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- cultura e memoria resistenti - scienza - 09-12-11 - n. 389
da Aleksandr A. Kusin, Marx e la tecnica, Gabriele Mazzotta Editore, Milano, 1975
trascrizione a cura di Valerio e pubblicazione a cura del CCDP
Aleksandr Abramievic Kusin
Marx e la tecnica
Prefazione
dì Raffaele Rinaldi
II libro di Kusin che presentiamo ha il pregio di riprendere nei suoi termini generali l'analisi sviluppata da Marx intorno ai problemi posti dalla definizione delle forze produttive, cioè dall'analisi dello sviluppo storico della tecnica, della tecnologia, della scienza, del posto che esse occupano e del ruolo che assolvono nei diversi modi di produzione. Proprio per queste ragioni, il volume torna quindi utile, in quanto «compendio» marxiano su questi problemi, nella situazione attuale in cui scienza, tecnica e tecnologia vengono portate alla sbarra da molti pubblici ministeri che le vogliono condannate senza appello in nome di una oscura «liberazione dell'uomo». Naturalmente, il testo di Kusin fornisce solo per negativo, cioè implicitamente, una contestazione di tali posizioni antiscientifiche e sostanzialmente antimaterialistiche, sulle quali ritorneremo brevemente e solo da un punto di vista generale, dopo aver cercato di mettere a fuoco alcuni punti del pensiero di Marx che ci sembrano fondamentali.
1. Nell'Ideologia tedesca, contrapponendosi alle varie concezioni genericamente astratte e speculative dell'uomo e affermando contemporaneamente la storicità dei diversi modi di produzione della vita materiale dell'uomo, Marx comincia a formulare la differenza tra uomo e animale:
«Si possono distinguere gli uomini dagli animali per la coscienza, per la religione, per tutto ciò che si vuole; ma essi cominciarono a distinguersi dagli animali allorché cominciarono a produrre i loro mezzi di sussistenza, un progresso che è condizionato dalla loro organizzazione fisica. Producendo i loro mezzi di sussistenza, gli uomini producono indirettamente la loro stessa vita materiale.»[1]
Così il lavoro umano si differenzia dall'attività animale per il fatto che l'uomo, prima di intraprenderlo, ha ben presente il risultato del suo lavoro. Il processo lavorativo, dunque, mediante il quale l'uomo si appropria della natura, è costituito da tre elementi semplici: il lavoro, l'oggetto del lavoro e i mezzi di lavoro.
Se si prescinde dal caso particolare e accidentale «dell'afferrare mezzi di sussistenza già bell'e pronti, per esempio frutta, nel che all'uomo servono come mezzi del lavoro i soli organi del suo corpo», il rapporto tra l'uomo e la natura presuppone l'intervento di strumenti. Per dare forma al materiale e realizzare in esso il suo scopo, l'uomo deve combattere con le leggi naturali e con l'opposizione che la natura offre alla separazione degli oggetti dal loro nesso immediato. Per intervenire sulle cose, l'uomo deve inserirsi materialmente nella materialità, deve cioè attuare una trasformazione finalistica sulla base delle leggi naturali. Il lavoratore deve inserire materialmente entro le leggi naturali il proprio scopo e ciò è possibile solo attraverso l'elemento materiale dell'oggettività. Essa deve essere ridotta a veicolo dello scopo della pratica: «così lo stesso elemento naturale diventa organo della sua attività: un organo che egli aggiunge agli organi del proprio corpo, prolungando la propria statura naturale, nonostante la Bibbia. La terra non è solo la sua dispensa originaria, ma anche il suo arsenale originario di mezzi di lavoro.»[2]
L'uso dello strumento, come elemento di mediazione tra lo scopo e la sua realizzazione e come veicolo naturale del progetto tra le cose e la materialità, è caratteristica peculiare e specifica dell'uomo e quindi solo la pratica finalistica dell'uomo può frapporre fra sé e l'oggetto lo strumento: «il mezzo di lavoro è una cosa o un complesso di cose che il lavoratore inserisce fra sé e l'oggetto del lavoro, e che gli servono da conduttore della propria attività su quell'oggetto»[3] I prodotti che entrano nel processo produttivo come strumenti agiscono solo come «fattori oggettivi del lavoro vivente». Lo strumento non ha alcun senso se viene considerato indipendentemente dalla pratica che lo usa. Lo strumento realizza se stesso solo nell'orizzonte di una pratica che lo inglobi in sé come momento di mediazione; solo una pratica può realizzare il suo valore d'uso. Gli strumenti «devono essere afferrati dal lavoro vivo che li evochi dal regno dei morti, li trasformi da valori d'uso possibili soltanto, in valori d'uso reali e operanti. Lambite dal fuoco del lavoro, divenute propria parte di esso come corpi, animate per le funzioni che hanno, secondo la loro definizione e il loro compito, nel processo, certo quelle cose vengono anche consumate, ma appropriatamente, come elementi della formazione di nuovi valori d'uso, di nuovi prodotti, capaci di entrare nel consumo individuale come mezzi di sussistenza o di un nuovo processo lavorativo come mezzi di produzione.»[4]
L'evoluzione sociale da luogo a una sempre più complessa presenza degli strumenti nell'attività di produzione sino a pervenire alla macchina.
