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Problemi e storia della Resistenza *

Pietro Secchia | La resistenza accusa, Mazzotta editore, 1976, pag. 246-275
Trascrizione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

06/07/1954

A dieci anni di distanza dalla Resistenza, viva come non mai nel pensiero e nella vita del nostro popolo, è giusto chiederci a che punto si trova lo studio sulla Resistenza, sui suoi problemi e la elaborazione della sua storia.

Non si tratta soltanto di ricordare i nostri caduti e il loro testamento; quel che s'impone è di dare impulso allo studio della Resistenza, per eternare nella storia d'Italia quest'epica lotta del nostro popolo e per fare conoscere alle giovani generazioni una grande esperienza dalla quale molti insegnamenti possono e devono essere tratti per le lotte che oggi combattiamo e che devono essere portate al successo.

Studi e documenti sulla Resistenza

Oltre un migliaio di pubblicazioni sulla Resistenza e sulla guerra di Liberazione nazionale hanno visto la luce negli anni scorsi. Non è molto, ma neppure poco; non possiamo dire però di essere a buon punto negli studi sulla Resistenza e nella elaborazione della sua storia.

Le pubblicazioni uscite sinora sono per lo più delle monografie, dei diari, dei saggi prevalentemente a carattere personale, o delle cronache puramente descrittive, dei ricordi in cui spesso la documentazione fa difetto.

Esistono soltanto, sinora, due libri organici sulla Resistenza: Un popolo alla macchia di Luigi Longo e La storia della Resistenza italiana di Roberto Battaglia, che si sono proposti di interpretare i fatti nel loro concatenamento e nel loro sviluppo e di affrontare i problemi più generali di interpretazione storica della Resistenza.

Un popolo alla macchia di Luigi Longo è il primo documento notevole sulla Resistenza apparso poco dopo la fine della guerra di Liberazione nazionale. Il suo valore è politico e storico non soltanto perché offrì ed offre tuttora prezioso materiale agli studiosi, ma perché non si limita a narrare che cosa è accaduto e come è accaduto, come venne organizzata, diretta e sostenuta la Resistenza, ma mette in luce quali furono le forze e gli interessi contrastanti di lotta e soprattutto l'irrompere impetuoso delle masse popolari nella grande battaglia per la libertà e l'indipendenza del paese.

La storia della Resistenza italiana di Roberto Battaglia è la sola pubblicazione uscita sinora che per il suo carattere e la sua serietà possa degnamente fregiarsi del titolo di «storia», perché Roberto Battaglia non si è proposto soltanto di narrare, ma di interpretare i fatti, non ha messo sullo stesso piano ciò che muore e ciò che nasce, ma ha cercato di scoprire il fondo delle cose ed i veri quesiti storici, ha indicato i profondi contrasti e le lotte dei gruppi sociali e politici durante quel periodo della nostra vita nazionale che non è ristretto tra l'8 settembre 1943 ed il 25 aprile 1945.

Per comprendere la Resistenza è indispensabile collocarla nelle condizioni storiche che la fecero sorgere, è indispensabile cioè partire dal fascismo, da come questo è nato, come si è sviluppato, come ha potuto vincere nel nostro paese.

Se si prescinde da La storia della Resistenza italiana dell'amico R. Battaglia e da Un popolo alla macchia di L. Longo, vi sono sinora soltanto alcuni saggi parziali pubblicati in riviste od opuscoli dove la guerra partigiana sia affrontata e trattata dal punto di vista storico.

Non vogliamo sottovalutare con queste affermazioni l'importanza dei numerosi scritti, anche se di carattere puramente descrittivo e documentario, apparsi sinora. Al contrario dobbiamo constatare che anche da questo punto di vista molto dev'essere ancora fatto perché le memorie, i diari, le cronache, la documentazione sono la base, il punto di partenza per ogni ulteriore elaborazione storica.

Le pubblicazioni documentarie hanno a nostro avviso notevole valore anche se, come ha osservato il professor Piero Pieri, «nessun documento è stato mai steso allo scopo di raccontare la verità agli storici, ma bensì per produrre un certo risultato pratico».

Ma proprio per questo i documenti di allora hanno valore storico, perché chi in quel momento li scriveva non pensava certo a scrivere della storia, ma piuttosto a farla, pensava ad ottenere un risultato pratico nella lotta. Tant'è che il contenuto di determinate direttive e posizioni politiche sottoscritte allora da tutti i partiti del CLN non corrispondono più alle posizioni politiche che oggi determinati partiti e movimenti hanno assunto, al punto che essi non amano certe rievocazioni e documentazioni.

Siamo lungi dal sottovalutare gli scritti che hanno carattere di documentazione, tant'è che il compagno Longo ed io abbiamo ritenuto di fare cosa utile nel pubblicare in due volumi i principali articoli e documenti da noi scritti durante la guerra di Liberazione e relativi alla lotta partigiana ed ai problemi politici ed organizzativi che l'hanno caratterizzata.

Lo scopo nostro e stato appunto quello di portare un contributo agli studi della Resistenza con la documentazione delle posizioni assunte dal Partito Comunista Italiano e da altri partiti e della funzione decisiva avuta dalla classe operaia e dai lavoratori nel corso della guerra di Liberazione nazionale.

Gli amici Lussu, Battaglia, Fancello ed altri salutando queste nostre pubblicazioni hanno voluto cogliere il loro valore tra l'altro proprio nel fatto che «esse non utilizzano il senno di poi, ma offrono materiale autentico di articoli, documenti ed appelli pubblicati nel corso della lotta. Mettono, cioè, ognuno in grado di conoscere quali sono state le direttive impresse dal partito comunista all'azione dei suoi nuclei politici, sindacali e militari nella lotta decisiva contro l'invasore tedesco e contro il suo complice fascista ed a quali criteri esso si è ispirato nei suoi rapporti con gli altri raggruppamenti antifascisti, in vista della istituzione di un regime di libertà nel nostro paese».

Ma noi vorremmo che molti altri protagonisti e partecipi della grande lotta partigiana raccogliessero, ordinassero e pubblicassero i loro scritti, le loro esperienze, quelle delle formazioni militari o dei movimenti e partiti politici attorno ai quali combatterono.

La pubblicazione degli atti e dei documenti sulle lotte combattute e sulle posizioni politiche assunte dai diversi partiti, correnti politiche, formazioni partigiane in quegli anni e sul contributo effettivo dato dagli uni e dagli altri alla guerra di Liberazione nazionale ed alla sconfitta del fascismo, è indispensabile alla storiografia della Resistenza ed è nello stesso tempo un doveroso seppure modestissimo omaggio verso l'eroismo dei combattenti ed il sacrificio dei caduti.

Si tratta di un dovere e di un obbligo che trascende qualsiasi considerazione o inclinazione personale, poiché l'esigenza di fare conoscere ai giovani la storia della Resistenza, le azioni dei partigiani e dei patrioti è un dovere verso la nazione. È un compito ed un dovere che devono essere sentiti da tutte le organizzazioni democratiche.

Omissioni e deformazioni storiografiche

Dare impulso a questi studi è tanto più necessario in quanto già oggi sono in atto aperti tentativi di deformazione e di vera e propria falsificazione della storia della Resistenza, senza parlare dell'opera di denigrazione condotta dai nemici della libertà negli anni scorsi ed in modo particolarmente virulento in questi tempi dagli agenti di McCarty.

Vi sono anche coloro che deformano e falsificano la Resistenza - diciamo cosi - in buona fede.

Nel giudicare eventi passati ai quali si è partecipato è facile alle volte scambiare l'atteggiamento che si ha oggi di fronte ad essi o che si reputa sarebbe stato giusto assumere con quello che effettivamente si è assunto allora, quando quegli eventi non avevano ancora avuto il loro epilogo.

In molte narrazioni, esposizioni, cronache della Resistenza messe in circolazione, vi sono in notevole quantità giudizi e spiegazioni interessate, non troppo fedeli alla verità, e vere e proprie invenzioni fatte in buona fede e no, frutto del senno di poi e delle posizioni di parte dei loro autori.

Tra le diverse forme di falsificazione storica vi è anche quella dell'omissione. Vi è, ad esempio, chi narrando determinate azioni militari o episodi di guerra guerreggiata della Resistenza, il successo di determinate formazioni, non inventa, dice né più ne' meno quanto è accaduto, ma tace un piccolo particolare e cioè che mentre quella battaglia era in corso gli operai della città vicina o della provincia avevano proclamato lo sciopero generale, o i contadini delle campagne circostanti con grandi azioni di massa avevano paralizzato l'azione dei tedeschi e dei fascisti, limitato i loro movimenti, ritardato il loro spostamento.

Coloro che parlano e scrivono della guerra partigiana tacendo delle innumerevoli azioni di massa condotte dagli operai, dai contadini, dai lavoratori, falsificano per omissione la storia della Resistenza.

Ognuno di noi rievocando fatti, avvenimenti, eventi passati ai quali abbiamo partecipato non può fare a meno, malgrado lo sforzo per mantenersi obiettivo anche nel dettaglio, di giudicare le posizioni di ieri alla luce della esperienza di oggi, alla luce della critica e dell'autocritica e cioè del grado di coscienza cui siamo giunti.

