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Introduzione alla lettura de “Il secolo corto”

Di Filippo Gaja

La rivoluzione mondiale era possibile nel 1945 ?

SENZA LA BOMBA ATOMICA IL MONDO OGGI SAREBBE SOCIALISTA

Appunti per una conferenza tenuta dall’autore martedì 4 ottobre 1994 presso il Centro Civico di Lacchiarella.

Alla metà del 1945, al termine della guerra, la rivoluzione mondiale era un fenomeno concreto, materiale, non ipotetico, riscontrabile sul terreno a occhio nudo. Quali forze ne hanno impedito il compimento ?
Questa enunciazione in genere provoca sorpresa. Si è abituati a pensare che la rivoluzione mondiale sia stata l’obiettivo delle lotte di liberazione che hanno segnato il processo di decolonizzazione a partire dagli anni 50.
Questa è stata in realtà una seconda fase innescata dalla volontà ricolonizzatrice dell’imperialismo. Il momento culminante del processo rivoluzionario che, senza condurre al socialismo universale, ha comunque sconvolto l’ordine coloniale, si ebbe nel 1945.
Poiché detta in questi termini la cosa appare molto schematica, mi sento in dovere di ampliare con poche parole il quadro entro cui va collocato il problema.
Il periodo post bellico fino al 4 ottobre 1957, data che segna la fine della supremazia atomica statunitense, è quello in cui si formano e si rivelano le forze decisive dell’evoluzione politica, economica e militare del mondo contemporaneo. Ne farò una semplice enumerazione prima di entrare nei particolari. Possiamo riassumere queste forze in sei punti:
1) Molto tempo prima che la guerra cominciasse, nel 1938, i banchieri, i finanzieri e gli industriali di Wall Street avevano già elaborato il loro programma per utilizzare l’imminente conflitto al fine di ereditare gli imperi coloniali inglese, francese, olandese, portoghese e giapponese. Il laboratorio di pensiero di Wall Street, il “Council on Foreingn Relations”, elaborò giusto nel 1938 la famosa teoria del XX° secolo come “il secolo americano”. Banchieri, finanzieri, industriali americani, non affidarono a forze esterne l’esecuzione pratica del programma di conquista del mondo, ma entrarono nel governo Roosevelt, diventando ministri e generali. Wall Street condusse la seconda guerra mondiale in proprio, come un grande affare. La guerra fu poi presentata per ottenere l’adesione delle masse come una crociata contro le dittature fasciste e per la libertà.
2) Nel corso della seconda guerra mondiale è balzata all’evidenza la gigantesca capacità di mobilitazione della forza delle masse che il socialismo contiene in sé. Nel corso della guerra l’Armata Rossa sovietica divenne la più grande forza militare del mondo, cosa che spaventò il mondo capitalista, tanto quello tedesco che quello occidentale.Il maggior motivo di preoccupazione per il grande capitale non risiedeva solo nella constatazione della potenza raggiunta dall’Armata Rossa nella Russia sovietica, ma era data soprattutto dalla possibilità che tale capacità del socialismo di agglomerare forza militare si estendesse ai popoli coloniali.
3) La rivolta contemporanea di più di 60 paesi coloniali, in Asia e in Africa, come prodotto delle contraddizioni innescate dal loro coinvolgimento nella guerra interimperialistica.
4) Momento di svolta decisivo per i destini del mondo, l’acquisizione da parte degli Stati Uniti dell’arma atomica, e l’instaurazione del terrore atomico attraverso il bombardamento de Hiroshima e Nagasaki, che diede un nuovo corso alla politica mondiale. La distruzione di Hiroshima e Nagasaki non fu operata per indurre il Giappone alla resa. I giapponesi erano già pronti alla resa. L’arma atomica aveva altri obiettivi: fu usata come forma di intimidazione verso l’Unione Sovietica per indurla ad astenersi dall’appoggiare la rivoluzione mondiale, e verso lo stesso mondo coloniale in rivolta. Il bombardamento di Hiroshima e Nagasaki doveva rendere universalmente patente che gli Stati Uniti si arrogavano il ruolo di dominatori del mondo.
5) L’arma atomica consenti in effetti l’imposizione forzata dell’egemonia statunitense al mondo intero attraverso la difesa spasmodica del monopolio nucleare americano prima, e poi, perduto questo, della supremazia nucleare degli Stati Uniti. Questa imposizione della supremazia USA fu ottenuta attraverso l’installazione di 1600 basi militari terrestri, aeree e navali; attraverso una serie infinita di interventi occulti e palesi per arrestare l’evoluzione progressista nel mondo; attraverso il soffocamento delle lotte di liberazione. Ebbe due punti di svolta centrali: la guerra di Corea e del Vietnam.
6) Infine, l’assedio del comunismo e la crociata mondiale anticomunista comunemente chiamata Guerra Fredda, in cui democrazie e nazismo si riunirono, si materializzò in una guerra di logoramento condotta con ogni mezzo politico, diplomatico, militare, che gettò il mondo in uno stato di vita artificioso e in una tensione spasmodica per quarant’anni. Questa guerra fu condotta soprattutto con mezzi spionistici e culminò con la privatizzazione della sovversione programmata con il piano della CIA denominato “Progetto Democrazia”.
Torniamo al “Secolo Corto”. Il momento centrale di questo processo è stato il periodo 1945-1957. In questi anni, lo scontro delle forze che abbiamo enumerato creò i presupposti di tutto lo sviluppo futuro. Tutto ciò che è accaduto in questi ultimi cinquant’anni, tutto ciò che accade attualmente sotto i nostri occhi, tutto ciò che potrà accadere ancora per molti decenni è stato e sarà la conseguenza diretta degli avvenimenti occorsi in questi 12 anni. Per dimostrarlo concretamente farò due esempi.
Primo esempio: la corruzione in Italia. La mostruosa rete di complicità che lega grande capitale, classe politica, mafia e camorra, frange dei servizi segreti e dei corpi militari, non è un fenomeno naturale. La classe politica italiana fu arruolata fin dal dopoguerra come un corpo omogeneo all’interno delle esigenze della strategia militare, prima strettamente statunitense e più tardi “occidentale”, e sottoposta a un rigido controllo. La mafia fu installata dagli americani come forza politica di controllo della Sicilia. Classe politica asservita e mafia hanno poi creato il grande sistema della corruzione, ma sempre al servizio di esigenze strategiche militari ineludibili. Ne “Il secolo corto” vi sono tre capitoli dedicati a questo argomento, al quale mi dedico da trent’anni.
Un secondo esempio si ravvisa nell’esplosione demografica e catastrofica che ci troviamo di fronte oggi. Per 450 anni, fino al 1950. il colonialismo aveva calmierato la crescita dei popoli coloniali, Nel 1950 eravamo 3 miliardi. Vi sono delle cifre che dovrebbero essere insegnate ai bambini delle elementari: dal XVI° secolo in poi il colonialismo europeo ha ucciso ogni secolo nelle colonie decine di milioni di asiatici, africani e latino americani. Nel ‘500 ne ha uccisi 8 milioni. Nel ‘600 24 milioni, nel ‘700 80 milioni, nell’800 40 milioni. Queste cifre sono il frutto del lavoro serio di etnologo qualificati, ma da molti sono considerate di molto inferiori alla realtà. Gli africani che si stanno risvegliando hanno intrapreso lo studio dei danni causati direttamente e indirettamente all’Africa dalla tratta degli schiavi. In quattro secoli l’Africa ha subito lo spaventoso dissanguamento di 200 milioni di figli, la distruzione di tutte le civiltà autoctone e l’annientamento di ogni capacità di sviluppo autonomo.
La rivolta dei popoli dopo il 1945 ha dischiuso la via allo sviluppo naturale delle popolazioni del Terzo Mondo, ripetendo lo sviluppo demografico che l’Europa aveva già conosciuto nel 1700. Nel 1964 gli abitanti della terra avevano raggiunto i 3.286 milioni, nel 1980 i 4.437 milioni e nel 1990 i 6 miliardi.
Il punto di partenza di questa evoluzione è l’anno 1945 e il successivo decennio. Ciò conferma che quanto accade sotto i nostri occhi ha la sua origine negli anni 1945-1957. In questo periodo si sono manifestate le forze decisive per lo sviluppo presente e futuro della società umana.
Queste forze si sono opposte fra loro e si sono combattute violentemente dando luogo a un intreccio drammatico di fatti che il più delle volte sono rimasti segreti e che solo oggi vengono strappati agli archivi consentendo una rilettura della storia.
C’è una parte del libro che non è nel libro. Ne è però la premessa necessaria. Avrebbe dovuto essere il capitolo iniziale ma è rimasto fuori per ragioni di dimensione del volume.
Per meglio comprendere traccerò un quadro della situazione coloniale qual’era nel 1939.
In Asia, in Africa e in Oceania, fatta eccezione per l’Australia la Nuova Zelanda e il Sud Africa, tutti gli altri territori erano interamente soggetti al colonialismo europeo, americano e giapponese.
La Cina era invasa dai giapponesi.
La Manciuria era occupata dai giapponesi.
La Corea era giapponese.
Il Vietnam, il Laos e la Cambogia erano sotto autorità francese.
La Birmania era britannica.
L’india (che comprendeva gli attuali Pakistan e Bangladesh) era una colonia britannica.
La Malesia era colonia inglese.
Le Filippine erano sotto dominio americano.
L’Indonesia era colonia olandese.
In Medio Oriente, la Palestina era protettorato inglese.
Il Libano era protettorato francese.
La Siria ugualmente.
L’Irak era sotto dominio inglese.
In tutto il Golfo Persico dominavano gli inglesi anche quando, come nel caso dell’Arabia Saudita, vi era una parvenza di Stato indipendente.
In Africa, l’Eritrea, l’Etiopia, la Somalia erano colonie italiane.
Il Somaliland era colonia inglese.
Il Kenia, l’Uganda, il Tanganika erano colonie portoghesi.
La Rhodesia (oggi) Zimbabwe) e lo Zambia erano colonie inglesi.
Il Madagascar era colonia belga.
Il Sudan era colonia inglese.
Sull’Egitto gravava la “protezione” britannica.
La Libia era colonia italiana.
Tunisia, Algeria e Marocco erano francesi.
Guinea francese, Mauritania, Senegal, Costa D’Avorio, Dahomei, Togo Niger e Ciad costituivano l’Africa equatoriale francese.
Sierra Leone, Ghana e Nigeria erano colonie inglesi.
La Liberia era sotto protettorato americano.
Il Cameroun, il Gabon, il Congo Brazzavile erano colonie francesi.
Su questa situazione la seconda guerra mondiale è intervenuta come una irresistibile furia sconvolgitrice.
Conviene puntualizzare schematicamente i meccanismi che, in soli sei anni, hanno innescato, dopo quattro secoli e mezzo, il processo di trasformazione dell’umanità, prima di passare a una analisi dettagliata delle diverse situazioni. Ne precisiamo tre:
1) I soldati coloniali chiamati a partecipare alla guerra antinazista proclamata come guerra per la libertà, a guerra finita rappresentarono una potente spinta alla rivolta. Avevano combattuto per la libertà e volevano la libertà.
2) I partigiani che avevano combattuta le guerre di guerriglia in Europa contro i tedeschi e in Asia contro i giapponesi, a guerra finita si trovavano le armi in mano e non si lasciarono disarmare.
3) Vi è un altro fattore, in genere ignorato dagli storici e dalla propaganda per evidenti ragioni di comodo, ma obiettivamente importante, che ha contribuito alla dinamica rivoluzionaria anticoloniale in Asia. I giapponesi avevano scatenato la guerra in Asia sulla base di una dottrina, quella dell’”area di grande prosperità” in Asia, che nascondeva la volontà di sostituire la colonizzazione giapponese a quella occidentale. A guerra perduta, in extremis, sfruttarono gli ultimi residui di autorità per consegnare il potere locale nelle mani delle borghesie indigene, proclamando i paesi indipendenti. Con ciò impressero una dinamica violenta alla ribellione contro il dominio coloniale europeo.
4) Passerò a una analisi più approfondita della importanza assunta dalla partecipazione di truppe reclutate nelle colonie alla guerra mondiale. Di per sé le cifre sono impressionanti.
Nel marzo del 1940 la Francia aveva alle armi 340.000 soldati nordafricani e 110.000 nelle altre colonie. Alla guerra sul suolo francese parteciparono 8 divisioni di truppe coloniali. Dopo il 1940 per continuare la lotta nelle colonie i francesi reclutarono altri 60.000 uomini nell’Africa orientale (Senegal, Oubangui, Cameroun) e nell’Africa equatoriale francese che furono poi impiegati sul fronte atlantico, in Provenza, in Alsazia ecc. Nella famosa divisione Leclerc i soldati coloniali erano in maggioranza rispetto agli europei. Solo nella fase iniziale della guerra, fino al momento dell’armistizio nel 1940, 24.270 soldati coloniali e 4.350 malgasci erano caduti sul campo.
L’Inghilterra fece un ricorso ancora maggiore della Francia alle truppe coloniali. Per mettere insieme un esercito per combattere contro gli italiani in Etiopia, Eritrea e Somalia, i britannici reclutarono truppe in Tanganika, in Kenia, in Uganda, nel Nyassaland e in Rhodesia.
Gli africani arruolati dagli Inglesi furono 372.000. I reggimenti coloniali esistenti nel 1939 furono rafforzati costituendo nuove unità: 3 brigate di truppe nigeriane; 2 brigate della Costa D’Avorio; 1 brigata della Sierra Leone; 1 brigata del Gambia.
Nel 1943 queste brigate formarono la ottantunesima divisione e la ottantaduesima divisione.
Dopo essere state impiegate in Africa Orientale italiana queste truppe furono impiegate su altri fronti: in Africa del nord, in Italia, poi sui fronti asiatici, in particolare in Birmania. Se poco si sa sull’insieme del problema delle truppe africane, meno ancora si sa sulle perdite che subirono. Uno dei rari dati conosciuti fa riflettere: le due divisioni composte di soldati africani impiegate in Birmania ebbero, in 5 mesi di campagna 494 morti, 1.417 feriti e 56 dispersi.
Soltanto in India gli Inglesi reclutarono e armarono 2 milioni di uomini. Gli indiani alla data dell’agosto 1945 avevano subito 180.000 fra morti e feriti. Gli indiani furono impiegati dappertutto, in Europa, in Medio Oriente,in Africa, in Asia. La quarta divisione indiana, fu impiegata in Eritrea, in Siria, in Libia, in Tunisia, in Italia e in Grecia. Nelle varie campagne perdette 25.000 uomini. In Italia 6.000 soldati indiani furono uccisi nei combattimenti contro i tedeschi. In una sola battaglia nel sud est asiatico morirono 32.000 soldati indiani.
Si può comprendere come i combattenti coloniali siano tornati con delle nuove idee alle loro case a guerra finita.
Erano stati chiamati a combattere contro tedeschi, italiani e giapponesi in nome della libertà e a guerra finita i popoli coloniali cominciarono a esigere la libertà. Non si può comprendere appieno la situazione concretizzatasi nel 1945 se non si sottolineano alcune caratteristiche.
A differenza di ogni precedente occasione di rivolta, gli oppressi erano bene armati. Avevano recuperato armi nel corso della guerra in grandi quantità; erano addestrati al combattimento moderno poiché questo addestramento gli era stato impartito dagli stessi dominatori; in più avevano acquisito per la prima volta da 450 anni esperienza di guerra e di guerriglia. Infine la cosa più importante: la lotta era ad armi pari.
Nell’insegnamento della storia, si omette in generale di mettere in evidenza che la facilità con cui gli europei si sono impadroniti del mondo nel corso dei quattro secoli e mezzo fra il 1492 e il 1945 si è basata sulla superiorità tecnologica militare: i conquistadores in America Latina avevano polvere da sparo, cannoni, archibugi, cavalli, corazze e cani da combattimento, contro cui gli indigeni erano impotenti. Oltre alle armi e al materiale bellico, l’organizzazione, l’inquadramento e la tattica hanno mantenuto la superiorità militare degli europei sugli “indigeni” per vari secoli. L’invenzione della mitragliatrice, arma divenuta operativa nel 1884 con l’ordigno messo a punto dall’inglese Hiram Maxim seguita dalla mitragliatrice di William Browning nel 1892, moltiplicò questa superiorità. Nella pratica bellica occidentale la mitragliatrice ha fatto la sua comparsa in grande stile solo nel 1914 all’inizio della prima guerra mondiale. Ma per decenni era stata usata prima sui popoli coloniali in particolare in Africa, dove i colonizzatori si sono trovati a dovere fronteggiare grandi masse. La mitragliatrice è stata l’arma che ha permesso a un numero ridotto do conquistatori di sottomettere i popoli africani. Gli Zulu, i Dervisci, gli Hereros, i Matabele e molti altri popoli subirono la superiorità delle mitragliatrici, senza le quali la British South Africa Company non avrebbe mai potuto mantenere il possesso della Rhodesia (attuale Zimbabwe) e i tedeschi del Tanganika, gli inglesi dell’Uganda ecc. Non farò qui la storia sociale della mitragliatrice come arma colonialista e imperialista in Asia e in America, che pur sarebbe un tema molto istruttivo. Mi limito a ribadire il concetto che la superiorità tecnologica militare è stata per quattro secoli e mezzo l’elemento decisivo del dominio europeo del mondo. Ma nel 1945 la situazione si è trovata radicalmente cambiata. Colonizzati in rivolta e colonialisti repressori si sono trovati con le stesse armi in mano, fucili, mitragliatrici, batzooka, bombe a mano, mine, artiglieria. Gettiamo ora uno sguardo più profondo sulla situazione in Asia. Vorrei prendere in esame caso per caso la situazione nei vari paesi di Asia e Africa quale era a metà del 1945, ciò al fine di eliminare ogni possibile dubbio sulla veridicità dell’affermazione che nel 1945 una certa “rivoluzione mondiale” era un fenomeno concreto.