L'uomo è dunque produttore e riproduttore di se stesso non naturale-immediato (animale), ma specifico-mediato: caratteristico è infatti dell'uomo lo strumento di lavoro (cioè dell'appropriazione della natura): i mezzi di produzione. «Con gente priva di presupposti come i tedeschi», dice Marx, «dobbiamo cominciare con il constatare il primo presupposto di ogni esistenza umana, e dunque di ogni storia, il presupposto cioè che per potere «far storia» gli uomini devono essere in grado di vivere. Ma il vivere implica prima di tutto il mangiare e bere, l'abitazione, il vestire e altro ancora. La prima azione storica è dunque la creazione di mezzi per soddisfare questi bisogni, la produzione della vita materiale stessa, e questa è precisamente un'azione storica, una condizione fondamentale di qualsiasi storia, che ancora oggi, come millenni addietro, deve essere compiuta ogni giorno e ogni ora semplicemente per mantenere in vita gli uomini.»[5]
Anche la finalità del lavoro umano, il movente dell'attività materiale dell'uomo, possiede dunque una sua specificità e anche in questo caso lo specifico consiste nella mediazione: non solo e non tanto il soddisfacimento dei bisogni, ma la mediazione generata nell'attività produttiva dal soddisfacimento dei bisogni stessi; il soddisfacimento di un bisogno crea i mezzi di produzione per nuovi bisogni. La specificità umana della finalità dell'attività produttiva materiale è data dal bisogno di sempre nuovi mezzi di produzione: il fatto è che «il primo bisogno soddisfatto, l'azione del soddisfarlo e lo strumento già acquisito di questa soddisfazione portano a nuovi bisogni: e questa produzione di nuovi bisogni è la prima azione storica».[6]
«II processo lavorativo», osserva Marx, «è attività finalistica per la produzione di valori d'uso, appropriazione degli elementi naturali pei bisogni umani, condizione generale del ricambio organico fra uomo e natura, condizione naturale, eterna della vita umana; quindi è indipendente da una forma di tale vita e, anzi, è comune ugualmente a tutte le forme di società della vita umana.»[7] Nel processo lavorativo interviene dunque un dispendio di forza-lavoro umana e gli uomini, utilizzando secondo tecniche adeguate determinati mezzi di lavoro, trasformano l'oggetto di lavoro in un prodotto utile. Questa analisi mette in rilievo due aspetti essenziali: la natura materiale delle condizioni del processo lavorativo e la funzione dominante dei mezzi di produzione nel processo lavorativo.
Presupposto generale di ogni dispendio produttivo di forza-lavoro sono le condizioni materiali che, tutte, si riducono all'esistenza della natura grezza o modificata dall'attività umana. Quando Marx scrive che «in primo luogo il lavoro. è un processo che si svolge tra l’uomo e la natura, nel quale l’uomo, per mezzo della propria azione, media, regola e confronta il ricambio organico fra se stesso e la natura: contrappone se stesso, quale una fra le potenze della natura, alla materialità della natura»[8] afferma che la trasformazione della natura materiale in prodotti è dominata dalle leggi fisiche e dalla tecnica che ne è applicazione. In secondo luogo, tra gli eleménti i cui rapporti reciproci e interazioni definiscono il processo lavorativo, la funzione dominante compete ai mezzi di lavoro. È quest'ultimo elemento che permette infatti di identificare e di collocare, nel processo lavorativo comune ad ogni epoca storica, la differenza specifica che distingue le sue forme essenziali. Sono i mezzi di lavoro che determinano la forma caratteristica del processo lavorativo considerato: nel definire il modo in cui l'uomo si appropria della natura e la trasforma, essi determinano il modo di produzione e, contemporaneamente, fissano il grado di produttività del lavoro produttivo. Il concetto di modo di produzione viene così a configurarsi sulla base delle differenze qualitative dei mezzi di lavoro. Tuttavia, se da una parte «non è quel che vien fatto, ma come vien fatto, con quali mezzi di lavoro, ciò che distingue le epoche economiche», dall'altra, «i mezzi di lavoro non servono soltanto a misurare i gradi dello sviluppo della forza lavorativa umana, ma son anche indici dei rapporti sociali nel cui quadro vien compiuto il lavoro».[9]
II processo di sviluppo così delineato risponde - riassumendo - ad alcuni requisiti fondamentali: si tratta di un professo necessario, cioè determinato e progressivo: l'uomo viene immesso naturalmente in un sistema necessario di bisogni e in un sistema necessariamente sviluppatesi di nuovi mezzi di produzione; si tratta di un processo concatenato per opposizione: i nuovi mezzi di produzione entrano in scena sopprimendo i vecchi; il processo implica uno sviluppo dialettico di quantità e qualità: il processo storico della produzione materiale è un processo determinato di accrescimento quantitativo (di mezzi di produzione) con fratture qualitative che si manifestano in diverse forme di proprietà (tribale, antica, feudale, capitalistica, comunista). Si stabilisce così uno sviluppo parallelo tra forze produttive, divisione del lavoro, forme di proprietà. Questa articolazione mette subito in luce che la storia dell'uomo non può essere ridotta a storia della tecnologia, giacché la categoria fondamentale e fondante dello sviluppo storico, che cioè coglie insieme unità e specificità dello sviluppo, non consiste nel carattere tecnologico dei mezzi di produzione in quanto tali, ma nel loro inserimento determinato all'interno della divisione del lavoro: «I diversi stadi di sviluppo della divisione del lavoro sono altrettante forme diverse della proprietà; vale a dire, ciascuno stadio nuovo della divisione del lavoro determina anche i rapporti fra gli individui in relazione al materiale, allo strumento e al prodotto del lavoro.»[10]