Inoltre nei racconti, nei diari, nelle memorie a carattere personale si osserva alle volte spiccata la tendenza ad esagerare l'importanza decisiva, per lo sviluppo degli avvenimenti, di lotte e battaglie alle quali colui che racconta ha partecipato personalmente.

Non facile, ad esempio, da questo punto di vista è stabilire quale sia stato l'effettivo apporto militare di determinate formazioni partigiane che hanno sostenuto grandi battaglie od occupato per periodi più o meno lunghi intere zone. Eppure anche per questo tale studio è necessario, indispensabile, perché da esso apparirà come in certi casi il contributo decisivo al successo di determinate azioni o battaglie o alla conclusione vittoriosa di una lotta non spetti a questo o a quest'altro gruppo di unità partigiane (che si contendono il primato talvolta per motivi politici) ma sia stato dato dalla risultanza di azioni, combinate o no, di diverse unità partigiane e di azioni di massa che si sviluppavano contemporaneamente o quasi nella stessa località o regione.

Ma se molte deformazioni e inesattezze di giudizi avvengono più o meno in buona fede, sono purtroppo numerosi gli interessati a falsare volutamente e a deformare la realtà storica soltanto perché questa non è a loro favorevole.

Ad esempio, i gruppi dirigenti della grande borghesia e del capitale monopolista, i responsabili della politica del fascismo, coloro che hanno voluto l'asse Roma-Berlino, che hanno collaborato con l'invasore tedesco, tutti coloro che in un modo o nell'altro sono responsabili di avere portato a rovina il nostro paese non hanno alcun interesse a fare conoscere la vera storia della Resistenza in Italia, perché questa suona condanna per loro, suona condanna per le vecchie classi dominanti.

Vi sono anche di quelli che hanno avversato il fascismo e che pur hanno interesse ad ignorare o a deformare la storia della Resistenza. Si tratta di uomini o di movimenti che, pur avendo avversato il fascismo, non hanno portato un notevole contributo attivo alla lotta antifascista ed alla lotta per la libertà. Di qui il loro interesse a tutto accomunare, tutto confondere, a non fare distinzioni, a non vedere qual'è stato il contributo di questa classe, di questo ceto sociale, di questo partito o di quest'altro. Perché ogni distinzione, ogni specificazione farebbe inevitabilmente risaltare il contributo effettivo e diverso dato dagli uni nei confronti degli altri.

Ecco sorgere allora la leggenda, già largamente in circolazione, che la Resistenza fu un grande fenomeno spontaneo e che il movimento partigiano non venne organizzato da nessuno. La Resistenza - si dice- non appartiene a nessun partito. Tutti gli italiani furono per la Resistenza. Ognuno sentì - scrivono certuni - dal fondo dell'animo una voce, qualcuno la chiama la voce della patria, altri la voce della coscienza, altri la voce di Dio.Questa voce ognuno l'avrebbe sentita come per incanto l'8 settembre 1943.

Si tratta di una teoria che può fare comodo, ma che non risponde a verità. È verissimo che la Resistenza non appartiene a nessun partito, ma è altrettanto vero che non tutti i partiti vi contribuirono in egual misura. È verissimo che nella Resistenza, in ogni paese, tutti i ceti sociali furono presenti, ma non tutti in egual misura.

Non ribellione, non movimento legittimista, ma guerra patriottica

Intanto vi erano i fascisti che si trovavano dall'altra parte della barricata, che furono i nemici - intendiamo parlare natutalmente dei responsabili - gli avversari della Resistenza e che oggi la vilipenclono, la calunniano, la insultano. Poi vi erano coloro che presero posizione contro i tedeschi soltanto in obbedienza al re ed alla monarchia, ma che non pensavano ad alcun rinnovamento di carattere sociale, anzi vi erano ostili ed avevano timore delle masse popolari. Costoro avevano ritenuto giusto marciare braccio a braccio a fianco dei tedeschi e dei fascisti ed approvare tutti i loro delitti sino a quando la monarchia aveva sostenuto il fascismo. È chiaro che costoro non hanno alcun interesse a che sia elaborata una vera storia della Resistenza ed a mettere in giusta luce l'apporto dato alla Resistenza delle masse popolari.

Durante la guerra di Liberazione hanno fatto di tutto per frenare, per contenere lo sviluppo del movimento partigiano, per limitare la mobilitazione del popolo. Oggi confessano apertamente qual'è stata la loro funzione, la esagerano persino, tentano di far credere che la Resistenza fu il risultato della fedeltà del popolo alla monarchia, che fu un movimento «legittimista» sorto in base a non sappiamo quali accordi con gli Alleati. «Noi», scrive Luigi Longo, «abbiamo sempre respinto il termine di ribelli che ci davano i fascisti e che all'inizio a sfida adottarono alcune formazioni partigiane. Non noi, ma i fascisti erano i ribelli, gli usurpatori delle leggi della patria. Noi eravamo i patrioti e perciò rappresentavamo lo Stato, la legge, la forza regolatrice della vita nazionale.»

Giustissimo, però non la pensavano cosi i fascisti e non soltanto i fascisti, ma non la pensavano e non la pensano cosi coloro che scorgono il potere, il diritto, la giustizia soltanto nelle leggi codificate, soltanto nei codici, nei prefetti, nelle forme materiali dello Stato con tutti i suoi strumenti ed i suoi sigilli. Per costoro proprio perché i partigiani si presentavano non soltanto come combattenti ma come esponenti di un nuovo potere statale che nasceva, erano dei «ribelli», dei ribelli all'ordine costituito, anche se questo ordinamento era costituito da usurpatori, da traditori, da uomini e da gruppi che si erano alleati col nemico e che col nemico collaboravano.

Prova ne sia che nel dopoguerra, quando si iniziò il periodo delle persecuzioni partigiane, molti valorosi partigiani furono condannati in base al codice penale fascista e le loro azioni vennero giudicate non come fatti di guerra ed in base agli ordinamenti del CLN, ma in base a quel codice fascista che era stato il codice anche della cosiddetta Repubblica di Salò e che purtroppo è ancora oggi in vigore.

Certi cosiddetti uomini d'ordine prima di dare un qualsiasi giudizio su di un movimento, per stabilire se è legittimo o illegittimo, legale o illegale, si chiedono: chi è che aveva il potere in quel determinato territorio? Chi risiedeva in prefettura? Chi aveva a sua disposizione i tribunali, i giudici, le carceri, la polizia?

Nell'Italia occupata dai tedeschi, questi strumenti del potere erano nelle mani dei fascisti repubblichini. Questi avevano tradito, venduto l'Italia, erano diventati dei servi dei tedeschi, dei boia a loro disposizione.

Non importa, ci rispondono quei tali uomini cosiddetti di ordine, se erano loro a disporre delle prefetture, della polizia, dei tribunali e delle carceri, allora essi erano il potere legittimo, gli altri i ribelli.

Infine, nella svalutazione che oggi si fa della Resistenza, ha la sua parte, se non decisiva certo molto importante, l'anticomunismo. I comunisti, i socialisti devono esser presentati come i negatori della patria, come i traditori e per far questo non si può parlare troppo della Resistenza, ove rifulge l'opera loro, per far questo bisogna tacere o ridurre al minimo il contributo decisivo portato alla Resistenza dalle masse popolari, dalla classe operaia, dai contadini, dagli intellettuali d'avanguardia, dai lavoratori.

Il tentativo di giubilare la Resistenza come «un grande fenomeno religioso»

I circoli dirigenti della grande borghesia non hanno mai interesse ad esaltare i movimenti partigiani, i movimenti che, per quanto patriottici, hanno carattere di rivolta contro il cosiddetto potere costituito. Perché - pensano i circoli dirigenti della grande borghesia - esaltando i movimenti patriottici, partigiani, si finisce sempre per indebolire l'autorità dello Stato, del potere comunque costituito.

Ieri, è vero, i partigiani, i patrioti si battevano contro i tedeschi, ma non si sa mai, domani potrebbero battersi contro gli imperialisti americani. Meglio quindi non parlare troppo dei partigiani e della vera essenza della Resistenza, meglio fare della Resistenza un mito, qualche cosa di astratto, di nebuloso. La Resistenza - concludono costoro - è stata il più grande fenomeno religioso.

A proposito di movimento religioso, si può osservare come oggi anche le migliori pubblicazioni, quelle che costituiscono un vero e proprio testamento della Resistenza, anzi la sua esaltazione, vengono presentate dalla cosiddetta grande stampa in una luce che sminuisce e deforma la Resistenza.

Intendo parlare delle Lettere dei condannati a morte della Resistenza europea pubblicate in questi giorni dalla Casa Editrice Einaudi a cura di Piero Malvezzi e di Giovanni Pirelli.

