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Vladimiro Giacché: La fabbrica del falso
 
Strategie della menzogna nella politica contemporanea
 
(2° edizione) - www.deriveapprodi.org/estesa.php?id=345
 
Estratto dal libro (pagg. 211-215)
6. Un altro sistema di metafore è possibile?
 
È sicuramente importante combattere i singoli cliché e le singole metafore che mistificano la nostra realtà sociale. Ma è ancora più importante comprendere che sono come gli scarafaggi in cucina: non vengono mai soli. Le metafore adoperate in una determinata epoca storica dalle classi dominanti, e divenute senso comune, non sono isolabili, ma sono parte di un sistema strutturato di metafore. Per capire con che cosa abbiamo a che fare è sufficiente passare in rassegna alcune delle metafore più influenti relative alla realtà sociale dell’Italia dei nostri giorni.
 
Ai primi posti si trova senz’altro il «conflitto generazionale», usato per argomentare la presunta necessità di «riforma» del sistema pensionistico, che di fatto mira a ridurre le prestazioni previdenziali pubbliche (a parità di contributi versati) ed è variamente motivato: l’allungamento dell’età media, l’eccesso di «pensionati-baby» (benché sia difficile definire imberbe fanciullino un sessantenne…), l’«insostenibilità» delle pensioni pubbliche, ma anche la necessità di «sostenere l’economia» (per cui sarebbero molto utili i fondi pensione privati, che potrebbero poi investire in aziende italiane quotate in borsa). Questo presunto «conflitto generazionale» ha scatenato una vera pioggia di elucubrazioni pubblicistiche. Emblematico il libro di Nicola Rossi, dal titolo eloquente: Più ai figli, meno ai padri. Lo stesso presunto «conflitto generazionale» è del resto tirato in ballo anche ad altri riguardi: quasi sempre per sostenere che l’«eccesso» di garanzie di cui godono le persone di una certa età rappresenta la causa delle insufficienti protezioni sociali dei giovani.
 
Un’altra metafora molto in voga è quella dello «Stato inefficiente e predatore». Conosce diverse varianti, a seconda che si accentui il primo o il secondo aspetto: nel primo caso (lo Stato «inefficiente») generalmente si punta il dito sui «fannulloni» della pubblica amministrazione, che si mangiano i soldi degli «onesti-cittadini-che-pagano- le-tasse» senza far niente; il secondo aspetto (lo Stato «predatore») è in genere proposto attraverso la metafora dello «Stato ladro»: lo Stato che «mette le mani in tasca al cittadino», tramite un fisco «vampiresco». Queste metafore ammettono diversi livelli di lettura: ad esempio, si potrebbe considerare lo stesso concetto di «Stato» una metafora usata per definire diverse amministrazioni pubbliche, che tra l’altro non sembra facile assimilare così immediatamente le une alle altre (in linea di ipotesi, si potrebbe benissimo avere una polizia efficientissima a fronte di centri di ricerca inefficienti; una protezione civile ben organizzata, a fronte di un ministero della marina mercantile disorganizzato, e così via).
 
Ma anche senza giungere a questo livello di astrazione, e prendendo per buona la semplificazione concettuale dello «Stato», è facile vedere che la metafora dello Stato «fannullone e ladro» orienta verso un’interpretazione estremamente faziosa e unilaterale dello Stato stesso. Ad esempio, impedisce di vedere la centralità assunta dall’apparato statale ai fini del funzionamento del sistema economico (se non in termini di ostacolo: «lacci e lacciuoli», impedimenti burocratici, ecc.). A dispetto di tutti i luoghi comuni, questa centralità nel corso degli ultimi decenni è andata via via accrescendo la sua importanza. Di fatto, in tutto il XX secolo l’intervento degli Stati nella vita economica è cresciuto.
 
Un affidabile studio quantitativo sulle principali potenze economiche dimostra che nel 1870 la quota media della spesa pubblica sul prodotto interno lordo (in parole povere, sulla ricchezza di un paese) era del 10,8%; nel 1920 era il 19,6%; nel 1960 era giunta al 28%; nel 1996 era qualcosa come il 45%. Il che significa che dieci anni fa la ricchezza dei paesi considerati era per circa la metà dovuta a spese e investimenti pubblici. Ma le cifre su quanto della nostra ricchezza è dovuto allo Stato sono assenti dai nostri giornali: mentre sempre più elaborate e colorate sono le tabelle e le rappresentazioni grafiche dedicate a «quanta parte dell’anno dobbiamo lavorare per il fisco».
 
Non è possibile ora dilungarsi ulteriormente sulle implicazioni delle due metafore citate, anche se decostruirle sarebbe senz’altro un esercizio utile. Ai fini del nostro discorso è più importante rilevare le loro caratteristiche comuni. Vediamole.
 