La successione dei diversi modi di produzione, delle varie epoche economiche della struttura della società, si distingue dunque per il particolare modo in cui si uniscono lavoratori e mezzi di produzione. Però, rispetto ai modi di produzione precedenti, «la produzione capitalistica di merci diviene un modo di sfruttamento che fa epoca, il quale nel suo successivo sviluppo storico, attraverso l'organizzazione del processo lavorativo e il gigantesco sviluppo della tecnica, sovverte l'intera struttura economica della società e si lascia enormemente indietro tutte le epoche precedenti».[11] Questo carattere rivoluzionario deriva appunto dal fatto che l'industria moderna - a differenza dei modi di produzione precapitalistici nei quali lo strumento di lavoro, giunto alla sua forma adeguata, tende a irrigidirsi e passa quasi senza modificazioni da una generazione all'altra - «non considera e non tratta mai come definitiva la forma di un processo di produzione. Quindi la sua base tecnica è rivoluzionaria, mentre la base di tutti gli altri modi di produzione passata era sostanzialmente conservatrice.»[12]
2. Le trasformazioni tecniche, che segnarono la decadenza del periodo manifatturiero e gli inizi della grande industria, si compirono nella seconda metà del secolo XVIII in Inghilterra che con le conquiste coloniali si era aperta immensi mercati. L'analisi di queste trasformazioni è sviluppata da Marx nei tre capitoli di Il Capitale [13] dedicati alle forme della cooperazione nella manifattura e nella grande industria e, infine, nel passaggio dall'una all'altra che costituisce la Rivoluzione industriale. Tale sviluppo rimane però incomprensibile se non viene riferito alla definizione del processo lavorativo da un lato e, dall'altro, al capitolo dedicato a Il plusvalore assoluto e il plusvalore relativo.[14]
Il passaggio dalla manifattura alla grande industria inaugura quello che Marx chiama «modo di produzione specifico» del capitalismo o anche «sussunzione reale» del lavoro sotto il capitale. In sostanza, il processo è caratterizzato dal fatto che in un primo tempo «il capitale subordina a sé il lavoro nelle condizioni tecniche, storicamente date, in cui lo trova. Perciò non cambia immediatamente il modo di produzione. La produzione di plusvalore nella forma sin qui contemplata, mediante il semplice prolungamento della giornata lavorativa, si è presentata quindi indipendente da ogni cambiamento del modo di produzione.»[15] Mentre poi «la produzione del plusvalore relativo rivoluziona da cima a fondo i processi tecnici del lavoro e i raggruppamenti sociali. Dunque la produzione del plusvalore relativo presuppone un modo di produzione specificamente capitalistico che a sua volta sorge e viene elaborato spontaneamente, coi suoi metodi, coi suoi mezzi e le sue condizioni, solo sulla base della sussunzione formale del lavoro sotto il capitale. Al posto della sussunzione formale del lavoro sotto il capitale subentra quella reale.»[16] Dunque: il capitale come rapporto sociale, cioè la proprietà capitalistica dei mezzi di produzione, esiste prima e indipendentemente dalla sussunzione reale, cioè dalla forma specifica corrispondente al modo di produzione capitalistico.
Sia la manifattura sia la grande industria appaiono ambedue come forme della cooperazione tra i lavoratori (i produttori diretti) e questa cooperazione è possibile solo mediante la loro sottomissione al capitale che impiega tutti contemporaneamente. Sia l'una sia l'altra costituiscono dunque degli organismi produttivi nel senso che creano il «lavoratore collettivo»: il processo lavorativo, che si definisce mettendo in circolazione un prodotto finito, richiede l'intervento di diversi lavoratori raccolti sotto una organizzazione specifica. La cooperazione può essere sia semplice sia complessa. Il primo caso riguarda certe forme primitive di manifattura nelle quali si riunivano semplicemente gli artigiani nello stesso luogo. Nella cooperazione complessa, invece, i lavori dei diversi operai sono connessi tra loro. Le operazioni effettuate da ogni operaio sono tra loro complementari e solo il loro insieme da vita al prodotto finito. Questa forma di cooperazione costituisce la base della divisione manifatturiera del lavoro: un medesimo lavoro viene diviso tra gli operai.
