Di Filippo Gaja
La rivoluzione mondiale era possibile nel 1945 ?
SENZA LA BOMBA ATOMICA IL MONDO OGGI SAREBBE
SOCIALISTA
Appunti per una conferenza tenuta dall’autore martedì 4 ottobre 1994 presso il
Centro Civico di Lacchiarella.
Alla metà del 1945, al termine della guerra, la rivoluzione mondiale era un
fenomeno concreto, materiale, non ipotetico, riscontrabile sul terreno a occhio
nudo. Quali forze ne hanno impedito il compimento ?
Questa enunciazione in genere provoca sorpresa. Si è abituati a pensare che la
rivoluzione mondiale sia stata l’obiettivo delle lotte di liberazione che hanno
segnato il processo di decolonizzazione a partire dagli anni 50.
Questa è stata in realtà una seconda fase innescata dalla volontà
ricolonizzatrice dell’imperialismo. Il momento culminante del processo
rivoluzionario che, senza condurre al socialismo universale, ha comunque
sconvolto l’ordine coloniale, si ebbe nel 1945.
Poiché detta in questi termini la cosa appare molto schematica, mi sento in
dovere di ampliare con poche parole il quadro entro cui va collocato il
problema.
Il periodo post bellico fino al 4 ottobre 1957, data che segna la fine della
supremazia atomica statunitense, è quello in cui si formano e si rivelano le
forze decisive dell’evoluzione politica, economica e militare del mondo
contemporaneo. Ne farò una semplice enumerazione prima di entrare nei
particolari. Possiamo riassumere queste forze in sei punti:
1) Molto tempo prima che la guerra cominciasse, nel 1938, i banchieri, i
finanzieri e gli industriali di Wall Street avevano già elaborato il loro
programma per utilizzare l’imminente conflitto al fine di ereditare gli imperi
coloniali inglese, francese, olandese, portoghese e giapponese. Il laboratorio
di pensiero di Wall Street, il “Council on Foreingn Relations”, elaborò giusto
nel 1938 la famosa teoria del XX° secolo come “il secolo americano”. Banchieri,
finanzieri, industriali americani, non affidarono a forze esterne l’esecuzione
pratica del programma di conquista del mondo, ma entrarono nel governo
Roosevelt, diventando ministri e generali. Wall Street condusse la seconda
guerra mondiale in proprio, come un grande affare. La guerra fu poi presentata
per ottenere l’adesione delle masse come una crociata contro le dittature
fasciste e per la libertà.
2) Nel corso della seconda guerra mondiale è balzata all’evidenza la gigantesca
capacità di mobilitazione della forza delle masse che il socialismo contiene in
sé. Nel corso della guerra l’Armata Rossa sovietica divenne la più grande forza
militare del mondo, cosa che spaventò il mondo capitalista, tanto quello
tedesco che quello occidentale.Il maggior motivo di preoccupazione per il
grande capitale non risiedeva solo nella constatazione della potenza raggiunta
dall’Armata Rossa nella Russia sovietica, ma era data soprattutto dalla
possibilità che tale capacità del socialismo di agglomerare forza militare si
estendesse ai popoli coloniali.
3) La rivolta contemporanea di più di 60 paesi coloniali, in Asia e in Africa,
come prodotto delle contraddizioni innescate dal loro coinvolgimento nella
guerra interimperialistica.
4) Momento di svolta decisivo per i destini del mondo, l’acquisizione da parte
degli Stati Uniti dell’arma atomica, e l’instaurazione del terrore atomico
attraverso il bombardamento de Hiroshima e Nagasaki, che diede un nuovo corso
alla politica mondiale. La distruzione di Hiroshima e Nagasaki non fu operata
per indurre il Giappone alla resa. I giapponesi erano già pronti alla resa.
L’arma atomica aveva altri obiettivi: fu usata come forma di intimidazione
verso l’Unione Sovietica per indurla ad astenersi dall’appoggiare la
rivoluzione mondiale, e verso lo stesso mondo coloniale in rivolta. Il
bombardamento di Hiroshima e Nagasaki doveva rendere universalmente patente che
gli Stati Uniti si arrogavano il ruolo di dominatori del mondo.
