www.resistenze.org
- cultura e memoria resistenti - antifascismo - 22-04-08 - n. 224
Gramsci: fascismo e classi dirigenti nella storia d’Italia[1].
di Gianni Fresu
1. Interpretazioni storiografiche sul fascismo.
Il fascismo è probabilmente il tema politico che nella storia d’Italia ha dato luogo alla quantità maggiore di studi, una enorme produzione con diversità di approcci e molteplici implicazioni disciplinari. Stando al campo storiografico esso ha dato luogo a diversi canoni interpretativi che si sono caratterizzati per aver posto la propria attenzione su questo o quell’aspetto – storico, economico, sociale o morale – costitutivo o predominante del fenomeno. Come è noto Renzo De Felice, uno dei massimi studiosi del fascismo, si è confrontato con le diverse interpretazioni storiografiche[2]. Il fascismo, per lui, è uno dei grandi fenomeni del Novecento, tuttavia, esso non è dilatabile al di fuori dell’Europa e del periodo compreso tra le due guerre. Dunque sarebbero del tutto fuorvianti le generalizzazioni che tendono a coprire con l’aggettivo fascista tutte le varianti e tipologie di regimi autoritari e reazionari. Le radici del fascismo sono tipicamente europee e legate alla crisi indotta dal trapasso nella società di massa, e in particolare sono peculiari di quelle società che hanno vissuto le profonde trasformazioni di quel periodo condizionate dai ritardi e dalle debolezze politiche ed economiche ereditate dalla loro storia. Senza entrare in dettaglio su tutte le varianti di questi canoni interpretativi, per comprendere la particolarità e la complessità della lettura gramsciana, penso sia utile soffermarsi, brevemente e in via preliminare, sulle tre interpretazioni fondamentali del fenomeno in rapporto alla Storia d’Italia.
1) “Il fascismo come malattia morale dell’Europa”: questa è per De Felice la chiave interpretativa che ha avuto maggiore fortuna nell’alta cultura europea. Essa ha trovato in Italia e in Germania il terreno più propizio al suo sviluppo concettuale. In Italia la formulazione trova in Benedetto Croce il suo principale ispiratore. Nello specifico i primi riferimenti a questa chiave si hanno in un articolo per il “New York Times” del novembre 1943, nel discorso al primo congresso dei Comitati di liberazione tenutosi a Bari il 28 gennaio 1944 e infine nell’intervista del marzo 1947. Secondo Croce il fascismo non è il prodotto di una singola classe sociale, né si è poggiato sul sostegno di una classe specifica, esso è semmai il risultato dello smarrimento di coscienza, della decadenza morale e insieme dell’ubriacatura prodotta dalla guerra. Questi effetti non furono semplicemente un fatto italiano ma riguardarono gran parte dei paesi che avevano partecipato alla prima guerra mondiale. Il fascismo ha corrisposto all’abbassamento nella coscienza della libertà che segnò tutto il mondo dopo il conflitto.
2) “Il fascismo come prodotto logico e inevitabile dello sviluppo storico di alcuni paesi”: secondo questa interpretazione, il fascismo sarebbe il risultato della fragilità e delle contraddizioni proprie dei processi di sviluppo economico, indipendenza e unificazione nazionale. Per via di queste contraddizioni la borghesia si sarebbe sviluppata con forme perverse e patologiche di arretratezza e debolezza in ragione delle quali essa ha dovuto ricorrere alle alleanze conservatrici e a forme di dominio politico illiberali, tese alla esclusione delle masse popolari dal processo di unificazione nazionale e dal governo del paese.
3) “Il fascismo come prodotto della società capitalistica e come reazione antiproletaria”: essa interpreta il fascismo sulla base dei rapporti sociali di produzione capitalistici. Il fascismo svolge la funzione storica di disperdere le organizzazioni dei lavoratori nell’interesse del grande capitale, ma oltre a questo organizza spiritualmente la nazione attraverso l’intensa propaganda radicale e demagogica, la preparazione militare, la creazione di una base sociale di massa, di un’organizzazione centralizzata. Una volta giunto al potere il fascismo però realizza unicamente una rivoluzione di palazzo per la quale solo le masse vengono irreggimentate con violenza, mentre nessun tipo di regime particolare è imposto a capitale e sistemi di appropriazione del plusvalore. Così lo Stato corporativo, in ultima analisi, si rivela come mezzo per espungere la lotta di classe dei lavoratori e fornire tutto il sostegno statale all’organizzazione monopolistica del capitale. Il fascismo è propriamente figlio della crisi del capitalismo monopolitisco che si trova la strada sbarrata sia per lo sviluppo estensivo, che per uno sviluppo più intensivo nei rapporti di sfruttamento interni.
In questa tripartizione storiografica un tema tra i tanti assume una certa importanza, quello della base sociale del fascismo.
