La banana simbolo di sfruttamento e di conflittualità commerciale tra USA e UE
Sabato 7
Maggio 2005, in 150 piazze d’Italia, volontari del Ctm-Altromercato, il
Commercio equo e solidale, hanno dato vita a banchetti in cui vendevano banane
prodotte da cooperative del terzo mondo, per sensibilizzare il consumatore
italiano sul fatto che è possibile portare sulle nostre tavole banane un po’
meno tossiche di quelle che si comprano nella grande distribuzione dei
supermercati, coltivate garantendo ai lavoratori delle piantagioni di banane
quei diritti salariali e sindacali che, nelle tenute, controllate dalle
multinazionali, vengono giornalmente violati e ignorati.
Questa campagna ha avuto senz’altro il merito far conoscere all’opinione
pubblica del nostro paese la grave situazione in cui sono costretti a lavorare
centinaia di migliaia di lavoratori del terzo mondo. Con questa campagna si è
voluto denunciare le gravi violazioni
dei diritti dei lavoratori da parte delle multinazionali che producono e
commercializzano le banane in tutto il mondo. Con i loro metodi le
multinazionali non solo minano la salute di chi lavora nelle loro estese
piantagioni, ma minacciano anche la salute stessa dei consumatori del primo
mondo.
Occorre ricordare che attualmente la produzione e la distribuzione mondiale
della banana è ripartita nei seguenti monopoli: Chiquita (ex United Fruit, USA)
26%, Dole (USA) 25%, Del Monte (USA) 15%, Fyfes (anglo-irlandese) 8%; Noboa
(Ecuador) 8%. Come si può vedere l’ 82% della produzione mondiale è in mano a 5
multinazionali. I paesi maggiori produttori di banane sono Ecuador, Costa Rica,
Colombia, Filippine, India, Cina, Brasile, Costa d’avorio e Camerun. Mentre
Cina e India non esportano banane, ma la loro produzione è assorbita
dall’enorme mercato interno, il Brasile, da parte sua, ha iniziato a produrre
solo negli ultimi anni, grazie soprattutto ad enormi investimenti realizzati in
questo paese dalle tre multinazionali statunitensi.
I paesi dove si produce la maggiore quantità di banane destinate al consumo del
primo mondo sono soprattutto Ecuador, Costa Rica, Colombia, Camerun e
Filippine. La Costa d’Avorio da un paio d’anni ha visto scendere la sua
produzione a causa della guerra civile, ciò ha enormemente favorito
l’espandersi delle multinazionali nel vicino Camerun. La produzione di Ecuador,
Costa Rica e Colombia e, negli ultimi anni, anche quella del Brasile, finisce
negli USA, Australia, Canada e Unione Europea (UE); quella del Camerun nell’UE;
quella delle Filippine è assorbita dal Giappone e dalla stessa Cina, che sino
ad oggi non riesce a sopperire alla domanda interna, nonostante la sua notevole
produzione.
Le banane oggi costituiscono per il Ctm Altromercato il 20% di tutto il
commercio solidale, dato che una accorta politica dei dirigenti di questa
emergente realtà economica ha fatto sì che si siano realizzati accordi per
portare le banane equo solidali nelle mense delle scuole comunali di Roma,
Ferrara, Genova, Savona, Sestri Levante, Lavagna, Carmagnola, Gorgonzola,
Piacenza, Pisa, Brescia, Rovereto, Cesena. La rete del commercio equo e
solidale sta inoltre facendo accordi con molte amministrazioni comunali,
affinché gli alunni delle scuole dell’obbligo di questi comuni possano mangiare
banane un po’ meno tossiche di quelle che si comprano nei supermercati
italiani.