L’INDIA
Prenderò le mosse dall’India. Gli avvenimenti indiani a cavallo della seconda guerra mondiale illustrano esemplarmente quale sia stato il meccanismo della trasformazione rivoluzionaria del mondo, intendendo per trasformazione rivoluzionaria il processo di disintegrazione del vecchio ordine coloniale.
Come sappiamo l’India era una colonia inglese. Il 3 settembre 1939 il viceré inglese annunziò con un breve comunicato che l’India era entrata in guerra a fianco dell’Inghilterra. Per conseguenza furono arruolati 2 milioni di sudditi indiani e mandati a combattere la guerra inglese sui vari fronti.
La partecipazione delle truppe indiane alla guerra inglese non destò che scarsa risonanza nelle masse indiane, abituate a considerare i soldati indiani inquadrati nell’esercito britannico come mercenari. Ma sul piano politico generale innescò il processo che dopo 9 anni di lotte portò allo smembramento dell’India e all’indipendenza. Infatti il Partito de Congresso di Ghandi colse puntualmente l’opportunità storica che gli si presentava. Già nel marzo 1940 i partiti indiani presero posizione contro il coinvolgimento indiano nella guerra dichiarando formalmente che l’India era stata trascinata in guerra senza essere stata consultata. Ghandi rifiutò il suo appoggio all’Inghilterra, richiese l’immediata convocazione di una Assemblea Costituente ed esigette l’indipendenza assoluta.
Il movimento nazionalista indiano aveva come massimo esponente Ghandi. Ma una parte del Movimento del Congresso passò dalla parte dei giapponesi, guidata da Chandra Bose che per tutta la durata della guerra continuò a incitare con tutti i mezzi gli indiani alla rivolta promettendo libertà all’India. Il Giappone cercò di influire sulla situazione interna indiana organizzando gli elementi indiani antinglesi riparati all’estero. Si formò, sotto gli auspici del Giappone, un esercito composto di indiani residenti in Malesia e in altre regioni sotto controllo giapponese, di prigionieri di guerra e di disertori, Dopo l’occupazione della Birmania nel marzo del 1944, i giapponesi entrarono in contatto diretto con il territorio indiano e tentarono di scagliare questo esercito raccogliticcio guidato da Bose contro l’India invadendo lo stato di Manipur. L’operazione riuscì a tagliare le comunicazioni fra il Manipur e il resto dell’India. Ma la controffensiva inglese respinse gli invasori nippo-indiani oltre la frontiera birmana.
In realtà l’India aveva una lunga tradizione di lotte contro l’occupazione inglese. Lo scontro fra colonizzatori inglesi e popolazioni indiane aveva dato luogo a decine di rivolte, guerre locali e spedizioni punitive repressive degli Inglesi a partire dal 1686, culminate nella rivolta del Bengala del 1857-1858. Fino a quella data l’India era una colonia privata di un gruppo di azionisti di una compagnia capitalistica: la “Compagnia Inglese delle Indie Orientali”. Dopo la rivolta il Bengala divenne colonia della corona britannica. Partendo dalla rivolta del Bengala, per un secolo, il nazionalismo indiano moderno come movimento intellettuale e delle classi e delle caste dirigenti era andato sviluppandosi e affermandosi e nel 1939 aveva già raggiunto la maturità.
Se la rivolta anticoloniale indiani ha avuto un corso particolare ciò dipende da due fatti. In primo luogo non avendo subito l’occupazione giapponese l’anticolonialismo indiano ha avuto un processo diverso dal resto dei paesi asiatici. Non si è prodotto quel movimento armato di liberazione contro l’occupante, unitario e politicamente caratterizzato da una prevalenza di tendenze sociali radicali, come nel resto delle rivoluzioni asiatiche. D’altra parte l’India è un paese complesso fatto di 25 Stati e 6 territori, nei quali si parlano 15 lingue ufficiali e fra le 3.000 e le 5.000n lingue e dialetti non riconosciuti. In India il peso delle religioni è enorme. L’influenza delle idee del marxismo rivoluzionario e la sua diffusione fra le masse era assai ridotta. Lo sviluppo dei partiti comunisti si è fatalmente adattato alle condizioni regionali e ne è risultato frantumato.
Ma benché la rivoluzione anticoloniale indiana abbia avuto un corso differente dalle altre asiatiche, la sottrazione dei 340 milioni dell’India al controllo diretto del colonialismo inglese ha rappresentato un fattore di indebolimento dell’impianto imperialista in Asia.
In altri paesi asiatici la situazione nel 1945 si presentava ben diversamente. In questi la caratterizzazione delle forze anticoloniali di estrazione popolare era nettamente rivoluzionaria e associava apertamente l’obiettivo della liberazione dalla schiavitù coloniale e dell’indipendenza a quello dell’uguaglianza sociale. L’obiettivo della lotta era l’espropriazione dei colonialisti e la restituzione delle risorse del paese alla sovranità popolare, come base per la costruzione del socialismo.