De Felice ritiene veritiera l’affermazione di Croce secondo cui il fascismo non è stato espressione di alcuna classe sociale determinata, ma ha trovato sostenitori e avversari in tutte le classi sociali, tuttavia, è tra gli esponenti della piccola borghesia che il fascismo ha trovato i suoi più ardenti ultrà. Il rapporto fascismo-ceti medi è centrale per comprendere il problema storico del fascismo, individuando un minimo comun denominatore tra quello tedesco e quello italiano, capace di distinguerli da altri movimenti, partiti e regimi che pur venendo spesso definiti fascisti lo sono stati solo marginalmente o non lo sono stati affatto. Il rapporto ceti medi fascismo è l’elemento che consente di cogliere le novità e le differenze tra questo e le manifestazioni precedenti e successive di realtà politiche conservatrici e autoritarie. Se non si tiene conto di questo rapporto non si comprende neanche il tema del consenso che i fascismi italiano e tedesco hanno saputo esercitare, arrivando alla semplice conclusione che essi poterono svilupparsi solo grazie allo stato di polizia, il terrore, il monopolio della propaganda di massa.
Mentre i regimi conservatori classici tendono a demobilitare le masse e ad escluderle dalla partecipazione attiva, offrendo loro valori e modelli sociali già sperimentati nel passato, il fascismo per De Felice ha sempre cercato la mobilitazione (seppure in senso plebiscitario) creando l’idea di un rapporto diretto e senza mediazioni burocratiche tra le masse e il capo, e soprattutto offrendo non solo l’idea della conservazione di valori e modelli del passato, ma ingenerando l’idea di una rivoluzione e di un nuovo ordine che si andava a edificare migliore di quello preesistente. In questo rapporto dunque andava ricercata la ragione del consenso goduto dal regime fascista.
2. Gramsci e la diversità del suo approccio.
La prima considerazione da fare è che l’interpretazione del fascismo di Antonio Gramsci sfugge alle rigide classificazioni di scuola delineate da De Felice. Questo perché nella lettura di Gramsci c’è sicuramente un dato di partenza che è il materialismo storico, e dunque l’individuazione di una trama generale che ha come fattore primario gli elementi economico-sociali, tuttavia, data la concezione tutt’altro che deterministica del marxismo di Gramsci, anche i fattori cosiddetti soggettivi – compresa la crisi morale della borghesia – hanno un ruolo determinante e centrale. Oltre a questo, anche Gramsci interpreta il fascismo come reazione a una fase di profondi rivolgimenti sociali legati alla prima guerra mondiale e soprattutto alla rivoluzione d’ottobre, tuttavia non giunge mai a considerare la borghesia e il suo modo di produzione come un unico blocco omogeneo, tutt’altro: egli legge all’interno del blocco sociale dominante differenziazioni e contraddizioni che si palesano proprio in rapporto alla nascita e all’avvento del fascismo. Ancora, Gramsci analizza il tentativo di centralizzazione degli interessi borghesi dietro al fascismo ma lo considera un fenomeno nato socialmente tra la piccola e media borghesia urbana, per precise ragioni storiche, e sviluppatosi grazie agli apporti degli agrari e quelli, non sempre lineari e armonici, del grande capitale industriale. Insomma Gramsci non si è mai accontentato della lettura del fascismo come semplice reazione antiproletaria, pur avendo sempre ribadito anche l’essenzialità di questo fattore.
Infine, Gramsci ha interpretato storicisticamente il fascismo in rapporto alla debolezza delle classi dirigenti italiane e ai limiti nel processo di unificazione politica e modernizzazione economica nella storia d’Italia, ma non ha mai inteso questo sbocco come esito inevitabile di quel processo, lo ha semplicemente ritenuto storicamente determinato, hegelianamente potremmo dire come fenomeno razionale in quanto reale e viceversa, all’opposto di quanto ha fatto Croce che paradossalmente, da filosofo idealista, si è accontentato dell’idea irrazionale, e dunque irreale, del fascismo come malattia improvvisa all’interno di un corpo sano.
3. Debolezza delle classi dirigenti, limiti nel processo di unificazione nazionale e modernizzazione. Il fascismo come risposta alla crisi organica della borghesia.
La natura storicamente determinata, peraltro, ha elementi di origine molteplici e congiunti, che in buona parte sono riconducibili alle specificità della storia d’Italia, ma, allo stesso tempo, anche a dinamiche più generali proprie della storia europea.Così il fascismo va analizzato anche in rapporto alla fine della fase espansiva e progressiva della rivoluzione borghese europea, al suo passaggio dalla “guerra manovrata” alla “guerra di posizione”[3].
Con il 1870-71 si arresta la fase progressiva della modernizzazione borghese, che si era contraddistinta per la capacità espansiva e per l’ampliamento, seppur differenziato e tutt’altro che lineare, della sfera sociale e politica della cittadinanza. Questa data segnerebbe l’inizio di una “crisi organica” che trova il suo punto più acuto nella prima guerra mondiale e nella realtà economica, politica e sociale che gli fa seguito. La fine della fase espansiva e progressiva del capitalismo coincide con l’inizio di una nuova epoca, che in campo marxista è stata interpretata con la definizione ‘imperialismo’.
