto la loro destinazione, indagare di nuovo il suolo, il sottosuolo, i fiumi e perché no il sole. Ora, per far questo, occorre altro che l'investimento umano. Ci vogliono capitali, tecnici, ingegneri, meccanici, ecc... Diciamolo pure, noi crediamo che lo sforzo colossale al quale sono invitati i popoli sottosviluppati dai loro dirigenti non darà i risultati previsti. Se le condizioni di lavoro non sono modificate, ci vorranno secoli per umanizzare quel mondo fatto animale dalle forze imperialiste[2].
 
La verità è che non dobbiamo accettare quelle condizioni. Noi dobbiamo apertamente rifiutare la situazione alla quale vogliono condannarci i paesi occidentali. Il colonialismo e l'imperialismo non si sono sdebitati con noi quando han ritirato dai nostri territori le bandiere e le forze di polizia. Per secoli i capitalisti si sono comportati nel mondo sottosviluppato come veri criminali di guerra. Le deportazioni, i massacri, il lavoro forzato, lo schiavismo sono stati i principali mezzi impiegati dal capitalismo per aumentare le sue riserve d'oro e di diamanti, le sue ricchezze e per stabilire la sua potenza. Pochi anni or sono, il nazismo ha trasformato la totalità dell'Europa in vera colonia. I governi delle vane nazioni europee hanno esatto riparazioni e chiesto la restituzione in denaro e in natura delle ricchezze che erano state loro rubate: opere culturali, quadri, sculture, vetrate sono state restituite ai proprietari. Sulle labbra degli europei, all'indomani del 1945, una sola frase: «La Germania pagherà». Dal canto suo il cancelliere Adenauer, nel momento in cui si apriva il processo Eichmann, ha, in nome del popolo tedesco, ancora una volta chiesto perdono al popolo ebreo. Adenauer ha rinnovato l'impegno del suo paese di continuare a pagare allo Stato d'Israele le somme enormi che devono servir di compenso ai delitti nazisti [3].
 
Noi parimenti diciamo che gli Stati imperialisti commetterebbero un grave errore e un'ingiustizia senza nome se si contentassero di ritirare dal nostro suolo le coorti militari, i servizi amministrativi e di economato la cui funzione era di scoprire ricchezze, estrarle e spedirle verso le metropoli. La riparazione morale dell'indipendenza nazionale non ci acceca, non ci nutre. La ricchezza dei paesi imperialisti è anche la nostra ricchezza. Sul piano dell'universale, questa affermazione, com'è facile capire, non vuole assolutamente significare che noi ci sentiamo oggetto delle creazioni della tecnica e delle arti occidentali. Molto concretamente l'Europa si è gonfiata smisuratamente dell'oro e delle materie prime dei paesi coloniali: America latina, Cina, Africa. Da tutti quei continenti, di fronte ai quali l'Europa oggi erge la sua torre opulenta, partono da secoli in direzione di quella stessa Europa i diamanti e il petrolio, la seta e il cotone, i legnami e i prodotti esotici. L'Europa è letteralmente la creazione del Terzo Mondo. Le ricchezze che la soffocano sono quelle che sono state rubate ai popoli sottosviluppati. I porti dell'Olanda, Liverpool, i docks di Bordeaux e di Liverpool spedalizzati nella tratta dei negri devono la loro fama ai milioni di schiavi deportati. E quando noi sentiamo un capo di Stato europeo dichiarare con la mano sul cuore che deve portar soccorso agli sventurati popoli sottosviluppati, noi non palpitiamo di riconoscenza. Anzi ci diciamo: «è una giusta riparazione che ci verrà fatta». Perciò non accetteremo che l'aiuto ai paesi sottosviluppati sia un programma da «suore di carità». Quest'aiuto dev'essere la consacrazione di una duplice presa di coscienza da parte dei colonizzati che ciò è loro dovuto e delle potenze capitaliste che effettivamente esse devono pagare[4]. Che se per mancanza d'intelligenza - non parliamo d'ingratitudine - i paesi capitalisti rifiutassero di pagate, allora la dialettica implacabile del loro stesso sistema si incaricherebbe di asfissiarli. Le nazioni giovani, è un fatto, attirano poco i capitali privati. Molteplici ragioni legittimano e spiegano questo riserbo dei monopoli. Appena i capitalisti sanno, e sono evidentemente i primi a saperlo, che il loro governo si prepara a decolonizzare, si affrettano a ritirare dalla colonia la totalità dei capitali. La foga spettacolare dei capitali è uno dei fenomeni più costanti della decolonizzazione.
 