LA CINA
Possiamo ora analizzare separatamente le varie situazioni cominciando dalla Cina.
La lotta armata di lunga durata iniziata dai comunisti cinesi nel 1934 con la “lunga marcia”, aveva ispirazione rigidamente ideologica, marxista, e un obiettivo luminosamente esplicito: fare della Cina un paese socialista.
Fra il 1928 e il 1938 la lotta era stata diretta contro il nazionalismo reazionario del generalissimo Ciang Kai Shek (Kuomintang), emanazione del capitalismo cinese e mandatario degli interessi occidentali. L’invasione giapponesi della Cina era iniziata nel 1933 con l’occupazione della Manciuria, ma investì direttamente il territorio cinese nel luglio del 1937. I comunisti furono perciò costretti a battersi su due fronti, contro i Giapponesi e contemporaneamente, quando venivano attaccati, contro le truppe del Kuomintang. Nel corso della lotta antigiapponese il comunismo cinese ha conosciuto un formidabile sviluppo. Gli effettivi dell’Armata Rossa, che erano di 92.000 uomini nel 1937, erano diventati 475.000 nel 1944 e crebbero vorticosamente nella fase finale del conflitto. Le “Milizie del popolo”, forze rivoluzionarie ausiliarie, contavano già nel 1944 2.130.000 uomini. Erano armate in modo sommario ma avevano portato al livello dell’arte l’uso delle bombe a mano e degli esplosivi.
Inoltre i comunisti cinesi avevano formato un corpo da autodifesa chiamato “Associazione Popolare di Resistenza ai Giapponesi”, che metteva in atto forme elementari di resistenza e rudimentali azioni offensive di ogni genere (contro le trasmissioni, i trasporti, i rifornimenti nemici).
Già nel 1942 l’”Associazione” contava ben 16 milioni di uomini e donne che aumentarono ancora fino al 1945.
L’assoggettamento economico della Cina era l’obiettivo principale dell’imperialismo americano in Asia: il pezzo forte del bottino finale della guerra contro i Giapponesi, destinato a fornire uno sbocco alla produzione industriale americana. L’immenso mercato cinese avrebbe consentito uno sviluppo illimitato al capitalismo statunitense. Si comprende l’accanimento impiegato dagli americani per contrastare l’avanzata della rivoluzione cinese.
Nell’ultima fase del conflitto, quando ormai era certo che il Giappone sarebbe stato sconfitto dagli anglosassoni, Ciang Kai Shek smise di attaccare i Giapponesi e concentrò tutte le sue migliori truppe, addestrate dagli Americani, e tutto il meglio del suo armamento americano, artiglieria, aviazione e carri armati, contro l’Armata Rossa nell’inutile tentativo di arrestarla.
Quello che ho detto qui è la premessa per comprendere quando ho sviluppato ne “Il secolo corto”, che affronta il tema degli interventi americani in Cina per soffocare la rivoluzione cinese. Era talmente importante per gli Stati Uniti bloccare l’avanzata dei comunisti che giunsero a impiegare le stesse truppe Giapponesi prigioniere contro l’Armata Rossa di Mao Tse Tung. L’imperialismo yankee non riuscì ad arrestare la rivoluzione cinese. Ciò accadde perché i soldati americani si rifiutarono di partecipare nella misura che sarebbe stata necessaria alla repressione contro le masse cinesi. Nel capitolo “Riportateci a casa”, “la rivolta delle truppe USA” de “Il secolo corto” questo tema è sviluppato ampiamente. In definitiva gli americani riuscirono solo a ritardare di 4 anni la vittoria finale di Mao Tse Tung.
Prima di passare ad analizzare le altre situazioni rivoluzionarie asiatiche mi sembra necessario sottolineare un fenomeno cui ho già fatto brevemente cenno. Parlando di rivoluzione indotta dalla guerra mondiale in Asia occorre precisare un ulteriore fattore di contraddizione. Le idee correnti sulla guerra fra Giappone e Stati Uniti in Asia ci vengono generalmente dai film di Hollywood. Una fonte storica francamente insufficiente. In realtà, come ho anticipato, i Giapponesi attuarono la conquista dell’Asia nei “duecento giorni di vittorie” (ricordiamo che per completarla mancavano loro soltanto l’occupazione della Nuova Guinea e l’invasione dell’Australia). La scaturigine reale della politica giapponese verso i paesi asiatici occupati derivò dal fatto che le forze giapponesi erano insufficienti per condurre una lotta simultanea contro gli Stati Uniti e contro una rivolta generale dei paesi occupati dove erano da temere sotto controllo 400 milioni di abitanti. I Giapponesi ricorsero quindi al tentativo e di associare i popoli asiatici alla lotta contro il colonialismo occidentale, sfoderando un programma detto di “creazione di un’area di grande prosperità asiatica” dopo il rovesciamento del dominio coloniale inglese, francese, americano e olandese.
In tutta l’Asia occupata dai Giapponesi le classi indigene proprietarie produssero tendenze disposte a integrarsi nei piani giapponesi. Praticamente ovunque nei paesi asiatici occupati i Giapponesi riuscirono a mettere in piedi governi collaborazionisti sostenuti da un certo consenso di base. La propaganda giapponese puntava a dare al termine DAI TOA (grande Asia) un significato di <generosità, grandezza e armonia dei paesi dell’estremo oriente >. All’inizio del 1942 fu creato a Tokio il DAI TOA SHO, cioè il ministero della grande Asia, il cui programma immediato era di portare all’indipendenza la Birmania e le Filippine.
Se si vogliono cercare obiettivamente i fattori dialettici che hanno portato alla distruzione degli imperi coloniali in Asia occorre ammettere che il programma giapponese conteneva in sé i fermenti capaci di dare impulso ai nazionalismi in Asia, dove, occorre tenerlo presente, esistevano classi dirigenti borghesi capitalistiche mature, pronte a far proprio il potere politico.
Nei fatti, la vera opposizione ai Giapponesi è venuta in tutta l’Asia dal basso, dai contadini ansiosi di conquistare il possesso della terra, e di giustizia sociale, pronti a imbracciare le armi per sfruttare il momento della disintegrazione secolare dell’ordine coloniale.

