Il Centro di Cultura e Documentazione Popolare di Torino partecipa al lutto per la scomparsa del compagno Gracco che spesso ha molto contribuito alle iniziative del centro.
Gracco, un comunista a testa alta
Angiolo Gracci, un marxista integrale, ci
mancherà ma ci accompagnerà per tutta la vita. Il suo è stato un esempio
politico e morale per un «risorgimento» comunista. Va sottolineata anche la sua
forte passione per il riscatto del popolo meridionale
Abbiamo avuto la fortuna di conoscere e di lavorare al fianco di Angiolo
Gracci, il partigiano ‘Gracco’, venuto a mancare (a noi e a tutti i militanti
comunisti coerentemente marxisti) il 9 marzo 2004. Ricordiamo la prima volta
che lo vedemmo, ci colpì il suo portamento fiero, un comunista a testa alta. Fisicamente
e politicamente. Un comunista d’altri tempi, dicemmo tra noi, che ricordava le
orgogliose figure risorgimentali. E del Risorgimento Angiolo portava con sé i
valori più progressivi, filtrati nella sua formazione da un marxismo-leninismo
affatto accademico e schematico, ma dinamico e attualizzante. Aveva un amore
smisurato per il suo paese e la sua indignazione era infinita contro una classe
dominante che, dopo la Resistenza, vissuta fino in fondo con una partecipazione
emozionale e razionale insieme, lo aveva asservito ai nuovi padroni
imperialisti. Gracci è stato un esempio di internazionalista con le salde
radici piantate nel proprio paese: dialetticamente, egli diceva, chi ama
profondamente il proprio paese rispetta la patria di tutti; chi disprezza il
proprio popolo, la sua specifica cultura, i suoi usi e costumi, disprezzerà
anche gli altri popoli e conseguentemente i suoi aneliti di speranza e riscatto
sociali. Il razzismo, in questo senso, è imperniato sull’imperialismo e pervade
tutta la barbarie capitalista e l’oppressione dei popoli. L’asservimento del
nostro paese all’imperialismo statunitense, con le basi USA che limitano
pesantemente la sovranità popolare, era per lui intollerabile e uno dei veri e
propri «tradimenti» della Resistenza antifascista. Angiolo non amava la
categoria di «tradimento», la utilizzava con oculatezza e, riferito alle
vicende del movimento comunista, la considerava assolutamente non adeguata e
priva di reale valore interpretativo. Epperò, per ciò che riguardava le classi
dirigenti italiane, non aveva dubbi: esse si sono rese complici di un secondo
asservimento, dopo la catastrofe fascista, che tradiva, appunto, tutto lo
spirito resistenziale.
Vestiti i panni di ‘Gracco’, vicecomandante della ‘Sinigaglia’, vide i morti di
Pian d’Albero nel ’44, vide la morte del suo comandante ‘Potente’, Aligi
Barducci, ed ha voluto la sua camera ardente nello stesso posto, a S.Spirito,
dove il capo partigiano cadde per mano fascista. Quando lo raccontava, ma lo si
evince anche dallo scritto Brigata Sinigaglia,primo scritto nel 1945 sulle
vicende resistenziali, ora ristampato da La Città del Sole, non poteva
trattenere una forte commozione, che lo rendeva contrastante con il suo forte
temperamento.
La divisa di ‘Gracco’ non lo lascerà mai: e non solo nei confronti degli
avversari dichiarati, i reazionari d’ogni risma, ma anche nei confronti delle
classi politiche della sinistra, storica e non. Un personaggio come Angiolo, va
scritto apertamente, era scomodo per tutti: la sua critica era sempre sferzante
e incalzante, mai rinunciò all’esercizio dello spirito critico, in nome sempre
dei principi ideali che dovevano permeare i comunisti prima che politicamente,
moralmente e umanamente. Fu critico aspro della deriva del PCI: nel 1966 contribuì
a fondare il Partito Comunista d’Italia (m-l) a Livorno e si gettò nell’impresa
con tutta la passione di cui era capace. Una passione che non lo abbandonò
neanche quando la nuova organizzazione si divise e frantumò tra le cosiddette
‘linea nera’ e ‘linea rossa’, ed egli divenne uno dei rappresentanti di
quest’ultima con il giornale Il Partito.
Ricordava con dolore quelle scissioni: ce le ha ricostruite con fatica,
infatti, quando gli chiedemmo la sua testimonianza per il saggio Secchia, il
PCI e il ’68 (Datanews ed., 1998), che si pregia di una sua incisiva
prefazione, in cui ricordava la figura ammiratissima di Pietro Secchia e del
suo incontro con lui proprio nel ’66. Con fatica perché ‘Gracco’ non era un
minoritario e la sua intransigenza sui principi non ha mai fatto velo alla
sempre dichiarata esigenza di analizzare le fasi storico-politiche e della
necessità della dimensione popolare e di massa della lotta delle classi
subalterne, pur mosse, innestate e guidate dalle avanguardie coscienti in senso
leninista.