Le compagnie private, per investire nei paesi indipendenti, esigono condizioni che si rivelano all'atto pratico inaccettabili o irrealizzabili. Fedeli al principio di redditività immediata che è loro proprio, appena vanno «oltremare», i capitalisti si mostrano reticenti nei riguardi di ogni investimento a lunga scadenza. Sono restii e spesso apertamente ostili ai pretesi programmi di pianificazione delle giovani équipes al potere. A rigore accetterebbero volentieri di prestar denaro ai giovani Stati, ma a condizione che quel denaro serva ad acquistare manufatti, macchine, dunque a far funzionare le fabbriche della metropoli.
 
Di fatto, la diffidenza dei gruppi finanziari occidentali si spiega con la preoccupazione di non assumere alcun rischio. Perciò essi esigono una stabilità politica e un clima sociale tranquillo che è impossibile ottenere se si tien conto della situazione deplorevole della popolazione complessiva all'indomani dell'indipendenza. Allora, alla ricerca di una garanzia che l'antica colonia non può assicurare, essi esigono il mantenimento di certe guarnigioni o l'entrata del giovane Stato in patti economici o militari. Le compagnie private premono sul proprio governo perché almeno le basi militari siano impiantate in questi paesi con la missione di assicurare la protezione dei loro interessi. In ultima istanza, queste compagnie chiedono al loro governo di garantire gli investimenti che decidono di fare in questa o quella regione sottosviluppata.
 
Avviene che pochi paesi realizzino le condizioni che esigono i trusts e i monopoli. Perciò i capitali, privi di sbocchi sicuri, restano bloccati in Europa e si immobilizzano. Si immobilizzano tanto più in quanto i capitalisti si rifiutano di investite sul loro territorio. La redditività, in questo caso, è difatti insignificante e il contratto fiscale scoraggia i più audaci.
 
La situazione èa lunga scadenza catastrofica. I capitali non circolano più o vedono la loro circolazione considerevolmente diminuita. Le banche svizzere rifiutano i capitali, l'Europa soffoca. Nonostante le somme enormi inghiottite nelle spese militari, il capitalismo internazionale è ridotto agli estremi.
 
Ma un altro pericolo lo minaccia. Difatti, in quanto il Terzo Mondo è abbandonato e condannato alla regressione, in ogni caso al ristagno, dall'egoismo e dall'immoralità delle nazioni occidentali, i popoli sottosviluppati decideranno di evolvere in autarchia collettiva. Le industrie occidentali saranno rapidamente private dei loro sbocchi oltremare. Le macchine si ammucchieranno nei depositi e, sul mercato europeo, si svolgerà una lotta inesorabile tra i gruppi finanziari e i trusts. Chiusura di fabbriche, licenziamenti e disoccupazione condurranno il proletariato europeo a scatenare una lotta aperta contro il regime capitalista. I monopoli si accorgeranno allora che il loro interesse saggiamente inteso è di aiutare e di aiutare in massa e senza troppe condizioni i paesi sottosviluppati. È chiaro dunque che le giovani nazioni del Terzo Mondo hanno torto di far sorrisini ai paesi capitalisti. Noi siamo forti del nostro buon diritto e della giustezza delle nostre posizioni. Noi dobbiamo anzi dire e spiegare ai paesi capitalisti che il problema fondamentale dell'epoca contemporanea non è la guerra tra il regime socialista e loro. Bisogna porre fine a questa guerra fredda che non serve a nulla, arrestare la preparazione della nuclearizzazione del mondo, investite generosamente e aiutare tecnicamente le regioni sottosviluppate. La sorte del mondo dipende dalla risposta che verrà data a questa domanda.
 
