A Mosca! a Mosca!
di Mauro
Gemma
Com’era largamente
prevedibile, la vittoria della “rivoluzione arancione” in Ucraina (e quella “a
metà” della “rivoluzione dei tulipani” in Kirghizia (1) ) ha
dato ulteriore impulso all’offensiva imperialista nello spazio post-sovietico,
dissipando ogni dubbio sui reali obiettivi della campagna avviata
dall’amministrazione Bush, a sostegno dell’esportazione dei “valori della
democrazia occidentale” negli stati dell’ex URSS: da un lato, il definitivo
assoggettamento degli stati della CSI agli interessi economici e geopolitici
della massima potenza imperialista, e, dall’altro, il totale disinnesco delle
capacità competitive della Federazione Russa, attraverso l’assalto diretto al
potere politico, da realizzarsi probabilmente addirittura (come molti segnali
lascerebbero ad intendere) con l’estromissione dello stesso attuale gruppo
dirigente di Mosca.
All’inizio di aprile, il nuovo leader ucraino Juschenko ha suggellato il
proprio trionfo, con una serie di viaggi in Occidente e, in particolare, negli
USA, dove, al termine di una serie di incontri con il presidente americano, ha
avuto modo di esplicitare, con chiarezza inequivocabile, la funzione che gli
viene attribuita dai padroni occidentali del suo paese. Basta leggere il testo
del comunicato congiunto, rilasciato al termine della sua visita:
“Impegniamo anche le nostre nazioni a sostenere insieme le trasformazioni,
la democrazia, la tolleranza e il rispetto reciproco in tutti i paesi,
attraverso il regolamento pacifico dei conflitti in Georgia e Moldavia e la
promozione della libertà in paesi come la Bielorussia e Cuba”.
Accomunando Bielorussia e Cuba, il nemico storico nel “cortile di casa” USA,
Juschenko lascia chiaramente intendere quali saranno le direttrici della
politica estera dell’Ucraina “rivoluzionaria”, che nutre velleità di leadership
regionale nell’ambito della nuova alleanza. Scrive l’intellettuale marxista
russo Dmitrij Jakushev:
“Le continue dichiarazioni di Juschenko in merito al fatto che l’Ucraina è
pronta a diventare leader regionale, vale a dire il principale gendarme locale,
fanno presagire enormi sciagure a tutti i vicini, nonché allo stesso popolo
dell’Ucraina…La politica estera (di Juschenko) porterà a un duro
confronto con la Russia e la Bielorussia, fino alla creazione di alleanze
militari, prima di tutto con la Georgia e la Moldavia, dirette contro la Russia
e le repubbliche ad essa amiche della Transdnistria, dell’Abkhazia e
dell’Ossezia” (2).
A distanza di pochissime settimane dall’incontro Bush-Juschenko, c’è stato,
alla fine di aprile, il viaggio del Segretario di Stato USA Condoleeza Rice a
Mosca. In quell’occasione, abbandonata completamente ogni ipocrisia
diplomatica, la dirigente USA, senza perifrasi, ha inteso esprimere con
brutalità le finalità della sua visita, provocando, tra l’altro, una durissima
reazione della controparte russa. Incontrando nella stessa capitale russa, in
aperto spregio di ogni etichetta, gli esponenti della tanto insignificante
quanto prepotente opposizione “democratica” bielorussa e assicurando il proprio
contributo morale e materiale (è di questi giorni uno stanziamento americano di
decine di milioni di dollari a sostegno dell’ “offensiva democratica” in
Bielorussia), la responsabile della politica estera USA ha addirittura indicato
precise scadenze temporali (le elezioni del 2006) alla nuova tappa della
scalata aggressiva indirizzata al rovesciamento di quello che è attualmente
considerato il principale alleato della Russia nell’ambito della Confederazione
degli Stati Indipendenti e il più conseguente sostenitore delle esigenze di
integrazione economica, politica e militare dello spazio ex sovietico: il
presidente Aleksandr Lukashenko.
Abbattuto l’ultimo bastione della CSI, che con ostinazione si oppone ai
progetti di espansione della NATO verso est, alle armate dell’Occidente non si
frapporrebbe più alcun ostacolo in direzione di Mosca. In tal modo, dopo
l’ingresso di tutti i paesi dell’Europa orientale e baltica nell’alleanza
nord-atlantica e il definitivo sbilanciamento in senso filo-occidentale
dell’Ucraina, la Russia verrebbe a trovarsi completamente sguarnita sul
versante europeo, con una virtuale “linea del fronte” fissata a poche centinaia
di chilometri dalla capitale federale.