IN MALESIA
Nel 1945 la situazione si presentava ugualmente sull’orlo di uno sbocco rivoluzionario. I Giapponesi avevano occupato la penisola di Malacca in 50 giorni nel dicembre 1941. I britannici, fatto saltare il ponte che univa l’isola di Singapore al continente, tentarono un’ultima resistenza a Singapore poi capitolarono. All’epoca la Malesia era uno Stato a composizione mista. A Singapore la popolazione era costituita da 120.000 malesi, 750.000 cinesi, oltre a 70.000 indiani e 9.000 europei. Nell’insieme della Malesia, la maggioranza era di origine malese ma con una fortissima minoranza cinese (più di un terzo degli abitanti).
La predominante etnica malese all’interno della quale i contadini poveri erano in maggioranza, fu corteggiata dai Giapponesi, nel quadro della loro politica che mirava a presentare la guerra antiamericana come una guerra di liberazione dell’Asia. La resistenza antigiapponese in Malesia fu essenzialmente condotta dalla parte di popolazione di origine cinese. I britannici stabilirono una intensa collaborazione con il “Malayan Communist Party”, che nel corso del conflitto continuò incessantemente a rafforzarsi in numero d’uomini, in armamento e in organizzazione. Quando i giapponesi abbandonarono la Malesia, i comunisti rappresentavano la forza dominante, sia nella penisola che a Singapore. Anche in Malesia la lotta anticolonialista non era un fenomeno nuovo.
Fu a partire dal 1923 che i primi militanti cinesi comunisti cominciarono a fare proseliti in Malesia e a Singapore. Nel 1926 costituirono a Singapore il sindacato generale dei Mari del Sud, che nel 1928 cambiò il proprio nome in quello di Partito Comunista dei Mari del Sud. Poi, nel 1930, formò il PC di Malesia (MCP). Immediatamente la polizia inglese ne catturò i principali capi, riducendo il partito quasi a zero. Per una curiosa beffa della storia, saranno proprio i Britannici che favoriranno la sua vera rinascita.
Nel dicembre 1941, qualche giorno prima dell’invasione giapponese, l’MCP prese la decisione di passare alla clandestinità per organizzare, sull’esempio di quando accadeva in Cina, la lotta dei contadini poveri per opporsi alle immancabili razzie di raccolti che i giapponesi operavano, secondo tradizione, sistematicamente. Poco prima della caduta di Singapore,
i comunisti, che avevano una formazione militare, furono disseminati in Malesia, per costituire l’ossatura dell’armata popolare malese antigiapponese (APMAJ). Nell’aprile 1945, il PCM proclamò in chiaro che l’obiettivo della lotta armata consisteva nella “lotta per la liberazione nazionale” e nella creazione di un “esercito di liberazione” per la costituzione di una Repubblica Democratica Popolare alla fine delle ostilità. I Britannici erano perciò coscienti di queste mire, ma decisero di assumersi un rischio calcolato sostenendo le unità di guerriglia dell’MCP che costituivano d’altronde la sola forza in grado di opporsi in Malesia agli occupanti Giapponesi. Nel dicembre 1945, dopo la resa giapponese, i guerriglieri tornarono ai loro villaggi ma rifiutarono di farsi disarmare e si organizzarono politicamente nell’Associazione dei Veterani dell’APMAJ e nella Federazione dei sindacati pan-malesi. Inoltre, circa 4.000 guerriglieri rimasero nascosti nella giungla, perfettamente armati e inquadrati. Nel 1945 la guerriglia comunista era in realtà la forza di potere decisiva in Malesia. Nel febbraio 1948 si verificò un’importante svolta con la Conferenza della Gioventù Asiatica di Calcutta. La repressione colonialista era stata scatenata in tutta l’Asia. La parola d’ordine dell’insurrezione armata fu lanciata a Calcutta e raccolta dal Partito Comunista Malese. La federazione dei sindacati pan-malesi organizzò sciopero su sciopero.
L’APMJ si trasformò nell’esercito popolare antibritannico di Malesia e in seguito, il primo febbraio 1949, in Armata Nazionale Per la Liberazione della Malesia (ANLM). Fu costituita la Lega per la Liberazione Nazionale della Malesia (LLNM). I comunisti malesi fecero ogni sforzo per unire insieme tutte le nazionalità della Malesia, ma con un successo relativo. La guerriglia antibritannica raggiunse uno sviluppo notevolissimo. 5.000 guerriglieri restarono alla macchia nella giungla a tempo pieno, e 9.000 partigiani agivano in funzione di truppe di sostegno. I 14.000 uomini erano suddivisi in reparti organici che noi tenderemmo a chiamare “brigate”. Il 95% di queste 12 “brigate” era costituito da combattenti di etnia cinese; solo la decima brigata, che agiva nella provincia di Pahang, era composta da 300 malesi musulmani. Le azioni armate dell’ANLM erano sostenute dal movimento popolare “Min Yuen”, che ne costituiva la logistica, per il rifornimento dei guerriglieri di alimenti, medicamenti e fondi, per le informazioni. Al vertice, l’ANLM, l’LLNM e il movimento popolare erano sotto il diretto controllo dei 12 membri del comitato centrale del Partito Comunista Malese. Le decisioni politiche e le direttive militare generali erano prese sotto la responsabilità dei tre membri dell’ufficio politico e dal segretario generale Chin Peng.
La tattica del PCM consistette nell’applicazione di un terrorismo senza sfumature contro i Britannici e i loro sostenitori. Gli Inglesi sfruttarono questa tattica errata per dividere Cinesi da Malesi e per alimentare nei Malesi risentimento e paura. Nell’ottobre 1951 il Comitato Centrale prese coscienza che l’insurrezione stava andando incontro alla sconfitta e decise un cambiamento di strategia. I guerriglieri si ritirarono nelle regioni montagnose mentre il movimento popolare ricevette la direttiva di agire soprattutto sul piano della propaganda.
Gli Inglesi usarono una tattica spietata e in 12 anni di lotta giunsero quasi a sterminare la guerriglia cino-malese.
Nel 1955 apparve evidente che la lotta armata era fallita e i superstiti dell’ANLM ripiegarono all’estremo sud della Thailandia.
La repressione inglese fu l’unico successo pieno ottenuto dai colonialisti occidentali in Asia e ha continuato a essere studiata come un modello di controguerriglia nelle accademie occidentali. Era basata sul principio di frantumare le unità guerrigliere, isolarle in piccoli gruppi e distruggerle con forze soverchianti.
Tutta la popolazione suscettibile di fornire aiuto alla guerriglia venne concentrata in 480 campi sorvegliati, spopolando le campagne. I lavoratori delle piantagioni furono obbligati a vivere, dopo il lavoro, in villaggi posti sotto sorveglianza militare.

LA BIRMANIA
offre un altro esempio degli inesorabili meccanismi della dialettica rivoluzionaria. Notoriamente la Birmania, paese molto ricco di risorse (legno di tek, rubini, piombo, rame, zinco, tungsteno era considerata uno dei gioielli della corona inglese, ed era governata dall’amministrazione coloniale britannica con mano di ferro.
Un’agitazione per l’indipendenza era in atto in Birmania fin dal 1931. La resistenza anti inglese era animata dagli strati intellettuali della società indigena, espressione principalmente del desiderio della borghesia birmana di strappare agli Inglesi lo sfruttamento delle ricchezze del paese. Nelle campagne i contadini erano invece in movimento per la riforma agraria. Al loro interno andavano rapidamente radicandosi i movimenti di ispirazione comunista.
Quando i Giapponesi invasero la Birmania nel 1942 non vi fu una resistenza propriamente birmana. Solo le popolazioni di frontiera, al nord, al centro me al sud, non propriamente birmane, che erano state artificiosamente annesse alla Birmania dall’amministrazione coloniale britannica, i Karen a est di Rangoon, gli Shan a nord-ovest, i Cachin e i Chin alla frontiera con l’India, opposero una accanita resistenza agli invasori giapponesi. I Birmani propriamente detti, o per meglio dire le classi abbienti birmane accettarono globalmente i vantaggi della politica di “co-prosperità” giapponese che offriva la possibilità di accedere, almeno formalmente, a una parvenza di indipendenza. Fu cosi formato anche un governo birmano filo giapponese che dichiarò guerra alla Gran Bretagna e agli Stati Uniti.
Nel maggio 1943, come ho accennato, un esercito nippo-indio-birmano penetrò per qualche decina di chilometri nel Bengala. Era un tentativo di spingere alla sollevazione gli Indiani, ma l’India non era matura per questa evenienza.
Se la politica filo giapponese trovò successo negli strati superiori della società birmana, lasciò indifferenti gli strati interiori. I contadini erano contro tutti i colonialismi, sia quello giapponese che quello inglese, poiché il colonialismo era ciò che impediva la riforma agraria.
Nel 1944 gli alleati occidentali intrapresero la riconquista della Birmania con un corpo di spedizione di 750.000 uomini composto di truppe inglesi, americane, di due divisioni cinesi nazionaliste addestrate in India, di mercenari gurka e coscritti indiani. La nuova situazione diede luogo alla nascita di un forte movimento contro l’occupazione angloamericana, che assunse tutta le caratteristiche di una guerra di liberazione nazionale. La borghesia birmana capì che era giunto il momento di approfittare delle contraddizioni interimperialistiche per ottenere l’indipendenza e i contadini compresero che occorreva costituire una forza armata popolare. Il generale Aung San, che era stato ministro della guerra nel governo birmano filo giapponese, fondò la “Lega Popolare Antifascista per la Libertà” attorno alla quale si agglomerarono successivamente tutte le forze moderate birmane. Fu poi proprio alla Lega Popolare Antifascista per la Libertà che gli Inglesi si affidarono per salvaguardare i loro interessi in Birmania, in quanto la “Lega” era la formazione più a destra di tutte quelle esistenti. Tutte le altre erano caratterizzate da programmi politici e sociali radicali. Quando, dopo il ritiro dei Giapponesi dalla Birmania, la forza d’occupazione anglo-cino-americana viene sciolta e ritirata, restarono sul terreno da una serie di forze guerrigliere organizzate per etnie, all’interno delle quali i comunisti costituivano la forza decisiva (PCB), e dall’altro la “Lega Popolare” del generale Aung San.
In ogni modo la situazione birmana era assolutamente sfuggita a qualsiasi possibilità di controllo da parte dell’impero inglese e nel settembre del 1947 Londra si rassegnò a dare alla Birmania lo statuto di Stato sovrano.
Le elezioni del 9 aprile 1947 furono boicottate dai partiti nazionalisti regionali ed etnici e comunisti, e furono perciò poco o nulla rappresentative. Gli scarsi elettori portarono al potere la “Lega Popolare Antifascista per la Libertà”, contro la quale si produsse subito una intensificazione in tutta la Birmania delle guerriglie etniche. Come detto, al loro interno, come fattore di unità e di coesione, operava il PCB, organizzato su basi politiche e ideologiche a scala nazionale.
Il generale Aung San, considerato vicino ai comunisti, fu assassinato subito dopo le elezioni e la sua sparizione aprì la strada alla trasformazione del potere centrale birmano in un regime dittatoriale militare esasperatamente anticomunista anche se mascherato sotto l’etichetta di “Governo del partito del programma socialista”. Più tardi il governo militare portò l’equivoco alle estreme conseguenze proclamando la Birmania “Repubblica socialista dell’unione birmana” volta a realizzare la “via birmana al socialismo”.
Il suo programma reale era la lotta al comunismo. I comunisti erano usciti dalla guerra come una potente forza militare e politica, avevano reparti in armi in tutto il paese, e conducevano la guerriglia in appoggio alle rivendicazioni dei contadini per la terra non solo nelle regioni periferiche, in alleanza con le guerriglie etniche, ma anche nel cuore del paese birmano e giunsero a occupare le due maggiori città birmane, Mandalay e la capitale Rangoon.
Non potrò qui fare tutta la storia della molto complessa evoluzione della situazione birmana. Il mio scopo era solo quello di evidenziare come alla fine della guerra, nel 1945, esistevano in Birmania una grande forza rinnovatrice di cui i comunisti costituivano il nerbo ed il collante. Mi limiterò a segnalare che l’azione repressiva dei militari di Rangoon ha avuto ragione della resistenza armata comunista solo nelle regioni centrali della Birmania del fiume Iravadi, del Pegu e dell’Arcan.
A distanza di decenni l’immutato governo dittatoriale di Rangoon si trova oggi a fronteggiare una quindicina di eserciti ribelli che controllano circa un terzo della Birmania. Il partito comunista in quanto tale ha un esercito di circa 10.000 uomini e controlla un territorio di circa 20.000chilometri quadrati con capitale Pangshan, nel nord-est, ai confini con la Cina. Ma i comunisti sono presenti e organizzati in tutti gli stati e in tutti gli eserciti etnici, perciò continuano a rappresentare ancor oggi il vero fattore di unità nella frammentazione regionale ed etnica. A distanza di quasi cinquant’anni la situazione in Birmania resta complessa. Sono in attività il Kachin Indipendence Army, lo Shan State Army, il Consiglio Nazionale Socialista del Nagaland alla frontiera con l’India, il fronte Rohyngyas dell’Arakan, gli eserciti delle popolazioni Wa, Palaung, Pao, Karenni e Kayan. Tutte queste rivolte sono, per lo meno formalmente, collegate nel Fronte Nazionale Democratico, alleato su un piano di uguaglianza al Partito Comunista Birmano. Soltanto il Karen National Liberation Army rifiuta l’alleanza con i comunisti per ragioni ideologiche. I Karen controllano una banda di territorio di 1.000 chilometri lungo la frontiera con la Thailandia.