La stessa rete commerciale sta raccogliendo firme tra i cittadini, sensibili a
questo tipo di messaggio, per fare pressione sugli enti locali, affinché anche
le mense dei loro dipendenti adottino la banana equo solidale. Nello stesso
giorno in cui si dava vita ai banchetti in decine di città d’Italia, a Genova,
in una prestigiosa sala del Palazzo Ducale, il Ctm-Altromercato tenne un
convegno di respiro internazionale, con cui volle pubblicizzare la sua
campagna. In questo convegno prese la parola il Professore Raul Harari,
direttore dell’IFA dell’Ecuador, che ha illustrato con diapositive i danni alla
salute dei lavoratori delle piantagioni di banane, provocate dall’utilizzo
sconsiderato di pesticidi, inalati da piccoli aerei a bassa quota, ma
soprattutto dalla totale assenza di distribuzione di equipaggiamenti di
sicurezza e di una informazione adeguata ai lavoratori da parte delle aziende.
La denuncia sulle gravi malattie, che minano quotidianamente i lavoratori e gli
abitanti nelle vicinanze delle piantagioni di banane, hanno avuto un ruolo
importante in questa conferenza, in cui si è più volte accusato, con
indiscutibili prove sanitarie e biologiche, le multinazionali di essere
totalmente prive di un programma di sicurezza della salute dei lavoratori. A
questo convegno è intervenuto anche un rappresentante sindacale dei lavoratori,
il costaricano Gilbert Bermudez,
rappresentante del Colisba (Coordinamento dei Sindacati Bananieri Latinoamericani),
il più rappresentativo coordinamento dei maggiori sindacati latinoamericani del
settore.
Il professore Harari ha ampiamente dimostrato che tutto il materiale chimico
che viene utilizzato per la produzione delle banane è altamente dannoso per la
salute di chi vi lavora. Harari ha affermato che sostenere, come fanno le multinazionali e le istituzioni
internazionali oggi, che ciò che viene usato è meno pericoloso per esempio del
micidiale pesticida nemagon, utilizzato in gran quantità tra il 1978 e il 1986,
non significa assolutamente dire che la banana prodotta nelle tenute delle
multinazionali è oggi meno velenosa di qualche anno fa. Dal punto di vista
scientifico, la banana prodotta dalle multinazionali è ancora altamente
pericolosa per la salute dei lavoratori e dei consumatori. Non solo, ma il professore Harari ha
ampiamente testimoniato che nella quasi totalità dei casi ai lavoratori non
viene fornito nessuna divisa o mezzo di difesa adeguato per riparare la propria
salute. Le stesse inalazioni aeree dei
pesticidi fanno sì che si inquinino falde acquifere e le abitazioni limitrofe
alle piantagioni.
I trattamenti chimici alle piante e la crescita dei caschi di banane in
sacchetti di plastica, poi bruciati, con conseguente spargimento nell’aria
della diossina presente in questi sacchetti, fa sì che il terreno delle
piantagioni divenga sterile nel giro di pochi anni e inquini così tanto il
suolo che alla lunga è assai difficile da recuperare. Questo spiega perché le
multinazionali stiano cercando nuove aree fertili in Brasile, in previsione
della sterilità dei suoli nelle aree di vecchia produzione come Panama, Costa
Rica e Ecuador.
Il rappresentante sindacale ha descritto assai bene la triste realtà in cui
sono costretti a lavorare decine di migliaia di lavoratori delle piantagioni di
banane e la estrema difficoltà di sindacalizzare questa massa di lavoratori,
che vive nella totale precarietà. I fattori che sono d’ostacolo ad una
effettiva sindacalizzazione dei lavoratori impiegati nelle piantagioni di
banane sono essenzialmente due: la diffusione del caporalato e il fatto che
molti dei lavoratori siano spesso stranieri, provenienti dai paesi poveri
limitrofi, senza adeguati permessi di soggiorno. Ciò fa sì che lo sfruttamento
assuma proporzioni disumane, in cui al lavoratore non è riconosciuta nessuna
assicurazione né una pensione, ma solo una paga da fame giornaliera, senza
alcun contratto scritto.
