www.resistenze.org - cultura e memoria resistenti - antifascismo - 21-10-05

60° anniversario della Resistenza:
ricordare il passato vigilando contro i pericoli del presente e del futuro


Celebrazione tenuta da Sergio Ricaldone insieme a Giovanni Pesce e Nori Brambilla il 2 giugno 2005 a Cologno Monzese.

 

Rivivere questa sera, con Nori e Giovanni Pesce, gli stati d’animo, le ansie, il coraggio, le paure, ma soprattutto la grande tensione ideale che ci animava in quelle terribili giornate di lotta di sessanta anni fa è sempre una grande emozione.  Anche allora gli invasori ci chiamavano banditi e terroristi, come succede ancora oggi in altre parti del mondo, ed in un certo senso avevano anche ragione di farlo.    Compito dei Gap e dei gruppi giovanili del Fronte della Gioventù, nei quali militavo, era esattamente quello di seminare il terrore nelle file dei nazifascisti e di rendere la vita impossibile alle truppe hitleriane e ai brigatisti neri di Mussolini.    Occorreva rispondere colpo su colpo e senza esitazione ad un invasore feroce e crudele  e alle bande di torturatori in camicia nera.

 

Per capire quale era il clima di quelle giornate terribili inviterei tutti a leggere (o a rileggere) il libro di Giovanni Pesce, Senza tregua.   E’ una lettura che concorre a rivitalizzare i nostri usurati neuroni  e protegge dal rischio  che la memoria venga travolta, oltre che dal tempo, anche da certe tendenze diffamatorie e distruttive.

 

Dal 25 aprile 1945 sono passati sessant’anni.  All’ingrosso tre generazioni.   Sono tante.

Ma quel che è peggio stiamo attraversando una stagione di revisionismo storico dilagante che tende a ridurre la Resistenza e la lotta armata  a una parentesi di cronaca nera sanguinosa separata dalle reali dimensioni politiche e militari che i popoli europei e gli eserciti alleati furono costretti a fronteggiare prima di riuscire a schiacciare la belva hitleriana nel suo bunker di Berlino.   Le falsificazioni si susseguono: la resistenza all’invasore che diventa guerra civile, le foibe presentate come simbolo della crudeltà e della ferocia  dei partigiani di Tito, il libro di Pansa che presenta i partigiani italiani come killers assetati di sangue, l’America di Bush che presenta lo sbarco in Normandia come l’episodio centrale e decisivo per le sorti della seconda guerra mondiale.    A farne le spese sono, oltre che la verità storica, le grandi conquiste democratiche, sociali e politiche rese possibili dalla sconfitta del nazifascismo e sulle quali incombe oggi la minaccia della loro cancellazione.

 

Poi, per fortuna, la verità storica si riprende qualche rivincita.   Ho visto, lo scorso 8 maggio, sfilare sulla piazza Rossa , a Mosca, i volti consumati dall’età e dai sacrifici ma ancora pieni di legittimo orgoglio, 2700 veterani sovietici delle battaglie decisive che salvarono il mondo dal regime hitleriano.   Ricomincio a sperare che l’incauto Fukuiama sia inciampato in un clamoroso infortunio quando proclamò, 15 anni fa, la fine della storia.

 

La prima cosa da dire ai deboli di memoria è che non ci sarebbe stata nessuna resistenza e nessuna vittoria contro il nazifascismo senza il travolgente potenziale militare, politico e ideale messo in campo dall’Unione Sovietica e dall’Armata Rossa e senza (cito le testuali parole di Alcide De Gasperi) “…il genio politico e militare del suo comandante in capo, Giuseppe Stalin”.

 