LA THAILANDIA
Fa eccezione nel quadro. Sfuggita alla colonizzazione diretta occidentale la Thailandia era nel 1940 un paese retto, a partire dal 1933, da una elite aristocratica rigidamente nazionalista che fu attratta dal programma giapponese della “ grande area di prosperità” e firmò un trattato di alleanza con il Giappone, e nel gennaio 1942 dichiarò guerra alla Gran Bretagna e agli Stati Uniti. Un esercito tailandese di 90.000 uomini partecipò a fianco dei giapponesi alla conquista della Birmania. L’alleanza con i Giapponesi portò la Thailandia ad annettersi, durante la guerra, 70.000 chilometri quadrati di territorio laotiano e cambogiano, quattro province malesi, e il territorio birmano abitato dalla popolazione Shan. La Thailandia non subì l’occupazione giapponese. L’organizzazione comunista era debole. Esisteva dal 1932 un Partito Comunista del Siam, che però aveva aderenti quasi esclusivamente nella minoranza cinese. Anche se nel 1942, nel momento dell’alleanza tailandese con il Giappone, il Partito Comunista dalla clandestinità si era dichiarato aperto a tutta la popolazione Thai, i comunisti restarono sostanzialmente il partito dei cinesi. Alla fine della guerra l’elite dirigente tailandese operò un perfetto voltafaccia in senso filo occidentale, allineandosi agli interessi Inglesi e americani, sfruttando la sua preziosa posizione strategica di baluardo reazionario giusto al centro di tutta la regione in rivolta (Birmania, Malesia, Indovina). La Thailandia ufficiale passò così dal campo giapponese al campo occidentale senza subire danni. Si avrà una fase guerrigliera tailandese successiva ma sarà una estensione della guerra del Vietnam.

IL VIETNAM
La rivoluzione del Vietnam è quella su cui l’attenzione del mondo si è maggiormente fermata. Basterà ricordarla per sommi capi. Lo sviluppo della forza rivoluzionaria in Indovina può essere considerata una emanazione diretta della Rivoluzione d’Ottobre, e si può ricostruire attraverso le diverse fasi della vita del suo massimo esponente, Ho Chi Minh.
Nel 1921 Ho Chi Minh, studente in Francia, fu fra i fondatori del Partito Comunista Francese ed eletto a occuparsi delle questioni coloniali nel comitato centrale del PCF. Probabilmente, ma non è documentato, fu presente al Congresso dei Popoli d’Oriente di Baku, nell’agosto del 1920. In Francia iniziò subito la preparazione della rivoluzione anticolonialista fondando “L’Unione Intercoloniale”, come organizzazione di lotta dei popoli coloniali sottomessi alla Francia, e il giornale “Le paria”.
Nel 1933, a Mosca, assunse l’incarico di rappresentante delle masse contadine delle colonie nel Komintern. Nel 1925 raggiunse i comunisti cinesi per incarico del Komintern e a Canton fondò “L’Unione dei Popoli Oppressi dell’Asia” riunendo gli emigrati del Vietnam, della Corea, dell’Indonesia, della Malesia e dell’India che vivevano in Cina.
In Vietnam esisteva un gruppo giovanile di ispirazione rivoluzionaria: i “Cuori fraterni del Vietnam”, primo nucleo del futuro Partito Comunista anche se dall’esterno questo gruppo si presentava come nazionalista. La tattica predicata da Ho Chi Minh allo scopo di evitare la repressione era quella di mimetizzarsi e consolidarsi. In un opuscolo “La via della rivoluzione”, nel 1926, Ho Chi Minh indica come obiettivo possibile la rivoluzione dei popoli coloniali contro gli imperialisti e non la rivoluzione socialista. Quest’ultima restava un obiettivo implicito ma non espresso, il cui conseguimento era affidato alla dialettica dei fatti.
La guerra in Asia fu per i comunisti vietnamiti l’occasione per introdurre l’elemento soggettivo nella oggettività del processo storico. Nel 1940, dopo il crollo della Francia di fronte ai Tedeschi, i Giapponesi stabilirono un accordo con l’amministrazione coloniale francese, che seguiva le direttive del governo di Vichy, ottenendo il diritto di passaggio sulle strade vietnamite cambogiane e laotiane per raggiungere la Cina meridionale. Questa prima penetrazione si trasformò in un controllo totale del Vietnam. Spontaneamente un po’ in tutto il Vietnam nacquero nuclei di resistenza, che per inesperienza rischiarono di farsi sterminare da Giapponesi e Francesi uniti. Ho Chi Minh intervenne per impedire le rivolte isolate. Istituì un comando centrale, al confine con la Cina e intraprese l’organizzazione capillare della resistenza armata. Tutto veniva fatto non in nome del partito ma in nome dell’Esercito per la Liberazione della Patria”. L’esercito venne effettivamente costituito, ma evitò qualsiasi combattimento fino al 1944. Fino ad allora si limitò a raccogliere uomini ed armi e ad addestrarli. Nel 1944, quando si fece palese che i Giapponesi avrebbero perduto la guerra, Ho Chi Minh affidò a Vo Nguyen Giap il compito di organizzare una grande forza armata per la lotta decisiva contro il colonialismo. Giap creò i reparti di “propaganda armata” che si affiancarono alle “Unità per la Liberazione della Patria” e creò in ogni villaggio i “comitati di autodifesa”. Il tutto costituì l’”Esercito per la Liberazione del Vietnam”. Politicamente tutti gli elementi rivoluzionari furono raggruppati nella “Vietnam Doc Lap Dong Minh”, cioè la “Lega per l’indipendenza del Vietnam”, conosciuta come Viet Minh.
Nel corso della guerra antigiapponese l’organizzazione militare rivoluzionaria vietnamita mantenne uno stretto contatto con gli Americani. Gli osservatori del Viet Minh controllavano ogni movimento dei Giapponesi e delle forze colonialiste francesi. Una nutrita delegazione dei servizi segreti strategici USA era collocata presso il quartier generale di Ho Chi Minh, dotata di una radio potente. L’organizzazione del Viet Minh aiutò i piloti americani abbattuti ad attraversare il territorio controllato dai Giapponesi per rientrare in Cina. Di tempo in tempo le unità militari vietnamite fecero anche saltare ponti o minarono tratti di strada, su richiesta americana, per ostacolare i movimenti Giapponesi. In cambio i Vietnamiti ricevettero dagli Americani e dai Cinesi lanci di armi e di equipaggiamento.
Nel marzo del 1945 i Giapponesi attaccarono e disarmarono le guarnigioni francesi sospettate di seguire gli ordini di De Grulle e cioè degli alleati. La rivoluzione vietnamita veniva automaticamente spinta nella fase finale. Nel giugno del 1945 tutte le forze pronte al combattimento furono concentrate nelle province di Cao Bang, Bac Can, Lang Son, Thai Nguyen,
Tuyen Quang e Ha Giang. Questo territorio fu dichiarato territorio libero.
Il 24 luglio 1945, quando già il Giappone era in procinto di arrendersi, il governo di Tokio emise una dichiarazione formale proclamando l’indipendenza del Vietnam e trasferendo il potere all’imperatore Bao Dai. Dopo la seconda atomica, quella di Nagasaki, il 10 agosto la radio giapponese annunciò che il Giappone era pronto a capitolare. Lo stesso 10 agosto Ho Chi Minh fu eletto presidente del governo provvisorio del Vietnam, e venne lanciato l’ordine di insurrezione generale. Agli ordini di Nguyen Giap, comandante militare, le unità dell’esercito popolare uscirono dalle foreste ed irruppero nei territori fin li occupati da Giapponesi e Francesi impadronendosi di un grande bottino di armi e munizioni, che furono subito distribuite al popolo. Contemporaneamente le “Brigate di propaganda” promossero manifestazioni di massa ad Hanoi, nella città imperiale di Hue e a Saigon.
Il 26 agosto l’imperatore Bao Dai abdicò compiendo in modo ufficiale e solenne il gesto pubblico di consegnare il “sigillo imperiale di Stato” all’inviato del governo provvisorio di Ho Chi Minh. Fatto di grande significato poiché: a) legittimò giuridicamente il potere del nuovo governo; b) agli occhi di quella parte dei vietnamiti ancora chiusi nella tradizione confuciana, il “mandato del cielo” passò direttamente dall’imperatore ai comunisti e assicurò la legale continuità del potere statale.
Il 2 settembre infine, mentre a bordo della corazzata Missouri gli Americani ricevevano a Tokio la capitolazione giapponese, ad Hanoi Ho Chi Minh proclamava la nascita della Repubblica democratica del Viet Nam.
Il Viet Nam fu il primo paese ex coloniale che raggiunge insieme i due obiettivi, quello di scrollarsi di dosso l’oppressione coloniale, quello di raggiungere l’indipendenza come Stato e quello di porre le basi di un regime di uguaglianza sociale.
Quello vietnamita è stato un modello insuperato di strategia e di tattica rivoluzionaria.
Non entrerò nel merito di ciò che è accaduto poi: lo sbarco degli Inglesi nel sud, il ritorno dei colonialisti francesi, la prima guerra di Indovina, la sconfitta francese di Dien Bien Phu, il subentro degli Americani, la seconda guerra e la sconfitta definitiva dell’imperialismo yankee, poiché ciò fa parte della storia a tutti nota.