La produzione della banana, per la sua alta redditività commerciale e per
essere una notevole fonte di profitti per le grandi multinazionali è sempre
stata al centro di scelte e battaglie politiche. Le banane, originarie dell’Asia, coltivate nella valle dell’Indo
durante la spedizione di Alessandro Magno, nel 327 a.C., erano note al mondo
greco-romano, anche se non diffuse. Lo storico Plinio il Vecchio (23-79 d.C.)
le menziona come originarie dell’India. Prodotta in Asia, nel VII secolo fu
portata in Africa dalle conquista arabe. Carlo Linneo nel XVIII secolo le
menziona denominandole Musa sapietium, e “musa” era il termine dato a questo frutto
in India e in Somalia, dove fu portata grazie ai commercianti indiani. Quindi
le banane non erano coltivate e note solo in Asia, ma divennero un diffuso e
popolare frutto anche nel continente africano.
Saranno i portoghesi e gli spagnoli a trasferire le coltivazioni nelle Canarie
prima e in America Latina dopo. Lo
sviluppo dei trasporti sia per via terra che per mare, nella seconda metà del
XIX secolo, hanno permesso la diffusione delle banane nei mercati nordamericani
ed europei. In America Latina per tutto il XX secolo si è sviluppata la
produzione della banana grazie al capitale nordamericano. Ecco spiegato perché
tutte le banane che provengono dall’America Latina sono denominate dollar
bananas. Le multinazionali statunitensi in cambio dello sfruttamento delle
terre e della manovalanza a basso costo nei paesi latinoamericani costruirono
strade, sistemi di irrigazione, gestivano impianti di inscatolamento, creavano
così una rete di strutture e servizi di cui ne usufruivano anche i paesi
ospiti, ma che in realtà erano funzionali allo sfruttamento capitalistico di
quelle terre da parte delle multinazionali stesse.
I membri latifondisti delle oligarchie locali fornivano i necessari prestanomi
per le terre, in realtà cedute alle multinazionali, oppure gestivano terre per
conto di queste risolvendo loro i problemi con la manodopera locale, spesso
ricorrendo alla violenza e alla repressione più brutale. Di fronte alle masse
impoverite che avevano necessità di lavorare per il proprio sostentamento si
diede vita a forme di caporalato diffuso, che amministrava e sfruttava in
maniere brutali la manovalanza locale, per lo più composta da indigeni
poverissimi.
La multinazionale statunitense “United Fruit” (che oggi si chiama “Chiquita”),
nel 1949 possedeva nel Centro America 1,4 milioni di ettari, la maggior parte
dei quali concentrati in latifondi in Guatemala, paese in cui aveva fatto
costruire la rete ferroviaria, per poter trasportare i propri prodotti verso i
porti commerciali. In questi latifondi il prodotto principale era la banana che
la “United Fruit” esportava negli USA e in Canada. Quando, nel 1954, in
Guatemala, il governo progressista di Jacobo Arbenz minacciò di nazionalizzare
quasi 200.000 ettari di latifondo, di proprietà della “United Fruit”, compromettendo
la stessa produzione della banana, la multinazionale istigò gli USA a fare un
colpo di stato per far cadere il governo di Arbenz.
Così fu fatto: gli USA invasero il paese con l’esercito e misero al potere un
loro uomo di fiducia: Castello Armas e instaurarono un governo militare, che
regnò parecchi decenni, dando vita ad una feroce repressione tristemente nota
come “guerra sporca”, che produsse decine di migliaia di “desaparecidos” tra
gli oppositori, nella maggioranza indigeni poveri che si opposero duramente al
governo filo statunitense e alle misere condizioni di vita e di lavoro a cui
erano costretti dalla multinazionale. Come quello guatemalteco, anche altri
regimi, foraggiati da Washington, nel continente latinoamericano, hanno dato
vita a repressioni contro qualsiasi movimento o persona che avesse messo in
discussione il dominio delle multinazionali statunitensi.