5) L’arma atomica consenti in effetti l’imposizione forzata dell’egemonia
statunitense al mondo intero attraverso la difesa spasmodica del monopolio
nucleare americano prima, e poi, perduto questo, della supremazia nucleare
degli Stati Uniti. Questa imposizione della supremazia USA fu ottenuta
attraverso l’installazione di 1600 basi militari terrestri, aeree e navali;
attraverso una serie infinita di interventi occulti e palesi per arrestare
l’evoluzione progressista nel mondo; attraverso il soffocamento delle lotte di
liberazione. Ebbe due punti di svolta centrali: la guerra di Corea e del
Vietnam.
6) Infine, l’assedio del comunismo e la crociata mondiale anticomunista
comunemente chiamata Guerra Fredda, in cui democrazie e nazismo si riunirono,
si materializzò in una guerra di logoramento condotta con ogni mezzo politico,
diplomatico, militare, che gettò il mondo in uno stato di vita artificioso e in
una tensione spasmodica per quarant’anni. Questa guerra fu condotta soprattutto
con mezzi spionistici e culminò con la privatizzazione della sovversione
programmata con il piano della CIA denominato “Progetto Democrazia”.
Torniamo al “Secolo Corto”. Il momento centrale di questo processo è stato il
periodo 1945-1957. In questi anni, lo scontro delle forze che abbiamo enumerato
creò i presupposti di tutto lo sviluppo futuro. Tutto ciò che è accaduto in
questi ultimi cinquant’anni, tutto ciò che accade attualmente sotto i nostri
occhi, tutto ciò che potrà accadere ancora per molti decenni è stato e sarà la
conseguenza diretta degli avvenimenti occorsi in questi 12 anni. Per
dimostrarlo concretamente farò due esempi.
Primo esempio: la corruzione in Italia. La mostruosa rete di complicità che
lega grande capitale, classe politica, mafia e camorra, frange dei servizi
segreti e dei corpi militari, non è un fenomeno naturale. La classe politica
italiana fu arruolata fin dal dopoguerra come un corpo omogeneo all’interno
delle esigenze della strategia militare, prima strettamente statunitense e più
tardi “occidentale”, e sottoposta a un rigido controllo. La mafia fu installata
dagli americani come forza politica di controllo della Sicilia. Classe politica
asservita e mafia hanno poi creato il grande sistema della corruzione, ma
sempre al servizio di esigenze strategiche militari ineludibili. Ne “Il secolo
corto” vi sono tre capitoli dedicati a questo argomento, al quale mi dedico da
trent’anni.
Un secondo esempio si ravvisa nell’esplosione demografica e catastrofica che ci
troviamo di fronte oggi. Per 450 anni, fino al 1950. il colonialismo aveva
calmierato la crescita dei popoli coloniali, Nel 1950 eravamo 3 miliardi. Vi
sono delle cifre che dovrebbero essere insegnate ai bambini delle elementari:
dal XVI° secolo in poi il colonialismo europeo ha ucciso ogni secolo nelle
colonie decine di milioni di asiatici, africani e latino americani. Nel ‘500 ne
ha uccisi 8 milioni. Nel ‘600 24 milioni, nel ‘700 80 milioni, nell’800 40
milioni. Queste cifre sono il frutto del lavoro serio di etnologo qualificati,
ma da molti sono considerate di molto inferiori alla realtà. Gli africani che
si stanno risvegliando hanno intrapreso lo studio dei danni causati
direttamente e indirettamente all’Africa dalla tratta degli schiavi. In quattro
secoli l’Africa ha subito lo spaventoso dissanguamento di 200 milioni di figli,
la distruzione di tutte le civiltà autoctone e l’annientamento di ogni capacità
di sviluppo autonomo.
La rivolta dei popoli dopo il 1945 ha dischiuso la via allo sviluppo naturale
delle popolazioni del Terzo Mondo, ripetendo lo sviluppo demografico che
l’Europa aveva già conosciuto nel 1700. Nel 1964 gli abitanti della terra
avevano raggiunto i 3.286 milioni, nel 1980 i 4.437 milioni e nel 1990 i 6
miliardi.