Attraverso la trasformazione dello Stato e la creazione del corporativismo, il fascismo produce delle trasformazioni nella struttura produttiva che accentuano la socializzazione e la cooperazione nella produzione, senza intaccare le modalità individuali e private di appropriazione dei profitti. In concreto questo significa che attraverso il fascismo viene cercato un nuovo sviluppo delle forze produttive industriali – senza sottrarne la direzione alle classi tradizionali – per consentire al capitalismo italiano di uscire dalla sua crisi organica e competere con le potenze capitalistiche che detengono il monopolio delle materie prime e capacità di accumulazione maggiori. Lo schema di questa rivoluzione passiva per Gramsci aveva ben poche possibilità di riuscita pratica, tuttavia dal punto di vista della mobilitazione e della capacità egemonica del regime, ciò era di importanza relativa:
“ciò che importa ideologicamente è che esso può avere realmente la virtù di prestarsi a creare un periodo di attesa e di speranze, specialmente in certi gruppi sociali italiani, come la massa dei piccolo-borghesi urbani e rurali, e quindi a mantenere il sistema egemonico e le forze di coercizione militare e civile a disposizione delle classi dirigenti tradizionali”[4].
L’ideologia che sottende a questo piano, segna per Gramsci il passaggio alla guerra di posizione in campo economico internazionale, così come la rivoluzione passiva lo è sul piano politico. Sul piano economico la fase della guerra di movimento corrispondeva alla fase della libera concorrenza e al libero scambio, sul piano politico alla rivoluzione borghese.
“Nell’Europa dal 1789 al 1870 si è avuta una guerra di movimento (politica) nella rivoluzione francese e una lunga guerra di posizione dal 1815 al 1870; nell’epoca attuale, la guerra di movimento si è avuta politicamente dal marzo 1917 al marzo 1921 ed è seguita una guerra di posizione il cui rappresentante, oltre che pratico (per l’Italia), ideologico, per l’Europa, è il fascismo”[5].
La peculiarità del fascismo deriva dal fatto che questo passaggio si innesta su una realtà segnata da alcune profonde contraddizioni, quella italiana con il suo processo di unificazione. Il tema della debolezza delle classi dirigenti italiane affonda le radici indietro nel tempo, ben prima dei fatti dell’Ottocento, nell’arresto dello sviluppo capitalistico della civiltà comunale, nella natura cosmopolita dei ceti intellettuali, nella mancata formazione di uno Stato unitario moderno, prima che una serie di concomitanze di carattere internazionale consentissero tale processo.
Il Risorgimento, tuttavia, è lo snodo da cui si dipartono gli elementi essenziali di questa debolezza, a iniziare dal fallimento delle prospettive democratiche del Partito d’Azione e dalla capacità egemonica dei Moderati di Cavour, che per Gramsci era “l’esponente della guerra di posizione” in Italia, cioè il rappresentante più organico di quel mutamento prodottosi nelle modalità di espansione della borghesia europea.
A partire da questa dinamica Gramsci ha evidenziato in particolare le modalità di composizione delle classi dirigenti attraverso un processo di cooptazione e assorbimento metodico degli elementi nuovi scaturiti dalle dinamiche sociali. In questo modo anche gruppi inizialmente ostili vengono progressivamente e molecolarmente assorbiti dagli apparati statali fino a divenirne un sostegno. Il trasformismo rientra appieno in questa dinamica ed esso ha espresso tutta la sua capacità attrattiva verso lo Stato nel Risorgimento (con i gruppi repubblicani e democratici), come nella storia successiva all’Unità d’Italia (con i cattolici e i socialisti).
Sulla debolezza dei partiti politici e in conseguenza delle classi dirigenti in Italia, sulla loro natura, ha avuto una grave responsabilità quello che Gramsci definisce lo Stato-governo, vale a dire il grumo di interessi facenti capo alla Corona e alla sua burocrazia che in Italia ha operato come un partito, per staccare i quadri permanenti della vita politica nazionale dalle masse e dai reali interessi statali nazionali, per creare un vincolo paternalistico di “tipo bonapartistico-cesareo” tra queste personalità e lo Stato-governo. Il trasformismo e “le dittature di Depretis, Crispi e Giolitti”, la miseria e la meschinità della vita culturale e di quella parlamentare e politica in Italia vanno analizzate proprio a partire da questo fenomeno. Normalmente le classi sociali producono i partiti politici e questi creano i quadri dirigenti della società civile e dello Stato, in Italia lo Stato-governo non ha operato per armonizzare queste manifestazioni con gli interessi nazionali statali, ma al contrario ne ha sempre favorito la disgregazione, staccando singole personalità politiche da un qualsiasi riferimento sociale culturale e anche teorico più ampio rispetto a quel rapporto fiduciario, appunto “bonapartistico-cesareo”, con lo Stato-governo: “Tutta la politica italiana dal 70 a oggi è caratterizzata dal trasformismo, cioè dall’elaborazione di una classe dirigente nei quadri fissati dai moderati dopo il 48, con l’assorbimento degli elementi attivi sorti dalle classi alleate e anche da quelle nemiche. La direzione politica diventa un aspetto del dominio, in quanto l’assorbimento delle élites delle classi nemiche porta alla decapitazione di queste e alla loro impotenza”[6].