La repressione aveva come obiettivo quello di garantire mano d’opera e
trasporti a basso costo, a favore delle multinazionali USA, per un dominio
senza rivali. Questa politica imperialista degli USA mostra lo stretto legame
tra potere politico e potere economico. Nel caso del Guatemala si possono
vedere questi legami osservando che l’allora Segretario di Stato USA, John
Foster Dulles, e il direttore della CIA, Allen Dulles, avevano lavorato
precedentemente come consulenti legali per la stessa “United Fruit”; lo stesso
Segretario di Stato per gli Affari Interamericani di allora era John Moors
Cabot, fratello di Thomas Cabot, Presidente della “United Fruit”.
Come ha giustamente scritto Eduardo Galleano, nel terzo libro di Memoria del
fuoco (Rizzoli, Milano, 2001): “il regno della banana era stato salvato dal
pericolo della riforma agraria”. Come
abbiamo potuto vedere, la banana non è prodotta solo in America Latina, ma
anche in Africa. Ciò ha fatto sì che sia divenuta, nella seconda metà del XX
secolo, oggetto di scontro tra opposti imperialismi, più precisamente tra le
lobby USA, che dominavano la produzione del continente latinoamericano e quelle
dell’Unione Europea, che, ereditando le vie commerciali dell’appena passato
colonialismo, dominavano le produzioni dell’Africa e di una parte dell’Asia.
Questi forti contrasti tra USA e UE hanno dato vita ad un conflitto
commerciale, noto come la “guerra delle banane”.
Questa conflittualità che si sta trascinando ancora oggi e smentisce una volta
di più i teorici di un unico monolitico “Impero” capitalistico, che in nome di
una fantomatica globalizzazione avrebbe azzerato qualsiasi conflitto
all’interno del mondo capitalistico dominante. Nulla di più falso, perché è la
stessa natura del sistema capitalistico, ben analizzata e studiata da Lenin,
all’inizio del XX secolo, che riproduce nel suo seno quella conflittualità
economica, sociale e militare, che dà luogo alle guerre interimperialistiche e
genera fantomatiche guerre umanitarie, con cui i vari poli imperialistici
tentano di impossessarsi di fonti di energia per sottrarle alla concorrenza di
altri poli imperialistici.
Tutta questa conflittualità sotterranea tra diversi poli imperialistici sono
stati alla base delle due grandi guerre mondiali e sono tuttora la base degli
attuali conflitti bellici esistenti. Ne è una prova la diversità di posizioni
assunte dai diversi poli imperialistici alla vigilia dell’intervento bellico
USA contro l’Iraq. I forti contrasti
tra USA e UE nella commercializzazione della banana iniziarono sin dal 1975,
con la cosiddetta “Convenzione di Lomé (Togo)” , in cui l’Unione Europea
stabilì, sottoscrivendo il protocollo numero 5, che le banane prodotte nei 42
paesi membri dellAcp ( Africa, Caraibi e Pacifico) avrebbero avuto un accesso
privilegiato al mercato europeo, abbassando le tasse di importazione e ponendo
una serie di agevolazioni. In questa sede si elaborarono tutta una serie di
quote e defiscalizzazioni per favorire le ex colonie europee.
Questo trattato fu, in seguito, aggiornato con il “Trattato di Cotonou
(Benin)”. Con questi accordi commerciali le esportazioni di banane dall’Africa
all’UE sono passate dalle 300.000 tonnellate del 1993 alle 500.000 del 2002. Su
53 paesi africani, ben 37 producono, ma solo 16 esportano banane in Europa. Con
l’allargamento dell’UE anche ai paesi dell’ex blocco sovietico, la richiesta di
banane da parte dell’UE è aumentata e si sono aperti nuovi mercati. Le
multinazionali USA delle banane si sono viste tagliate fuori da una fetta
enorme di mercato, inoltre non hanno mai gradito l’alternativa che gli accordi
UE e Acp proponevano ai consumatori europei.