E insieme a Secchia (e Gramsci) amava riferirsi costantemente alla figura di
Mao, anche per la sua capacità di incidenza politica sulle larghe masse.
Nell’ultimo nostro colloquio, al telefono, ci pregò di non abbandonare lo
studio del maoismo, vero e proprio patrimonio di classe per la rinascita
comunista. Un maoismo liberato da incrostazioni dogmatiche e consegnato alle
giovani generazioni in tutta la sua possibilità riattualizzante. Una rinascita,
un «risorgimento» comunista, in quanto ormai nutriva seri dubbi in una
‘rifondazione’ o, meglio, che la strada intrapresa dal PRC e dal suo gruppo
dirigente maggioritario, potesse inverare quella scommessa in cui anche lui
aveva creduto nel 1991: la rifondazione del partito comunista, esigenza insopprimibile
per le sorti del socialismo nel nostro paese.
Tante altre cose si potrebbero scrivere e affermare sulla sua personalità,
sulla sua lezione. Sul suo lascito profondo: ma qui ci piace ricordare, in
ultimo, il suo insistito meridionalismo. Gracci aveva ben presente i tratti
della questione meridionale italiana. E con convinzione ribadiva sempre che il
processo rivoluzionario sarebbe stato impossibile senza il protagonismo del
popolo del Mezzogiorno. Era stato al fianco del popolo di Battipaglia nelle lotte
della Piana del Sele alla fine degli anni ’70 e successivamente, si era speso
sino in fondo in una battaglia che riteneva decisiva, quella contro la mafia e
la corruzione dei ceti dirigenti che la alimentano. E considerava l’episodio di
Portella delle Ginestre del ‘47 come un ulteriore stupro nei confronti del
popolo meridionale, che connotava i caratteri del nuovo dominio della borghesia
capitalista del dopoguerra, violentatore degli aneliti alla liberazione e
all’affrancamento da ogni assoggettamento. Da qui anche il suo interesse per la
rivoluzione giacobina partenopea del 1799, che legò a tutte le vicende
successive del nostro paese, al Risorgimento, alla Resistenza, alla nuova
questione meridionale. E scrisse, nel suo bellissimo La rivoluzione negata (La
Città del Sole, 1999) che “è, quindi, nel Meridione che la Rivoluzione italiana
ripone, anche oggi, le sue maggiori speranze.”(pag.220).
Un comunista integrale, davvero, ma mai integralista. Una figura in cui
politica e morale non si potevano scindere. Negli ultimi tempi s’è sforzato di
organizzare l’Associazione onlus La Resistenza continua! per non disperdere il
prezioso materiale documentario che costituisce il suo fondo, un vero e proprio
giacimento di un periodo storico decisivo per il movimento comunista nazionale
e internazionale. Ecco, magari iniziamo da lì a prendere l’impegno di non
vanificare i suoi sforzi.
Certo è che una figura come ‘Gracco’ davvero non ci lascerà mai, se solo
prenderemo l’impegno di portarci dentro la sua tempra di combattente nei
perigliosi flutti del nostro faticoso incedere per trasformare nel profondo la
società in senso socialista e per la definitiva liberazione dalla schiavitù
capitalista. E scoprirlo così, sempre accanto a noi.
Sempre in alto la testa, comandante Gracco!
Ferdinando Dubla, marzo 2004
fonte http://www.lavoropolitico.it
L’intervento di
“Gracco” all’inaugurazione a Firenze, il 15 aprile 2000, della nuova sede del
Comitato di redazione nazionale di Nuova Unità. Il ruolo delle avanguardie
nell’analisi marxista-leninista
Una fase dura e difficile per le avanguardie coscienti e organizzate del
proletariato
Angiolo Gracci
Vi parlo sentendo tutta la responsabilità e l’orgoglio di essere il compagno
più anziano, quello che ha vissuto il momento esaltante della costituzione a
Livorno nell’ottobre del ‘66 del PCd’I (m-l) che ha segnato sicuramente anche
il momento di rottura e l’inizio aperto, esplicito, pubblico dell’involuzione
di quello che è stato nella storia del movimento operaio internazionale,
considerato il più grande partito del mondo capitalistico. Richiamo tutti i
compagni a condividere questa responsabilità politica e questo orgoglio
militante.