LE FILIPPINE
Le Filippine sono un paese con una lunga tradizione di lotta anticoloniale. Colonizzate dagli spagnoli alla fine del 1500 furono invase dagli Americani nel 1899. I filippini condussero contro l’occupazione USA una guerriglia di resistenza che durò fino al 1907.
I comunisti comparvero sulla scena filippina nel 1931, interpreti soprattutto delle esigenze dei contadini fra cui misero salde radici, e dello scarso proletariato industriale, in particolare i minatori. I Giapponesi occuparono le Filippine fra il dicembre del 1941 e l’aprile del 1942, e giocarono con la borghesia filippina la carta della “grande prosperità”.
La maggior parte della classe dirigente filippine si mostrò pronta a collocarsi nell’orbita giapponese. La resistenza antigiapponese fu esclusivamente popolare, in specie contadina, in quanto le truppe giapponesi si sostenevano con requisizioni e razzie dei raccolti e i contadini erano nella necessità di difendersi. C’era dunque una ragione materiale perché i contadini prendessero la armi contro i Giapponesi.
La resistenza popolare cominciò a prendere forma nel marzo del 1942 come movimento Huk, abbreviazione della parola “Hukhalahap”, che significa Eserciti di Liberazione. Il movimento si estese rapidamente e al termine della guerra gli Huk disponevano di una forza armata di oltre 100.000 uomini. Gli americani avevano inizialmente sostenuto gli Huks per indebolire i Giapponesi, ma si resero rapidamente conto che a guerra finita gli Huks avrebbero rappresentato un pericolo per il colonialismo. Prima ancora che la guerra finisse, nelle zone sotto loro controllo gli Huks avevano stabilito, per la prima volta nella storia filippina, delle istituzioni democratiche nei villaggi, lo sfruttamento in comune delle terre senza padrone, il sequestro dei raccolti dei proprietari feudali pro imperialisti.
Gli Americani iniziarono il doppio gioco contro gli Huks già a meta del 1944 e dopo il termine della guerra scatenarono la guerra aperta contro gli Huks che rifiutarono di lasciarsi disarmare. Una guerra che non è mai terminata, perché la guerriglia Huks, fra alti e bassi è viva ancora oggi. In conclusione nel 1945 si era formata una forza popolare nelle Filippine che era nelle condizioni di assumere il potere, cosa che, senza l’intervento americano, sarebbe inevitabilmente accaduta.
Il nazionalismo borghese filippino segui una diversa strada. Una parte legata agli interessi americani si limitò ad attendere il ritorno degli Stati Uniti. Una parte si schierò a fianco dei Giapponesi e formò un governo collaborazionista. Nell’autunno del 1944 gli Americani intrapresero la riconquista delle Filippine che fu compiuta in nove mesi. Al termine, come detto, l’amministrazione coloniale americana subito intraprese la repressione degli Huks. Fu concessa l’amnistia a coloro che avevano collaborato con i Giapponesi e fu dichiarato illegale il partito comunista.

L’INDONESIA
La lotta contro il colonizzatore olandese aveva radici antiche. Nel 1923, nel 1926 e nel 1927 si erano avuti violenti moti anticolonialisti a Giava e Sumatra.
La direzione del movimento era nelle mani del Partito Nazionalista, rappresentante delle classi proprietarie, Un movimento nato dopo la prima guerra mondiale e sviluppatosi clandestinamente fra le due guerre.Il suo leader, Suekarno, fu imprigionato dagli Olandesi e liberato dai Giapponesi nel 1942. In Indonesia i Giapponesi giocarono fino il fondo la carta dell’”area di grande prosperità”. Fin dall’inizio della loro occupazione (dicembre 1941-gennaio 1942) lasciarono una certa autonomia ai nazionalisti e pochi giorni prima della capitolazione, il 14 agosto 1945, proclamarono l’indipendenza dell’Indonesia con presidente Suekarno, con l’evidente scopo di strappare l’Indonesia alla dominazione olandese. Con le armi lasciate dai Giapponesi, il nuovo governo indonesiano armò subito un esercito di 300.00 uomini. Entità piuttosto eterogenea, con ufficiali usciti dalle scuole olandesi e altri provenienti dalle file della “resistenza” fra cui non pochi, anche se minoritari, di tendenza progressista e anche comunisti. Complessivamente l’esercito manifestò però una prevalenza di elementi anticomunisti. Non mi dilungherò nella descrizione di quello che è accaduto in seguito, che sfocerà nella tragedia del 1965 nella quale un milione di comunisti furono uccisi e il Partito Comunista distrutto. Ricorderò solo tre fatti : 1) che subito dopo la nascita della Repubblica indonesiana si presentò un problema di equilibrio fra Suekarno e i comunisti, Il partito comunista era stato fondato nel 1920 e aveva appoggiato i moti degli anni ’20. Ma nel 1927, dopo la rivolta di Suekarno, il PKI era stato oggetto di una repressione spietata da parte degli olandesi e fu schiacciato. Per molto tempo non fu in grado di esercitare un peso significativo sugli avvenimenti. Con l’occupazione giapponese dell’Indonesia i comunisti assunsero – nella clandestinità – un nuovo ruolo, mettendosi al centro di un nugolo di organizzazioni militanti anticolonialiste di varia estrazione e dando vita a una organizzazione militare comunista. Dopo la proclamazione dell’indipendenza i comunisti appoggiarono Suekarno, che poteva essere definito un nazionalista radicale. Ma il colonialismo occidentale non aveva alcuna intenzione di rinunciare alla colonia Indonesia. Già nel settembre 1945 gli Inglesi intrapresero la riconquista delle “Indie Olandesi” cominciando dal Borneo. Non incontrarono alcuna resistenza nel Borneo settentrionale, già colonia britannica, e nel Sarawak. Ma nelle sei settimane trascorse dal crollo giapponese i nazionalisti di Suekarno appoggiati dai comunisti si erano nel frattempo organizzati nominando un primo ministro socialista, un presidente simbolo dell’unità, Suekarno, strutturando il nuovo stato e rafforzando l’esercito.
Gli Inglesi temporeggiarono in attesa degli Olandesi che impiegarono due anni a concentrare le forze di 140.000 uomini per riconquistare la colonia. Partirono all’attacco nel 1947. La lotta contro gli olandesi fu il momento dell’espansione del PKI. Gli Olandesi furono alla fine obbligati a concedere l’indipendenza alla colonia indonesiana, ma l’Occidente, Americani in testa, manovrarono attivamente per rafforzare le tendenze di destra. La vicenda indonesiana è piena di insegnamenti per la sinistra. Nel 1965, i militari di destra guidati dalla CIA fecero il colpo di Stato. Il Partito Comunista indonesiano aveva in quel momento raggiunto una forza impressionante : aveva 3 milioni di iscritti al partito, 2 milioni di iscritti all’organizzazione giovanile, 1.750.000 al movimento femminile, 3.200.000 all’organizzazione sindacale, 8 milioni al Fronte Contadino. Esisteva anche un settore di sinistra dall’esercito influenzato da ufficiali di fede comunista. Ciononostante le forze reazionarie indonesiane pilotate dallo spionaggio americano finirono per prevalere. Oltre un milione di comunisti furono massacrati

TIMOR-EST
Era una colonia portoghese, la sua posizione geografica ne faceva un trampolino di lancio naturale per una eventuale invasione giapponese dall’Australia. I Giapponesi vi sbarcarono una forza di invasione di 20.000 uomini nel 1942. I Portoghesi non opposero alcuna resistenza, secondo gli ordini ricevuti da Lisbona. La popolazione, cogliendo l’occasione di indebolire il colonizzatore, si schierò unanimemente contro i Giapponesi appoggiando la piccola forza guerrigliera di 400 uomini installata a Timor-Est dagli australiani. La lotta armata antigiapponese produsse un impatto notevole sull’evoluzione politica degli abitanti di Timor-Est. I Giapponesi applicarono metodi feroci e gli abitanti di Timor-Est subirono perdite proporzionalmente disastrose: circa 60.000 morti, cioè il 13% della popolazione. Molti villaggi e paesi furono distrutti.
Dopo la resa giapponese, gli Australiani riconsegnarono Timor-Est ai Portoghesi, i quali si vendicarono sugli “indigeni” imponendo loro il lavoro forzato ed esercitando l’autorità coloniale in modo brutale. L’avvento a Giakarta del governo anticolonialista di Suekarno indusse negli abitanti di Timor-Est a dar vita a una organizzazione di resistenza che ottenne l’appoggio unanime della popolazione. Passarono però 13 anni prima che si creassero le condizioni della rivolta, che fu scatenata nel 1958, ma venne schiacciata nel sangue dei Portoghesi. Nel movimento del crollo della dittatura fascista in Portogallo nel 1974, i militari indonesiani occuparono Timor-Est facendo ripiombare questo territorio nella guerriglia, che dura ancor oggi. Gli abitanti di Timor-Est sono in guerriglia ininterrottamente da cinquantadue anni.