Gli Usa, a partire dal 1993, danno vita alla nota guerra delle banane, facendo
ricorso presso il WTO, per contestare l’accordo tra UE e Acp, con l’intenzione
di poter far accedere le proprie banane in Europa e conquistare fette di
mercato sempre maggiori. Si assiste quindi ad una guerra tra le dollar bananas
e eurobanane, per il dominio dei consumatori europei. Le istituzioni dell’UE
giustificarono la politica protezionista verso la banana, sostenendo che i
trattati tra UE e paesi dell’Acp erano stati realizzati con il fine di aiutare
e agevolare i produttori poveri dei paesi dell’Acp e quindi promuovere una
politica di cooperazione allo sviluppo delle economie locali povere. Ma
l’economista olandese Nico Roozen, uno dei fondatori del commercio equo
solidale in Olanda, smascherò con i suoi studi le falsità di queste
affermazioni, sostenendo, nel suo famoso libro L’avventura del commercio equo e
solidale (Feltrinelli, Milano, 2003), che in realtà la politica perseguita dai
paesi europei era quella di tutelare la posizione di privilegio degli
importatori europei.
A questo proposito basti ricordare che la “eurobanana” si produce
essenzialmente in piccole imprese o cooperative, la cui proprietà è costituita
da grossi colossi della distribuzione europea. La Francia tratta in malo modo
le sue ex colonie, come se ancora facessero parte del suo vecchio impero.
Martinica e Guadalupe continuano ad appartenere alla Francia, come lo fu
l’Algeria, prima della sua liberazione nazionale. Nonostante le potenze europee
sostenessero che la loro strategia bananiera fosse per sostenere questi paesi
poveri del terzo mondo, in molti casi indipendenti da poco tempo, nella loro
transizione verso l’autosufficienza economica, in realtà la maggior parte dei
sostegni non andò mai a favore dei produttori, ma fu a beneficio dei
commercianti e dei grossi distributori che operavano negli stessi paesi
europei.
Basti dire che oltre il 90% di ciò che i consumatori dei paesi europei pagavano
per le banane, restava negli stessi paesi europei e solo un 10% andava ai paesi
dell’Apc. Dovendo poi calcolare le spese di trasporto e le tasse interne dei
paesi produttori alle cooperative rurali africane restava assai poco o nulla.
Nonostante ciò le banane risultavano assai più care in Europa che negli USA.
Sorsero così accese polemiche in Europa su questa politica che faceva gli
interessi degli importatori che realizzavano ingenti profitti,sfruttando
manodopera in paesi africani estremamente poveri. Ma il conflitto tra UE e USA
fu ancora più aspro, rivelando i veri volti imperialisti dei due poli. Le
multinazionali statunitensi fecero pressione nel 1994 sul governo USA, affinché
il WTO imponesse un cambiamento della legislazione UE. La stessa WTO, nata
proprio quell’anno, si vide da subito a dover risolvere un grave conflitto tra
due principali poli imperialisti del mondo occidentale.
La guerra è proseguita con alti e bassi all’interno del WTO, in cui i vari
paesi latinoamericani hanno spesso attuato dei rocamboleschi voltafaccia, in
base a sostegni o aiuti economici che ora l’uno, ora l’altro polo concedeva
loro. Questi due poli imperialisti rapaci, ognuno con i propri vantaggi e
svantaggi, si sono scontrati in questa guerra delle banane. La guerra
essenzialmente di natura economica si concentrò sulla capacità di questi potentati
di esercitare la propria protezione di stile mafioso sulle proprie ex
colonie. Nel 1999, il WTO, dopo 5 anni
di liti e scontri diplomatici, riuscì a costringere l’UE a cambiare il proprio
regolamento sul commercio delle banane in senso meno protezionistico. Ma USA e
Ecuador (con a capo la multinazionale del ricco Noboa) non si videro abbastanza
soddisfatti delle decisioni e convinsero il WTO a concedere loro la possibilità
di emettere sanzioni commerciali all’UE, come ritorsione delle politiche europee
protezionistiche.