A conferma ricordo che l’atto di nascita della resistenza italiana e la sua prima, grande dimensione di massa risale al marzo 1943 quando entrarono in sciopero contro Mussolini le grandi città industriali del nord.    Quello sciopero fu proclamato ben 15 mesi prima del tanto atteso sbarco in Normandia, ma, guarda caso, 60 giorni dopo la resa della 6° Armata nazista di Von Paulus a Stalingrado e la distruzione, avvenuta in quella storica battaglia dei tre Corpi di spedizione alleati dei tedeschi nella campagna di Russia: quello rumeno, ungherese e italiano.     L’epopea di Stalingrado segna il crollo del mito dell’invincibilità del Terzo Reich.   Per la prima volta appare a  Berlino il fantasma della sconfitta.    Dunque un evento militare di peso enorme e un momento da non perdere.  E fu così che noi, comunisti italiani, pochi, clandestini e perseguitati, cogliemmo l’occasione per organizzare una prima , clamorosa operazione di protesta, impensabile solo qualche mese prima di Stalingrado.   Incuranti delle leggi di guerra molto severe che prevedevano anche la pena di morte per qualsiasi forma di sabotaggio, le grandi fabbriche industriali del nord, cuore dell’industria bellica e pertanto militarizzate, si fermano, per la prima volta dopo l’ascesa al potere del fascismo, e lo sciopero riapre una sfida mortale contro un regime nemico che pareva dovesse durare mille anni.   Stalingrado ha dunque segnato una svolta decisiva per le sorti della guerra e ridato la speranza della liberazione ai popoli europei.    Ma è ancora presto per parlare di pace.  Ci riusciva persino difficile immaginarla.   Sapevamo che troppi dei conti ancora in sospeso col nazifascismo andavano risolti col ferro e col fuoco.    In quel momento, nessuno si scandalizzi, erano purtroppo gli eventi militari a cadenzare il nostro sanguinoso avanzare verso un mondo di pace.   Ed il 1943 fu appunto l’anno delle battaglie decisive che resero irreversibili le sorti del conflitto mondiale, tutte furiosamente combattute nei territori invasi dell’Unione Sovietica e un anno prima del tanto sospirato sbarco in Normandia.

 

Non tutti sanno che il colpo mortale alla Wermarcht fu inflitto sei mesi dopo Stalingrado, nel luglio 1943, a Kursk in quella che è passata alla storia come la più grande battaglia di mezzi corazzati ed aerei di tutta la seconda guerra mondiale.   Battaglia che per ampiezza, mezzi impiegati e conseguenze strategiche finì per superare quella di Stalingrado.

 

La battaglia di Kursk rappresenta l’estremo tentativo hitleriano di riprendere, dopo il disastro di Stalingrado, l’offensiva e l’iniziativa strategica.   L’obbiettivo dell’Alto comando tedesco era assai ambizioso: sfondare il fronte nel triangolo Orel-Kursk-Briansk in direzione nord-est tentando per la seconda volta di aggirare Mosca da sud.   Quando alle 5 del mattino del 5 luglio 1943 il maresciallo Von Kluge, comandante dell’operazione, diede il segnale dell’attacco disponeva nel suo settore di un concentramento di mezzi militari senza precedenti: 15 divisioni corazzate, 25 divisioni di fanteria e le tre migliori divisioni della SS, la Adolf Hitler, la Totenkopf e la Das Reich.  In tutto, più di mezzo milione di uomini, tremila nuovissimi carri Tigre e Pantera, al loro esordio, appoggiati da duemila aerei.   Ma le illusioni di Von Kluge di sfondare verso est erano già in parte svanite il primo giorno.   In quelle prime 24 ore la più grande battaglia di mezzi corazzati di tutta la guerra si era conclusa con la distruzione di 586 carri tedeschi ritenuti pressoché invulnerabili.   Non meno pesante la sconfitta della Luftwaffe che nello stesso giorno perse 203 aerei, di cui 33 abbattuti dalla squadriglia di volontari francesi “Normandie” copertasi di gloria nei cieli di Kursk.    Il tutto per una penetrazione tedesca verso est non superiore ai 9 km.    

Dal 6 al 12 luglio Von Kluge continuò l’offensiva alla disperata ricerca di un punto debole nello schieramento difensivo sovietico da sfondare, ma invano.   Incollati a radio Mosca seguivamo col fiato sospeso l’esito di quella battaglia.     Poi, finalmente, il 12 luglio, stremati dalle perdite i tedeschi esaurirono la loro spinta offensiva lasciando sul terreno 2609 carri e 1037 aerei.    Il fior fiore delle Panzer Divisionen distrutto in soli sette giorni!    Un colpo decisivo per la macchina bellica tedesca dal quale non si sarebbe più riavuta.

 

Cosi, il 15 luglio, quando i due eserciti sembravano entrambi esausti, ebbe inizio una impressionante offensiva sovietica nella zona di Orel, a nord di Kursk, condotta da armate fresche al comando del maresciallo Rokossowski.    Fu l’inizio di una avanzata travolgente che nel giro di quattro mesi portò alla liberazione di 162 città sovietiche, inclusi il Caucaso e la Crimea, e all’annientamento di 134 divisioni naziste.

 

Questa è stata la battaglia che ha chiuso per sempre la stagione delle offensive tedesche sul fronte russo.    Da allora ai soldati di Hitler fu concesso di usare solo la retromarcia fino a Berlino.  