Da solo questo libro è una storia, da solo insegna che cosa è stato il fascismo. Da solo insegna che cosa la Resistenza fu nei suoi combattenti, nei suoi eroismi, nei suoi sacrifici, nei suoi dolori, nel suo programma e nel suo significato. Quanto meno è un fortissimo stimolo ad approfondire lo studio dei combattenti, dei programmi e delle idee politiche e sociali della Resistenza.

Eppure, come viene recensito, come viene presentato dalla grande stampa, dai giornaloni cosiddetti indipendenti questo libro?

Generale è l'ammirazione, la reverenza per l'eroismo, la nobiltà, la semplicità con la quale i combattenti della Resistenza italiana ed europea hanno affrontato le più atroci torture e la morte. Ma anche in questo generale riconoscimento, in questa ammirazione per l'eroismo e la nobiltà, per i caduti in quanto caduti, per gli eroi in quanto eroi, appare chiara l'intenzione di sminuire la Resistenza svuotandola della sua realtà, ignorandone i suoi ideali ed il suo programma.

Tutti si tolgono il cappello davanti ai morti, tutti ammirano il loro eroismo. «È purtroppo d'uso di fronte ai caduti, ai martiri, agli eroi», scrive Lucio Lombardo Radice, «una sorta di retorica impersonale: la retorica del sacrificio e del discorso celebrativo, la retorica dell'eroe senza volto, del caduto immobile nell'ultimo gesto, lontano e diverso dai vivi appunto perché eroe, appunto perché caduto.»

Vi è chi celebra la loro morte per poter in un certo senso condannare la loro vita. Il silenzio sulla loro vita e sulle loro lotte è già di per sé una condanna.

Con una formale riverenza verso la morte e verso l'eroismo, questi scrittori o critici dei giornali della grande borghesia cercano di distogliere l'attenzione del lettore da quella che fu la vita dei nostri martiri, da quella che fu la loro lotta contro il fascismo, da quella che fu la Resistenza.

Leggendo le Lettere dei condannati a morte, gli orrori delle torture, la ferocia dei nazisti farneticanti di dominare il mondo, a noi sovviene immediatamente alla memoria un'autorevole definizione data a suo tempo del fascismo: «Il fascismo è la dittatura terrorista, aperta degli elementi più reazionari, più sciovinisti e più imperialisti del capitale finanziario. Il fascismo hitleriano non è soltanto.nazionalismo borghese, è sciovinismo bestiale. È un sistema governativo di banditismo politico. È barbarie, è ferocia medievale. È l'aggressione sfrenata contro gli altri popoli e paesi.»

Questo è stato il fascismo, ma questo sembra abbiano dimenticato molti di coloro che hanno recensito le Lettere dei condannatia morte della Resistenza. Apprezzano la pubblicazione, esaltano la forza d'animo dei condannati, plaudono al loro coraggio, ma evitano di parlare del fascismo e dei responsabili di tanti delitti.

Alcuni arrivano a parlare delle atrocità commesse dai soldati di Hitler, ma pochi di quei critici ricordano che chi allora governava l'Italia portò il nostro paese a fianco di Hitler e che degli italiani aiutarono le belve umane tedesche nei loro crimini orrendi.

Leggere queste lettere, meditarle dovrebbe voler dire chiedersi che cosa è stato il fascismo. Leggere queste lettere, meditarle dovrebbe significare chiedersi che cosa è stata la Resistenza, qual era il suo programma, quali i suoi ideali, quando è sorta, come si è sviluppata, chi furono i suoi protagonisti e cosi via.

Invece no, tutto si limita all'esaltazione della morte, perché per molti la Resistenza è se non da condannare per lo meno una cosa morta, una battaglia lontana, un attimo di slancio nazionale le cui ragioni sarebbero venute a cessare e le cui bandiere dovrebbero essere collocate nei musei.

Nelle recensioni che abbiamo avuto occasione di leggere, alcuni hanno l'aria di dire, altri lo dicono apertamente: «Noi ci togliamo il cappello davanti alla morte, davanti all'eroismo, ma non facciamo della politica.»

In realtà, in questo come in molti altri casi, non fare della politica significa proprio fare della politica e non certo della migliore. Perché la peggiore delle politiche è proprio quella che sotto il volto della imparzialità lascia via libera alla menzogna e alla calunnia, cerca di far credere che gli eroi ed i morti della Resistenza non facevano della politica.

Uomini di tutte le opinioni e di tutte le fedi combatterono nella Resistenza, tutti egualmente grandi nel sacrificio i caduti.

Sarebbe di cattivo gusto inserire nel giudizio dei distinguo settari, ma la profanazione viene proprio dalla parte di coloro che mentre ipocritamente dicono: «Non facciamo distinzioni, non facciamo politica», colgono anche questa occasione per avanzare la loro ormai vecchia tesi: la Resistenza non fu comunista, né democristiana, né liberale, né socialcomunista, fu una manifestazione di quello spirito di rivolta definito da qualcuno l'onore dell'uomo.

Quando si fanno di queste affermazioni, quando volutamente si vuole tutto mescolare e confondere per tacere degli ideali per i quali quegli uomini sono stati condannati a morte, significa proprio fare della politica e della meno pulita, significa offendere la loro memoria.

Non si può prescindere dalla politica, non si possono separare gli ideali di quegli uomini dalle loro qualità morali. Quegli uomini furono tali, ebbero tale forza e tale grandezza morale innanzi tutto perché erano dei combattenti per un ideale e per un grande ideale.

A voler fare astrazione da ogni idea, da ogni programma, dai responsabili del fascismo e della sua politica, dai motivi ideali per cui gli uomini della Resistenza hanno lottato e sono caduti, si finisce - come qualcuno ha scritto - col trovare il comune denominatore che univa gli uomini della Resistenza non nella lotta per la vita e per la libertà, ma nella morte.

È giusto cercare di cogliere nella Resistenza l'elemento unitario che mosse i patrioti e i combattenti per la libertà, che portò a lottare ed a morire fianco a fianco comunisti e cattolici, socialisti e liberali, uomini di idee politiche e di fedi diverse, ma si commette un grave errore di giudizio, di valutazione e di deformazione della Resistenza quale essa fu e della sua storia quando si nega e si cerca di nascondere che all'epica sua lotta le forze principali le diedero i lavoratori, le avanguardie democratiche di sinistra.

Per la storia della Reistenza italiana

Per tutti questi motivi è indispensabile che i patrioti e i democratici sinceri, gli uomini della Resistenza di ogni corrente politica diano un maggiore impulso agli studi sulla Resistenza, perché se questo non viene fatto dagli antifascisti, dai democratici sinceri, dagli uomini che amano la pace e la libertà, non sarà fatto da nessun altro.

È sintomatico, ad esempio, che nessun storico di professione abbia ancora scritto una storia o almeno un saggio di una certa importanza sulla Resistenza italiana.

Quale ne è il motivo? Si dice che gli storici di professione non scrivono sulla Resistenza perché ancora troppo presto, perché è a noi troppo vicina e vive sono ancora le passioni politiche, brucianti gli interessi di parte.

L'argomento non convince; intanto perché gli avvenimenti non sono cosi vicini. Sono trascorsi dieci anni dalla fine della guerra di Liberazione e oltre trent'anni dalla marcia su Roma.

In secondo luogo, gli storici onesti non possono attendere non si sa bene cosa per fare conoscere agli italiani ciò che è bene e necessario sia conosciuto oggi. Pace, giustizia, libertà: i grandi ideali della Resistenza non hanno suggellato un'epoca chiusa, ma proprio per questo, proprio perché la lotta per questi ideali continua ancora oggi, è necessario che la storia della Resistenza sia conosciuta già sin da oggi come insegnamento, come esperienza, come lievito di una unità popolare e nazionale nuova e possibilmente ancora più larga.

«L'istoria è l'esperienza. È d'uopo preparare sollecitamente la nostra istoria per poterci senza indugio valere della nostra esperienza.» Cosi scriveva Carlo Cattaneo già nel settembre 1848 nella prefazione alle sue memorie dell'insurrezione di Milano. Ma se il Cattaneo riteneva alcuni mesi dopo l'insurrezione del marzo 1848 necessario e urgente scriverne la storia, oggi ci si obietta che è troppo presto per scrivere una vera e fondata storia della Resistenza non soltanto perché troppo vive e ardenti sono ancora le passioni e gli interessi di parte, ma perché molti fatti devono ancora essere conosciuti, vagliati, trovare la loro spiegazione, perché molto materiale deve essere ancora raccolto, studiato e selezionato.

Anche questo secondo argomento è assai fragile. Non siamo cosi ingenui da pensare ad una storia «definitiva». Sappiamo molto bene che la storia, definita da qualcuno la scienza dei mutamenti, è essa stessa in continuo mutamento. Sappiamo che anche la storia della Resistenza sarà via via, col passare del tempo, progressivamente arricchita, determinati fatti e giudizi saranno precisati, determinati aspetti o problemi della lotta oggi in ombra saranno messi in luce e affrontati domani.

Col tempo altri studi storici più ampi e approfonditi verranno a completare quelli di oggi. Ma intanto perché lasciare specialmente i giovani nell'ignoranza su ciò che già oggi sulla Resistenza si sa e si può sapere?