In Italia la debolezza dei partiti politici liberali, dal Risorgimento in poi, era riconducibile allo squilibrio tra l’agitazione e la propaganda e la mancanza di principî e di continuità organica. In altre parole le tendenze all’opportunismo, alla corruzione e al “trasformismo” sarebbero da ricercare nell’angusto orizzonte culturale e strategico dei partiti politici, nell’assenza di legami organici tra questi e le classi rappresentate. Questi partiti si sono sviluppati non come espressione politica e collettiva degli interessi di una classe, come coscienza consolidata e teorizzata della funzione storica di questa, ma come mere consorterie d’interessi immediati condensatesi attorno a singole personalità: si tratta dunque di aggregati politici privi di una qualsiasi attività teorica e di una prospettiva di ampio respiro, abituati al “giorno per giorno, con le sue faziosità e i suoi urti personalistici”. In Italia i partiti politici “non erano permeati dal realismo vivente della vita nazionale”, e per questa ragione non hanno assolto alla funzione storica della costruzione di una classe dirigente nazionale, per questo i gruppi dirigenti che hanno formato le loro capacità intellettuali nel mondo accademico o in quello della produzione erano gruppi di quadri apolitici, con una formazione mentale e culturale puramente “retorica” e non nazionale: “nell’analisi dei partiti politici italiani si può vedere che essi sono stati sempre volontari per ogni iniziativa anche la più bizzarra che sia vagamente sovversiva (a destra o a sinistra). Nell’analisi dei partiti politici italiani si può vedere che essi sono stati sempre di volontari, e mai o quasi di blocchi omogenei sociali. Un’eccezione è stata la destra storica cavourriana e quindi la sua superiorità organica e permanente sul Partito d’Azione mazziniano e garibaldino, che è stato il prototipo di tutti i partiti italiani di massa, che non erano in realtà tali (cioè non contenevano blocchi omogenei sociali) ma attendamenti zingareschi e nomadi della politica” [7].
4. Composizione sociale del fascismo e sua dialettica interna, l’analisi pre-carcere.
Dietro a queste contraddizioni si annidano le cause del crollo del regime liberale e dell’avvento del fascismo. È indubbio che gli schemi più meccanicistici e settari dell’idea del fascismo come semplice reazione antiproletaria – dalla natura indistinta del dominio borghese in Bordiga alla teoria del socialfascismo di Zinov’ev e per un certo periodo di Stalin – fossero inadeguati a spiegare in profondità il fenomeno fascista; tuttavia è altrettanto indubbio che in un certo momento le classi dirigenti italiane hanno trovato nel fascismo lo strumento per ristabilire l’ordine sociale dopo lo scampato pericolo del Biennio Rosso. Il biennio 1919-20 è contraddistinto dal cozzare di enormi contraddizioni interne e internazionali, dalla crisi economica e dalla svalutazione monetaria. Di fronte al montare sempre più evidente di tensioni sociali che i vecchi ceti del notabilato liberale non riescono più a governare con le consumate tecniche del controllo sociale giolittiano, si diffonde in categorie sempre più ampie di lavoratori la convinzione di trovarsi di fronte a un bivio storico le cui direzioni avrebbero condotto fatalmente o alla rivoluzione socialista, o alla reazione più conservatrice e violenta. Gramsci ha piena consapevolezza di ciò e già nel 1920 scrive che la controffensiva delle classi dominanti, oltre a spazzare via l’organizzazione della lotta politica dei lavoratori, avrebbe mirato ad assorbire all’interno dello Stato borghese le istituzioni di associazione economica e sociale delle classi sfruttate, esattamente quanto accaduto, di lì a qualche anno, con il sistema corporativo e i sindacati fascisti. Il biennio rosso è un bivio nella storia d’Italia e Gramsci ne è consapevole sin dall’inizio, tanto è vero che già in un articolo dell’8 maggio del 1920 scrive:
“La fase attuale della lotta di classe in Italia è la fase che precede: o la conquista del potere politico da parte del proletariato rivoluzionario per il passaggio a nuovi modi di produzione e di distribuzione che permettano una ripresa della produttività; o una tremenda reazione da parte della classe proprietaria e della casta governativa. Nessuna violenza sarà trascurata per soggiogare il proletariato industriale e agricolo a un lavoro servile: si cercherà di spezzare inesorabilmente gli organismi di lotta politica della classe operaia (Partito socialista) e di incorporare gli organismi di resistenza economica (i sindacati e le cooperative) negli ingranaggi dello Stato borghese”[8].