Anche in Italia gli avvenimenti incalzano: dieci giorni dopo Kursk, il 25 luglio 1943 cade Mussolini e 45 giorni dopo, l’8 settembre, dopo la firma dell’armistizio, inizia la lotta armata.

Lotta armata! Una parola che sembra far inorridire oggi certi campioni della non violenza abituati a valutare la storia con il metro delle loro convenienze congiunturali. 

 

Sessant’anni dopo è difficile raccontare il clima tremendo di paura e di terrore seguito all’8 settembre 1943.   Un clima creato da una legge imposta con inaudita ferocia dal tallone di ferro dei panzer invasori che si insinua in ogni casa e ti colpisce negli affetti più profondi: le famiglie spezzate, gli amici d’infanzia fucilati perché renitenti alla leva, altri arruolati di forza nelle file dei massacratori di Salò, le fabbriche saccheggiate dei loro macchinari, gli operai deportati chissà dove, la fame che ti rimpiccioliva lo stomaco.   Insomma un autentico inferno.    Poi ecco l’emergere, in modo sempre più ampio e diffuso, dei soggetti politici antifascisti promotori e guida della resistenza popolare.   Primo fra tutti, per consistenza organizzativa e capacità politiche-militari, i militanti comunisti reduci dalle prigioni di Mussolini, dal confino e dalla guerra di Spagna.    Dietro loro iniziativa compaiono, nell’autunno 1943, le prime formazioni partigiane di montagna, si formano i primi nuclei gappisti, nasce il Fronte della Gioventù.   L’inizio non è stata una tranquilla passeggiata per nessuno di noi.   A quel tempo avevo 18 anni e a quell’età sono altri i sogni che coltivi, ma la realtà non ci lasciava alternative.    Bisognava imparare e in fretta ad usare le armi e gli esplosivi, a strisciare silenziosi nelle ore di coprifuoco, a tendere gli agguati alle pattuglie nemiche, a reggere con calma gli scontri a fuoco, a disarticolare le vie e i mezzi di comunicazione del nemico.   Bisognava anche essere preparati a resistere alle torture nella sfortunata ipotesi di cadere nelle mani dei macellai delle “brigate nere”.    Insomma c’erano proprio tutti gli ingredienti per farti crescere la volontà di combattere una guerra di liberazione spietata e crudele ma inevitabile.   

 

Ora, siccome la mia idea di comunismo e di libertà, unitamente a quella di Giovanni e di Nori, si è dovuta purtroppo formare anche in mezzo a quell’abisso di orrore,  vorrei spendere qualche parola per spiegare che la scelta di combattere con i fucili e con le bombe i nazifascisti non fu dettata da tendenze avventuriste.   Avremmo potuto anche allora scegliere la “non violenza” (allora si chiamava “attendismo”), avremmo potuto nasconderci in una cantina – meglio se svizzera – e attendere l’arrivo della 5° Armata americana che stava risalendo con esasperante lentezza la penisola.   Ci avrebbero pensato i soldati di Clark a portarci la libertà e la democrazia.   

 

Abbiamo invece deciso diversamente.   Abbiamo scelto la lotta armata.   Abbiamo dovuto contaminarci con la violenza.   Ed è stata un’esperienza sconvolgente.   Lo è sempre quando nel mirino del tuo fucile inquadri un essere umano, quando la sola alternativa possibile è quella di uccidere per non essere uccisi.   Superare quella sottile barriera di violenza estrema non è stato facile per nessuno.   Ma poi sapevi che sotto quelle divise fasciste e naziste c’erano uomini feroci che avevano impiccato, torturato, incendiato i villaggi della nostre vallate.   E allora superavi le esitazioni e schiacciavi il grilletto.  Ma bisognava nel contempo creare un clima di fiducia nel popolo, convincerlo che la resistenza all’invasore, in ogni sua forma, piccola e grande, era una doverosa necessità ed un passaggio inevitabile verso la liberazione, la pace e la democrazia.   Ci siamo riusciti?   Penso proprio di si.    Credo che mai come allora la resistenza popolare, intesa come legame profondo tra avanguardia armata e masse, abbia avuto una dimensione cosi ampia e travolgente.   Lo sciopero generale del marzo 1944 è stato un evento unico della resistenza europea:

Centinaia di migliaia di operai che sfidano per una intera settimana le SS di Kesserling.    Molta sabbia finisce negli ingranaggi dei torni e delle fresatrici destinate alla Germania, mentre squadre di tranvieri, protetti da gruppi armati rendevano inservibili gli scambi delle linee tranviarie paralizzando le città.      Sciopero generale, lotta di popolo,  risposta armata all’invasore e formazioni partigiane di montagna in rapida espansione: questi gli elementi centrali di quel grande movimento chiamato Resistenza conclusosi il 25 aprile 1945.