Alla fine degli anni ’90 in Europa si assistette ad una crisi di
sovrapproduzione di banane dovuta all’invasione di meno costose banane
provenienti dall’Ecuador, dove a fronte ad una irreversibile crisi
economica-sociale il paese risultava fra gli stati sudamericani quello fornito
di piantagioni con i salari più bassi. Per capire meglio la situazione
ecuadoriana di quell’anno, basti dire che nel primo semestre del 1999 in
Ecuador il prezzo di una cassa di banane scese da 3,20 dollari a 2,00. Per
sbloccare la grave situazione conflittuale, l’UE nel 2001 decise di
liberalizzare progressivamente il mercato delle banane entro il 1° Gennaio
2006. Recentemente, il 31 Gennaio 2005, l’UE ha comunicato al WTO la sua
intenzione di imporre, a partire dal 1° Gennaio 2006, una unica tariffa
doganale di 230 Euro per ogni tonnellata di banane importate da paesi extra
europei, esclusi quelli dell’Acp.
Tale provvedimento andrebbe a danneggiare le produzioni del continente
latinoamericano, che avevano proposto una tariffa unica per tutti a 75 Euro la
tonnellata, che a loro volta penalizzerebbe le banane europee esportate
dall’area caraibica. Inoltre, l’Ecuador sta chiedendo un abbassamento delle
tariffe doganali. Ma se ciò non si verificasse sarebbe disposto a mantenere
l’attuale regime tariffario. I delegati del governo ecuadoriano, riunitisi
nell’Agosto del 2004, decisero di voler sostenere l’attuale regime sino al
2021. Sulla stessa posizione dell’Ecuador si sono espressi Costa Rica e
Nicaragua, i maggiori produttori di banane del Centro America, dopo aver avuto
non pochi dubbi su che opzione sostenere in sede WTO. Come in Ecuador nel corso dell’Ottobre 2003, anche in Nicaragua,
il 15 Dicembre 2004, si sono viste imponenti manifestazioni di lavoratori e imprenditori
che chiedevano che l’attuale regime non fosse cambiato.
Le forze imprenditoriali di questi paesi avevano convinto i propri lavoratori a
dar vita alle proteste, perché con le nuove tariffe avrebbero dovuto abbassare
i salari per fare restare costanti le loro rendite, al tempo stesso
manipolavano le proteste per ottenere, a livello locale esenzioni fiscali. Come
si può vedere, gli interessi in gioco sono enormi e complessi, ma una cosa è
certa che una riforma delle tariffe come prospettata dall’UE non farebbe altro
che far scendere al ribasso i salari già poveri dei lavoratori, in una corsa
alla competizione capitalistica tra poli antagonisti che gioca tutta la sua
partita nella compressione dei salari e dei diritti dei lavoratori, i quali
oltre a lavorare con precari contratti, talvolta inesistenti del tutto, in
condizioni disumane e nocive alla salute, vedono diminuire sempre più il loro
salario. Da parte loro gli imprenditori, o chi per essi, sono consapevoli che
un abbassamento del salario non inciderà sulla produzione, in quanto esistono
migliaia di lavoratori immigrati da zone e paesi più poveri, pronti a
sostituirsi a coloro che non vogliono diventare schiavi. Con la corsa al
ribasso del salario, le imprese mantengono alti profitti, spremendo queste
popolazioni e i cicli biologici del terreno al massimo, sapendo che, quando
tutto questo non sarà più possibile, abbandoneranno quelle zone per istallarsi
in altre simili, per iniziare lo sfruttamento di prima
Di fronte
alle campagne di sensibilizzazione dell’opinione pubblica mondiale fatte dagli
operatori del commercio equo e solidale, “Chiquita” (al pari di quello che ha
fatto la Nike, in altri campi produttivi), ha cercato di prendere le distanze
dalle condizioni di schiavitù che esistono nelle piantagioni di banane, con la
creazione di una rete di microimprese che, anche se formalmente indipendenti,
nella pratica dipendono da essa (per esempio le piccole imprese “indipendenti”
vendono tutta la loro produzione a una sola transnazionale anno dopo anno).