Tuttavia, la manifattura non costituisce un elemento di rottura rispetto al mestiere: anzi, essa non fa che radicalizzarne al massimo l'elemento peculiare consistente nell'unità di forza-lavoro e mezzo di lavoro. Infatti, da una parte il mezzo di lavoro deve essere adatto all'organismo umano, dall'altra, un arnese non è più uno strumento tecnico per chi non lo sa utilizzare: il suo uso effettivo richiede quindi che l'operaio disponga di certe qualità sia fisiche sia intellettuali, di un bagaglio culturale riguardante le conoscenze dei materiali usati, degli artifici che giungono fino al segreto del mestiere. Di conseguenza, prima della Rivoluzione industriale, la tecnica (o una certa tecnica) consiste nell'unione di un mezzo di lavoro e di un operaio preparato alla sua utilizzazione da un certo iter dovuto all'apprendistato. La tecnica quindi è in queste condizioni fondamentalmente individuale anche nel caso in cui l'organizzazione del lavoro è collettiva. La manifattura conserva questa caratteristica: anzi, la spinge fino alle ultime conseguenze. Conseguenza di questa unità immediata è ciò che Marx chiama «la manodopera come principio regolatore della produzione sociale», cioè la cooperazione nella manifattura mette in rapporto gli operai tra loro ma solo attraverso la mediazione dei mezzi di produzione.
Con l'introduzione della macchina, la grande industria, sostituendo la forza umana nell'impiego di utensili e quindi eliminando il contatto diretto dell'operaio con l'oggetto di lavoro, esige una completa e radicale trasformazione del rapporto tra il lavoratore e i mezzi di produzione. Ormai, l'informazione di cui l'oggetto di lavoro era portatore non dipende più dalle caratteristiche culturalmente acquisite dalla forza-lavoro, ma si trova predeterminata nella forma degli strumenti di produzione e nel meccanismo che presiede al loro funzionamento. In tal modo, fondamento dell'organizzazione del lavoro diventa la necessità di sostituire il più possibile le operazioni compiute dalla manodopera con operazioni compiute dalla macchina. La macchina operatrice rende l'organizzazione della produzione completamente indipendente dalla forma umana di lavoro, mentre, contemporaneamente con tale separazione, mezzi di lavoro e operaio cominciano a evolversi in modi differenti. Ci troviamo di fronte a un'inversione totale del rapporto precedente: in luogo dell'adattamento degli strumenti all'organismo umano, è questo che deve adeguarsi allo strumento.
Mentre distrugge l'unità tra mezzo di lavoro e operaio, questa separazione permette la ricostituzione di una nuova unità di tipo completamente diverso: quella del mezzo di lavoro e dell'oggetto di lavoro. Così, mentre il rivoluzionamento del modo di produzione assume nella manifattura «come punto di partenza la. forza-lavoro», nella grande industria esso parte dal mezzo di lavoro. La macchina utensile, come osserva Marx, permette la formazione di uno scheletro materiale indipendente dagli operai stessi. In questa fase, un organismo produttivo non coincide più con un gruppo di operai, ma con un gruppo di macchine pronte ad essere impiegate da operai qualsiasi. E, di conseguenza, la tecnica (o una certa tecnica) è l'unione di certi oggetti di lavoro e degli strumenti di lavoro uniti gli uni agli altri mediante la conoscenza delle rispettive proprietà fisiche e di quelle del sistema da essi formato. Questa unità si esprime nella nascita della tecnologia, cioè della applicazione delle scienze della natura alle tecniche produttive.[17]
II lavoratore combinato acquista allora quella determinazione che Marx chiama «il lavoro socializzato». È impossibile spiegare la totalità delle condizioni che un processo lavorativo particolare (che comporta un prodotto di uso determinato) richiede effettivamente, senza considerarlo come un processo lavorativo parziale, elemento della produzione sociale. E specificamente occorre introdurre nella sua analisi (nell'analisi della sua divisione tecnica) il lavoro intellettuale produttore di conoscenze delle quali tale particolare processo lavorativo costituisce l'applicazione. All'interno della cooperazione vi sono lavoratori che non sono presenti in prima persona sul luogo di lavoro. Allo stesso modo, l'insieme delle officine o delle fabbriche in cui viene applicata una medesima tecnica, indipendentemente dalle ripartizioni di proprietà, tende a diventare il suo campo di applicazione e di esperienza, e costituisce ciò che Marx chiama «esperienza pratica su larga scala»: «Occorre l'esperienza dell'operaio combinato per scoprire e additare come e dove si possa economizzare, quali siano i mezzi più semplici per tradurre in realtà invenzioni già fatte, quali difficoltà