www.resistenze.org - osservatorio - mondo multipolare - 26-05-05

dal Partito Comunista del Perù

http://www.patriaroja.org.pe/html/colaboraciones/entrevista_a_samir_amin.htm

 

50 Anni fa: La Conferenza Di Bandung


Intervista A SAMIR AMIN

Rémy Herrera

 

Rémy Herrera:
50 anni fa, nel 1955, i principali capi di Stato dei paesi dell’Asia ed Africa che avevano recuperato la loro indipendenza politica si riunivano per la prima volta a Bandung. Qual era il loro progetto comune?


Samir Amin:
I dirigenti asiatici ed africani riuniti a Bandung erano molto diversi tra loro.
Le tendenze politiche ed ideologiche che rappresentavano, le visioni delle società a cui aspiravano a costruire o a ricostruire, ed anche le loro relazioni con l’Occidente, marcavano grosse differenze. Ciononostante, c’era un progetto comune che li convocava e forniva un senso a quella conferenza. Non era ancora finita la storica battaglia per l’indipendenza; il loro programma minimo comune includeva la decolonizzazione politica di Asia e Africa. Inoltre, tutti erano di accordo sul fatto che l’indipendenza politica appena recuperata era solo un mezzo per ottenere la liberazione economica, sociale e culturale.
Era su come ottenerla, che i partecipanti alla conferenza di Bandung si dividevano in due gruppi: c’era chi aderiva all’opinione dominante, secondo cui lo “sviluppo” era possibile all’interno dell’economia mondiale; i dirigenti comunisti., invece, proponevano di uscire dall’ambito capitalista per formare - con l’URSS, o dietro la loro leadership - un fronte socialista mondiale. I dirigenti del Terzo Mondo capitalista che non erano a favore di questa “uscita dal sistema”, per altro, non condividevano nemmeno la stessa visione strategica e tattica dello sviluppo. Ma tutti, chi più chi meno, erano coscienti che una società sviluppata indipendente - sebbene nell’interdipendenza globale - implicava qualche tipo di confronto col dominio occidentale.


La tendenza più radicale era a favore di mettere un limite al controllo dell’economia nazionale da parte del capitale monopolista straniero. Inoltre, per mantenere la conquistata indipendenza, si rifiutava di partecipare all’ingranaggio militare mondiale e di servire da base per l’accerchiamento dei paesi socialisti che pretendeva di imporre il dominio statunitense. Ma si pensava anche che rifiutarsi di far parte del campo militare atlantico non implicasse necessariamente piegarsi sotto la protezione del suo avversario, l’URSS. Da qui la neutralità e il “non allineamento” che diede il nome al gruppo di paesi e all’organizzazione che sarebbe sorta dallo spirito di Bandung.


R. H.: Quale fu l’obiettivo delle politiche di sviluppo seguenti a Bandung?


S. A.: Le politiche di sviluppo applicate in Asia, Africa ed America Latina sono state identiche nella sostanza, al di là dei vari progetti ideologici che le hanno accompagnate. A dispetto delle loro differenze, tutti i movimenti di liberazione nazionale avevano le stesse mete : l’indipendenza politica, la modernizzazione dello Stato, l’industrializzazione dell’economia. L’intervento dello Stato si considerava assolutamente decisivo per lo sviluppo. Non si faceva quella contrapposizione, oggi tanto frequente, tra l’intervento statale - sempre negativo, contrario in essenza alla supposta spontaneità del mercato - e l’interesse privato - legato alle tendenze spontanee del mercato. Non se ne parlava neanche. Al contrario, tutti i governi condividevano il principio che  l’intervento statale era un elemento fondamentale della creazione del mercato e della modernizzazione. Chiaro, la sinistra radicale, con la sua interpretazione ideologica tendente al socialismo, associava l’espansione della staticità all’eliminazione graduale della proprietà privata. Ma la destra nazionalista, senza avere la stessa meta, non era da meno in materia d’interventismo e staticità: la costruzione e la difesa degli interessi privati, richiedeva una staticità vigorosa. In quell’epoca, nessuno avrebbe fatto caso alle sciocchezze che si sentono negli attuali discorsi dominanti


R. H.: Oggi esiste ancora una solidarietà tra i paesi del Sud?


S. A.: In questo momento, la solidarietà tra i paesi del Sud che con forza era stata espressa a Bandung (1955) fino ad arrivare a Cancun (1981), tanto nell’aspetto politico col non allineamento, che in quello economico, per le posizioni comuni dei 77 nelle istanze dell’ONU, specialmente nella CNUCED, sembra ormai scomparsa. Le tre istituzioni internazionali che lavorano per l’integrazione dei paesi del Sud, l’OMC, la Banca Mondiale ed il FMI, sicuramente hanno molta responsabilità nell’indebolimento dei 77, dell’estinto Tricontinental e del Movimento dei Non Allineati. Tuttavia, quest’ultimo sta dando segni di una possibile rinascita, poiché sta risorgendo la coscienza che è necessaria una solidarietà tra i paesi del Sud.