Poco prima che il governo USA presentasse la denuncia per la strategia dell’UE,
Carl Lindner, capo dell’American Financial Group, proprietario di Chiquita
Brands International, fece una donazione di 500 milioni di dollari in favore
della campagna elettorale di Bill Clinton.
Ciò dimostrerebbe ancora una volta come le lobby bananiere statunitensi siano
strettamente legate al potere politico del loro paese e di quanta importanza
godano, visti gli enormi profitti che traggono dalla produzione e commercializzazione
della banana. Conoscere i meccanismi
dello sfruttamento capitalistico nelle bananiere del Latinoamerica, come ce lo
hanno fatto conoscere i relatori del convegno di Genova, credo sia importante
per un sindacato come il nostro, che in questi anni ha cercato di porre al
centro del suo agire il conflitto capitale lavoro.
Consapevoli che non è con il commercio equo e solidale che si trasforma la
società e che non è neppure combattendo dall’interno le regole del mercato
capitalista che lo si può sovvertire, in quanto già il fatto di chiamarsi
mercato, anche se rispettoso di regole umanitarie, presuppone sempre qualcuno
che produca e un altro che si arricchisca con la vendita del prodotto, ritengo
importante questo lavoro fatto dal Ctm-Altromercato, soprattutto per un motivo, perché ci fornisce la conoscenza del
livello di sfruttamento a cui è giunto l’odierno capitalismo mondiale, in quei
paesi dove sino ad oggi non sono mai esistite regole e diritti sindacali
adeguati alle realtà produttive.
Da un punto di vista meramente politico penso che il sistema capitalista non si
possa trasformare dall’interno, ma vada abbattuto, né tanto meno credo si possa
trasformare dal suo interno, accettando di fatto la filosofia del mercato e
della proprietà privata dei mezzi produttivi. Lo stesso Carlo Marx, nel 1864,
riferendosi al mondo delle piccole cooperative operaie, che operavano
insistendo sul senso di mutua solidarietà e equità tra i membri della classe operaia, sottolineò come il movimento
cooperativistico, sebbene encomiabile per la sua attività a favore della
sussistenza degli operai, non sarebbe mai stato in grado di modificare la
produzione sociale in un unico sistema vasto e armonioso di lavoro libero e
cooperativo, in quanto per raggiungere questi obiettivi erano necessari
cambiamenti sociali epocali che si sarebbero potuti realizzare solo col
passaggio della proprietà dei mezzi di produzione dai capitalisti agli operai,
solo cioè se si fosse realizzata una rivoluzione comunista e proletaria.
La campagna del Ctm Altromercato afferma inoltre che occorrerebbe ritoccare le
quote per far entrare più banane eque e solidali in Europa e, in tal modo,
sostiene una maggiore liberalizzazione del mercato delle banane in Europa,
senza rendersi conto che così facendo si sostiene le stesse cose che chiedono
le multinazionali statunitensi che, coi loro potenti mezzi, hanno intenzione di
invadere l’ampio mercato europeo. In tal modo l’atteggiamento del
Ctm-Altromercato ci appare ambiguo Anche se Ctm giustifica queste prese di
posizione con il fatto che vuole favorire i propri referenti produttivi,
presenti essenzialmente in Costa Rica e in Ecuador, non ci si accorge che
sostenere queste posizioni si rischia di danneggiare ulteriormente i produttori
cooperativistici africani. Ma chi solleva queste critiche che ho qui accennato,
parte dal presupposto sbagliato che Ctm-Altromercato sia un’altra cosa dal
mercantilismo operante con il terzo mondo.