Il motivo vero della perplessità, delle esitazioni e della rinuncia, almeno sino ad oggi, da parte degli storici ufficiali o di professione a scrivere sulla Resistenza mi sembra l'abbia colto Palmiro Togliatti quando afferma che la storiografia idealistica non è capace di comprendere e spiegare che cosa è stato il fascismo. «La Resistenza italiana», scrive Togliatti, «parte dal crollo del fascismo e da un crollo che precede, come tutti sanno, la definitiva disfatta militare, essendo un fatto prevalentemente politico. Ma è proprio questo crollo che la storiografia idealistica non è capace di comprendere e spiegare, perché non è capace di ragionevolmente comprendere e spiegare il fascismo. Troppo comodo e privo di senso ripetere che quella fu una parentesi di pazzia, una aberrazione. Il fascismo fu il governo e il regime delle classi borghesi italiane, cosi come sono uscite dal Risorgimento, dal primo cinquantennio unitario e dalla prima partecipazione a un conflitto armato internazionale.

«I più avveduti tra gli scrittori di storia ben cominciano ad avvertire che il vero problema della storia moderna d'Italia è di studiare e giustificare storicamente la continuità di questo sviluppo al quale non contraddice la manifestazione di forze che lo contrastano, di tentativi che si muovono in altre direzioni.

«Soltanto quando si sia riusciti a comprendere e storicamente giustificare la continuità di questo sviluppo, soltanto allora si chiariscono le questioni più importanti della nostra storia e si giunge a scorgere fra l'altro anche qual'è il contenuto vero della Resistenza italiana.»

Non è dunque la vicinanza dei fatti che fa ostacolo. Ma, per poter scrivere la storia di un movimento, occorre avere la capacità di trovare le ragioni reali di quel movimento, le forze che lo mossero, le lotte e i contrasti che lo hanno portato avanti, occorre sapere scorgere ciò che c'è di nuovo nella vita, ciò che muore e ciò che nasce, occorre saper fare distinzione tra ciò che è destinato a morire e ciò che si sviluppa.

«Ciò che manca alla storiografia di oggi», come ha acutamente rilevato Togliatti, «o ciò che per essa non è chiaro del tutto, sembra essere infatti precisamente un giusto concetto dello sviluppo, cioè della novità, della trasformazione.

«Non è escluso che questo avvenga perché le sue costruzioni si muovono in una atmosfera che viene chiamata ideale, ma dove le idee non sono più tali, perché per lo più mancano di corpo e idea senza corpo non si dà.»

Vano sarebbe perderci in lamentele ed attendere dagli altri ciò che essi non vogliono o non sono in grado di fare.

La storiografia borghese non vede nella Resistenza un oggetto del più grande interesse per i propri studi e per lo studio della storia d'Italia, ma vi vede più o meno consapevolmente o inconsapevolmente un nemico alla conservazione del predominio di classe della grande borghesia. Scrivere la storia della Resistenza dev'essere il compito degli uomini di cultura democratici, degli intellettuali antifascisti e non soltanto degli intellettuali ma degli operai, dei contadini, di tutti coloro che hanno lottato e che lottano per la libertà, la pace e l'indipendenza del paese.

La vera storiografia della Resistenza e soprattutto la storia della Resistenza non possono che essere opera dei resistenti. Impiego questo termine nel senso più ampio della parola. Considero, cioè, come resistenti i giovani di oggi e tutti coloro che anche se non hanno partecipato direttamente alle formazioni partigiane lottano oggi per la pace e la libertà.

La Resistenza è stata il primo apparire e affermarsi di una classe dirigente nuova alla testa di tutta la vita nazionale. Per questo sono soprattutto gli uomini di questa nuova classe dirigente, gli uomini che marciano verso l'avvenire, sono gli uomini che fanno la loro storia, che la devono anche scrivere.

Mi sentirei lusingato se la conversazione di questa sera servisse anch'essa a portare un sia pure modesto contributo a stimolare la discussione ed il dibattito sui temi della Resistenza, se riuscisse a invogliare ed a spingere qualcuno ad approfondire questi problemi, ad indirizzare su questi le sue ricerche ed i propri studi.

Due temi già discussi: l'attendismo e il rapporto tra lotta armata e lotta di massa

Vi sono dei temi che già sono stati largamente sviluppati, quali, ad esempio, quello dell'attendismo e delle radici sociali e di classe dell'attendismo, anche se dell'attendismo sono stati messi in luced più gli aspetti aperti e grossolani che non quelli mascherati.

L'attendismo nella forma più subdola e pericolosa non si presentava apertamente, senza veli, nella veste di coloro che dicevano che bisognava essere molto prudenti, attendere l'arrivo degli anglo-americani prima di passare all'azione o che bisognava soltanto attaccare i fascisti e non i tedeschi.

L'attendismo più subdolo e' pericoloso era rappresentato da coloro che non muovevano obiezioni alla necessità di agire, ma sostenevano che per agire subito e con successo era indispensabile porre alla testa delle formazioni partigiane gli ufficiali di professione, gli ufliciali di carriera con provate capacità tecniche e senza mettere loro tra i piedi l'intralcio dei commissari politici.

Questa tendenza era pericolosa per la condotta stessa della guerra partigiana che aveva sue caratteristiche particolari e per le aspirazioni democratiche delle masse popolari le quali lottavano si per cacciare i tedeschi, ma anche per battere il fascismo e conquistare la libertà.

Quella tendenza era pericolosa anche perché, se fosse prevalsa, l'allontanamento dei «capi» popolari dai comandi avrebbe arrestato lo slancio combattivo dei lavoratori, condotto all'inerzia ed all'attesa passiva degli eventi. Se alla testa di gran parte delle formazioni partigiane vi fossero stati quali comandanti degli ufficiali di carriera, questi, che per la maggior parte erano monarchici e badogliani, avrebbero ubbidito assai più agli ordini della monarchia e di Alexander (ricordiamo le famose disposizioni per la smobilitazione) che non a quelli del comando del CVL e del CLN.

Noi non avevamo alcuna prevenzione verso gli ufficiali di carriera ed ovunque si presentarono furono utilizzati in posti di comando e resero dei grandi servizi, «là dove», come scrive L. Longo, «seppero capire e rispettare lo spirito popolare», là dove seppero accettare l'aiuto e la collaborazione dei commissari politici e degli operai e contadini facenti parte dei comandi. «Riuscirono quei militari che seppero unire alle loro conoscenze tecniche le doti umane del comandante popolare eletto dal basso, sorto dalla fiducia dei suoi uomini, impostosi attraverso la lotta.»

Pure abbastanza dibattuto è stato il problema dei legami tra lotta armata e lotta di massa.

Questi ed altri temi pur essendo già stati largamente oggetto di scritti e di saggi possono beninteso essere ancora maggiormente documentati e approfonditi.

Vi sono però molti temi ed aspetti della Resistenza che devono essere ancora affrontati ed attendono i volonterosi all'opera.

Sul carattere particolare cha ha avuto la Reistenza in Italia già è stato scritto, ma è un tema che dev'essere ancora approfondito. La guerra partigiana ha avuto da noi carattere diverso che non in altri paesi d'Europa. Il nostro era non soltanto un paese invaso dallo straniero, ma un paese oppresso dalla dittatura fascista. Più che altrove la guerra partigiana era in Italia lotta militare e lotta sociale nello stesso tempo, era lotta per l'indipendenza ed insurrezione nazionale per la conquista della libertà. La Resistenza in Italia è stata antifascista e, più che altrove, ha avuto carattere di lotta contro quei gruppi del grande capitale che avevano prima dato vita al fascismo e poi portato il paese alla rovina.

È stato già largamente dimostrato che protagonista principale della lotta partigiana e della Resistenza fu la nuova classe dirigente, la classe operaia e che il contributo maggiore assieme a tutte le altre forze democratiche venne dato dall'avanguardia della classe operaia e dei lavoratori.

Il carattere particolare della Resistenza italiana e i movimenti di Resistenza negli altri paesi d'Europa

Tutte le formazioni partigiane, qualunque fosse il loro colore politico, si sono appoggiate direttamente o indirettamente sulle lotte della classe operaia, dei contadini e dei lavoratori. La Resistenza non avrebbe potuto vivere non dico un anno, ma neppure un mese senza l'aiuto e l'appoggio diretto o indiretto degli operai e dei lavoratori, senza le migliaia di agitazioni e di scioperi che allora come oggi trovarono alla loro testa comunisti e socialisti. Non avrebbe potuto vivere neppure un mese la Resistenza senza l'aiuto diretto e quotidiano delle masse contadine il cui eroismo è simbolizzato dal sacrificio dei fratelli Cervi.

Il tema del carattere particolare che ha avuto in Italia la Resistenza deve però essere ancora approfondito anche con uno studio serio dei movimenti della Resistenza negli altri paesi d'Europa.

Non si può studiare un fenomeno cosi generale ed internazionale quale fu la Resistenza, che mosse milioni di uomini di fedi diverse per chiari obiettivi comuni - politici, militari e sociali - senza condurre uno studio comparato col carattere e le diverse espressioni che ebbe la Resistenza in altri paesi.