Il punto di partenza di questa evoluzione è l’anno 1945 e il successivo
decennio. Ciò conferma che quanto accade sotto i nostri occhi ha la sua origine
negli anni 1945-1957. In questo periodo si sono manifestate le forze decisive
per lo sviluppo presente e futuro della società umana.
Queste forze si sono opposte fra loro e si sono combattute violentemente dando
luogo a un intreccio drammatico di fatti che il più delle volte sono rimasti
segreti e che solo oggi vengono strappati agli archivi consentendo una
rilettura della storia.
C’è una parte del libro che non è nel libro. Ne è però la premessa necessaria.
Avrebbe dovuto essere il capitolo iniziale ma è rimasto fuori per ragioni di
dimensione del volume.
Per meglio comprendere traccerò un quadro della situazione coloniale qual’era
nel 1939.
In Asia, in Africa e in Oceania, fatta eccezione per l’Australia la Nuova
Zelanda e il Sud Africa, tutti gli altri territori erano interamente soggetti
al colonialismo europeo, americano e giapponese.
La Cina era invasa dai giapponesi.
La Manciuria era occupata dai giapponesi.
La Corea era giapponese.
Il Vietnam, il Laos e la Cambogia erano sotto autorità francese.
La Birmania era britannica.
L’india (che comprendeva gli attuali Pakistan e Bangladesh) era una colonia
britannica.
La Malesia era colonia inglese.
Le Filippine erano sotto dominio americano.
L’Indonesia era colonia olandese.
In Medio Oriente, la Palestina era protettorato inglese.
Il Libano era protettorato francese.
La Siria ugualmente.
L’Irak era sotto dominio inglese.
In tutto il Golfo Persico dominavano gli inglesi anche quando, come nel caso
dell’Arabia Saudita, vi era una parvenza di Stato indipendente.
In Africa, l’Eritrea, l’Etiopia, la Somalia erano colonie italiane.
Il Somaliland era colonia inglese.
Il Kenia, l’Uganda, il Tanganika erano colonie portoghesi.
La Rhodesia (oggi) Zimbabwe) e lo Zambia erano colonie inglesi.
Il Madagascar era colonia belga.
Il Sudan era colonia inglese.
Sull’Egitto gravava la “protezione” britannica.
La Libia era colonia italiana.
Tunisia, Algeria e Marocco erano francesi.
Guinea francese, Mauritania, Senegal, Costa D’Avorio, Dahomei, Togo Niger e
Ciad costituivano l’Africa equatoriale francese.
Sierra Leone, Ghana e Nigeria erano colonie inglesi.
La Liberia era sotto protettorato americano.
Il Cameroun, il Gabon, il Congo Brazzavile erano colonie francesi.
Su questa situazione la seconda guerra mondiale è intervenuta come una
irresistibile furia sconvolgitrice.
Conviene puntualizzare schematicamente i meccanismi che, in soli sei anni,
hanno innescato, dopo quattro secoli e mezzo, il processo di trasformazione
dell’umanità, prima di passare a una analisi dettagliata delle diverse
situazioni. Ne precisiamo tre:
1) I soldati coloniali chiamati a partecipare alla guerra antinazista
proclamata come guerra per la libertà, a guerra finita rappresentarono una
potente spinta alla rivolta. Avevano combattuto per la libertà e volevano la
libertà.
2) I partigiani che avevano combattuta le guerre di guerriglia in Europa contro
i tedeschi e in Asia contro i giapponesi, a guerra finita si trovavano le armi
in mano e non si lasciarono disarmare.
3) Vi è un altro fattore, in genere ignorato dagli storici e dalla propaganda
per evidenti ragioni di comodo, ma obiettivamente importante, che ha
contribuito alla dinamica rivoluzionaria anticoloniale in Asia. I giapponesi
avevano scatenato la guerra in Asia sulla base di una dottrina, quella
dell’”area di grande prosperità” in Asia, che nascondeva la volontà di
sostituire la colonizzazione giapponese a quella occidentale. A guerra perduta,
in extremis, sfruttarono gli ultimi residui di autorità per consegnare il
potere locale nelle mani delle borghesie indigene, proclamando i paesi
indipendenti. Con ciò impressero una dinamica violenta alla ribellione contro
il dominio coloniale europeo.