LA COREA
La Corea era stata sottoposta al dominio coloniale giapponese per 40 anni, a partire dal 1905.
Fu coinvolta direttamente nella guerra nel 1945 quando i Sovietici, provenendo da nord, prolungando l’avanzata dopo aver occupato la Manciuria, la presidiarono fino all’altezza del 38º parallelo, secondo gli accordi con gli alleati, mentre gli Americani, sbarcando da sud, occuparono l’altra metà fino al 38º parallelo sbarcandovi l’8 settembre 1945. La sola resistenza antigiapponese mai esistita in Corea, era stata quella comunista cui si era affiancata una resistenza democratica ispirata a varie tendenze negli ultimi mesi quando la sconfitta giapponese si delineava inevitabile.
Nella zona sovietica, il comando militare pose il governo nelle mani dei comunisti che subito distribuirono le terre ai contadini confiscandole ai proprietari giapponesi e ai coreani che avevano collaborato con i nipponici.
Gli Americani arrivarono in Corea con un presidente anticomunista già confezionato, Singhman Rhee. Lo scontro fra rivoluzione e reazione capitalista in Corea assunse subito il valore di una questione di principio, di una cardine della contesa fra est e ovest e ad esso è dedicato larga parte de “Il secolo corto” a cui rimando chi vuole approfondire l’argomento.

AFRICA E MEDIO ORIENTE
Un fenomeno analogo a quello che si è prodotto in Asia si è verificato in Africa e in Medio Oriente. Il processo di trasformazione ha seguito lo stesso iter che in Asia. La guerra mondiale ha coinvolto tutte le colonie europee in Africa.  Nella guerra di difesa della cosiddetta Africa Orientale italiana, Etiopia, Eritrea e Somalia, gli italiani armarono e gettarono nella mischia 200.000 uomini di truppe coloniali. Le contraddizioni della guerra strapparono Libia, Etiopia, Somalia ed Eritrea al dominio del colonialismo italiano e le misero sulla via dell’indipendenza.

LA LIBIA
divenne campo di battaglia per tre anni fra Inglesi e italo-tedeschi e fu occupata dagli Inglesi. Il nazionalismo libico non era una novità : una potente insurrezione contro l’occupazione italiana si era già prodotta nel 1919-1922 che aveva obbligato gli italiani a una riconquista militare durata fino al 1930 e a una repressione durissima. Durante la guerra si era formato in Egitto un corpo militare libico rafforzato da volontari arabi che operò concretamente contro le truppe italiane nel quadro dell’ottava armata inglese.
Questi combattenti antitaliani costruirono l’ossatura dell’indipendenza libica., la cui proclamazione fu peraltro laboriosa. Le compagnie petrolifere ango-franco-americane non volevano al potere rivoluzionari che nazionalizzassero il petrolio.
Praticamente tutt al’Africa fu coinvolta nella guerra.

IL MADAGASCAR
fu occupato dagli Inglesi nel maggio del 1942 con un corpo di spedizione di 10.000 uomini con il pretesto strategico di proteggere il traffico navale del canale del Mozambico. Fra il maggio e la fine di ottobre gli Inglesi liquidarono le forze francesi fedeli al regime filotedesco del maresciallo Petain. Riconsegnarono poi il Madagascar alla Francia di De Grulle. Ma nel frattempo la resistenza anticolonialista malgascia, organizzata nel Movimento Democratico del Rinnovamento Malgascio, era ormai divenuta una forza capace di condurre alla fine della guerra una interruzione generale. I francesi tentarono di soffocarla con una vera guerra di sterminio a base di massacri. I Malgasci subirono 89.000 morti.

AFRICA DEL NORD
Nell’Africa del Nord c’era già una situazione insurrezionale fra il 1942 e il 1945. Gli Americani sbarcarono in Marocco nel novembre del 1942. Già nel 1943 il nazionalismo marocchino unito nel Partito Unico dell’Indipendenza (ISTIOLAL) era in movimento per ottenere l’indipendenza. La resistenza del Marocco al colonialismo francese aveva già dato luogo a una guerra lunga e sanguinosa che era terminata solo nel 1934. La repressione francese fu durissima e il simbolo ne resta il massacro di Rabat e Fes per reprimere una sollevazione popolare antifrancese nel gennaio-febbraio 1944, seguito poi da vari altri massacri.

ALGERIA
L’8 novembre 1942 – 850 navi inglesi e americane di cui 350 da guerra sbarcarono gli alleati il Algeria e con poche azioni di guerra neutralizzarono le truppe francesi fedeli a Petain. Algeri diventò così la sede di un vero e proprio governo francese in territorio extrametropolitano, sotto la presidenza del generale Giraud e di De Gaulle. Partendo dall’Algeria i gaullisti poterono organizzare la partecipazione della Francia “libera” al fianco degli angloamericani. Come ho già detto i Francesi reclutarono un corpo di spedizione militare composto di truppe coloniali, in particolare algerine e marocchine, che fu impiegato in Italia (a Cassino e altrove). Dai graduati algerini che avevano combattuto in Italia, uscì lo stato maggiore che vincerà la guerra di liberazione antifrancese e porterò l’Algeria all’indipendenza. In Algeria l’attività indipendentista era già stata messa fuori legge nel 1939 e l’agitazione nazionalista si manifestò in modo scoperto nel maggio 1945, con manifestazioni represse con assurda durezza dalle truppe francesi. A Setif nella regione di Costantina, le manifestazioni si trasformarono in rivolta armata. Nello spazio di due mesi (maggio giugno) la repressione francese causò 45.000 morti fra gli Algerini. Questo massacro segnò l’inizio di una guerra lunga e spietata terminata con la sconfitta francese.

TUNISIA
Era attivo da lungo tempo un partito indipendentista (Neo-Destur). Dopo i moti indipendentisti di Tunisi nel 1938 era stato messo fuori legge e i suoi capi arrestati. Nel novembre 1942 tedeschi e italiani occuparono la Tunisia e l’occupazione durò fino al maggio 1943, al momento della resa finale delle truppe italo-tedeschi. In questo periodo il movimento nazionalista tunisino ebbe la possibilità di organizzarsi praticamente allo scoperto.
Dopo la rioccupazione alleata il governo francese operò una profonda e radicale epurazione nell’intento di distruggere il nazionalismo tunisino provocando una serie di rivolte tutte duramente represse. Il capo del partito Uabib Burguiba si rifugiò al Cairo.

IL SENEGAL
Che era controllato dalle forze di Vichy, fu oggetto di un fallito tentativo di riconquista da parte di un corpo di spedizione anglo-gollista appoggiato da una parte della flotta britannica con due corazzate. Gli inglesi bombardarono Dakar producendo numerose vittime ra i civili europei e africani, ma furono respinti dal fuoco dell’artiglieria costiera che danneggiò le corazzate e perdettero 19 aerei.
Nel 1942, nel momento dell’invasione dell’Africa del Nord, gli Americani imposero al governatore antigaullista Boisson di poter utilizzare Dakar come base per la loro flotta. In tal modo il Senegal e tutta l’Africa Occidentale francese (oltre al Senegal, la Guinea francese, la Costa D’Avorio, il Dahomey, il Ciad, la Mauritania e il Niger) tornarono sotto l’autorità della Francia gollista. Ma in tutti questi paesi era in atto la rivolta anticolonialista.
Le vicende della guerra avevano ormai determinato il collo della credibilità imperiale francese e distrutto il mito dell’invincibilità del colonialismo. Le popolazioni manifestavano apertamente una esigenza di indipendenza. La reazione francese si espresse sotto forma di una serie di massacri.
Il dicembre 1944, alcune centinaia di “Tirailleurs Senegalais” fucilieri senegalesi, un corpo coloniale dell’esercito francese, liberati dai campi di prigionia tedeschi, sbarcati qualche giorno prima a Dakar, si trovavano concentrati nel campo di Thiaroye. Reclamavano le paghe arretrate e la smobilitazione e organizzarono una manifestazione. L’esercito francese intervenne e aprì il fuoco uccidendone 60 e ferendone decine altri. Molti dei superstiti furono poi processati e condannati e restarono in carcere fino al 1947. Questa fu una specie di repressione preventiva, seguita da una serie di 17 altri massacri nei diversi paesi in rivolta nell’impero coloniale francese in Africa.