Come vennero affrontati e risolti in altri paesi problemi politici e militari che si posero anche a noi? Le soluzioni in molti casi furono analoghe, in altri assai diverse. In che misura la diversa tattica seguita e le diverse soluzioni date ai problemi dell'unità politica, dell'unità di comando o della condotta militare della guerra partigiana corrispondevano ad una diversità di situazione oppure ai metodi e criteri politici e militari diversi? Ed in questo caso, alla luce dei fatti, dei risultati, delle esperienze, qual'è il giudizio che si può dare?

Poco conosciamo sinora dei movimenti della Resistenza degli altri paesi e ciò che conosciamo è insufficiente ad uno studio comparativo, corrono di conseguenza dei giudizi altrettanto superficiali quanto le informazioni.

Si parla, ad esempio, di Resistenza europea mossa «ovunque dalle stesse ragioni e dagli stessi ideali», ma questo non è che un luogo comune che coglie soltanto alcuni caratteri generali.

Sappiamo, ad esempio, che anche in Francia il movimento nazionale per la liberazione dai tedeschi ebbe caratteristiche analoghe alla nostra Resistenza. Anche in Francia protagonista principale fu la nuova classe dirigente, fu la classe operaia, furono i lavoratori. Anche là, come da noi, vi furono forze che lavorarono per impedire l'insurrezione nazionale e per il pacifico trapasso dei poteri da Pétain a De Gaulle. De Gaulle stesso ebbe piuttosto la funzione di freno, di ostacolo che non di aiuto e di impulso al movimento popolare della Resistenza.

Pierre Montauban scrive: «Privando volutamente i francesi delle armi che loro erano necessarie, De Gaulle ha facilitato i piani repressivi degli hitleriani ed i loro piani di distruzione ed ha limitato la funzione dei francesi nella guerra.»

In Italia è cosi poco conosciuta la Resistenza francese che si è persino creata una leggenda, una specie di mito sul movimento di De Gaulle durante la guerra.

S'ignora da molti che lo stato maggiore di De Gaulle a Londra fece di tutto per impedire che le formazioni partigiane popolari venissero armate. Si ignora che nell'ottobre 1941 la parola d'ordine lanciata da De Gaulle era la seguente: «La consegna che io do per i territori occupati è di non uccidere più neppure un tedesco». E nell'agosto 1944 lanciava quest'altra direttiva: «Frenate, frenate la guerriglia». Era la stessa direttiva che Alexander riteneva di poter impartire ai partigiani italiani.

È vero che in Francia l'unità, a differenza che da noi in Italia, si formò sotto l'urto degli avvenimenti, almeno inizialmente, più intorno ai «militari», ai generali che non intorno ai partiti progressivi; ma anche in Francia, senza l'apporto decisivo della classe operaia e delle masse popolari, la Resistenza sarebbe stata cosa assai più limitata e con scarse possibilità di successo.
Lo scrittore francese di parte cattolica François Mauriac loriconosce quando scrive: «Solo la classe operaia nella sua massa è rimasta fedele alla nazione». E lo storico francese Henri Michel, segretario dell'Istituto per la storia della seconda guerra mondiale, e non certo comunista, riconosce che in Francia la Resistenza propriamente detta non nacque che assai tardi rispetto alla data dell'invasione nemica e cioè assunse una consistenza particolare soltanto con la partecipazione dei comunisti, solo quando essi entrando nella Resistenza vi fecero «entrare le masse operaie, contadine e urbane».

Ma se troviamo nella Resistenza francese molte analogie con quella italiana, vi sono anche notevoli diversità che meritano di essere studiate.

Innanzi tutto in Francia - come già è stato rilevato - mancava una netta frattura che dividesse, come in Italia, i fascisti dagli antifascisti, i «patrioti» dai collaborazionisti e dai traditori. «In Francia la frattura era cosi poco netta e profonda», scrive Togliatti, «che anche nei momenti più aspri e profondi non fu sempre facile distinguere bene tra determinati gruppi che aderivano alla Resistenza ed altri che si adattavano senza sforzo al regime del maresciallo Pétain».

Per contrapposto, sembra essere stata sempre assai più marcata che non da noi la frattura nelle forze della Resistenza. Da noi vi furono senza dubbio divergenze anche profonde in seno al CLN che assunsero, in certi momenti, punte di asprezza ma mai di rottura. Anzi, con lo svilupparsi della lotta partigiana andò rafforzandosi l'unità delle formazioni partigiane e l'unità di comando.

In Francia, noi vediamo in campo De Gaulle contro Giraud con attorno ad essi prevalentemente le forze militari, e poi le forze popolari raggruppate attorno alle formazioni partigiane sorte e dirette per iniziativa dei partiti democratici d'avanguardia ed in modo particolare del partito comunista.

Questa maggior asprezza dei contrasti in seno alla Resistenza ha avuto per risultato rigurgiti di «anticomunismo» ed una più marcata debolezza del CLN.

Sono problemi che vanno approfonditi e meglio studiati. Ma poi non vi è soltanto la Resistenza francese, vi sono stati molti altri movimenti di Resistenza in Europa che devono essere studiati: il più grande e con caratteristiche proprie è quello dell'Unione Sovietica i cui partigiani agivano in stretto contatto e in collaborazione con l'esercito nazionale.

Tanto più dovrebbe essere studiata l'esperienza dell'esempio grandioso e dell'eroismo dei partigiani e del popolo sovietico in quanto esso diede uno slancio gigantesco a tutta la Resistenza europea trasformandola da lotta di piccoli gruppi, di minoranze, in guerra di popolo.

Abbiamo avuto un movimento di Resistenza di notevole importanza ai confini del nostro paese: il movimento partigiano jugoslavo. Anch'esso ha avuto caratteristiche politiche e militari proprie. Al punto che alcuni dirigenti partigiani jugoslavi, non riuscendo a comprendere la diversità della nostra situazione, ci mossero allora l'accusa di preoccuparci durante la guerra di Liberazione nazionale di organizzare e condurre soltanto degli scioperi nelle fabbriche invece di fare evacuare le città industriali e portare tutta la massa operaia in montagna tra le formazioni partigiane.

Stolta accusa che dimostra in coloro che la muovevano l'ignoranza, la non conoscenza della situazione italiana, del modo come si sviluppa la lotta delle grandi masse e dei rapporti che intercorrono tra la parte più avanzata di una classe o di un gruppo di classi e l'intera popolazione.

Noi non abbiamo mai sottovalutato l'eroismo, i sacrifici e la capacità di lotta dimostrata dal popolo jugoslavo e l'importanza dell'esempio che da esso ci veniva, ma non potevamo, né volevamo copiare meccanicamente i metodi di condotta della guerra jugoslava perché non potevamo ignorare la diversa situazione del nostro paese, politica e militare, in particolare per l'esistenza di un forte proletariato industriale.

Noi volevamo e dovevamo portare la guerriglia partigiana nelle città stesse, in mezzo alle divisioni nemiche: ovunque e con ogni mezzo dovevamo attaccare l'invasore.

Anche ammesso fosse stato possibile in Italia, ed è semplicemente assurdo il pensarlo, organizzare nella situazione di occupazione tedesca l'esodo in massa delle popolazioni delle grandi città per trasportarle in montagna e qui costituire delle forti unità partigiane, liberare zone e province, noi avremmo abbandonato nelle mani degli invasori tedeschi tutti gli impianti industriali del nostro paese. Avremmo lasciato loro strada libera, rendendoli padroni delle più importanti linee di comunicazione attraverso le quali avrebbero potuto fare transitare indisturbate le loro divisioni corazzate.

D'altra parte, questa ipotesi appartiene al regno della fantasia perché se la parola d'ordine di abbandonare le fabbriche, di evacuare le città e di raggiungere in montagna le formazioni partigiane fosse stata data, la grande massa dei lavoratori non l'avrebbe potuta seguire. Soltanto la parte più avanzata l'avrebbe accolta. I risultati sarebbero stati la separazione dell'avanguardia dalle masse e l'abbandono dei lavoratori, delle grandi città a se stessi nelle mani del nemico ed un indebolimento certo della lotta.

Diversa era la situazione della Jugoslavia, il cui territorio è privo di importanti agglomerati industriali, con scarse vie di comunicazione, ricco di montagne e foreste al centro del paese.

Fu possibile ai partigiani jugoslavi - anche per l'aiuto che poterono avere dal disarmo delle divisioni italiane che si trovavano in Jugoslavia all'8 settembre - liberare per periodi abbastanza lunghi ampi territori, ma quasi mai queste zone libere spezzavano le principali linee di comunicazione dei tedeschi.

Ma anche queste sono considerazioni - lo riconosciamo - ancora troppo superficiali e generiche e le esperienze politiche e militari del movimento partigiano jugoslavo meritano di essere ulteriormente studiate ed approfondite.