Ed è inutile che i regimi capitalisti cerchino di interessare i regimi socialisti alla «sorte dell'Europa» di fronte alle moltitudini colorate e affamate. L'impresa del comandante Gagarin, con buona pace del generale de Gaulle, non è un successo che fa «onore all'Europa». Da qualche tempo i capi di Stato dei regimi capitalisti, gli uomini di cultura hanno, nei riguardi dell'Unione Sovietica, un atteggiamento ambivalente. Dopo aver coalizzato tutte le loro forze per annientare il regime socialista, capiscono adesso che bisogna far i conti con lui. Allora diventano cortesi, moltiplicano le manovre di seduzione e ricordano continuamente al popolo sovietico che esso «appartiene all'Europa».
 
Agitando il Terzo Mondo come una marea che minaccerebbe di ingoiare tutta l'Europa, non si arriverà a dividere le forze progressive che intendono condurre gli uomini verso la felicità. Il Terzo Mondo non intende organizzare una immensa crociata della fame contro tutta l'Europa. Ciò che esso si attende da quei che l'han mantenuto in schiavitù per secoli, è che lo aiutino a riabilitare l'uomo, a far trionfar l'uomo dovunque, una volta per tutte.
 
Ma è chiaro che noi non spingiamo l'ingenuità fino a credere che ciò si farà con la cooperazione e la buona volontà dei governi europei. Questo lavoro colossale che è quello di reintrodurre l'uomo nel mondo, l'uomo totale, si farà con l'aiuto decisivo delle masse europee che, devono riconoscerlo, si sono spesso allineate circa i problemi coloniali sulle posizioni dei nostri comuni padroni. Per questo, bisognerebbe anzitutto che le masse europee decidessero di svegliarsi, si scuotessero il cervello e cessassero di giocare al gioco irresponsabile della bella addormentata nel bosco.
 