L’arroganza degli Stati Uniti e l’applicazione del suo proposito di “controllo militare del pianeta” mediante una successione interminabile di guerre progettate e decise unilateralmente da Washington hanno provocato una forte reazione nella recente conferenza dei Non Allineati celebratasi a Kuala Lumpur (febbraio del 2003). I paesi del Sud non allineati hanno condannato la strategia imperialista degli Stati Uniti. Sono coscienti che la globalizzazione neoliberale non ha niente da offrir loro e, perciò deve ricorrere alla violenza militare per imporsi. Ora, il Movimento è di non allineamento contro la mondializzazione neoliberale e contro l’egemonia degli Stati Uniti. La selezione dello spazio degli interventi militari di Washington, ininterrotti dal 1990, si concentra sul Medio Orienti arabo, Iraq e Palestina, i Balcani, l’Asia Centrale ed il Caucaso. Gli obiettivi degli Stati Uniti sono:

uno: impadronirsi delle regioni industriali petrolifere più importanti del pianeta, e così potere pressare Europa e Giappone per ridurli alla condizione di alleati subalterni;
due: installare basi militari permanenti nel cuore del Vecchio Mondo, in Asia Centrale, che permettano loro di scatenare altre “guerre preventive” dirette, in primo luogo, contro i grandi paesi che minacciano di imporsi come soci coi quali “bisogna negoziare”: innanzi tutto Cina, ma anche Russia e India. Per riuscirci devono installare nei paesi di quelle zone dei governi burattini imposti dalle forze armate statunitensi. Tanto Pechino, come Nuova Delhi e Mosca ogni volta hanno più chiaro che le guerre “made in Usa” in realtà sono dirette contro Cina, Russia e India, e non tanto contro le loro vittime immediate, come l’Iraq.

R. H.: Quali sarebbero le linee guida di un’alleanza dei paesi del Sud?


S. A.: In ambito politico, passano per la nuova dottrina della politica degli Stati Uniti - quella della « guerra preventiva » - ed esige l’evacuazione di tutte le basi militari straniere in Asia, Africa ed America Latina. Il divieto di Bandung per l’installazione di basi militari straniere nel Terzo Mondo ritorna all’ordine del giorno. La posizione dei Non Allineati è stata simile a quella che hanno difeso Francia e Germania nel Consiglio di Sicurezza, fatto che ha accentuato l’isolamento diplomatico e morale dell’aggressore. In ambito economico si stanno abbozzando le linee principali di un’alternativa che il Sud potrebbe difendere collettivamente, perché in questo caso gli interessi dei paesi che lo conformano sono convergenti. Si torna a parlare della necessità di controllare i bonifici internazionali di capitale, e si torna anche a parlare di regolare gli investimenti stranieri. Sono molti i paesi del Sud che hanno compreso fino a che punto una politica nazionale di sviluppo agricolo è imprescindibile se tiene conto delle necessità di proteggere i contadini di fronte alle conseguenze devastatrici dalla « competenza » promossa dall’OMC, e di assicurare l’alimentazione della nazione. Inoltre, non si considera solo il debito economicamente insostenibile, ma s’incomincia a discutere della sua legittimità.


R. H.: È possibile un nuovo internazionalismo tra Asiatici, Africani, Latino-americani ed Europei?

S. A.: Certo. Esistono le condizioni per un avvicinamento, per lo meno, di tutti i paesi del Vecchio Mondo. Si concretizzerebbe, nell’ambito della diplomazia internazionale, con la formazione di un asse Parigi-Berlino-Mosca-Pechino e si rafforzerebbe con lo sviluppo delle relazioni amichevoli tra quest’ asse e il fronte afroasiatico ricostruito. La solidarietà con le lotte dei popoli latinoamericani è ovviamente fondamentale. È chiaro che qualunque avanzamento in questo senso, quello di un internazionalismo tra paesi asiatici, africani, latinoamericani ed europei, annullerebbe l’ambizione criminale degli Stati Uniti, che si vedrebbero obbligati ad accettare la coesistenza con alcune nazioni decise a difendere i propri interessi. In questo momento si tratta di un obiettivo assolutamente prioritario.
L’esecuzione del piano statunitense condiziona tutte le lotte: non potrà esserci nessun progresso sociale e democratico duraturo finché non si frustra questo progetto egemonico degli Stati Uniti. Perciò l’Europa deve e può liberarsi del virus liberale, e quest’iniziativa può partire solo dai popoli. I segmenti dominanti del capitale che i governi europei difendono con priorità esclusiva, sono a favore del neoliberismo globalizzato, e sono disposti a pagare il prezzo della sottomissione al leader statunitense.
I popoli d’Europa hanno una visione diversa, tanto del progetto europeo che dovrebbe essere sociale, come delle sue relazioni col resto del mondo, che dovrebbero essere dirette dal diritto e dalla giustizia. Se arriva a prevalere questa cultura politica umanista e democratica della “vecchia Europa” - ed è possibile -, l’avvicinamento autentico tra Europa ed il Terzo Mondo getterà le fondamenta di un mondo pluricentrico, democratico e pacifico.

 

Traduzione dallo spagnolo di FR