Spontaneità e organizzazione della Resistenza

Un altro tema sul quale molto deve ancora essere detto è quello della spontaneità o meno della Resistenza, anche perché, su questo come su altri temi, la polemica è ancora oggi abbastanza vivace.

L'amico on. Piero Calamandrei, ad esempio, risponde cortesemente alle nostre documentazioni tese a dimostrare che la Resistenza non è stata un movimento spontaneo, scrivendo: «...Queste stesse parole mi sono state rimproverate da chi mi ha obiettato che, mettendo in evidenza questo carattere di spontaneità che ebbe da principio la Resistenza, insurrezione morale prima che insurrezione militare, si lasciano all'oscuro i vari moventi politici e sociali di essa, preparati da un ventennio di consapevole educazione di partito, clandestinamente perseguita a prezzo di fucilazioni, di prigionie, di confini, di esili.

«Non sono di questa opinione. Sarebbe stoltezza negare che uno dei fondamenti della Resistenza è stata la lotta sociale, l'aspirazione dei sofferenti verso la giustizia sociale; e sarebbe cecità non accorgersi che l'ossatura organizzativa fu data alla Resistenza da quei partiti antifascisti che avevano resistito clandestinamente o che si erano formati sotto il fascismo, e che in quel ventennio di oppressione tennero accesa la fiamma e gettarono i semi nelle coscienze.

«Ma, d'altra parte, neppure questo carattere religioso e morale, prima che sociale e politico, della Resistenza non si potrebbe negare senza cadere in altrettanta cecità in senso opposto.

«Senza questa spontaneità di carattere morale e religioso, non si potrebbe spiegare come, all'indomani dell'8 settembre, assai prima che gli organizzatori avessero potuto prendere i primi contatti, assai prima chei partiti avessero messo in azione da regione a regione i loro fili clandestini, fossero sorti in cento luoghi d'Italia, non solo nelle città, ma nei borghi più solitari, nelle montagne, nei casali, nelle officine, nelle scuole, tra i contadini, tra gli operai, tra gli studenti, tra gli intellettuali, cento focolai di insurrezione, l'uno all'insaputa dell'altro, senza mezzi, senza avere idee chiare, senza saper bene quel che occorreva fare, ma tuttavia tutti mossi da irreprimibile volontà di fare».

Questa polemica è essa stessa la dimostrazione che vi sono dei periodi della storia delle lotte del popolo italiano che devono ancora essere studiati. Tra questi vi è tutto il periodo dei vent 'anni di lotta contro il fascismo e vi è il periodo che va dal 25 luglio all'8 settembre, il quale segnò il ritorno ad una sia pure «limitata» libertà nel quale rividero la luce i partiti, i giornali, le commissioni interne nelle fabbriche e durante il quale tornarono dalle carceri e dalle isole di confino i prigionieri del fascismo, ed in cui molti di coloro che erano stati sino allora passivamente in attesa sentirono il dovere di cominciare ad agire.

Il periodo che va dal 25 luglio all'8 settembre merita di essere attentamente studiato per comprendere quale fu il lavoro politico ed organizzativo necessario per mettere in piedi le formazioni partigiane. Questo lavoro era stato compiuto durante la dura lotta clandestina condotta per vent'anni contro il fascismo e durante l'attività svolta nei 45 giorni del governo Badoglio.

All'8 settembre, col disgregarsi dell'esercito, si formarono si spontaneamente dei gruppi e delle bande di soldati e ufficiali sbandati, ma la loro preoccupazione era quella di non lasciarsi prendere dai tedeschi, di rifugiarsi in montagna. Questa non era ancora la Resistenza.

Spontanei, in certo senso, furono la fuga di notevoli gruppi di soldati verso le montagne e il raggruppamento in bande. Ma il movimento dei partigiani combattenti non sorse spontaneamente, al contrario. All'inizio la vera ed effettiva Resistenza dovette affrontare e combattere l'ostacolo dell'attesismo ed occorsero alcuni mesi per organizzare il movimento partigiano vero e proprio e perché questo iniziasse la lotta armata contro i tedeschi ed i fascisti.

Non dobbiamo neppure dimenticare che la Resistenza, pur essendo stata il più grande movimento insurrezionale di popolo nella storia del nostro paese, ha portato alla lotta attiva, rispetto a tutta la popolazione, una minoranza di combattenti sui monti, nelle fabbriche e nei villaggi.

Senza dubbio le formazioni partigiane e gappiste poterono vivere, combattere e svilupparsi perché sostenute ed aiutate in mille modi da grande parte della popolazione.

Oggi, nello scrivere la storia della Resistenza, si deve porre attenzione a non idealizzarla, a non trasformarla in leggenda, in mito.

Oggi sembra a molti quasi naturale che allora tutti dovessero essere per la Resistenza e che nessuno più potesse prestar fede alla Repubblica di Salò.

«Ma in realtà», scrive assai opportunamente R. Battaglia, «la vittoria della Resistenza non fu cosi ovvia, non fu ottenuta diremmo cosi meccanicamente come semplice conseguenza dell'odio attiratosi dai vecchi e dai nuovi dominatori. C'è stato anzi un momento in cui le due forze contrastanti sono state in bilico, un attimo forse, ma quanto mai ricco di insidie e di pericoli.

«È il momento in cui la Repubblica di Salò, spingendo a fondo la polemica contro il governo di Badoglio, fa breccia nelle menti più sprovvedute dei giovani e riesce ad ottenere un discreto afflusso di chiamati nella prima leva delle classi 1923-,24».

A questo si era aggiunto l'arresto della marcia degli Alleati e lo svanire di conseguenza della prospettiva di una rapida liberazione. Ma anche per un altro motivo dev'essere studiato più a fondo il periodo che va dal 25 luglio all'8 settembre, per trovare cioè le ragioni della incapacità e della impotenza degli uomini che avevano assunto la dura eredità fascista, a chiamare il popolo italiano in difesa della indipendenza del paese e a opporsi alla sua occupazione da parte dei tedeschi.

Perché i grandi capi dell'esercito e coloro che se ne stavano attorno alla monarchia non trovarono altro di meglio da fare che fuggire?

Si dice che sarebbe stato impossibile impedire l'occupazione del paese da parte dei tedeschi. La cosa è assai discutibile, perché vi erano ancora in Italia cospicue forze militari che unite alle masse popolari in armi avrebbero potuto se non impedire l'occupazione di una parte del paese, per lo meno impegnare il nemico in una lotta ardua e difficile.

Certo per far questo sarebbe stato necessario fare appello alle masse popolari, armarle e chiamarle ad unirsi alle formazioni dell'esercito regolare. Ma i gruppi dirigenti del grande capitale e della monarchia avevano più paura dei lavoratori in armi che di qualsiasi altra cosa, preferirono perciò la disgregazione dell'esercito. Invece di chiamare i soldati e il popolo a difendere la patria con ogni mezzo, li invitarono a gettare le armi e aprirono le porte del paese all'invasore tedesco.

La mancata resistenza delle truppe italiane, la fuga del re della casa reale e dello stato maggiore prima a Pescara poi a Bari, la disposizione dei comandi di corpo d'armata di non opporre resistenza ai tedeschi, lo scioglimento dell'esercito sono stati il risultato di una volontà ben determinata.

Se la fuga a Pescara avesse avuto soltanto lo scopo di mettere in salvo il re ed il comando dell'esercito, si sarebbero dati alle truppe ordini precisi di resistere, si sarebbero per lo meno date disposizioni e prese misure per fare saltare le strade ferrate, i ponti, per ostruire le strade, distruggere i depositi di carburanti e materiali, rendere impraticabili le più importanti vie di comunicazione e inutilizzabili per lungo tempo gli impianti industriali più direttamente legati alla produzione bellica.

Nulla di tutto questo è stato fatto, depositi, magazzini, mezzi di trasporto, armi - tutto venne abbandonato nelle mani degli invasori.

La divergenza radicale di interessi tra le forze del grande capitale finanziario e quelle della nazione risalta chiaramente anche dalla strategia militare allora messa in atto ed è illuminata dagli avvenimenti dell'8 settembre e dalle misure allora adottate dallo stato maggiore.

Il contributo degli intellettuali alla Resistenza

Se molto è già stato scritto sull'apporto decisivo alla Resistenza da parte della classe operaia, dei contadini e dei lavoratori, poco è ancora stato detto sul contributo del mondo universitario, degli intellettuali e degli studenti. Eppure anche questo contributo fu notevole ed è certamente un tema che meriterebbe di essere studiato.

In Italia il mondo delle università non ha partecipato alla Resistenza nel modo cosi largo com'è avvenuto in Francia, tuttavia anche da noi vi ha portato un notevole contributo.

Occorre dire che in Italia pesavano sugli intellettuali vent'anni di dittatura e di corruzione fascista e non si può negare che la cosidetta alta cultura abbia avuto una parte di responsabilità politica sul prolungarsi della dittatura fascista. Ma il 25 luglio e l'8 settembre rompono l'aria stagnante dell 'immobilismo, del disorientamento e dei dubbi, scuote anche il mondo delle università e delle scuole, risveglia coloro che non avevano mai aderito al fascismo o vi avevano soltanto aderito formalmente.