[1] Nel contesto internazionale attuale, il capitalismo non esercita il blocco economico soltanto contro le colonie africane o asiatiche. Gli Stati Uniti, con l'operazione anticastrista, inaugurano nell'emisfero americano un nuovo capitolo della stona della laboriosa liberazione dell'uomo. L'America latina formata di paesi indipendenti che seggono all'ONU e battono moneta dovrebbe costituire usa lezione per l'Africa. Quelle ex colonie, dalla loro liberazione, subiscono fra terrori e privazioni la ferrea legge del capitalismo occidentale.
La liberazione dell'Africa, lo sviluppo della coscienza degli uomini han permesso ai popoli latino-americani di finirla con la vecchia ridda delle dittature in cui i regimi si susseguivano assomigliandosi. Castro prende il potere a Cuba e lo dà al popolo. Quest'eresia è risentita come flagello nazionale tra gli yankees e gli Stati Uniti organizzano brigate controrivoluzionarie, fabbricano un governo provvisorio, incendiano i raccolti di canna, decidono infine di strozzare spietatamente il popolo cubano. Ma sarà difficile. II popolo cubano soffrirà ma vincerà. Il presidente brasiliano Janos Quadros, in una dichiarazione d'importanza storica, ha ora affermato che il suo paese difenderà con tutti i mezzi la Rivoluzione Cubana [vedi a fine della presente nota]. Perfino gli Stari Uniti forse indietreggeranno davanti alla volontà dei popoli. Quel giorno, noi meneremo fuori le bandiere, poiché sarà un giorno decisivo per gli uomini e per le donne dei mondo intero. Il dollaro che, tutto sommato, è garantito soltanto dagli schiavi ripartiti sul globo, nei pozzi di petrolio del Medio Oriente, nelle miniere dei Perù o del Congo, nelle piantagioni dell’United Fruits o di Firestone, cesserà allora di dominare con tutta la sua potenza quegli schiavi che l'hanno creata e continuano a testa vuota e a pancia vuota a nutrirlo della loro sostanza.
[… Il nuovo presidente Janos Quadros aveva, come si è visto, ereditato dal suo predecessore Kubitschek una situazione assai difficile. Al disagio e alle proteste dei ceti urbani si aggiungevano quelle delle combattive leghe contadine del Nordeste che, sotto l’energica guida di Francisco Juliao, si battevano per la realizzazione di una riforma agraria.
Quella di Quadros fu una presidenza breve e sconcertante. Egli era un paulista e apparteneva alI’Udn. un partito tradizionalmente legato all’oligarchia, ma ciò non gli impedì di condannare lo sbarco dei mercenari cubani alla baia dei Porci e di decorare dell’ordine della Croce del Sud il Che Guevara, due gesti che non potevano non suscitare le apprensioni dei militari e di vasti settori dell’opinione pubblica. Consapevole dei rischi che correva e probabilmente contando di essere rieletto con più vasti poteri, Quadros si dimise nell’agosto 1961 dopo appena un anno di mandato. Secondo la costituzione il vicepresidente Goulart. che si trovava in viaggio in Cina, avrebbe dovuto succedergli, ma la sua nomina incontrava la decisa opposizione dei militari che vedevano in lui un radicale, se non un comunista. Alla fine tra i militari e Goulart venne raggiunto un compromesso in base al quale i poteri del presidente sarebbero stati limitati, mentre sarebbero stati accresciuti quelli del Parlamento. Quest’ultimo, dato il sistema elettorale vigente che escludeva dal voto gli analfabeti, era espressione di un corpo elettorale in cui il voto delle campagne, tradizionalmente più moderato, aveva un peso maggiore di quanto ne avesse nelle elezioni presidenziali, nelle quali prevaleva invece il voto urbano e ciò costituiva un’ulteriore limitazione per il nuovo presidente. Goulart non si rassegnò però a essere un presidente dimezzato e nel gennaio 1963 indisse un referendum che gli restituì la pienezza dei suoi poteri con una larghissima maggioranza.]
[2] Certi paesi, favoriti da un popolamento europeo cospicuo, accedono all'indipendenza con muri e viali e hanno tendenza adimenticate il retroterra miserando e affamato. Ironia della sorte, per una specie di silenzio complice, essi agiscono come se le loro città fossero contemporanee dell'indipendenza.
[3] Ed è vero che la Germania non ha integralmente riparato i delitti di guerra Le indennità imposte alla nazione vinta non sono state reclamate in toto, poiché le nazioni lese hanno incluso la Germania nel loro sistema difensivo, anticomunista. È questa la preoccupazione permanente che anima i paesi colonialisti quando cercano di ottenete dalle loro antiche colonie, in mancanza dell'inclusione nel sistema occidentale, basi militari e schiavi. Hanno deciso di comune accordo di dimenticare le loro rivendicazioni in nome della strategia della NATO, in nome nel mondo libero. E si è visto la Germania ricevere a ondate successive dollari e macchine. Una Germania risollevata, forte e potente era una necessità per il campo occidentale. L'interesse saggiamente inteso dell'Europa cosiddetta libera, voleva una Germania prospera, ricostruita e capace di servire da primo baluardo alle eventuali orde russe. La Germania ha mirabilmente utilizzato la crisi europea, Perciò gli Stati Uniti e gli altri Stati europei provano legittima amarezza davanti a questa Germania, ieri in ginocchio, che fa loro oggi sul mercato economico una concorrenza implacabile.
[4] «Distinguere radicalmente la costruzione del socialismo in Europa dai "rapporti con il Terzo Mondo" (come se avessimo con questo soltanto relazioni di esteriorità) è, coscientemente o no, dare la precedenza alla sistemazione dell'eredità coloniale sulla liberazione dei paesi sottosviluppati, è voler costruire un socialismo di lusso sui frutti della rapina imperiale - come, ali'interno di una gang, ci si spartirebbe più o meno giustamente il bottino, salvo a distribuirne un poco ai poveri sotto forma di opere di bene, dimenticando che a quelli lo si è rubato», MARCEL PÉJU, Morir pour de Gaulle, articolo uscito in «Les Temps Modernes», nn. 175-76, ottobre-novembre 1960.
 

da associazione marxista politica e classe
www.politicaeclasse.org/Documenti/AnalisiConfronto/2011/Agosto/ContributoFrantzFanon.htm
 
Il contributo di Frantz Fanon al processo di liberazione dei popoli
 
"Alla luce delle cruente guerre imperialiste in Irak, Afganistan e Libia, e alle avventure coloniali in Palestina, la politica dei fucili è ritornata in auge"
 
Relazione presentata al IV incontro degli Afrodiscendenti e le Trasformazioni Rivoluzionarie in America e nei Caraibi, tenutosi a Caracas, dal 20 al 22 giugno 2011
 