Certo, il cammino verso Minsk, potrebbe rivelarsi più difficile del previsto.
La Bielorussia non è certo un qualsiasi paese della CSI. In Bielorussia, il
consenso attorno alle scelte operate negli ultimi anni da Lukashenko pare,
secondo le testimonianze più obiettive, ben più vasto di quanto non cerchino di
far credere le operazioni propagandistiche occidentali (3)che, in generale, parlano della presenza
di un oppressivo regime dittatoriale. A tal proposito vale la pena citare
l’analista russo Jurij Krupnov che, intendendo smentire le argomentazioni
largamente utilizzate per giustificare il pressing in corso ai danni della
Bielorussia, osserva:
“La repubblica di Belarus rappresenta attualmente il leader indiscusso nello
spazio dell’ex URSS. Persino coloro che non amano il regime politico in
Bielorussia o il suo presidente, non possono negare l’evidenza. A differenza di
tutte le altre ex repubbliche dell’URSS, la Bielorussia sotto la direzione di
Lukashenko è stata in grado di conservare le realizzazioni del periodo
sovietico e di avviare una prudente e
assennata ristrutturazione dell’economia e del sistema sociale. L’anno scorso
l’economia della Bielorussia è rientrata nei parametri raggiunti dalla
Bielorussia sovietica del 1990 (nella Federazione Russa si pensa di realizzare
tale obiettivo nel giro di dieci, quindici anni). La quota delle esportazioni
di macchinari e tecnologie e il PIL superano di alcune volte gli analoghi
indicatori della Federazione Russa. Nella repubblica è stata conservata
interamente la rete delle strutture sanitarie e degli istituti scolastici e
vengono sostenute con la massima cura le infrastrutture di base (…) Nella
repubblica è assente qualsiasi scontro nella sfera civile, etno-nazionale o religiosa,
la gente vive dignitosamente e dispone di un lavoro…” (4).
A qualcuno questa analisi potrà anche sembrare eccessivamente ottimistica. Ma
una cosa è certa. Se tale quadro corrispondesse a verità e se il consenso
plebiscitario di cui apparentemente ha goduto Lukashenko in questi anni tra i
settori meno privilegiati della popolazione, in particolare nelle campagne, non
rappresentasse solo un’operazione di propaganda di regime, allora il tentativo
di estromettere la dirigenza bielorussa potrebbe non essere una passeggiata e
l’intera Europa rischierebbe di trovarsi di fronte a scenari imprevisti e
drammatici, a causa del probabile coinvolgimento diretto in una nuova impresa
di Washington. D’altronde anche la Russia non sembra certo intenzionata a
“scaricare” con leggerezza l’ultimo alleato sicuro che le rimane (con il quale
è vincolata da un patto di “Unione”, che dovrebbe sfociare nell’unificazione
tra i due paesi), come testimoniano le più recenti prese di posizione dello stesso
presidente Putin. L’alleanza è stata consolidata in un recente incontro tra
Putin e Lukashenko a Soci, sul Mar Nero, al punto che il leader bielorusso,
anche per sottolineare l’avvicinamento oggettivo in corso tra i due paesi, ha
voluto ringraziare pubblicamente le autorità russe “per il sostegno senza
precedenti che ci stanno accordando nell’arena internazionale” (5).
Del resto, la Rice non ha mancato di accompagnare sempre i
suoi attacchi alla Bielorussia con una serrata polemica nei confronti della
stessa amministrazione russa, lasciando chiaramente intendere chi è il vero
bersaglio strategico della “campagna d’oriente” di Washington. Confortata dal
sostegno del solito coro di associazioni umanitarie (“Reporters sans frontières”
le ha indirizzato una “lettera aperta” per chiedere un suo pesante intervento),
il cui compito sembra essere sostanzialmente quello di offrire giustificazioni
etiche ad ogni iniziativa aggressiva dell’imperialismo, si è esibita nella
solita sequela di recriminazioni in merito alla “regressione della democrazia
in Russia”, alla “persecuzione” del malversatore Khodorkovskij (definito
“prigioniero politico del Cremlino”) e alla “concentrazione eccessiva di poteri
nelle mani di Putin”. In questo caso, la Rice, più prosaicamente, aveva a mente
la decisione che, in quei giorni, Putin aveva assunto di incaricare il governo
russo dell’elaborazione, entro il 1 novembre prossimo, di un disegno di legge
volto a limitare l’accesso dei potenziali investitori stranieri ai settori e
alle infrastrutture legati alla sicurezza nazionale, all’industria per la
difesa e ai monopoli naturali, e della preparazione di una lista di giacimenti
strategici, il cui sfruttamento verrebbe concesso esclusivamente a compagnie
nazionali.