pratiche sia necessario superare per realizzare la teoria - per farne cioè applicazione nel processo produttivo - e così via.» [18] Così, vediamo che l'«operaio combinato», che è in rapporto con l'unità dei mezzi di produzione, è ora un individuo completamente diverso da quello che formava, con altri mezzi di lavoro, l'unità caratteristica del lavoro artigianale-manifatturiero; allo stesso modo, la definizione del «lavoratore produttivo» ha mutato qualità: «II prodotto si trasforma in genere da prodotto immediato del produttore individuale in prodotto sociale, prodotto comune di un lavoratore complessivo, cioè di un personale da lavoro combinato, le cui membra hanno una parte più grande o più piccola nel maneggio dell'oggetto del lavoro. Quindi col carattere cooperativo del processo lavorativo si amplia necessariamente il concetto del lavoro produttivo. Ormai per lavorare produttivamente non è più necessario por mano personalmente al lavoro, è sufficiente essere organo del lavoratore complessivo e compiere una qualsiasi delle sue funzioni subordinate. La sopracitata definizione originaria del lavoro produttivo, che è dedotta dalla natura della produzione materiale stessa, rimane sempre vera per il lavoratore complessivo, considerato nel suo complesso. Ma non vale più per ogni suo membro, singolarmente preso.»[19]
3. Nella terza sezione di II Capitale, analizzando la giornata lavorativa, Marx osserva che essa è vincolata da un limite superiore ben definito da due fattori: il limite fisico della forza-lavoro e i limiti morali derivanti dal fatto che «l'operaio ha bisogno di tempo per la soddisfazione di bisogni intellettuali e sociali, la cui estensione e il cui numero sono determinati dallo stato generale della civiltà».[20]
Ora, la meccanizzazione del processo lavorativo si presenta come il mezzo più potente per aumentare la produttività del lavoro, ossia per accorciare il tempo di lavoro necessario alla produzione di una data merce. Ci troviamo qui di fronte alla tecnica e alle macchine considerate in astratto, indipendentemente cioè dalle condizioni storico-sociali entro le quali esse macchine operano. Ma, d'altro canto, in quanto supporto del capitale, esse «diventano, da principio, nelle industrie di cui si impadroniscono direttamente, il mezzo più potente per prolungare la giornata lavorativa al di là di ogni limite naturale».[21]
In un primo tempo, il prolungamento della giornata lavorativa è una possibilità contenuta nella indipendenza del movimento e dell'attività delle macchine rispetto all'operaio: possibilità che si realizzagrazie all'apparente banalità del lavoro e all'assorbimento di una forza-lavoro più docile e malleabile, cioè con l'inserimento nel processo produttivo delle donne e dei fanciulli, primo effetto fondamentale della macchina sulla classe operaia. Tuttavia, l'indipendenza della macchina presuppone una vita che non è altro che la produttività della macchina stessa: «La produttività delle macchine [...] è inversamente proporzionale alla grandezza dell'elemento costitutivo del valore da esse trasmesso al manufatto. Quanto più è lungo il periodo durante il quale esse funzionano, tanto maggiore è la massa di prodotti su cui si distribuisce il valore da esse aggiunto, e tanto minore è la parte di valore che aggiungono alla merce singola. Ma il periodo attivo di vita delle macchine è determinato evidentemente dalla durata della giornata lavorativa, ossia dalla durata del processo lavorativo giornaliero moltiplicata per il numero delle giornate in cui esso si ripete.»[22]
Viene apertamente in luce, sulla scorta delle parole stesse di Marx, l'esistenza di una netta contraddizione che deriva dalla introduzione della macchina semplice, poi dal complesso di macchine (fabbrica), poi dall'automazione ecc, da quello che, insomma, si suole chiamare sviluppo e applicazione della tecnica e della tecnologia alla produzione: da un lato la riduzione del tempo di lavoro, dall'altro il suo accrescimento. In prima istanza, il problema, astrattamente considerato, potrebbe sembrare connesso a una semplice scelta fra uso sociale e uso antisociale della macchina, o meglio fra un suo uso «razionale» e un suo uso «irrazionale». Quello che Marx sottolinea è invece il fatto che non esiste alcuna possibilità di scelta e che l'uso della macchina (e della tecnica e tecnologia che ad essa presiedono) è un uso storico, determinato dai rapporti sociali di produzione capitalistici. E sono proprio questi ultimi a far sì che l'uso «razionale» della macchina sia «irrazionale», ossia comporti il prolungamento illimitato della giornata lavorativa in quanto il fine non è l'aumento della produttività per se stessa, ma la formazione del plusvalore.