4) Passerò a una analisi più approfondita della importanza assunta dalla
partecipazione di truppe reclutate nelle colonie alla guerra mondiale. Di per
sé le cifre sono impressionanti.
Nel marzo del 1940 la Francia aveva alle armi 340.000 soldati nordafricani e
110.000 nelle altre colonie. Alla guerra sul suolo francese parteciparono 8
divisioni di truppe coloniali. Dopo il 1940 per continuare la lotta nelle
colonie i francesi reclutarono altri 60.000 uomini nell’Africa orientale
(Senegal, Oubangui, Cameroun) e nell’Africa equatoriale francese che furono poi
impiegati sul fronte atlantico, in Provenza, in Alsazia ecc. Nella famosa
divisione Leclerc i soldati coloniali erano in maggioranza rispetto agli europei.
Solo nella fase iniziale della guerra, fino al momento dell’armistizio nel
1940, 24.270 soldati coloniali e 4.350 malgasci erano caduti sul campo.
L’Inghilterra fece un ricorso ancora maggiore della Francia alle truppe
coloniali. Per mettere insieme un esercito per combattere contro gli italiani
in Etiopia, Eritrea e Somalia, i britannici reclutarono truppe in Tanganika, in
Kenia, in Uganda, nel Nyassaland e in Rhodesia.
Gli africani arruolati dagli Inglesi furono 372.000. I reggimenti coloniali
esistenti nel 1939 furono rafforzati costituendo nuove unità: 3 brigate di
truppe nigeriane; 2 brigate della Costa D’Avorio; 1 brigata della Sierra Leone;
1 brigata del Gambia.
Nel 1943 queste brigate formarono la ottantunesima divisione e la
ottantaduesima divisione.
Dopo essere state impiegate in Africa Orientale italiana queste truppe furono
impiegate su altri fronti: in Africa del nord, in Italia, poi sui fronti
asiatici, in particolare in Birmania. Se poco si sa sull’insieme del problema
delle truppe africane, meno ancora si sa sulle perdite che subirono. Uno dei
rari dati conosciuti fa riflettere: le due divisioni composte di soldati
africani impiegate in Birmania ebbero, in 5 mesi di campagna 494 morti, 1.417
feriti e 56 dispersi.
Soltanto in India gli Inglesi reclutarono e armarono 2 milioni di uomini. Gli
indiani alla data dell’agosto 1945 avevano subito 180.000 fra morti e feriti.
Gli indiani furono impiegati dappertutto, in Europa, in Medio Oriente,in
Africa, in Asia. La quarta divisione indiana, fu impiegata in Eritrea, in
Siria, in Libia, in Tunisia, in Italia e in Grecia. Nelle varie campagne
perdette 25.000 uomini. In Italia 6.000 soldati indiani furono uccisi nei
combattimenti contro i tedeschi. In una sola battaglia nel sud est asiatico
morirono 32.000 soldati indiani.
Si può comprendere come i combattenti coloniali siano tornati con delle nuove
idee alle loro case a guerra finita.
Erano stati chiamati a combattere contro tedeschi, italiani e giapponesi in
nome della libertà e a guerra finita i popoli coloniali cominciarono a esigere
la libertà. Non si può comprendere appieno la situazione concretizzatasi nel
1945 se non si sottolineano alcune caratteristiche.
A differenza di ogni precedente occasione di rivolta, gli oppressi erano bene
armati. Avevano recuperato armi nel corso della guerra in grandi quantità;
erano addestrati al combattimento moderno poiché questo addestramento gli era
stato impartito dagli stessi dominatori; in più avevano acquisito per la prima
volta da 450 anni esperienza di guerra e di guerriglia. Infine la cosa più
importante: la lotta era ad armi pari.