Fanon, che si tratti di pazzia, del razzismo o dell'"universalismo" confiscato dai potenti, non cessa in fondo di sentire la possibilità di un "vivere insieme", inteso come trasformazione in atto di situazioni dove dominati e dominanti hanno tutto da perdere nella continuità degli ordini e disordini esistenti. Fanon, ribelle che lotta tenacemente contro la dominazione esercitata dai potenti contro i deboli, ci chiarisce oggi l'articolazione fondamentale che esiste fra il diritto di ribellarsi al sistema sociale, politico e economico che affonda il mondo nel disordine, e una colonizzazione di nuovo tipo. È chiaro infatti che oggi alla violenza coloniale si è sostituita una nuova violenza indiretta.
 
Per un paradosso che ha il suo segreto nella storia, l'"indigeno" è onnipresente non solo nel luogo di origine ma allo stesso tempo in quelle che Fanon chiamava le "città proibite", dove si esercitano le rinnovate forme di discriminazione, ci dice infatti ne "I dannati della terra": "dove il mondo colonizzato è un mondo diviso in due (…) La zona abitata dai colonizzati non è complementare alla zona abitata dai coloni. Queste due zone si oppongono ma non al servizio di una unità superiore (…). Quel mondo frazionato in due è abitato da specie differenti."
 
L'avvicinarsi del cinquantenario della sua morte, il 6 dicembre del 1961, ci fa constatare che nonostante l'evoluzione del mondo, il suo pensiero è di un'incredibile attualità, anche se il colonialismo sotto le sue vecchie vesti è sparito, e sono nati numerosi Stati liberati dall'oppressione.
 
Ma, in realtà l'espropriazione, l'alienazione e l'ingiustizia, sono spariti da questo mondo? Da questo punto di vista, un osservatore imparziale potrebbe dire, alla luce delle sanguinose guerre imperialiste in Irak, Afganistan e Libia, e l'esperienza coloniale in Palestina, che la politica dei fucili sulla quale si sono fondati gli imperi coloniali, è in realtà ritornata in auge.
 
L'azione dell'opera di Fanon si colloca nel contesto del dopoguerra, segnato dalla lotta ideologica fra il blocco occidentale e il blocco socialista. Ma un terzo mondo nasce fra il '50 e il '60, un mondo che rivendica un riconoscimento nelle relazioni internazionali e la sua parte nella distribuzione della ricchezza del pianeta. Afferma per la prima volta la propria esistenza politica nel 1955 alla Conferenza di Bandung, proclamando il proprio rifiuto alla bi polarizzazione del mondo. Molti leader del terzo mondo compaiono in relazione ai movimenti di liberazione nazionale e portano avanti una lotta radicale in Africa, Asia e America Latina. Gli anni '60 sono stati segnati dalle violente repressioni e omicidi di uomini politici che rappresentavano la lotta dei popoli oppressi.
 
In questo contesto Fanon elabora la propria riflessione sul ruolo della violenza dentro il processo di liberazione e sui rischi per le antiche colonie una volta conquistata l'Indipendenza. La produzione intellettuale di Fanon ha avuto grande influenza sui rivoluzionari nel mondo, in Africa ma anche in Asia e nelle Americhe. I suoi testi non possono essere scontestualizzati dalle circostanze storiche in cui sono nati, ma la loro pertinenza rimane intatta e continuano a ispirare nuove generazioni di militanti e intellettuali a nord e a sud. Le idee che si estrapolano dalla lettura di Fanon si mantengono come strumenti efficaci per analizzare l'attualità di un mondo dove la dominazione e lo sfruttamento hanno cambiato apparenza, ma continuano a esserci e a essere retti dagli stessi meccanismi.
 
Rendersi conto del contributo di Frantz Fanon dentro al processo di liberazione dei popoli, ci porta a presentare le differenti tappe della sua esistenza, delle prese di posizione, dello sviluppo e della formulazione del suo pensiero. La sua opera si confonde con la sua corta esistenza, segnata dalla rivolta contro l'ingiustizia, il confronto con la realtà e l'etica del compromesso(fra il pensiero e la realtà).
 
La Seconda Guerra Mondiale fu causa dell'avvicinamento alla politica del giovane Fanon. Spontaneamente antifascista e cercando di concretizzare questo suo pensiero, Fanon lascia la famiglia e parte clandestinamente per unirsi come volontario alle Forze Libere Francesi che lottavano contro la Germania nazista. Decorato dall'armata coloniale francese, non si sente veramente parte dei liberatori.
 