Vi erano stati naturalmente degli intellettuali d'avanguardia (comunisti, socialisti, azionisti, democratici sinceri) che si erano battuti contro il fascismo ed erano finiti al tribunale speciale o al confino anche nel corso del ventennio.

Particolarmente forti questi nuclei a Napoli, a Roma, a Firenze, a Pisa, a Bologna, ecc.

Ma l'appello lanciato nel novembre 1943 dall'Università di Padova da Concetto Marchesi fu - possiamo ben dire - il vero appello di mobilitazione e indicò ai professori ed agli studenti la via da seguire. «Per la fede che vi illumina», diceva l'appello, «per lo sdegno che vi accende, non lasciate che l'oppressore disponga della vostra vita, fate risorgere i vostri battaglioni, liberate l'Italia dall'ignominia, aggiungete al labaro della vostra università la gloria di una nuova, più grande decorazione in questa battaglia suprema per la giustizia e per la pace del mondo.»

Da quel momento le università diventarono anch'esse centri cospirativi e fornirono lunghe liste di combattenti e di intellettuali, professori, assistenti e studenti fucilati, caduti in combattimento o trucidati nelle prigioni. Ricordiamo tra gli altri Giame Pintor, Giorgio Labò, Eugenio Colorni a Roma, il dottor Gianfranco Mattei del Politecnico di Milano pure fucilato a Roma, il professor Paolo Braccini dell'Università di Torino, Primo Visentin, Mario Bastia, Eugenio Curiel e tanti altri.

Non vi è università da Milano a Bologna, da Padova a Pisa, a Roma, a Palermo che non abbia dato il suo generoso contributo alla lotta ed alla guerra di Liberazione nazionale.

L'aspetto militare della Resistenza

Manca si può dire quasi completamente una storia militare della Resistenza, mancano quasi del tutto degli studi approfonditi, concreti, sul contributo effettivo apportato dai partigiani e dai patrioti alla guerra contro i tedeschi e per la sconfitta del fascismo.

Anche questo dovrebbe offrire ad ogni studioso, uomo politico o militare ampio campo per ricerche e studi.

È abbastanza diffusa l'opinione alimentata da chi ha interesse a sminuire il movimento della Resistenza che i partigiani erano si degli uomini coraggiosi, ma con scarse capacità militari e che comunque le formazioni partigiane per la loro costituzione e la loro particolarità assolsero più ad una funzione politica che militare. Questo giudizio è completamente errato. Che all'inizio ci sia stata molta inesperienza e molta improvvisazione è vero, che l'audacia abbia sopperito in molti casi alla preparazione è altrettanto certo. Questo d'altronde è avvenuto dappertutto e non solo all 'epoca nostra. «La guerra rivoluzionaria», dice Mao Tse-tung, «è fatta dal popolo, spesso essa viene intrapresa senza uno studio preliminare, ma viene studiata nel corso del suo sviluppo. Cosi la pratica è un insegnamento».

I partigiani non avevano soltanto del coraggio e dell'audacia, hanno dimostrato di aver saputo agire in modo fortemente organizzato, secondo piani ed obiettivi molto precisi.

Le azioni meglio riuscite sono state quelle preparate ed organizzate con criteri militari anche se non secondo le norme regolamentari e i vecchi schemi. «L'aspetto militare della guerra di Liberazione», ha scritto giustamente Roberto Battaglia, «sta proprio in ciò, nell'avere rotto tutti gli schemi più diffusi della scienza e dell'arte militare.»

Non che la guerra partigiana sfugga alle leggi dell'arte militare. La guerra partigiana, come ogni operazione degli eserciti regolari, è pure essa sottomessa alle leggi dell'arte e della scienza militare. Tuttavia il carattere specifico che le operazioni della guerra partigiana e dell'insurrezione nazionale comportano è sensibilmente diverso da quello di un esercito regolare.

Il valore del contributo militare dato dalla Resistenza alla Liberazione del nostro paese è stato riconosciuto dai comandi Alleati. È noto che nella parte conclusiva di un rapporto delle forze alleate dell'aprile 1945, già frequentemente citato, sulla campagna in Italia è detto: «Il contributo partigiano al salvamento della struttura economica del paese può essere considerato come il più rilevante aspetto del ruolo che i volontari della libertà svolsero in tutta la campagna italiana. Il contributo partigiano alla vittoria alleata fu assai notevole e sorpassò di gran lunga le più ottimistiche previsioni. Con la forza delle armi essi aiutarono a spezzare la potenza e il morale di un nemico di gran lunga ad essi superiore di numero; senza queste vittorie partigiane non vi sarebbe stata in Italia una vittoria alleata così rapida, così schiacciante e cosi poco dispendiosa».

Però non possiamo essere soddisfatti di affermazioni cosi generiche, anche se importanti, noi sentiamo indispensabile uno studio approfondito di carattere militare che faccia un bilancio ed una valutazione complessiva di tutte le operazioni condotte dai partigiani di ogni formazione, dai patrioti e dai gappisti. Ed anche dai soldati e dagli ufficiali.

Gli eroici episodi di Cefalonia, di Corfù, del Dodecaneso, della Tessaglia, della Macedonia, della Maddalena, di Bastia e di altre località, dove unità dell'esercito si batterono valorosamente contro i tedeschi, devono essere studiati e inseriti nella storia della Resistenza nazionale.

Si dice che i circoli militari americani avessero valutato l'apporto dei partigiani italiani equivalente a 18-20 divisioni.

I dati del CVL danno la cifra di 75-80.000 partigiani di montagna nel giugno e 100.000 nell'agosto 1944 e di circa 100.000 altri combattenti inquadrati nei GAP di città e nelle SAP di pianura nell'Italia settentrionale.

Almeno altri 20.000 partigiani sono da valutarsi nell'Italia centrale.

Non discuto la cifra delle 20 divisioni valutata dagli Alleati, non so se questa valutazione è insufficiente, ritengo però che non si possa misurare lo sforzo della Resistenza di un popolo con un numero determinato di divisioni.

La guerra di Liberazione, l'insurrezione nazionale e la Resistenza non sono state l'opera soltanto delle formazioni partigiane, ma il risultato della lotta e dell'azione di una grande parte del popolo nostro, dei lavoratori delle città e delle campagne. È impossibile - ritengo - valutare meccanicamente l'apporto di un popolo in divisioni, perché dobbiamo tenere conto non soltanto delle azioni più propriamente militari, ma delle lotte condotte nelle città e nelle campagne, degli scioperi, dei sabotaggi della produzione bellica, delle rivolte dei contadini nei villaggi, degli attacchi ai convogli tedeschi, delle truppe che il nemico è stato costretto a tenere impegnato nella Valle Padana, nei centri industriali e per effettuare i rastrellamenti.

Tutte le fonti concordano nell'elevare a 30.000 i tedeschi ed i fascisti che investirono le posizioni partigiane soltanto nel Veneto, dal Cadore all'altipiano d'Asiago. Oltre metà dell'esercito tedesco che occupava l'Italia era impegnato in azioni antipartigiane.

Lo studio dell'esperienza militare partigiana cosi diversa anche da zona a zona, da regione a regione nei suoi aspetti militari tecnici, organizzativi non è ancora stato affrontato e gli uomini della Resistenza dovrebbero impegnarsi a farlo per lo meno ognuno per la propria regione o per la propria provincia o zona.

Resistenza = lotta contro il fascismo

Un altro tema che dev'essere ancora studiato e approfondito è quello del fascismo. Perché non si può fare la storia della Resistenza senza partire dalla lotta contro il fascismo.

La Resistenza italiana cominciò molto prima che negli altri paesi d'Europa, molto prima dell'8 settembre 1943. Cominciò con la Resistenza al fascismo.

È vero che per taluni la Resistenza comincia soltanto dal 25 luglio o dall'8 settembre, da quando cioè la monarchia tentò di separare le sue responsabilità da quelle del fascismo. Per costoro era legittimo combattere il fascismo soltanto quando questo, dando vita al governo repubblicano di Salò, si pose contro le istituzioni della patria e si mise apertamente al servizio dello straniero. Coloro che cosi ragionano vedono la Resistenza quasi esclusivamente come lotta contro lo straniero e non come lotta contro il fascismo.

Ma, a nostro modo di vedere, non è lecito partire dal momento del disastro militare, dal luglio o dal settembre 1943, per fare la storia della Resistenza.

Non è vero, non soltanto perché ciò non corrisponde a realtà ma in quanto in Italia durante vent'anni vi fu sia pure condotta da piccole minoranze dell'avanguardia della classe operaia e dei lavoratori, delle forze democratiche di sinistra ed in modo particolare del partito comunista, una lotta accanita contro il fascismo. In secondo luogo perché, se si considerasse che la Resistenza comincia soltanto dal 1943, significherebbe praticamente riconoscere la legittimità del governo e del regime fascista sino al momento del disastro. Si accetterebbe, cioè, una ben strana teoria: che hanno ragione quelli che vincono. No, il regime fascista era un regime illegale e di banditismo sin dal momento in cui è sorto. Quella del fascismo fu una politica nefasta che avrebbe portato presto o tardi il paese al disastro ed alla rovina.