Gramsci è il primo a individuare questo pericolo, e quando ancora per i più il fascismo costituisce il fenomeno folcloristico di un manipolo di sbandati ne intuisce le potenzialità, tuttavia, non aderisce mai, neanche negli scritti giovanili, all’idea di un indifferenziato fronte borghese dietro al fascismo. Per Gramsci è chiaro sin da subito che, nel disastro economico, sociale e morale prodotto dalla guerra, i rischi maggiori di sovversivismo reazionario vengono anzitutto dai ceti medi e, semmai, dal possibile saldarsi tra gli interessi di questi con quelli di un grande capitale in profonda crisi. Ne è un esempio l’articolo pubblicato su “L’Ordine Nuovo” sui fatti del dicembre 1919. Il 2 e 3 dicembre del 1919 si diffusero spontaneamente scioperi e sommosse di operai, per protestare contro l’aggressione subita dai deputati socialisti ad opera di nazionalisti e monarchici. Per Gramsci quegli avvenimenti erano un episodio importante di lotta tra le classi, ma non di una lotta tra capitalisti e proletariato, bensì tra questi ultimi e piccola/media borghesia.
Questo articolo è interessante perché indica nella guerra l’elemento che pone “a valore” la piccola e media borghesia. Ciò avviene per mezzo della militarizzazione della società, sia in ambito economico sia politico, e la trasformazione di città, fabbriche, burocrazia statale, insomma dell’intera nazione, in una grande caserma. Per attuare questa militarizzazione lo Stato e il grande capitale mobilitano i ceti medi, che poi però non accettano la smobilitazione con la fine della guerra, trovando quindi nel nazionalismo un credo per riaffermare la propria soggettività a rischio.
La smobilitazione, la retorica della “vittoria mutilata”, la crisi economica, la duplice pressione da parte del capitale e del lavoro, dunque il cosiddetto fenomeno della proletarizzazione dei ceti medi, starebbero alla base delle inquietudini della piccola e media borghesia. Il “sovversivismo reazionario”, con tutto il suo carico di livore antioperaio, si forma in questo contesto trovando nel nazionalismo, in D’Annunzio e infine nel fascismo di Mussolini la ragione della propria rivoluzione sociale.
Anche uno storico come Luigi Salvatorelli, già all’indomani della marcia su Roma, parlò di lotta di classe della piccola borghesia, inchiodata dalla dialettica tra capitalismo e proletariato, per spiegare il fenomeno fascista. Per Salvatorelli la piccola borghesia aspirava a una propria rivoluzione autonoma e radicale, tuttavia, non essendo una vera e propria classe sociale, bensì un agglomerato che vive a margine del processo produttivo fondamentale alla civiltà capitalistica, il suo orizzonte non riesce ad andare oltre la rivolta e la demagogia.
Un altro esempio in tal senso viene dall’articolo, emblematicamente, intitolato Il popolo delle scimmie, pubblicato su “L’Ordine Nuovo”, il 2 gennaio 1921: “Il fascismo è stato l’ultima rappresentazione offerta dalla piccola borghesia urbana nel teatro della vita politica italiana. La miserevole fine dell’avventura fiumana è l’ultima scena della rappresentazione. Essa può assumersi come l’episodio più importante del processo di intima dissoluzione di questa classe della popolazione”[9].
Gramsci descrive in questo articolo la parabola della piccola borghesia italiana dall’avvento della “sinistra” al potere sino alla nascita del movimento fascista. Con lo sviluppo del capitalismo finanziario la piccola borghesia perde una sua funzione nella produzione divenendo “pura classe politica” che per Gramsci si specializza nel “cretinismo parlamentare”. È questo un fenomeno che assume fisionomie diverse e che si esprime attraverso i governi della sinistra, il giolittismo, il riformismo socialista. A questa degenerazione della piccola borghesia corrisponde la degenerazione del Parlamento che diviene “bottega di chiacchiere e scandali, diviene un mezzo al parassitismo”, un Parlamento corrotto fino al midollo che perde progressivamente prestigio presso le masse popolari. La sfiducia verso l’istituzione parlamentare porta le stesse masse popolari a individuare nell’azione diretta dell’opposizione sociale l’unico strumento di controllo e pressione, l’unico modo per far valere la propria sovranità contro gli arbitri del potere. In tal senso Gramsci interpreta la settimana rossa del giugno 1914. Attraverso l’interventismo, l’avventurismo di D’Annunzio e il fascismo, la piccola borghesia “scimmieggia la classe operaia e scende in piazza”.
La decadenza del Parlamento è massima nel corso della guerra e la piccola borghesia cerca di consolidare la sua nuova posizione barricadera attraverso un miscuglio ideologico di imperialismo nazionalista e sindacalismo rivoluzionario. Nella sua carica antiparlamentare secondo Gramsci la piccola borghesia cerca di organizzarsi attorno a padroni più ricchi, trova un punto di sostegno tra gli agrari e gli industriali. Così anche se l’avventura fiumana si pone come il “motivo sentimentale” di questa intensa iniziativa, il centro vero dell’organizzazione risiede nella difesa della proprietà industriale e agraria, contro le rivendicazioni delle classi subalterne e la loro crescente efficacia organizzativa. A sua volta la classe proprietaria commette l’errore di credere che si possa difendere meglio dagli assalti del movimento operaio e contadino abbandonando gli istituti del suo Stato e seguendo “i capi isterici della piccola borghesia”.