1) Innanzitutto, entrambe le metafore spiegano determinati fenomeni sociali facendo ricorso a conflitti: nel primo caso il conflitto vecchi-giovani, nel secondo il conflitto Stato-cittadino. Non è affatto vero, quindi, che l’immagine ortodossa della nostra vita sociale rifiuti in assoluto l’importanza del conflitto (a quelli citati potremmo aggiungere il conflitto tra civiltà e tra nazioni, quello tra cittadini e immigrati, e altri ancora). Rifiuta soltanto un determinato tipo di conflitto: il conflitto tra classi sociali. Ora, precisamente questo tipo di conflitto è celato dalle due metafore che abbiamo preso in considerazione. Ed è un vero guaio. Soprattutto nel primo dei due casi considerati, perché a un’indagine più attenta emergerebbe che il problema delle pensioni nasce principalmente da due fenomeni che originano entrambi dal conflitto di classe: da un lato, un carico fiscale iniquo nei confronti dei lavoratori dipendenti, tale per cui i loro contributi previdenziali servono a pagare non soltanto le pensioni, ma anche l’assistenza fornita dallo Stato a chi non ha mai pagato contributi, che dovrebbe essere pagata dalla fiscalità generale – ossia, non soltanto dai lavoratori dipendenti; dall’altro, un’elevata evasione previdenziale da parte dei datori di lavoro che assumono lavoratori «in nero».
 
2) In secondo luogo, tanto nella costellazione di metafore che compone il discorso contemporaneo sulle pensioni quanto in quelle relative allo Stato inefficiente e predone, c’è un attore che influenza l’azione anche quando resta apparentemente fuori scena. Ce ne siamo già occupati: si tratta del mercato e della sua supposta superiore efficienza e capacità di creare ricchezza rispetto allo Stato e in contrapposizione a esso. La «soluzione di mercato » come toccasana di tutti i mali: solo questo presupposto può giustificare per un verso il privilegio attribuito alle pensioni private rispetto a quelle pubbliche, per l’altro la considerazione dello Stato come per definizione inefficiente e parassitario. Del resto, è precisamente sulla base di questo presupposto ideologico che negli anni Novanta sono state giustificate massicce privatizzazio- ni di aziende pubbliche, in Italia e altrove: benché non esista un solo studio empirico che dimostri un nesso tra efficienza e proprietà privata (anziché pubblica) di un’impresa.
 
In conclusione: entrambe le metafore considerate presuppongono – e al tempo stesso rafforzano – una determinata concezione della società. Nel caso specifico, la concezione della società capitalistica come il migliore dei mondi possibili, e quindi la metafora della società come grande agone competitivo («necessariamente» spietato), eventualmente da emendare per eliminarne alcune spigolosità (modello socialdemocratico) o, meglio ancora, alle cui dinamiche andranno affiancate iniziative di beneficenza per aiutare i «gruppi più vulnerabili», gli individui che per loro colpa o sfortuna sono «rimasti indietro» (modello «capitalismo compassionevole» alla Bush).
 
L’egemonia esercitata oggi dalle classi dominanti si giova della grande forza di penetrazione di questa metafora: attraverso di essa sono pensati i fenomeni sociali, spesso senza volerlo e senza neppure averne consapevolezza. Il punto da sottolineare è il potere che oggi è esercitato da questa metafora. In generale, come evidenziato da George Lakoff e Mark Johnson in un testo fondamentale sull’argomento, «non è affatto facile cambiare le metafore con cui viviamo ». Anche perché «le metafore possono creare delle realtà per noi, specialmente delle realtà sociali, e in tal modo essere guida delle nostre future azioni. Tali azioni, naturalmente, corrisponderanno alla metafora. Ciò, a sua volta, rinforzerà il potere della metafora di rendere l’esperienza coerente. In questo senso le metafore possono essere profezie che si autodeterminano». Un sistema di metafore può quindi risultare inconfutabile, almeno finché si resta all’interno dell’orizzonte teorico da esso stesso definito.
 
Come osserva Lakoff, «per essere accettata, la verità deve rientrare nei frames mentali delle persone». Se questo è vero, per dire la verità occorre operare una sostituzione del sistema di metafore dominante con un altro sistema di metafore, orientato da un diverso concetto di società. Il problema, oggi, è che, se il punto di vista dei dominanti è chiaro, risulta altrettanto evidente che esso viene fatto proprio anche da gran parte dei dominati: sino al vero e proprio capolavoro di convincerli del fatto di non essere più tali. Questo è potuto accadere non da ultimo perché il linguaggio e le cornici concettuali dei ceti dominanti sono stati accettati anche dai loro antagonisti storici, e ora sono il linguaggio. Rispetto a questa situazione, c’è un unico punto di svolta possibile: quello di riappropriarsi della coscienza di sé, della propria identità (quella coscienza e quella identità che oggi vengono costantemente eluse, nascoste, negate). Questo è però solo un aspetto del percorso da fare. L’altro, decisivo, chiama in causa la prassi. È infatti illusorio pensare che la guerra delle parole possa essere vinta soltanto sul terreno lessicale: soltanto attraverso un cambiamento dei rapporti di forza nella società sarà possibile restituire un senso alle parole oggi svuotate dal potere.
 