In seguito, le intenzioni aggressive nei confronti di Minsk
sono state confermate dallo stesso presidente Bush durante il suo ultimo
viaggio europeo. Ma Bush non si è limitato a questo. Evocando gli spettri della
guerra fredda, Bush ha azzardato una provocazione senza precedenti nei
confronti dell’interlocutore russo, impegnato nei preparativi delle
celebrazioni della vittoria contro il nazi-fascismo. Bush, parlando a Riga, di
fronte ad interlocutori che non esitano a riabilitare il passato nazista delle dirigenze
baltiche, quasi accusando di viltà il suo predecessore Roosevelt per non avere
avviato la guerra contro l’Unione Sovietica, è arrivato al punto di definire
“un errore” persino il patto di Yalta concluso dalle potenze vincitrici della
seconda guerra mondiale, dando evidentemente ad intendere che oggi egli non
esclude affatto la possibilità di riprendere la guerra allora interrotta, per
assestare un colpo definitivo allo storico nemico.
"Siamo alla sostanza di una dichiarazione di guerra con l’obiettivo di
un impero mondiale. Il disegno annunciato è questo. Finita la guerra fredda si
stanno mettendo le premesse per un’azione di conquista”, ha giustamente
fatto notare, in un suo editoriale, Valentino Parlato(6).
Non è poi certo
casuale che Bush abbia concluso il suo giro di visite proprio a Tbilisi,
capitale della Georgia uscita dalla prima delle “rivoluzioni colorate”, la
cosiddetta “rivoluzione delle rose”.
Con Saakashvili, al
di là dei discorsi di circostanza sulle “conquiste democratiche” del nuovo
governo del disastrato paese caucasico (di fronte ad una folla in realtà di
molto inferiore alle aspettative, a testimonianza di quanto stiano “sbollendo”
gli ardori “rivoluzionari” della prima ora), il presidente USA ha definito i
particolari della stretta cooperazione in corso tra i due paesi, in vista
dell’ormai quasi certo ingresso di Tbilisi nei ranghi della NATO. Lo ha
confermato il 10 maggio davanti ai giornalisti di tutto il mondo convenuti
nella capitale georgiana. Per rendere più rapidi i tempi dell’integrazione nei
meccanismi dell’alleanza nord-atlantica, qualche settimana prima della visita
di Bush, il parlamento georgiano aveva chiesto al governo un pronunciamento
unilaterale in merito al ritiro integrale delle truppe russe che stazionano
nelle due basi di Batumi, sul Mar Nero, e Akhalkalaki, al confine con
l’Armenia, già a partire dal gennaio del 2006, nel caso non venga raggiunto un
accordo a riguardo con Mosca, che, invece, ha annunciato di avere in programma la chiusura delle installazione
entro un lasso di tempo non inferiore a 11 anni. Una vera e propria
provocazione, quella delle autorità georgiane, che non ha mancato di aumentare
il già incandescente clima delle relazioni tra i due stati e che si è aggiunta
alla mancata presenza di Saakashvili alle celebrazioni di Mosca.