Ma gli esempi in tal senso sono tanti; Gramsci non aderisce alle letture semplificanti del fenomeno fascista, e anche in rapporto alla sua base sociale pone sempre in luce una dialettica forte tra piccola borghesia, agrari, grande capitale. Andando oltre tutta la ricca elaborazione degli anni tra il 1918 e il 1925, ci soffermiamo sull’unico intervento di Gramsci al Parlamento su Origini e scopi della Legge sulle associazioni segrete. Discorso pronunciato alla Camera dei deputati il 16 maggio 1925 contro il disegno di legge Mussolini-Rocco.
Gramsci, ripetutamente interrotto dalle intemperanze dei deputati fascisti, poneva questa legge in connessione alla storia delle classi dirigenti italiane e alla debolezza del loro Stato. Il vero obiettivo di questa legge non era la massoneria, con cui il fascismo avrebbe trovato un compromesso, ma i partiti antifascisti, in particolar modo le organizzazioni delle classi subalterne.
Questo disegno di legge rappresentava il primo tentativo organico del fascismo di affermare la propria “rivoluzione” e Gramsci rivendicava ai comunisti l’aver preso sempre molto sul serio il pericolo fascista, anche quando le altre forze lo sottovalutavano parlando di semplice “psicosi di guerra” e lo giudicavano fenomeno superficiale e transitorio. Già nel novembre 1920 Gramsci ricordava di aver previsto l’andata al potere del movimento di Mussolini.
Il disegno di legge sulle associazioni segrete rappresentava un chiavistello per sopprimere la libertà associativa e utilizzava la necessità di colpire la massoneria come paravento per attaccare le libertà democratiche.
Nel suo intervento Gramsci affermava che la massoneria, per le modalità attraverso cui si è realizzata l’Unità d’Italia e in ragione della debolezza della sua borghesia, è stata “l’unico partito reale ed efficiente che la classe borghese ha avuto per tanto tempo”. All’indomani dell’unificazione la massoneria è stato il principale strumento attraverso il quale la borghesia ha difeso la creazione di uno Stato unitario e liberale dalle minacce del suo principale nemico rappresentato dal Vaticano e dal suo braccio armato, i gesuiti, dietro cui si concentravano le vecchie classi semifeudali di tendenza borbonica nel sud e austriacanti nel Lombardo Veneto, forze che la borghesia italiana – che era minoranza nel paese – non riusciva a contenere. Attraverso l’organo della Compagnia di Gesù, “Civiltà cattolica”, il Vaticano non aveva mai nascosto il suo obiettivo, vale a dire sabotare lo Stato unitario attraverso l’astensione parlamentare e ostacolare in tutti modi la creazione di un ordinamento liberale che in qualche modo potesse mettere in discussione o distruggere il vecchio ordine. Oltre a ciò i gesuiti, già dal 1871, si ponevano l’obiettivo di creare un’“armata di riserva rurale” capace di sbarrare la strada ai due pericoli del modernismo: liberalismo e socialismo.
La massoneria invece era l’organizzazione e l’ideologia ufficiale della borghesia italiana e dunque dirsi contrari ad essa significava essere contro la tradizione politica della borghesia italiana, contro il liberalismo e contro lo stesso Risorgimento. Quelle stesse classi rurali rappresentate prima dal Vaticano, ora erano inquadrate prevalentemente nel fascismo che aveva sostituito i gesuiti nella loro funzione storica. Con la crisi indotta dalla guerra la borghesia industriale incapace di controllare tanto il proletariato urbano, tanto le masse contadine sempre più irrequiete ha trovato la sua unica risposta nella parola d’ordine del fascismo. Ma questa crisi non era un fenomeno puramente italiano, bensì europeo e mondiale, tuttavia la debolezza della borghesia italiana ha fatto sì che essa trovasse una strada d’uscita regressiva come il fascismo.
Ma questa risposta regressiva non avrebbe rappresentato una stabilizzazione del modo di produzione capitalistico perché non era in grado di andare oltre le cause della sua crisi organica, che in Italia era riconducibile a tre fattori: l’assenza di materie prime, vale a dire una forte limitazione di uno sviluppo industriale con una radice profonda nel paese, potenzialmente in grado di svilupparsi e assorbire la mano d’opera eccedente; l’assenza di possedimenti coloniali capaci di generare i sovrapprofitti necessari a un’aristocrazia operaia permanentemente alleata alla borghesia stessa in madre patria; una questione meridionale intesa come questione contadina, strettamente legata a un’emigrazione di massa. L’imperialismo, precisava Gramsci, si contraddistingue per esportare capitali, l’Italia invece esportava solo mano d’opera che andava a lavorare per la remunerazione dei capitali stranieri, impoverendo il paese della sua parte più attiva e produttiva. In questo modo “l’Italia è solo stata un mezzo dell’espansione del capitale finanziario non italiano”.