Fanon deve aver costatato che la forza mobilitata contro il nazismo alimentava in realtà l'ideologia razzista e praticava quasi ufficialmente una discriminazione razzista ed etnica. L'uniforme era in teoria riflesso dell'uguaglianza fra i soldati, ma in realtà l'uniforme nascondeva difficilmente le insopportabili diseguaglianze di trattamento fra i neri e i bianchi.
 
Dopo la smobilitazione, torna in Martinica e poi di nuovo in Francia, dove si iscrive alla facoltà di medicina di Lione; oltre ai corsi di medicina frequenta quelli di filosofia di Maurice Merleau-Ponty, legge la rivista di Sartre, "i tempi moderni", e si interessa in particolare a Freud e Hegel.
 
Nel suo primo libro, "Pelle nera, maschere bianche" -la sua tesi di dottorato- pubblicato nel 1952, Fanon evoca il suo primo incontro con il razzismo europeo, che scopre dentro l'armata antifascista di De Gaulle. La scoperta intellettuale del razzismo e che inglobava corpo e parole, continua immancabilmente nell'attualità, soprattutto se si osserva il riapparire senza veli dell'aperto razzismo in Europa. Fenomeno che oggi in Francia arriva a creare scuole di calcio per giovani dello stesso paese, che sono state oggetto di un dibattito indegno a proposito di quote in base al colore della pelle, delle origini e delle pretese attitudini fisiche specifiche. "Pelle nera, maschere bianche" è un segnale fondamentale, dentro la lotta antifascista, di un meccanismo codificato della segregazione e delle sue mete politiche.
 
Analizzando i meccanismi del colonialismo e il suo impatto sui dominati, Fanon si oppone al concetto di "negritudine" forgiato da Senghor e Cesaire, articolando la lotta contro il razzismo dentro un movimento universale di disalienazione delle vittime del razzismo e dei razzisti stessi.
 
Diventato psichiatra, nel 1953, ai ventinove anni, arriva all'Ospedale Psichiatrico di Blida e rimane sconcertato allo scoprire che la scuola psichiatrica dell'Algeria coloniale classifica gli arabi algerini come "primitivi", affermando che il loro sviluppo cerebrale era "sottosviluppato e ritardato". Così, per gli psichiatri coloniali, i comportamenti patologici degli indigeni derivavano da cause genetiche e quindi incurabili. Fanon scopre allora l'espressione cruda della gerarchia di razza e di una segregazione violenta, comparabile all'apartheid.
 
L'inizio della guerra di liberazione nazionale, il 1 di novembre del 1954, ha naturalmente un forte impatto sull'ospedale, che riceve via via pazienti traumatizzati dall'esperienza della violenza (alcuni casi sono menzionati ne "I dannati della terra").
 
Attraverso i militanti della causa algerina, medici e attivisti, che si occupano dei muyaidin feriti, Fanon entra in contatto diretto con l'FLN (Fronte di Liberazione Nazionale). Nel 1956, il governo imbocca deciso una politica di repressione militare brutale e generalizzata, e Fanon rinuncia all'incarico di psichiatra, venendo successivamente espulso dalle autorità coloniali nel 1957; si rifugia quindi in Tunisia, sede estera della rivoluzione algerina.
 
Riprende in Tunisia le sue attività professionali, e contemporaneamente si coinvolge profondamente nella politica del FLN. Diventa giornalista per FLN, nel giornale "El moudjahid" e viene nominato ambasciatore itinerante per l'Africa dal governo algerino in esilio. Visita con questo incarico il Ghana dove incontra Kwame Nkrumah e studia da vicino i problemi della nascita di uno Stato Africano indipendente; in Congo conosce Patrice Lumumba, visita poi Etiopia, Liberia, Guinea e Mali. La sua missione era rendere popolare nel resto del continente la lotta del popolo algerino attraverso il consolidamento di alleanze fra i popoli africani e la messa in pratica di quell'internazionalismo che caratterizzava il suo pensiero.
 