Recensione di Stefano G. Azzarà, Università di Urbino (da Left)
 
Non sono pochi gli intellettuali intervenuti di recente con le loro riflessioni sul logoramento del linguaggio nella nostra società: penso a Gianrico Carofiglio, con La manomissione delle parole, oppure a Gustavo Zagrebelsky, con il saggio Sulla lingua del tempo presente , o persino a Stefano Bartezzaghi, con il divertente Non se ne può più. Sul “Corriere della Sera” ne è nata persino una piccola disputa sullo stato della cultura di massa nel Belpaese del terzo millennio, con le consuete divisioni di campo tra apocalittici e integrati.
 
La denuncia della crisi di senso che ha investito le parole-chiave del nostro lessico civile e politico - ma anche il linguaggio quotidiano, deformato da una semplificazione brutale e da un involgarimento sul quale pesa la responsabilità di tanti format televisivi – è accorata e giustificata; ed è evidente che essa è indice di un più generale stato di crisi della cultura nazionale. Tuttavia, in maniera diretta o indiretta, esplicita o velata, questi interventi riconducono per lo più la consunzione delle parole alla presenza deleteria e corruttrice di Berlusconi – e cioè di una nuova forma di potere personalistico e incolto, che si ritiene assoluto e pretende di riplasmare anche significati consolidati portandoli al proprio infimo livello - o al massimo al berlusconismo – inteso come estrema riedizione dei peggiori vizi italici, dal pressappochismo superficiale all’opportunismo egoista. C’è solo un intervento che ha avuto il coraggio di chiamare la realtà con il suo nome ed è La fabbrica del falso, di Vladimiro Giacché, un libro che esce in questi giorni in seconda edizione aumentata e che riporta un significativo sottotitolo: Strategie della menzogna nella politica contemporanea.
 
Il rischio di questo genere di analisi è di solito quello della denuncia moralistica e dello snobismo aristocratizzante; o delle mere descrizioni fenomenologiche che non chiedono ragione di quanto accade ma al massimo rinviano a un processo di decadenza che nulla spiega e rimane a sua volta inspiegato. E’ vero infatti che «il potere delle parole risulta decisivo per la costruzione del consenso» e che attorno ad esse si svolge una vera e propria battaglia culturale, una battaglia per l’«egemonia», avrebbe detto Gramsci. Una battaglia nella quale il senso delle parole viene deformato in molti modi, come mostra l’evoluzione di due termini centrali, quali quello di «democrazia» (svuotata di ogni contenuto economico-sociale egualitario e di ogni riferimento alla partecipazione attiva dei gruppi sociali e ridotta ad un formalistico rito elettorale) o di «riforme» (un termine che significa oggi l’esatto opposto di quanto significava in origine e cioè accentramento delle risorse a favore dei ceti dominanti). Ed è anche vero che tutto questo avviene attraverso tecniche e strategie retoriche ben precise, alcune delle quali molto antiche ma ben adattabili ai tempi nuovi, come la cancellazione del contesto, l’eufemismo, la metonimia, la rimozione e così via. Il problema rimane tuttavia intatto, perché non basta un’operazione illuministica di rischiaramento delle coscienze e di diffusione massiccia delle informazioni per ristabilire la «verità» e i fatti.
 
Non basta, perché alle spalle di questa massiccia ristrutturazione del nostro orizzonte di significati c’è una tendenza culturale di lunga durata e di portata mondiale, che dagli anni della svolta «postmodernista» ha completamente modificato, ad esempio, il nostro modo di praticare e percepire la storia (cancellando ogni senso complessivo degli eventi e riducendo il passato a una sequenza di accadimenti intercambiabili in un eterno presente) e il nostro modo di riflettere attorno ai concetti generali (ridotti a strumenti di «interpretazioni» e «opinioni» aventi tutte lo stesso valore: come quando Bruno Vespa, per par condicio, ascolta il parere della donna stuprata e dello stupratore…). Non basta, soprattutto, perché se «la menzogna» è divenuta «il grande protagonista del discorso pubblico contemporaneo», in realtà «la diffusione stessa della menzogna implica l’esistenza di meccanismi sociali in grado di favorirne la produzione e la propagazione». E’ nei «rapporti sociali» che va allora cercata la ragione ultima della «falsificazione del vero». La produzione industriale della menzogna è necessaria alla riproduzione della società capitalistica ed è dunque non il frutto della malvagità di qualcuno, né un accidente da rimuovere per assicurare un normale e trasparente funzionamento della società di mercato, ma un elemento strutturale ineliminabile. Essa è indispensabile per trasfigurare l’irrazionalità radicale di questa società. E il carattere essenzialmente «spettacolare» della menzogna e della deformazione delle parole, amplificato oggi dai media, è inscritto sin dall’inizio nella natura «feticistica», come spiegava Marx, della merce.
 
Aveva visto bene dunque Guy Debord, oltre 40 anni fa, quando aveva anticipato il decorso della società dello spettacolo. Ed è per questo che, lungi dall’essere una mera esigenza estetica o morale, «la riconquista delle parole è oggi una priorità anche» - e soprattutto - «politica».
 
 
 

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