 

Anche se, dopo la liberazione, quella carica di odio per il nemico si è andata via via stemperando e dissolvendo,  ci è restata abbastanza memoria per indignarci di fronte al tentativo odierno di restituire il titolo di combattenti e l’onore di leali soldati ai torturatori nazifascisti, ai massacratori delle Fosse Ardeatine, ai plotoni di esecuzione di Mussolini, di Kappler e di Reader, ai distruttori di Marzabotto, di S.Anna di Stazzona, di Boves.    L’idea che più ci sconvolge oggi è di essere equiparati al nemico che abbiamo combattuto con tutte le nostre forze.   Ma il rischio che corriamo è sicuramente peggiore e riguarda tutti: quello di perdere il risultato storicamente più importante della lotta partigiana, quello di vedere portata in discarica la Costituzione Italiana.    Non è banale ricordare che questa costituzione si è potuta scrivere, prima ancora che con l’inchiostro, con il sangue di oltre 47 mila partigiani uccisi in battaglia o fucilati durante la resistenza.  

 

Ritrovo tra le mie vecchie scartoffie il testo ormai ingiallito di un riconoscimento rilasciato nel 1945 a guerra conclusa, a molti partigiani italiani, dal maresciallo Alexander, comandante in capo delle forze alleate del Mediterraneo centrale: “Nel nome dei governi e dei popoli delle Nazioni Unite, ringraziamo Ricaldone Sergio di Pietro di avere combattuto il nemico sui campi di battaglia, militando nei ranghi dei partigiani, tra quegli uomini che hanno portato le armi per il trionfo della libertà, svolgendo operazioni offensive, compiendo atti di sabotaggio, fornendo informazioni militari.  Col loro coraggio e con la loro dedizione i patrioti italiani hanno contribuito validamente alla liberazione dell’Italia e alla grande causa di tutti gli uomini liberi”.   In parole povere, l’insospettabile maresciallo di sua maestà britannica, dopo averci invitato invano ad abbandonare la lotta nell’inverno 1944/45,  ci ringrazia per avere compiuto attentati, colpito con vari mezzi i soldati e le retrovie del nemico, sabotato le comunicazioni, spiati e segnalati i movimenti delle truppe occupanti.   Pratiche che fanno giustamente inorridire chi è nato e cresciuto lontano da quei drammatici momenti di estrema violenza.    Ma per quanto la guerra possa essere considerata un orrore è difficile poterla contrastare, una volta che sei costretto a combatterla, percuotendo la testa del nemico con il gambo di un fiore come ci propongono di fare oggi i “non violenti” da salotto.   E’ curioso notare che oggi, benché un resistente iracheno stia facendo le stesse cose contro un’occupazione che per molti versi emula le gesta delle SS e della Gestapo, vengono definiti feroci terroristi toutcourt.

 

Ci  rimproverano con molto garbo di essere stati “angelizzati” da un eccesso di apologia della Resistenza.   Un modo elegante, e un po’ ipocrita, per dirci che quando sei contaminato dalla violenza non riesci più a liberartene.   Faccio notare che se col passare dei decenni ci fossimo resi coerenti con questa sedicente cultura della “non violenza” questa sera non dovremmo essere qui a raccontare il nostro impegno di militanti della lotta armata, ma in qualche modo a dolercene di avere compiuto quella scelta.    Forse, in questo modo, potremmo evitare di essere archiviati nel museo degli orrori del 900 e di essere seppelliti sotto le macerie del movimento operaio e comunista del secolo di Lenin, di Gramsci e di Togliatti.

 

Beh, io una risposta  l’avrei per coloro che ci chiedono di rinnegare il nostro passato.

Ricordo un passaggio del Don Chisciotte di Cervantes che sembra ritagliato apposta  e che provo a riassumere a memoria.  Mentre cavalcano nella notte Don Chisciotte e Sancho Pancia sono inseguiti e molestati dal latrare dei cani.  Sancho Pancia vorrebbe fermarsi ed aspettare che i cani si calmino ma Don Chisciotte gli risponde: lasciamoli latrare e continuiamo a cavalcare nella notte.

 

Anche noi dovremmo occuparci meno dei cani che abbaiano e continuare a cavalcare nella notte.