Grazie alla sua azione sui dirigenti del Mali, si apre nel 1960 un nuovo fronte nel sud dell'Algeria, al quale la Guinea fornisce le armi. Allo stesso modo riesce a giocare un ruolo importante nella spedizione di armi sovietiche al fronte ovest, grazie alla solidarietà del Presidente Sekou Toure.
 
Nel 1959, l'editore francese François Maspero pubblica il secondo libro di Fanon, "Il V anno della rivoluzione algerina" (libro sequestrato immediatamente), che non è solo un accusa alla Francia per i crimini compiuti sulla popolazione algerina -cinquantanni dopo l'indipendenza algerina, la Francia inizia appena a riconoscere alcuni dei suoi crimini, le proprie responsabilità nel saccheggio sistematico dell'Africa, ma ancora risulta difficoltoso aprire completamente questo capitolo oscuro della storia francese- ma anche di un'analisi della rivoluzione algerina e delle trasformazioni che la creano dentro una società dominata, umiliata e gravemente impoverita. L'opera viene proibita in Francia, ma ciò non impedisce che si inizi a parlare di Fanon in Africa e nel Terzo Mondo. Viene invitato a forum internazionali, dove viene ascoltato attentamente fino a costringere le autorità francesi a prenderlo in considerazione (come se fosse diventato bianco).
 
Nella primavera del '61, consegna al suo editore "I dannati della terra", che non parla solo dell'Algeria ma di tutto il Terzo Mondo in via di decolonizzazione. Il 3 dicembre riceve la copia stampata del libro nell'ospedale Bethesda di Washington, e muore 3 giorni dopo di leucemia.
 
Nel '62 Maspero pubblica in "Presenza Africana" un omaggio a Fanon; si impegna anche nella pubblicazione delle sue opere complete cercando i suoi testi pubblicati spesso in maniera anonima durante gli anni nel giornale clandestino "El Moudjahid" del FLN. "Per la rivoluzione africana" diventerà libro nel 1964, e viene tradotto tra gli altri da Ernesto Che Guevara.
 
Nel '61, finche scrive "I dannati della terra", Fanon considera il periodo coloniale definitivamente concluso; il problema centrale diviene l'evoluzione dei paesi liberati. Per Fanon, la costruzione di una società giusta e prospera deve fondarsi sulla liberazione integrale delle donne e uomini sottomessi al colonialismo. Da questo punto di vista è fondamentale identificare le carenze create dalla presenza devastatrice nella società ed eliminarle.
 
Uno degli ultimi capitoli de "I dannati della terra", Disavventure della coscienza nazionale è un richiamo lanciato ai popoli liberati dal dominio coloniale per la promozione di elite produttive e intellettuali dotate di una coscienza politica volta all'interesse generale. Se i paesi indipendenti non saranno in grado di promuovere queste elites, trionferà una cultura di mercanti che non saranno altro che burattini educati dall'occidentale, nei propri comportamenti e nei modi di consumo. I movimenti di liberazione si possono trasformare in partiti unici, "la forma moderna della dittatura borghese, senza maschere, senza trucco, senza scrupoli". In assenza di prospettive veramente nazionali, la via delle "dittature tribali" è aperta: poggiate sulle divisioni etniche e sulle frontiere create dal colonialismo, questi nuovi poteri finiscono per mandare in rovina i nuovi Stati. Questi avvertimenti furono pronunciati all'alba dell'indipendenza, celebrati con entusiasmo e fervore.
 
La lucida analisi di Fanon metteva in guardia in maniera premonitrice sui rischi possibili per i nuovi Stati postcoloniali. È una descrizione con anni di anticipo della patologia neo-coloniale, la perpetrazione del dominio grazie alla sottomissione di governi nazionali corrotti e antipopolari agli interessi delle vecchie metropoli coloniali. Se non è facile spiegare la sconfitta delle indipendenze africane, questo mezzo secolo trascorso dimostra spietatamente l'efficacia delle bombe a scoppio ritardato preparate dalle potenze coloniali. L'indipendenza dei paesi colonizzati è in Fanon una tappa fondamentale e necessaria, ma che in nessun modo poteva costituire la fine del processo di liberazione.
 