Contro la politica e la ideologia, se si può parlare di ideologia, del fascismo era giusto lottare sin dal momento in cui il fascismo sorse, ecco perché per noi la Resistenza comincia da allora, comincia dagli anni 1921-22 anche se naturalmente  dopo il settembre 1943 la Resistenza assunse la forma più avanzata di lotta armata e di insurrezione nazionale.

Primo e secondo Risorgimento

Infine un altro tema che gli studiosi e i volonterosi potrebbero affrontare è quello dei rapporti che intercorrono tra il primo ed il cosiddetto secondo Risorgimento.

«Questo ripete quello?», chiede Palmiro Togliatti. «Lo prolunga, lo riproduce in condizioni diverse confermando le virtù di un popolo nella rivendicazione della sua libertà politica e della indipendenza nazionale? Oppure lo corregge ponendosi e muovendosi sopra un piano diverso? Dov'è la continuità e dove la novità; dov'è la concordanza e dove il contrasto?»

Togliatti non si è limitato a porre le domande ma ci ha dato l'orientamento e le indicazioni necessarie per trovare le risposte.

La diversità fondamentale sta nel fatto che la Resistenza - il secondo Risorgimento - fu diretta da una nuova classe dirigente. La lotta per la libertà e per l'indipendenza nazionale è cosa ben diversa se la ispirano e dirigono gli uomini politici della borghesia, conservatori o liberali, com'è avvenuto durante il primo Risorgimento, oppure se la dirigono comunisti, socialisti e democratici di tendenza socialista, com'è avvenuto durante la guerra di Liberazione nazionale.

Sempre le masse popolari sono state la forza motrice della storia, ma sappiamo tutti che la loro funzione aumenta in rapporto al numero degli uomini che partecipano ad un avvenimento e soprattutto in rapporto al grado di coscienza, di consapevolezza, di organizzazione e di unità di questi uomini, al grado di comprensione dei loro interessi fondamentali.

Il carattere di massa e popolare che ebbe la lotta partigiana in Italia diede ad essa una particolare impronta progressiva e sociale che la caratterizza e distingue nettamente dal primo Risorgimento. Per quanto anche allora gli uomini del popolo abbiano scritto con le loro gesta eroiche pagine gloriose in tutte le insurrezioni e le guerre per l'indipendenza dell'Italia e specialmente nelle leggendarie imprese garibaldine, non c'è dubbio però che le masse lavoratrici e popolari furono in gran parte assenti e tenute lontane dal movimento per l'unificazione italiana e nella misura in cui furono presenti nell'azione lo furono nell'ambito di una lotta condotta sotto la guida della borghesia.

Proprio per questo il primo Risorgimento fu rachitico, stentate e limitate le sue riforme, la rivoluzione borghese finî in un compromesso e non riuscì a portare a fondo la lotta contro il feudalesimo. La borghesia italiana non seppe muovere le masse popolari, non seppe alleare a sé i contadini e i lavoratori del Nord e del Sud, ebbe sin da allora paura delle masse popolari e non vi fu di conseguenza una rivoluzione nazionale.

Caratteristiche del tutto diverse, anche dal punto di vista militare e per il diverso numero dei partecipanti, e per le condizioni diverse in cui si trovarono a lottare i patrioti, ebbero le battaglie del Risorgimento da quelle della Resistenza.

La guerra partigiana, la Resistenza, anche se considerata soltanto nella sua fase culminante dell'insurrezione armata nazionale, si sviluppò continuamente per venti mesi in tutta l'Italia occupata dallo straniero. Nessuna delle guerre del Risorgimento superò mai invece la durata di un unico ciclo stagionale.

Il Risorgimento presenta - scrive Teodolfo Tessari - un solo caso di occupazione stabile di territori da parte di bande: il Cadore nella primavera 1848 con Pietro Fortunato Calvi a capo di cinque piccoli gruppi di volontari e di valligiani.

Nessuno vuol negare che vi siano profondi elementi di contatto e di allacciamento ideale tra la Resistenza ed il Risorgimento, però le lotte del Risorgimento furono lotte prevalentemente per la cacciata dello straniero.

Elementi di carattere sociale furono senza dubbio presenti anche in alcuni movimenti più caratteristici del Risorgimento, tuttavia quegli elementi ebbero un peso del tutto secondario, la stessa epopea garibaldina ebbe proporzioni limitate se confrontate con la Resistenza.

Certo, lottando contro lo straniero ed i suoi satelliti, gli uomini del Risorgimento lottarono anche per la libertà, ma era la libertà della borghesia nei confronti dell'assolutismo e del feudalesimo. Il «popolo», il proletariato lottò allora in «qualità di borghese, nell'ambito di una lotta condotta per fini borghesi, sotto la guida borghese, contro i nemici della borghesia».

La «libertà» per la quale lottò la grande maggioranza degli uomini della Resistenza non fu la libertà per la quale lottò la borghesia contro la vecchia società feudale.

La Resistenza - è vero - non fu lotta per la rivoluzione socialista, fu però lotta per la conquista delle libertà democratiche per gli operai, per i contadini, per i lavoratori, per le classi oppresse.

Per questo il contributo principale alla Resistenza fu dato dalle forze popolari, dalle forze democratiche di sinistra, dai comunisti, dai socialisti, dagli uomini del Partito d'Azione, dagli intellettuali d'avanguardia e loro è stato in ogni paese il maggior numero di vittime, loro le gesta più leggendarie.

Non vi è alcun dubbio che la Resistenza, il cui programma era dichiaratamente politico, democratico ed antifascista (non è il caso di citare ancora una volta la famosa dichiarazione del CLNAI: Non vi sarà posto domani in Italia per una democrazia zoppa...), guidata dal CLN costituiva un movimento rivoluzionario e sociale del nostro paese.

Naturalmente a questo sbocco si opponevano e si opposero le forze anglo-americane che occupavano l'Italia, le quali diedero tutto il loro appoggio a quelle forze conservatrici e reazionarie che oggi ad ogni costo vogliono impedire l'applicazione della Costituzione repubblicana.

La Resistenza è la Costituzione repubblicana. Sino a quando la Costituzione repubblicana non sarà stata applicata in tutte le sue parti essenziali non potremo considerare realizzato il programma della Resistenza.

Sino ad oggi la Resistenza non ha realizzato i suoi obiettivi, il suo programma. Frustrati furono i suoi sforzi, i suoi ideali, noi sappiamo da quali forze interne e soprattutto straniere. Vi è anche in questo una certa analogia col Risorgimento che Antonio Labriola definì «una rivoluzione democratica non compiuta che ha lasciato il paese nella corruttela e nel pericolo permanente».

Parole che a prima vista si potrebbero ripetere oggi, ma oggi le forze democratiche e popolari, in Italia e nel mondo, hanno tale possanza che non può essere confrontata con quella di cent'anni or sono. Ma proprio per questo lo studio della Resistenza e del Risorgimento, con quanto hanno di comune e di diverso nei metodi di lotta, nei programmi, nella partecipazione delle masse e negli obiettivi raggiunti è quanto mai necessario.

L'enunciazione dei problemi e dei temi che meritano di essere studiati e approfonditi potrebbe continuare. Ma non è il caso. Sono già stato troppo lungo. E poi non è la tematica che manca, si tratta di trovare gli uomini di buona volontà e mi auguro che anche gli studiosi che si raccolgono intorno alla Fondazione Gramsci, gli storici, gli intellettuali, gli uomini della Resistenza sappiano in occasione del decennale che stiamo celebrando prendere concrete iniziative per sviluppare l'indagine storica e per fare conoscere attraverso apposite pubblicazioni non soltanto quello cha ha fatto Roma durante la guerra di Liberazione, ma che cosa ha fatto la Resistenza italiana.

Gli studi sulla Resistenza dovrebbero interessare anche coloro che hanno inclinazione e passione per lo studio del movimento operaio, perché oggi non è più possibile uno studio serio sul movimento operaio moderno che ignori o sottovaluti la Resistenza. Il fatto stesso di dedicarsi allo studio della Resistenza e del movimento operaio potrebbe essere per molti studiosi la via per uscire dall'ambiente chiuso o retrivo della cosiddetta cultura ufficiale. L'interesse degli studi sulla Resistenza è storiografico e politico. Queste due esigenze non possono andare disgiunte dalla necessaria praticità di ogni indagine storica per disinteressata ed obiettiva che essa voglia essere.

Fare conoscere che cosa è stato il fascismo e che cosa è stata la Resistenza significa agire nell'interesse della pace, della libertà e dell'indipendenza del nostro paese, significa ubbidire al comandamento che ci viene dai caduti e dai martiri della Resistenza. Ascoltiamo questo comandamento e i caduti non saranno morti invano.


Note:

*) Rapporto introduttivo al dibattito tenuto alla Fondazione Gramsci il 6 luglio 1954 sul tema Problemi e storia della Resistenza.


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