Fin dalla Resistenza non abbiamo mai messo al primo posto il numero, cioè
l’elemento quantitativo, semplicemente perchè l’esperienza storica dell’umanità
ha chiaramente, inequivocabilmente dimostrato - nei secoli e nei millenni - che
i processi per il profondo rinnovamento ed avanzata rispetto allo stato
presente delle cose, dei rapporti di forza, della condizione umana, questo
sforzo incessante e inesauribile che l’umanità - attraverso le sue avanguardie
ha dimostrato di sapere e dovere necessariamente esprimere - è stato, appunto,
nella fase iniziale, ma non solo, opera di avanguardie che avevano acquisito la
determinazione necessaria per incidere e modificare i rapporti di forza epocali
da un grande livello di consapevolezza e di coscienza, una capacità critica e,
quindi culturale, acquisita rispetto le classi che al momento si presentavano
come dirigenti e come sfruttatrici.
Quindi noi non ci lasciamo impressionare dal nostro numero modesto con il quale
da tempo oramai stiamo affrontando la fase più dura e difficile che il
movimento operaio - fin dal suo sorgere organizzato - ha vissuto. Si dirà, anche
prima della Rivoluzione d’Ottobre il movimento operaio dovrebbe avere
attraversato una fase molto più dura di quella di oggi: provocatoriamente dico
che questa di oggi è una fase più dura e difficile, quella del fallimento della
prima esperienza compiuta dalle avanguardie coscienti e organizzate del
proletariato.
E’ più difficile perchè prima, nella fase ascendente del movimento - nonostante
la repressione, le difficoltà, l’ignoranza - che poi sarebbe difficile
stabilire se l’ignoranza delle masse subalterne nella fase che ha portato fino
alla Rivoluzione d’Ottobre fosse di natura più pesante o meno di quella che
oggi subiscono le stesse masse subalterne, c’era una speranza. Tutti gli sforzi
erano protesi in vista di acquisire un’esperienza che si presentava ardua, ma
possibilmente vittoriosa come poi è avvenuto - e, quindi, la classe operaia -
tra l’altro molto giovane - e con essa tutte le masse che ne riconoscevano il
ruolo di guida, animate da una speranza incontaminata e non ancora sottoposta
dalle vicende storiche alla prova della delusione e della sconfitta e la stessa
Rivoluzione d’Ottobre, potè affermarsi grazie ad una crisi verticale, il crollo
- una specie di 8 settembre vissuto nella dimensione della Russia, di questo
enorme Paese, quasi continente, - e fu facilitata da queste circostanze
oggettive.
Vi si inserì la capacità, la visione strategica, la maturità, la consapevolezza
politica di un gruppo militante esiguo rispetto anche a tutte le altre forze
progressiste o di sinistra che esistevano in quel Paese che colse il momento di
crisi del potere antagonista per raggiungere l’obiettivo del potere. Io penso,
che noi dovremmo riferirci proprio a quella dimensione di quel momento storico
e capire che il ruolo di un partito comunista, di un partito rivoluzionario
della e non per la classe operaia, formato soprattutto da militanti che escono
dalle fila del proletariato, che questo ruolo rivoluzionario richiede
strategicamente lunghi periodi di attesa, non passiva, ma attiva, sviluppando
una grande capacità di contestazione che eviti la distruzione prematura del
progetto e che, invece, consenta a questa inevitabilmente esigua minoranza
d’avanguardia di accrescere continuamente le proprie capacità culturali
(ideologiche, organizzative, conoscenza storica delle esperienze precedenti)
per diventare elemento di coesione delle classi effettivamente d’avanguardia.
Perchè la coesione non è una cosa che si invoca, ma è la conseguenza della
capacità culturale e di attrazione, di convinzione e di organizzazione che
quello sparuto gruppo di avanguardia – in ogni suo componente – è riuscito a
realizzare. Non esiste una rivoluzione vincente se non c’è stata un’adeguata,
più o meno lunga fase di preparazione di forze umane capaci di realizzare al
momento della crisi il successo del raggiungimento degli obiettivi
rivoluzionari. Questo è fondamentale.
Ogni compagno, io stesso, si interroga sul senso che ha il momento che appare
senza prospettive. Essere coscienti del ruolo di avanguardia sulla base di
un’analisi marxista-leninista della realtà e comprendere che la classe operaia,
oggi, reduce da una sconfitta storica, ha più che mai bisogno del ruolo,
significa non demoralizzarsi e diventare di fatto un soggetto, un quadro
potenzialmente dirigente che, nel rapporto dialettico all’interno
dell’aggregazione che tende verso la costruzione del partito, si perfeziona
sempre più e diventa punto di riferimento spontaneo, inevitabile nell’ambiente
di lavoro o dove vive.
Sottolineo infine l’aspetto positivo, ottimistico con cui dobbiamo affrontare
le difficoltà del momento, forti di questa continuità di una storia comune e
forti della consapevolezza che noi – cambiando il male in bene – siamo in grado
di trarre preziosi insegnamenti dalla nostra stessa sconfitta. Perché analizzando
le sconfitte, i marxisti le traducono in enormi potenziali di ulteriori
acquisizioni di esperienze, quindi, di capacità superiore di lotta contro
l’avversario.