Non vi è dunque, per Marx, palesemente, identità tra processo evolutivo e progresso tecnico, tecnologico e scientifico. La macchina è il risultato concreto del processo evolutivo tecnico nel senso che i suoi germi sono contenuti nella frammentazione analitica della struttura produttiva compiuta dalla manifattura e, contemporaneamente, è tanto applicazione della tecnica e della scienza alla produzione quanto rottura dei vecchi limiti derivanti e posti alla produttività: in questo giudizio il soggetto, evidentemente, è la macchina (o meglio la struttura produttiva), soggetto che per altro Marx riconduce alla sua natura di oggetto. Al quale però non viene sostituito l'uomo in generale, ma gli uomini reali, cioè gli uomini calati nel contesto specifico dei rapporti sociali di produzione entro i quali essi si distinguono nettamente dalla macchina. Appare quindi con la massima chiarezza l'errata concezione che pone la macchina, il processo tecnico e lo sviluppo scientifico, come altrettanti soggetti dell'interpretazione del mondo capitalistico e contemporaneamente che precisa anche perché realmente la macchina, in quanto supporto del capitale, divenga soggetto e l'uomo oggetto. In tal modo, evoluzione e progresso non coincidono, ma devono essere riconsiderati non riferendoli al loro concetto, bensì ai rispettivi contenuti specifici: cioè ai loro contenuti storico-empirici. Di qui discende immediatamente che il prolungamento della giornata lavorativa, la disoccupazione tecnologica, la dequalificazione e gli altri effetti derivanti dallo sviluppo tecnico e tecnologico non rappresentano affatto carichi e fardelli che l'uomo paga per il progresso giacché questo non esiste in quanto tale, come entità per sé.
Va anche sottolineato, a questo punto, che operaio e macchina (nel rapporto che li connette) entrano tra loro in opposizione nel senso che l'esistenza economica della macchina esige il superamento dei limiti della giornata lavorativa. La prima e più appassionata lotta che si svolge tra capitale e lavoro salariato è quella che riguarda il prolungamento della giornata lavorativa per quanto attiene ai limiti fisiologici della forza-lavoro. Con l'accorciamento della giornata lavorativa, l'operaio è costretto a fornire, in un dato periodo di tempo, una maggiore quantità di lavoro: il che dipende da un canto dalla necessità di riguadagnare in intensità ciò che viene perso in estensione, dall'altro canto dalle esigenze determinate dalla vita della macchina. È, questa, la risoluzione del problema cui si accennava, nel senso che la contraddizione tra la vita della macchina e la vita dell'operaio trova og-gettivamente la forma in cui può muoversi e modificarsi. Come osserva Marx, è ovvio che il progresso della meccanizzazione e l'addestramento di nuovi operai facciano aumentare spontaneamente l'intensità del lavoro, mentre la giornata lavorativa tende a prolungarsi. Si perviene quindi, con ciò, necessariamente a un punto cruciale in cui l'estensione della giornata lavorativa e l'intensità del lavoro si escludono a vicenda. La scelta in direzione dell'intensità del lavoro è determinata dal capitale stesso. Cosicché la macchina accorcia realmente la giornata lavorativa intensificando il lavoro: ma in quanto il lavoro viene intensificato, la giornata lavorativa può essere realmente prolungata. L'esame del processo storico fuga quindi ogni dubbio circa il fatto che l'aumento del grado di intensità del lavoro reca al proprio interno, e quindi con sé, la necessità immanente di un'ulteriore diminuzione delle ore lavorative. «Da ciò», conclude Marx, «il paradosso economico che il mezzo più potente per l'accorciamento del tempo di lavoro si trasforma nel mezzo più infallibile per trasformare tutto il tempo detta vita dell'operaio e della sua famiglia in tempo di lavoro disponibile per la valorizzazione del capitale.»[23]
4. Negli ultimi quindici anni vi è stata un'ampia fioritura di tesi riguardanti le condizioni di vita della classe operaia nelle attuali condizioni dello sviluppo capitalistico. Tali tesi vertevano in larga parte sulla tematica dell'alienazione e di qui procedevano fino alla constatazione che il capitalismo, con lo sviluppo elevato della tecnica e con la subordinazione a sé della scienza, procedeva sulla strada di una lenta ma inesorabile integrazione della classe operaia nel sistema, per giungere poi (almeno negli scritti di alcuni) fino alla previsione della sua scomparsa, intesa come disgregazione e dissoluzione della coscienza di classe. Le trasformazioni avvenute a livello sociale con lo sviluppo capitalistico sarebbero così all'origine di questa perdita di coscienza, di questo «imborghesimento» della classe operaia. Il problema non era, e non è, certamente nuovo; già Engels si era trovato a riflettere su tali possibilità del sistema,[24] possibilità che Lenin aveva successivamente esplorato e messo in luce nella fase imperialistica coniando il termine «aristocrazia operaia».
Nelle tesi e nelle teorie cui si è accennato, i problemi relativi alle forze produttive, e in particolare alla tecnica e alla scienza, assumono un aspetto rilevante. Nella tecnica, nella tecnologia e nella scienza, nel loro incessante sviluppo, vengono infatti individuati gli agenti dell'oppressione delle masse: il nemico da battere non sarebbe più dunque il sistema capitalistico, la sua divisione sociale del lavoro e il suo modo di sfruttamento della classe operaia e delle altre classi; il nemico principale non sarebbe più l'ordine borghese, ma la macchina, la tecnologia, la scienza.