I partiti liberali della borghesia italiana, la massoneria, avevano seguito due direttrici che corrispondevano a blocchi sociali ben definiti. Il giolittismo mirava a un’alleanza con i socialisti per creare un blocco borghesia industriale-aristocrazia operaia. Questo asse si materializza nel Nord attraverso la collaborazione parlamentare, la politica dei lavori pubblici, delle cooperative, nel Sud con la corruzione dei ceti intellettuali e il dominio della massa tramite i “mazzieri”. La seconda direttrice era quella del “Corriere della Sera” che aveva sostenuto uomini politici meridionali come Salandra, Orlando, Nitti e Amendola, e che sosteneva un’alleanza tra industriali del Nord e la democrazia rurale meridionale sul terreno del libero scambio. Entrambe le soluzioni, seppur affette da distorsioni e contraddizioni interne, tendevano ad allargare la base dello Stato italiano e consolidare le conquiste risorgimentali.
Il fascismo affermava che con la legge contro la massoneria intendeva conquistare lo Stato, in realtà secondo Gramsci esso intendeva semplicemente sostituirsi ad essa, sola forza organizzata ed efficiente della borghesia italiana, nell’occupazione dell’apparato amministrativo istituzionale.
Gramsci accusava il fascismo di avere assunto con la massoneria la stessa tattica adottata per tutti gli altri partiti della borghesia ma senza essere riuscito a ottenerne il completo assorbimento all’interno della propria organizzazione. Nei partiti borghesi il fascismo ha cercato anzitutto di infiltrare propri nuclei, poi ha utilizzato i metodi terroristici dello squadrismo per piegarne la resistenza, ora interveniva con l’azione legislativa in ragione della quale le personalità influenti delle burocrazie statali e dell’alta Banca si sarebbero piegate al fascismo per non perdere ruolo e privilegi acquisiti. Con la massoneria il fascismo avrebbe cercato il compromesso, ma come si fa in genere con un nemico forte “prima gli si rompono le gambe, poi si fa il compromesso in condizioni di superiorità”. La massoneria avrebbe aderito al fascismo costituendone una tendenza. Tuttavia il fascismo rappresentava una soluzione non solo regressiva ma anche affetta da una debolezze intrinseca data dall’aver concentrato tutto il suo potere sull’uso della forza. “La borghesia italiana quando ha fatto l’unità era una minoranza della popolazione, ma siccome rappresentava gli interessi della maggioranza anche se questa non la seguiva, così ha potuto mantenersi al potere. Voi avete vinto con le armi, ma non avete nessun programma, non rappresentate niente di nuovo e di progressivo”[10].
Il fascismo per Gramsci non sarebbe stato capace di risolvere le contraddizioni fondamentali della società italiana, prima tra tutte la questione meridionale, anzi le avrebbe ulteriormente acuite aggiungendo “altre polveri a quelle già accumulate dallo sviluppo della società capitalistica”. La legge contro la massoneria era propriamente il tentativo di aggirare le contraddizioni fondamentali dell’Italia cercando un puntello ulteriore al mantenimento del potere attraverso lo Stato di polizia e la repressione sistematica di tutte le libertà.
Anche nelle Tesi di Lione è presente una ricchezza analitica che sfugge a troppo rigide classificazioni. Per un verso in esse si afferma che il fascismo rientra appieno nel quadro tradizionale delle classi dirigenti italiane; il fascismo assume la forma della reazione armata con il preciso scopo di scompaginare le fila nelle organizzazioni delle classi subalterne e per questa via garantire la supremazia dei ceti dominanti. Per questa ragione al suo comparire è favorito e protetto indistintamente da tutti i vecchi gruppi dirigenti, anche se tra di essi sono soprattutto gli agrari a finanziare e lanciare le squadre fasciste contro il movimento dei contadini. La base sociale del fascismo però è composta dalla piccola borghesia urbana e dalla nuova borghesia agraria.
La necessità storica del fascismo risiede nel tentativo di uscire dalla crisi organica tutelando tutte le sedimentazioni parassitarie intermedie tra capitale e lavoro nell’appropriazione di quote significative di plusvalore.
Il fascismo trova una unità ideologica e organizzativa nelle formazioni paramilitari che ereditano la tradizione dell’arditismo e la applicano alla guerriglia contro le organizzazioni dei lavoratori. Nelle Tesi è precisato che il fascismo attua il suo piano di conquista dello Stato con una “mentalità di capitalismo nascente” che fornisce alla piccola borghesia una omogeneità ideologica in contrapposizione con i vecchi gruppi dirigenti. “Nella sostanza il fascismo modifica il programma della conservazione e di reazione che ha sempre dominato la politica italiana soltanto per un diverso modo di concepire il processo di unificazione delle forze reazionarie. Alla tattica degli accordi e dei compromessi esso sostituisce il proposito di realizzare una unità organica di tutte le forze della borghesia in un solo organismo politico sotto il controllo di una unica centrale che dovrebbe dirigere insieme il partito, il governo e lo Stato. Questo proposito corrisponde alla volontà di resistere a fondo ad ogni attacco rivoluzionario, il che permette al fascismo di raccogliere le adesioni della parte più decisamente reazionaria della borghesia industriale e degli agrari”[11].