Anche il CONGO BELGA
fu coinvolto a sua volta nel processo evolutivo generato dalla guerra. Ma il Congo Belga era troppo importante per la strategia militare occidentale in quanto produttore dell’uranio necessario alla fabbricazione delle armi atomiche. Nel 1942 gli Stati Uniti lo presero sotto la propria tutela. Dalla lotta politica contro il colonialismo occidentale usci uno dei grandi eroi africani, PATRICE LUMUMBA; assassinato poi dalla CIA.
Il quadro della situazione rivoluzionaria nel 1945 potrebbe essere approfondito dicendo che i Francesi si trovarono la rivolta a Tahiti che peraltro aveva già una sua tradizione di guerriglia anticolonialista (1844-1846). Qui il movimento nazionalista fu galvanizzato dal ritorno di 300 veterani tacitiani dalla guerra mondiale.
Analogamente, i soldati indigeni (kanaki) della Nuova Caledonia usati dall’esercito francese su vari fronti, smobilitati e rimpatriati, si organizzarono per la protesta. Tornando ai loro campi e ai loro villaggi, constatarono che le loro famiglie erano rimaste senza assistenza nei sei anni della loro assenza. Reclamarono giustizia, uguaglianza e socialismo e diedero vita a una resistenza anche armata, in atto ancora oggi.

MEDIO ORIENTE, GOLFO PERSICO, BALCANI E SPAGNA
Resta da analizzare brevemente la situazione rivoluzionaria in Medio Oriente e nel Golfo Persico, nei Balcani e in Spagna.
Per ciò che riguarda i Balcani ricorderò solo che nel 1945 nacquero due repubbliche socialiste, prodotto della resistenza armata popolare contro il nazismo e il fascismo: quella di Jugoslavia e quella di Albania. Furono le prime due repubbliche socialiste europee di una potenziale, ipotizzabile Europa socialista.
Questo argomento è da me trattato diffusamente ne “Il secolo corto”. Voglio sottolineare solo il fatto che sia in Albania che in Jugoslavia la resistenza antitedesca guidata dai comunisti giunse alla vittoria nel 1945 senza alcun aiuto esterno. Avremmo avuto una terza repubblica socialista in Grecia senza l’intervento diretto dell’esercito inglese prima, nel 1945, e di quello americano poi, giacché i partigiani, all’interno dei quali i comunisti erano la maggioranza, detenevano il controllo del territorio al momento del ritiro tedesco.
Potrebbe sembrare una fantasia, un eccesso di inguaribile ottimismo introdurre la Spagna nel novero delle nazioni che avrebbero potuto conquistare il socialismo nel 1944-1945, essendo allora la Spagna dominata dal fascismo del generalissimo Franco. Ma non è così. La storia spagnola è quella su cui più brutalmente si è scatenata la volontà di occultare, nascondere, deformare, stravolgere, falsificare della cultura borghese e dei suoi mercenari intellettuali. In realtà nel 1945 in Spagna si era concentrata e condensata una forza esplosiva rivoluzionaria che un nonnulla avrebbe potuto far deflagrare e che sarebbe inevitabilmente esplosa se un concorso straordinario di forze internazionali unite in un complotto tanto immane quanto mostruoso a danno del popolo spagnolo non avesse soffocato il movimento.
Non credo che si possa vivere lucidamente senza conoscere la vera storia della Spagna repubblicana. Ciò almeno per una ragione: che questa storia illustra spietatamente qual è la vera natura della destra europea e del democraticismo liberale.
Potete lasciar perdere tutto il resto ma questa lezione dovete studiarla e impararla perché niente è cambiato da allora: la destra e la falsa democrazia sono rimaste inalteratamente quelle dal 1936 al 1989.
La seconda guerra mondiale non è cominciata in Polonia bel 1939, come pretende la storiografia convenzionale. Ma in Spagna nel 1936. L’eroica resistenza dei repubblicani spagnoli fra il 1939 e il 1939 ha deciso la seconda guerra mondiale in Europa prima ancora che questa cominciasse, in quanto lasciò i fascisti spagnoli talmente stremati da rendere impossibile la loro partecipazione alla guerra a fianco di Hitler e Mussolini. Ciò impedì che i Tedeschi potessero impadronirsi di Gibilterra. Se Gibilterra fosse caduta in mano tedesca il Mediterraneo sarebbe stato chiuso alle flotte inglese e americana e la guerra nel Mediterraneo avrebbe avuto un corso diverso.
Questo è solo uno degli aspetti.
Il carattere feroce del fascismo spagnolo, l’ipocrisia delle democrazie occidentali nel soffocare la Repubblica, il ruolo delle Brigate Internazionali come matrice della resistenza in Europa, Il modo in cui gli angloamericani fanno tenuto in piedi Franco fino all’abbraccio finale fra Franco e Eisenhower. Tutto questo è descritto ampiamente nel mio libro e non avrebbe ragione che mi dilungassi qui a ripetere quanto ho scritto. La lettura del lungo capitolo che ho dedicato alla Spagna ne “Il secolo Corto” potrà convincere che ascolta che la Spagna era una polveriera rivoluzionaria nel 1945.

LIBANO E SIRIA
La Francia aveva occupato il Libano come eredità dello smembramento dell’impero turco nel 1919. ma i Francesi si erano scontrati subito con il nascente nazionalismo arabo. Ne era nata una vera guerra. Solo nel periodo 1919-1920 le truppe d’occupazione francesi subirono 6.000 morti e feriti. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, data la delicatezza della posizione strategica del Medio Oriente, gli alleati dichiararono l’indipendenza del Libano con la limitazione che si assumeva la “difesa” del paese per la durata della guerra. Era implicita la promessa dell’indipendenza. Già nel 1943 i libanesi erano in armi contro gli occupanti francesi. Nel maggio 1945, lo sbarco di nuove truppe francesi portò alla insurrezione armata. Si produsse un conflitto sanguinoso con centinaia di morti, bombardamenti aerei e di artiglieria. I Francesi dovettero infine piegarsi e abbandonare il levante. Nel 1945 c’era dunque una rivoluzione armata in Libano e in Siria.

In IRAK
erano invece gli Inglesi che dal dopoguerra 1914-1914 “proteggevano” le zone petrolifere gestite dall’Anglo-Iranian Oil Company. L’Irak era stato conquistato dagli Inglesi nel corso di questa guerra con un corpo di spedizione formato in gran parte da truppe coloniali. Ma esistevano un nazionalismo iracheno risultato della lotta contro la dominazione turca. Nel maggio 1920, all’annuncio che gli Inglesi avevano ottenuto dalla Società delle Nazioni il mandato, l’Irak per sfida si proclamò indipendente. Iniziò una guerriglia che fu soffocata con 30.000 soldati indiani e l’uso di gas asfissianti (9.000 morti fra gli iracheni, 2.000 fra gli inglesi.)
Il nazionalismo iracheno restò tuttavia attivo, Nel 1941, allo scoppio della seconda guerra mondiale, elementi antibritannici presero il potere a Baghdad e gli Inglesi concentrarono truppe a Bassora. La resistenza nazionalista fu vinta e le forze britanniche ripresero il controllo di tutto il paese stabilendo basi aeree e navali e presidi terresti.
Alla fine della guerra, con il graduale ritiro delle truppe britanniche, l’agitazione nazionalista riprese in grande stile. L’Irak nel 1945 si trovava anch’esso in una situazione rivoluzionaria, che condusse più tardi gli Inglesi al ritiro definitivo.
La situazione del Medio Oriente e del Golfo Persico non è riassumibile così schematicamente. Ho trattato questo argomento nel libro “Le frontiere maledette del Medio Oriente”, che affronta l’analisi di molteplici situazioni : Palestina, Kuwai, Iran, Arabia Saudita, Yemen.
Nel 1945 esisteva una situazione rivoluzionaria anche in Kurdistan e nel nord dell’Iran. Nel 1941 l’Iran fu occupato contemporaneamente da forze angloamericane e sovietiche. La nuova situazione consentì un rapido sviluppo del partito comunista Tudeh, che significa massa, nato nel 1920 e costretto sempre ad agire in clandestinità.
Le forze d’occupazione sovietiche favorirono l’organizzazione di forza autonomista e progressiste nell’Azerbajgian iraniano, nel Nord dell’Iran e nel Kurdistan iraniano, dove si formarono due repubbliche autonome. Ma nel 1946 i due movimenti rivoluzionari subirono una dura repressione. L’influenza inglese (che era collegata al monopolio dell’Anglo-Iranian Oil Company) sul petrolio iraniano venne decisamente sostituita da quella americana.
Credo che questo breve sguardo gettato sul 1945 dimostri che alla fine della seconda guerra mondiale un fenomeno rivoluzionario era in atto contemporaneamente in tutti i paesi soggetti al dominio coloniale, e che la spinta rivoluzionaria si estendeva nei Balcani e si presentava in Spagna.

E SE GLI STATI UNITI NON AVESSERO AVUTO LA BOMBA ATOMICA ?
Fu legittimo chiedersi che cosa sarebbe accaduto se gli Stati Uniti non avessero avuto la bomba atomica e se fossero stati costretti a programmare, assieme agli ex paesi colonialisti, la ricolonizzazione dell’Asia e dell’Africa con i soli mezzi convenzionali.
Gli Stati uniti hanno potuto gravare sulla testa dei Popoli l’ipotesi dell’Uso dell’arma atomica fin dal giorni immediatamente successivi a Hiroschima e Nagasaki. L’ arma atomica ha funzionato come elemento di dissuasione nei confronti delle classi possidenti dei paesi coloniali, pronte ad associarsi al più potenze, nella cui ombra prosperano. I riverberi dell’arma atomica paralizzarono la spinta nazionalista poiché consolidarono l’idea dell’invincibilità degli Stati Uniti e con gli Stati Uniti dell’invincibilità dell’Occidente.
Senza l’arma atomica gli alleati occidentali si sarebbero trovati di fronte a un problema militare, per tornare a sottomettere Asia e Africa, di proporzioni così vaste da diventare insolubile. Sarebbe loro occorso un esercito sterminato, di decine di milioni di uomini, per reprimere tutte le nazioni che si trovavano contemporaneamente in rivolta. E questo esercito non esisteva.

A cura di Maquis, stampato in proprio 12-10-2002