Vi è, intanto, un lato nuovo che consiste nel fatto che questo attacco alla tecnica e alla scienza non proviene più solo da parte reazionaria, ma anche da autori e forze considerati progressisti. Tendenze di questo tipo si erano già affacciate all'interno del movimento operaio e dell'elaborazione marxista: basta pensare ad esempio al Korsch di Marxismo e filosofia dove la critica hegeliana del senso comune, del materialismo, raffiora come critica della scienza. Tuttavia, gli aspetti che in quelle opere si presentavano come forma di reazione al piatto meccanicismo della Seconda internazionale sono stati poi ripresi in chiave irrazionalista da Heidegger, Merleau-Pohty, Marcuse ecc. Così, ad esempio, per quest'ultimo non si tratta più di società borghese, ma di «società tecnologica» nella quale la struttura capitalistica passa in secondo piano perché in essa - attraverso appunto la mediazione della tecnologia - è stata raggiunta la libertà dal bisogno, cosicché le misere condizioni di vita del proletariato e l'impoverimento relativo delle masse sono stati eliminati attraverso il grande sviluppo della produttività e dei consumi. Di qui dunque alienazione e integrazione totali delle spinte rivoluzionarie, perdita di coscienza di classe e mero permanere di lotte puramente economiche della classe.
Come si vede, per queste forme di irrazionalismo, la critica della società borghese si muta nella critica della tecnologia e della scienza, il responsabile storico non è il capitalismo ma, volta a volta, la macchina, la tecnologia, la scienza. Ma in questo caso scambiando i termini, cambia anche il prodotto; ossia, scambiando i rapporti di produzione con le forze produttive e attribuendo a queste i danni sociali derivanti da quelli, il punto d'approdo (o il porto dal quale non si è mai salpati) non può che essere quello di una forma di neoluddismo. Il quale, poi, assurgendo ora a «teoria critica della società», ora a critica della «società tecnologica» non può aspirare ad altra concezione dello sviluppo storico che si differenzi vuoi da un cupo pessimismo apocalittico, vuoi dalla rivendicazione di una concezione «ludica» dell'uomo e dei rapporti sociali.
D'altro canto sarebbe errato contrapporre a queste tendenze irrazionaliste, che proiettano i loro colori sullo schermo dell'ideologia borghese, le concezioni (anch'esse espressione dell'ideologia borghese) derivate da un astratto e illuministico razionalismo per il quale scienza e tecnologia sono unici ed esclusivi principi formatori, informatori e unificatori del mondo. È ben noto che concezioni materialistiche e concezioni dialettiche, prese separatamente, non presentano controindicazioni per il corpo dell'ideologia borghese, anzi, ne vanno ad affinare e ad accrescere le difese. Ciò che la borghesia teme è la saldatura organica tra i due aspetti, è la concezione materialistico-dialettica la quale non solo riconosce la causa del mutamento sociale nella contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione, ma osserva che «lo svolgimento delle contraddizioni di una forma storica della produzione è tuttavia l'unica via storica per la sua dissoluzione e la sua trasformazione».[25] Altra via storica non esiste anche se, naturalmente, «alcuni possono lamentarsi di questo stato di cose; altri possono desiderare di sbarazzarsi delle moderne conquiste tecniche per sbarazzarsi dei conflitti moderni».[26]
Per questi ultimi, dunque, la via della liberazione e dell'affrancamento dell'umanità dallo sfruttamento non passa attraverso un rivolgimento sociale, una rivoluzione contro il capitale e la divisione del lavoro da esso instaurata, ma contro la scienza e il suo prodotto ultimo: la tecnica, la macchina.
Certo, scienza, tecnica e tecnologia non sono «neutrali»; ma se da una parte sono per le classi al potere uno strumento di dominio e di controllo delle masse, dall'altra mantengono anche entro le condizioni imposte dal sistema un segno generale rivoluzionario. Esse sono infatti uno strumento fondamentale del processo conoscitivo e, seppure imprigionate e oppresse entro il sistema capitalistico, non perdono questa loro peculiarità che le fa entrare in contraddizione con la «prigione» capitalistica. Scienza e tecnica presentano dunque due volti: quello di essere - come già aveva visto Marx - componente potentissima nel processo di propagazione e di espansione del modo di produzione capitalistico e, contemporaneamente, prodotto storico dell'intelletto umano e quindi capace di svelare «il comportamento attivo dell'uomo verso la natura». Se scienza e tecnica posseggono dunque un carattere storicamente determinato, sincronicamente ravvisabile nel grado di sviluppo delle forze produttive peculiare di ogni modo di produzione materiale, d'altro canto, dal punto di vista diacronico esse rappresentano il cumulo delle esperienze pratiche e delle conoscenze dell'umanità: ed è proprio per questo aspetto che entra in contraddizione - perché processo infinito - con i limiti imposti dal sistema capitalistico.