Tuttavia, il metodo fascista di difesa dell’ordine, della proprietà e dello Stato non riesce a realizzare, immediatamente e totalmente, questo livello di centralizzazione della borghesia con la presa del potere. Anzi la traduzione politica ed economica dei suoi propositi produce varie forme di resistenza all’interno delle stesse classi dirigenti. I due tradizionali orientamenti della borghesia liberale italiana, quello riconducibile al giolittismo e quello riconducibile al “Corriere della Sera”, non vengono subito assorbiti o piegati dalla presa del potere di Mussolini. In tal senso si spiega la lotta contro i gruppi superstiti della borghesia liberale e contro la massoneria, vale a dire contro il suo principale centro di attrazione e organizzazione in sostegno dello Stato.
Sul piano economico il fascismo agisce a totale vantaggio delle grandi oligarchie industriali e agrarie disattendendo le aspirazioni della sua stessa base sociale, la piccola borghesia, che dall’avvento del fascismo sperava di trarre un avanzamento nelle condizioni sociali ed economiche. Ciò avviene sul piano delle politiche commerciali, con l’inasprimento del protezionismo doganale, su quello finanziario, con la centralizzazione del sistema del credito a beneficio della grande industria, così come sul versante della produzione, con un aumento delle ore di lavoro e la diminuzione delle retribuzioni. Ma il vero punto di approdo del fascismo si ha nella politica estera e nelle aspirazioni imperialistiche, rispetto alle quali le Tesi avanzano un’idea che si concretizzerà quattordici anni appresso. “Coronamento di tutta la propaganda ideologica, dell’azione politica ed economica del fascismo è la tendenza di esso all’imperialismo. Questa tendenza è la espressione del bisogno sentito dalle classi dirigenti industriali-agrarie italiane di trovare fuori del campo nazionale gli elementi per la risoluzione della crisi della società italiana. Sono in essa i germi di una guerra che verrà combattuta, in apparenza, per l’espansione italiana ma nella quale in realtà l’Italia fascista sarà uno strumento nelle mani di uno dei gruppi imperialistici che si contendono il dominio del mondo”[12]. La guerra dunque come valore intrinseco al fascismo e insieme come necessità storica per superare le proprie intime contraddizioni.
L’analisi compiuta da Gramsci sul fascismo si sviluppa su piani diversi che si articolano con una ricchezza tale da non poter essere certo racchiusa nelle riflessioni di un saggio. Il fascismo, con il suo comparire ed affermarsi, è senz’altro un fenomeno complesso, non privo di contraddizioni e dialettiche interne, che va analizzato nelle sue molteplici sfaccettature. Ciò detto, credo che ad una conclusione si possa comunque giungere: il fascismo è e resta un prodotto della storia della borghesia italiana. In tal senso non può essere considerato l’improvvisa malattia morale di un popolo, ma neanche un fenomeno che sorge d’improvviso come semplice reazione armata e irrazionale delle classi dirigenti. Il fascismo ha per Gramsci radici profonde nella storia d’Italia. Per molti versi il piano di lavoro dei Quaderni del carcere costituisce un tentativo d’indagine per andare al fondo di quelle radici. Radici che, ancora oggi, necessitano di essere studiate per comprendere, in via non superficiale, alcuni dei mali che affliggono la società italiana nei suoi rapporti tra economica, politica e sistemi di rappresentanza.
[1] Saggio pubblicato in NAE, rivista trimestrale di cultura, Anno VI, numero 21, marzo 2008
[2] R. De Felice, Le interpretazioni del fascismo, Bari, Laterza, 1995.
[3] In particolare, nel Quaderno numero tredici, Gramsci precisa che la formula della “rivoluzione permanente” è sorta prima del 1848, come espressione scientificamente elaborata delle esperienze “giacobine”, e più in generale corrisponde ad una fase di forte arretratezza della società e della campagna, nella quale si ha un limitato sviluppo della società civile e degli apparati egemonici delle classi dominanti. In questa fase ancora non esistono i grandi partiti politici e i sindacati e si ha una maggiore autonomia nazionale delle economie e degli apparati statali-militari. Questa fase muta radicalmente nel 1870 con l’espansione coloniale europea, quando i rapporti organizzativi sia interni che internazionali degli Stati divengono più complessi ed articolati, in questa fase nella politica si determina lo stesso mutamento avvenuto nell’arte militare e la formula della “rivoluzione permanente” viene superata dall’“egemonia civile”, vale a dire che si passa dalla “guerra di movimento alla guerra di posizione”.
[4] Quaderni del carcere, op. cit. pag. 1228.
[6] A. Gramsci, Quaderni del carcere, Torino, Einaudi, 1977, p. 41.
[8] Antonio Gramsci, Per un rinnovamento del Partito socialista,“L’Ordine Nuovo”, II, 1, 8 maggio 1920. In L’Ordine Nuovo 1919-1920, Einaudi, Torino, 1978, p. 510.
[9] Antonio Gramsci, Socialismo e Fascismo, Einaudi, Torino 1978. pag. 9.
[10] Antonio Gramsci, La costruzione del partito comunista (1923-1926), Einaudi, Torino, 1978, pag. 82.