La visita di Bush,
che non poteva che assumere il significato di ulteriore sfacciato atto di sfida
nei confronti di Putin, si proponeva in realtà di ottenere assicurazioni circa
il grado di realizzazione degli obiettivi stabiliti dal cosiddetto “Piano di
azione individuale per il partneriato” (IPAP), in base al quale la Georgia si è
impegnata solennemente a modernizzare il proprio apparato militare, in linea
con i requisiti richiesti per l’adesione all’alleanza nord-atlantica. Dal 2002
al 2004 gli USA hanno stanziato 64 milioni di dollari per progetti di
assistenza militare e hanno inviato oltre 200 esperti per addestrare l’esercito
georgiano (i cui effettivi dovrebbero passare da 16.000 a 23.000 unità)
destinato oggi prevalentemente a supportare le forze USA, impegnate in vari
scenari bellici, a cominciare da quello iracheno (tra l’altro, proprio nel
momento in cui assistiamo al ritiro dei soldati di altri paesi), ma che,
domani, potrebbe costituire un agguerrito contingente sul fronte del Caucaso,
in funzione anti-russa, finalmente in grado di risolvere alla radice lo spinoso
problema delle repubbliche separatiste, amiche di Mosca, dell’Abkhazia e
dell’Ossezia del Sud. Non è, inoltre, un mistero che il versante georgiano
della catena caucasica costituisce ormai da anni il retroterra logistico delle
attività militari del terrorismo ceceno, che, a differenza di quanto sostengono
alcuni propagandisti dei “diritti umani”, che invocano irresponsabilmente un
massiccio coinvolgimento dell’Occidente a fianco della “resistenza cecena” e
lamentano il “silenzio” della “comunità internazionale”, gode del massiccio
sostegno di apparati politici e militari negli USA, in Europa e in Turchia,
nonché delle oligarchie russe (7).
C’è da dire che, al
pressing americano sulla Russia, si aggiunge naturalmente quello rappresentato
dall’intensificazione delle attività del variegato fronte interno, coordinato
dai gruppi oligarchici estromessi da Putin, che non nasconde certamente la
propria intenzione di rimuovere dal potere, in un modo o nell’altro, il
presidente e gli uomini a lui più vicini. A tal proposito, appaiono di un certo
interesse i probabili, inquietanti futuri scenari descritti in un articolo di
Mikhail Cernov, giornalista dell’agenzia RBC. Vi si possono leggere
considerazioni di questo tenore:
“Un tentativo di estromettere dal potere il presidente della Russia Vladimir
Putin verrà realizzato entro la primavera del 2008. Di ciò è convinta la
maggior parte degli esperti, indipendentemente dalle personali simpatie
politiche…I giocatori cominciano a puntare. Recentemente ha fatto così il
proprietario del gruppo “Menatep” Leonid Nevslin. Egli ha dichiarato che
sosterrà l’ex primo ministro Kasjanov (estromesso da Putin e definito
“Juschenko russo”, si è autocandidato alla presidenza). “Se avrà bisogno di
aiuto, naturalmente, siamo pronti”…Gli oligarchi hanno detto “pora” (“è
arrivato il momento”, slogan della “rivoluzione arancione” di Kiev), “occorre
passare all’azione” e sono passati all’azione”. Cernov sottolinea come,
attraverso il finanziamento di movimenti politici di destra e di sinistra e
facendo leva su ambienti della stessa amministrazione presidenziale e del
partito di governo “Russia Unitaria” (e “non è neppure escluso che alla
guida delle sinistre possa venirsi a trovare lo stesso Mikhail Khodorkovskij,
che ha avuto modo di meditare in carcere sugli errori commessi dagli oligarchi
russi”), si intenda “sferrare un attacco simultaneo da entrambi i
fianchi…L’obiettivo dei processi avviati è la ristrutturazione dello spettro
politico russo, la creazione di un sistema che possa rappresentare uno
strumento efficace per l’ulteriore destabilizzazione della nave “Stato Russia”
fino al punto di farla affondare…Tale schema potrebbe funzionare molto
efficacemente: una parte si occuperebbe della lotta parlamentare, mentre i
“reparti combattenti” scenderebbero dietro a parole d’ordine incitanti al
rovesciamento del potere nei “maydan” (il luogo simbolo della “rivoluzione
arancione” ucraina) di Mosca e di San Pietroburgo” (8).
Se quanto denuncia
Cernov fosse vero, non ci vuole molta fantasia per immaginare quale alternativa
a Putin si stia preparando. Non certo, dunque, un impetuoso sviluppo dei
processi democratici e una fuoruscita “da sinistra” (oltretutto, in presenza di
un movimento comunista ed operaio ai suoi minimi storici, incapace di
iniziativa di massa, e solcato da profonde divisioni), ma, piuttosto, la
rivincita della “borghesia compradora” e il probabile avvento alla direzione
del paese di uno “Juschenko russo” (non importa se Kasjanov o altri),
l’interruzione drastica dei processi di riappropriazione da parte dello stato
delle risorse strategiche, la fine di una politica estera indipendente che
contribuisca a fare da contrappeso all’egemonia USA, e il conseguente veloce
assorbimento negli ingranaggi delle
alleanze occidentali. La ripresa, insomma, del corso filo-occidentale e
perfettamente funzionale agli interessi imperialistici avviato con la vittoria
controrivoluzionaria dell’agosto del 1991, proseguito per quasi un decennio con
tenacia (ed esiti disastrosi) dal “clan Eltsin” e interrotto con la penosa
uscita di scena del suo capofila e l’affermazione della politica “nazionalista”
di Putin (non priva di richiami non solo strumentali al passato della potenza
sovietica, la cui caduta è stata proprio da lui definita “la più grande
tragedia geopolitica del XX secolo”), tesa a riaffermare un ruolo di primo
piano per la Russia nell’ambito di una dimensione “multipolare” delle relazioni
internazionali.