Quando Mao Tse-tung si interroga sulla provenienza delle idee giuste, osserva che esse provengono dalla pratica sociale: anzi «da tre tipi di pratica sociale: la lotta per la produzione, la lotta di classe e la sperimentazione scientifica». [27] Si tratta di tre contraddizioni che non hanno termine e che sono strettamente connesse tra loro. Cosicché la via dell'affrancamento della scienza e della tecnica dal potere del capitale può avvenire solo con l'affrancamento della classe operaia, con un rivolgimento sociale e, inversamente, la classe operaia, nel perseguire quell'obiettivo, non può fare a meno della scienza proprio perché, nel processo rivoluzionario che le assegna il compito di rappresentare l'intera società, essa si assume anche l'eredità di tutta la conoscenza umana poiché solo «con l'appropriazione delle forze produttive totali da parte degli individui uniti cessa la proprietà privata».[28] All'interno di questo processo, non si tratta tanto di elaborare quella che con termini estremamente ambigui e scarsamente scientifici venne definita «scienza operaia», quanto di determinare una elaborazione della scienza e della tecnica dal punto di vista della classe operaia: il che significa poi accumulazione di tutta l'esperienza pratica dell'umanità e sua trasformazione in un nuovo mezzo dell'organizzazione del lavoro, in uno strumento della lotta sociale, in uno strumento non individuale ma collettivo.
Contro le tesi sostenute dall'irrazionalismo assume quindi importanza centrale sostenere il carattere rivoluzionario della scienza e della tecnologia anche se questo carattere sembra come messo in ombra dall'uso che il capitale ne fa. Con ciò non si tratta di limitarsi a un generico richiamo più o meno astratto ai classici del movimento operaio; si tratta invece di scendere su un terreno di scontro che per il movimento operaio è irrinunciabile, si tratta di «lottare instancabilmente contro ogni ideologia borghese, per quanto moderne e scintillanti siano le uniformi che indossa».[29]
R. R.
[1] K. Marx e F. Engels, L'ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti, 1967 , p. 8.
[2] K. Marx, Il Capitale, I, Roma, Editori Riuniti, 1964, p. 213.
[5] K. Marx, L'ideologia tedesca, cit., p. 18.
[7] K. Marx, // Capitale, I, cit., p. 218.
[10] K. Marx e F. Engels, L'ideologia tedesca, cit., p. 9.
[11] K. Marx, IlCapitale, II, Roma, Editori Riuniti, 1965, p.41.
[12] K. Marx, Il Capitale, I, cit., p. 533
[13] Cfr. K. Marx, Il Capitale, I, cit., capp. XI, XII, XIII.
[14] Cfr. ibid., capp. V e XIV.
[17] Come per l'economia che trova la sua fondazione come scienza solo nel modo di produzione capitalistico perché solo in esso l'economico si autonomizza, cosi la tecnologia assume la sua fondazione come scienza entro rapporti di produzione capitalistici: « II principio della grande industria di risolvere nei suoi elementi costitutivi ciascun processo di produzione, in sé e per sé considerato, e senza tener conto della mano dell'uomo, ha creato la modernissima scienza della tecnologia.» (Op. cit., p. 533.) Secondo autori contemporanei (Friedmann, Koyré) invece il termine va applicato come momento specifico di rottura; così, ad esempio, A. Koyré osserva che «con essa [l'elettricità] in effetti l'umanità ha lasciato il periodo tecnico della sua storia ed è entrata nel periodo tecnologico». (I filosofi e la macchina, in Dal mondo del pressappoco ali'universo della precisione, Torino, Einaudi, 1967, p. 57.) Col che, però, l'origine degli sconvolgimenti tecnici e sociali viene fatta risalire all'introduzione di nuove fonti di energia (vapore, elettricità) in sostituzione dell'uomo come motore, e non all'introduzione della macchina utensile.
[18] K. Marx, II Capitale, III, Roma, Editori Riuniti, 1965, p. 138.
[19] K. Marx, Il Capitale, I, cit., pp. 555 sg.
[24] Cfr. Engels a Marx, 7 ottobre 1858, in K. Marx e F. Engels, Carteggio, III, Roma, Editori Riuniti, 1951, p. 239.
[25] K. Marx, Il Capitale, I, cit., p. 535.
[26] K. Marx, Das englische Fabriksystem, in Werke, Berlino, 1961, Bd. 12, pp. 3 sg.
[27] Mao Tse-tung, Da dove vengono le idee giuste?, in Antologia, Milano, Ed. Oriente, 1968, p. 439.
[28] K. Marx, L'ideologia tedesca, cit., p. 65.
[29] V. I. Lenin, L’agitazione politica e il punto di vista di classe, in Opere, vol. 5, Roma, Editori Riuniti, 1958, pp. 315 sg.
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