Nell’insegnamento della storia, si omette in generale di mettere in evidenza
che la facilità con cui gli europei si sono impadroniti del mondo nel corso dei
quattro secoli e mezzo fra il 1492 e il 1945 si è basata sulla superiorità
tecnologica militare: i conquistadores in America Latina avevano polvere da
sparo, cannoni, archibugi, cavalli, corazze e cani da combattimento, contro cui
gli indigeni erano impotenti. Oltre alle armi e al materiale bellico,
l’organizzazione, l’inquadramento e la tattica hanno mantenuto la superiorità
militare degli europei sugli “indigeni” per vari secoli. L’invenzione della
mitragliatrice, arma divenuta operativa nel 1884 con l’ordigno messo a punto
dall’inglese Hiram Maxim seguita dalla mitragliatrice di William Browning nel
1892, moltiplicò questa superiorità. Nella pratica bellica occidentale la
mitragliatrice ha fatto la sua comparsa in grande stile solo nel 1914
all’inizio della prima guerra mondiale. Ma per decenni era stata usata prima
sui popoli coloniali in particolare in Africa, dove i colonizzatori si sono
trovati a dovere fronteggiare grandi masse. La mitragliatrice è stata l’arma
che ha permesso a un numero ridotto do conquistatori di sottomettere i popoli
africani. Gli Zulu, i Dervisci, gli Hereros, i Matabele e molti altri popoli
subirono la superiorità delle mitragliatrici, senza le quali la British South
Africa Company non avrebbe mai potuto mantenere il possesso della Rhodesia
(attuale Zimbabwe) e i tedeschi del Tanganika, gli inglesi dell’Uganda ecc. Non
farò qui la storia sociale della mitragliatrice come arma colonialista e
imperialista in Asia e in America, che pur sarebbe un tema molto istruttivo. Mi
limito a ribadire il concetto che la superiorità tecnologica militare è stata
per quattro secoli e mezzo l’elemento decisivo del dominio europeo del mondo.
Ma nel 1945 la situazione si è trovata radicalmente cambiata. Colonizzati in
rivolta e colonialisti repressori si sono trovati con le stesse armi in mano,
fucili, mitragliatrici, batzooka, bombe a mano, mine, artiglieria. Gettiamo ora
uno sguardo più profondo sulla situazione in Asia. Vorrei prendere in esame
caso per caso la situazione nei vari paesi di Asia e Africa quale era a metà del
1945, ciò al fine di eliminare ogni possibile dubbio sulla veridicità
dell’affermazione che nel 1945 una certa “rivoluzione mondiale” era un fenomeno
concreto.
L’INDIA
Prenderò le mosse dall’India. Gli avvenimenti indiani a cavallo della seconda
guerra mondiale illustrano esemplarmente quale sia stato il meccanismo della
trasformazione rivoluzionaria del mondo, intendendo per trasformazione
rivoluzionaria il processo di disintegrazione del vecchio ordine coloniale.
Come sappiamo l’India era una colonia inglese. Il 3 settembre 1939 il viceré
inglese annunziò con un breve comunicato che l’India era entrata in guerra a
fianco dell’Inghilterra. Per conseguenza furono arruolati 2 milioni di sudditi
indiani e mandati a combattere la guerra inglese sui vari fronti.
La partecipazione delle truppe indiane alla guerra inglese non destò che scarsa
risonanza nelle masse indiane, abituate a considerare i soldati indiani
inquadrati nell’esercito britannico come mercenari. Ma sul piano politico
generale innescò il processo che dopo 9 anni di lotte portò allo smembramento
dell’India e all’indipendenza. Infatti il Partito de Congresso di Ghandi colse
puntualmente l’opportunità storica che gli si presentava. Già nel marzo 1940 i
partiti indiani presero posizione contro il coinvolgimento indiano nella guerra
dichiarando formalmente che l’India era stata trascinata in guerra senza essere
stata consultata. Ghandi rifiutò il suo appoggio all’Inghilterra, richiese
l’immediata convocazione di una Assemblea Costituente ed esigette l’indipendenza
assoluta.
Il movimento nazionalista indiano aveva come massimo esponente Ghandi. Ma una
parte del Movimento del Congresso passò dalla parte dei giapponesi, guidata da
Chandra Bose che per tutta la durata della guerra continuò a incitare con tutti
i mezzi gli indiani alla rivolta promettendo libertà all’India. Il Giappone
cercò di influire sulla situazione interna indiana organizzando gli elementi
indiani antinglesi riparati all’estero. Si formò, sotto gli auspici del
Giappone, un esercito composto di indiani residenti in Malesia e in altre
regioni sotto controllo giapponese, di prigionieri di guerra e di disertori,
Dopo l’occupazione della Birmania nel marzo del 1944, i giapponesi entrarono in
contatto diretto con il territorio indiano e tentarono di scagliare questo
esercito raccogliticcio guidato da Bose contro l’India invadendo lo stato di
Manipur. L’operazione riuscì a tagliare le comunicazioni fra il Manipur e il
resto dell’India. Ma la controffensiva inglese respinse gli invasori nippo-indiani
oltre la frontiera birmana.