Per tutte queste ragioni, ci permettiamo allora di dubitare che l’insieme del
movimento antimperialista mondiale possa trarre qualche utile da simili
sviluppi della situazione.
NOTE
(1)
Del parziale fallimento della “rivoluzione dei tulipani”, condotta con
dovizia di mezzi e di personale forniti dall’amministrazione e dalle fondazioni
USA, che ha portato alla destituzione del presidente kirghiso Askar Akayev,
sembra convinto lo studioso cubano Rodolfo Humpierre Alvarez del Centro
di Studi Europei, quando afferma che: “esistono ragioni per pensare che
tale strategia (dell’Amministrazione USA) questa volta ha presentato serie
lacune, in ragione delle quali i risultati non sono stati gli stessi degli
esperimenti precedenti (…) Non esistono i presupposti politico-ideologici, né
tanto meno religiosi (…) Non si pone il dilemma “a favore della Russia o
dell’Occidente” (…). Bakiev (il presidente provvisorio) ha confermato il proposito
non solo di mantenere, ma anche di sviluppare le buone relazioni con la Russia
e ha sollecitato aiuto materiale (…) La Russia ha promesso ed ha iniziato
immediatamente ad inviare aiuti (…) Possiamo affermare che le incertezze
derivanti dalla futura evoluzione degli avvenimenti in Kirghizia, sommate alle
reiterate assicurazioni date dalle nuove autorità circa il mantenimento e lo
sviluppo dei legami con la Russia, fanno registrare al momento differenze
sostanziali rispetto a quanto è avvenuto nelle altre “rivoluzioni dei colori”
attuate nello spazio postsovietico (…)”
“La
Kirghizia come parte della Teoria del Domino”, http://www.cubasocialista.cu ,aprile 2005
La versione italiana
in
www.resistenze.org - popoli resistenti –
kirghisia – 06-05-05
(2)
http://left.ru/2005/7/yakushev124.phtml
La traduzione
della seconda parte dell’articolo di Dmitrij Jakushev, con il titolo “Juschenko
negli USA”, in
http://www.resistenze.org/ - popoli
resistenti – russia –27-04-05
(3)
Va segnalato il particolare
attivismo delle varie ONG “umanitarie”, religiose, ecc. (compresi gruppi organizzati
italiani) che, dopo avere operato in Serbia, Ucraina, Georgia e Kirghizia, oggi
stanno convergendo massicciamente in Bielorussia.
(4)
Jurij Krupnov, “Perché la Bielorussia non diventerà la Kirghizia?”, http://www.contrtv.ru/common/1110/
(5)
http://left.ru/2005/7/yakushev124.phtml
(6) “Il Manifesto”, 10 maggio 2005
C’è da dire che altri
esponenti della “sinistra alternativa” non sembrano prendere nemmeno in
considerazione la lucida analisi formulata dal giornalista del “Manifesto”. E’
il caso, ad esempio, di Salvatore Cannavò (“Liberazione”, 10 maggio
2005) che, a dispetto dell’evidenza e
sottovalutando le velleità egemoniche ed espansioniste, con tratti fascisti,
dell’attuale amministrazione USA, appare persuaso che all’ultimo insidioso
attacco di Bush alla Russia possano solo “ seguire accordi e mediazioni che
permettano ai due progetti di rimanere complementari e di non scornarsi
troppo”.
(7)
Sull’entità del massiccio sostegno americano e occidentale al terrorismo
ceceno: John Laughland, “The Cechens’ American friends”, The Guardian,
September 8 2004, http://www.guardian.co.uk/comment/story/0,1299318,00.html
(8) Mikhail Cernov, “Come cercheranno di
rovesciare Putin”, http://www.contrtv.ru/common/1091
La traduzione in italiano
in
www.resistenze.org - popoli resistenti -
russia - 03-05-05