Invece il commercio equo e solidale è un segmento minoritario, ma non trascurabile
di mercato sensibile, sviluppatosi in questi ultimi anni in Nordamerica e in
Europa, che realizza notevoli profitti, pur nel solco del rispetto dei diritti
sindacali e della sicurezza di chi lavora, ma resta pur sempre una catena
imprenditoriale, da terzo settore, che non disdegna la realizzazione di
profitti, anche se poi impiegati nel mutuo soccorso e nella solidarietà.
Nonostante abbiamo molte perplessità circa il fatto che si possa trasformare il
mercato capitalistico con un movimento sostanzialmente etico, pensiamo comunque
che le denuncie portate avanti dal Ctm Altromercato siano importanti, per il
fatto che coinvolgono un segmento sensibile e non di poco conto dell’opinione
pubblica italiana e ciò è importante perché fa in modo che si insinui nella
stessa opinione pubblica nazionale l’idea della disumanità della produzione
capitalistica.
In questa campagna di denuncia ravvisiamo un utile tassello per portare avanti
la campagna ideologica contro il capitale e i suoi modi di sfruttamento, là
dove le condizioni sociali e politiche lo permettono. Dal convegno di Genova
noi abbiamo molto da apprendere per fare nostre le giuste denunce sociali,
oltre che diffonderle tra i lavoratori del nostro paese per una maggiore
sensibilizzazione, in cui sia evidente i gravi danni alla salute che provoca il
capitalismo reale, per demolire l’idea che lo sviluppo capitalistico sia
l’unico modo di vita che assicura un futuro migliore. Concludendo credo che
noi, come sindacato di base, non dobbiamo pensare al mercato equo e solidale
come un toccasana che risolverà le problematiche di fame e sfruttamento per i
popoli del terzo mondo, ma il lavoro di denuncia svolto da questa rete
commerciale è importante per smascherare le forme brutali e rapaci di
sfruttamento e per indicare ai lavoratori di tutto il mondo che non è
umanizzando i rapporti di classe che l’operaio e il contadino del terzo mondo
non saranno più sfruttati.
Dobbiamo essere consapevoli che le forme di sfruttamento capitalistico
cesseranno di essere tali solo nel momento in cui il capitale cesserà di vivere
e i mezzi di produzione passeranno in mano ai lavoratori. Noi come sindacato di
base dobbiamo cercare di cogliere gli elementi di denuncia contro il capitale,
ben presenti in queste campagne di denuncia portate avanti dal mercato equo e
solidale, per far comprendere ai lavoratori del nostro paese che se si
dovessero abolire tutti quei parziali diritti che negli ultimi anni le lotte
dei lavoratori hanno strappato alla borghesia, finiremmo presto per trovarci nelle
stesse situazioni precarie dei lavoratori bananieri del terzo mondo.
Dall’altra ritengo importante un approccio con quelle realtà di lotta per
allargare i rapporti e veder di poter intervenire nell’opinione pubblica, anche
con mirati boicottaggi mercantili, come talvolta propone lo stesso Ctm, per
aiutare e sostenere, nei limiti del possibile, le lotte di quei lavoratori,
affinché possano raggiungere diritti, che sino ad oggi per noi sono ormai
assodati da tempo e sono fissi nel nostro vivere quotidiano come la luna di
notte. Ma nonostante ciò, le lotte che i lavoratori conducono in queste
terribili realtà del capitalismo reale, nei paesi del terzo mondo, sono utili
per far prendere coscienza a queste stesse masse dell’impraticabilità del
capitalismo nel futuro dell’umanità e per creare i presupposti per rivoluzioni
avanzate, in cui tutti i lavoratori, anche coloro che vivono in situazioni un
po’ migliori, possano contribuire ed aiutare, sapendo che in un mondo così
strettamente collegato, come quello globalizzato odierno, una vittoria
sindacale in un settore del terzo mondo come quello dei lavoratori delle
bananiere, oltre produrre in primis miglioramenti per i lavoratori coinvolti,
non può non portare benefici anche ai lavoratori del nostro paese.
Ceccoli Silvano