Fanon è stato uno dei pensatori della rivoluzione algerina che si collocava fuori da ogni riduzione dogmatica o dottrinale del pensiero. Progressista e anti-imperialista senza reverenze "teologiche" al Marxismo, vicino ma senza servilismo alcuno al campo socialista. Come diceva il sociologo Inmanuel Wallerstein, "Fanon leggeva Marx con gli occhi di Freud e leggeva Freud con gli occhi di Marx". La liberazione dell'uomo e la sua disalienazione è stata per Fanon l'obiettivo ultimo della sua lotta politica senza stile predefinito, senza rigidezza ma che non ha mai concesso nulla agli avversari.
 
Era un uomo indivisibile, che non può essere ridotto a una dimensione particolare della lotta; antirazzista in nome dell'universalità e anticolonialista in nome della giustizia e della libertà. In nessuna parte del suo pensiero si ritrova una volontà vendicatrice ne di stigmatizzazione dei bianchi come vorrebbero presentarlo i teorici dell"Essenzialismo" e dello "scontro di civiltà".
 
I suoi detrattori, che ritroviamo fra gli "intellettuali" neoconservatori, cercano di far passare un interpretazione tutta basta su una ipotetica "apologia alla violenza" traducendo in parole la propria ignoranza dell'opera di Fanon e la propria fede razzista. La violenza difesa da Fanon è l'ultimo mezzo per riconquistare se stessi da parte di chi è negato, sfruttato e ridotto in schiavitù, è legittima difesa dei popoli oppressi che soffrono della violenza molto maggiore della dominazione e il disprezzo.
 
Questo l'ha portato a sopravvivere al di là delle generazioni. La sua analisi delle patologie sociali e politiche del razzismo sono di sorprendente attualità; la sue analisi politica, psicologico e sociale sorpassa il contesto nel quale furono elaborate, conservando ancora oggi una grande pertinenza.
 
La sua lucidità e indipendenza di pensiero, lontane dall'isolarlo pur con le riserve espresse da marxisti "ortodossi" prigionieri del dogma, gli permisero di conquistare la stima e il rispetto di combattenti per la libertà e l'indipendenza. È principale riferimento di militanti illustri quali il Comandante Che Guevara, Amilcar Cabral, Agostino Neto, Nelson Mandela, Mehdi Ben Barka e molti altri.
 
In Africa, in Europa, Fanon appare oggi più attuale che mai. Ha senso per i militanti africani per la libertà e i diritti umani, ha senso allo stesso modo per tutti gli africani e gli arabi nei confronti dei quali si scatena, nei media come nei propositi delle elite di certi Stati, un razzismo senza complessi e organico.
 
Ha senso perchè l'emancipazione è la prima meta delle generazioni che puntano alla maturità politica. Molti africani hanno imparato che la lotta per la libertà, la democrazia e i diritti umani sono dirette si contro i potentati locali, ma allo stesso modo contro i governanti dell'ordine neo-coloniale che li protegge e li utilizza per rubare risorse e poi li scarica quando hanno esaurito le funzioni per le quali sono stati creati e protetti.
 
Il pensiero di Fanon continua ad ispirare oggi tutti coloro che combattono per il progresso dell'uomo in tutto il pianeta. In questo mondo dove il sistema dell'oppressione, lo sfruttamento umano non smette di rinnovarsi e di adattarsi, il suo pensiero è un rimedio contro la rinuncia alla lotta e lo sconforto. È l'arma fornita da una passione lucida per la lotta per la libertà, la giustizia e la dignità di uomini e donne. La liberazione dei popoli e degli individui dalla schiavitù e dall'alienazione rimane ancora oggi l'obiettivo, l'emancipazione verrà.
 
Se Fanon fosse vivo, di certo non apprezzerebbe di essere considerato un autorità canonica fuori dal contesto della sua lotta e della sua testimonianza scritta. Al contrario costantemente egli ricalcava dal primo all'ultimo libro, che un pensiero vivo deve essere sempre estrapolato, un compromesso, con la realtà. La resistenza continua, e cinquantanni dopo Fanon ci esorta a non abbandonare la lotta dentro questo spazio sociale dove donne e uomini comuni possono mettere nuovamente in discussione e dispiegare l'energia e la sapienza di un vero progetto politico.
 
Fondazione Frantz Fanon
Traduzione a cura della redazione di Bologna
agosto 2011
 

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