In realtà l’India aveva una lunga tradizione di lotte contro l’occupazione
inglese. Lo scontro fra colonizzatori inglesi e popolazioni indiane aveva dato
luogo a decine di rivolte, guerre locali e spedizioni punitive repressive degli
Inglesi a partire dal 1686, culminate nella rivolta del Bengala del 1857-1858.
Fino a quella data l’India era una colonia privata di un gruppo di azionisti di
una compagnia capitalistica: la “Compagnia Inglese delle Indie Orientali”. Dopo
la rivolta il Bengala divenne colonia della corona britannica. Partendo dalla
rivolta del Bengala, per un secolo, il nazionalismo indiano moderno come
movimento intellettuale e delle classi e delle caste dirigenti era andato
sviluppandosi e affermandosi e nel 1939 aveva già raggiunto la maturità.
Se la rivolta anticoloniale indiani ha avuto un corso particolare ciò dipende
da due fatti. In primo luogo non avendo subito l’occupazione giapponese
l’anticolonialismo indiano ha avuto un processo diverso dal resto dei paesi
asiatici. Non si è prodotto quel movimento armato di liberazione contro
l’occupante, unitario e politicamente caratterizzato da una prevalenza di
tendenze sociali radicali, come nel resto delle rivoluzioni asiatiche. D’altra
parte l’India è un paese complesso fatto di 25 Stati e 6 territori, nei quali
si parlano 15 lingue ufficiali e fra le 3.000 e le 5.000n lingue e dialetti non
riconosciuti. In India il peso delle religioni è enorme. L’influenza delle idee
del marxismo rivoluzionario e la sua diffusione fra le masse era assai ridotta.
Lo sviluppo dei partiti comunisti si è fatalmente adattato alle condizioni
regionali e ne è risultato frantumato.
Ma benché la rivoluzione anticoloniale indiana abbia avuto un corso differente
dalle altre asiatiche, la sottrazione dei 340 milioni dell’India al controllo
diretto del colonialismo inglese ha rappresentato un fattore di indebolimento
dell’impianto imperialista in Asia.
In altri paesi asiatici la situazione nel 1945 si presentava ben diversamente.
In questi la caratterizzazione delle forze anticoloniali di estrazione popolare
era nettamente rivoluzionaria e associava apertamente l’obiettivo della
liberazione dalla schiavitù coloniale e dell’indipendenza a quello
dell’uguaglianza sociale. L’obiettivo della lotta era l’espropriazione dei
colonialisti e la restituzione delle risorse del paese alla sovranità popolare,
come base per la costruzione del socialismo.
LA CINA
Possiamo ora analizzare separatamente le varie situazioni cominciando dalla
Cina.
La lotta armata di lunga durata iniziata dai comunisti cinesi nel 1934 con la
“lunga marcia”, aveva ispirazione rigidamente ideologica, marxista, e un
obiettivo luminosamente esplicito: fare della Cina un paese socialista.
Fra il 1928 e il 1938 la lotta era stata diretta contro il nazionalismo
reazionario del generalissimo Ciang Kai Shek (Kuomintang), emanazione del
capitalismo cinese e mandatario degli interessi occidentali. L’invasione
giapponesi della Cina era iniziata nel 1933 con l’occupazione della Manciuria,
ma investì direttamente il territorio cinese nel luglio del 1937. I comunisti
furono perciò costretti a battersi su due fronti, contro i Giapponesi e
contemporaneamente, quando venivano attaccati, contro le truppe del Kuomintang.
Nel corso della lotta antigiapponese il comunismo cinese ha conosciuto un
formidabile sviluppo. Gli effettivi dell’Armata Rossa, che erano di 92.000
uomini nel 1937, erano diventati 475.000 nel 1944 e crebbero vorticosamente
nella fase finale del conflitto. Le “Milizie del popolo”, forze rivoluzionarie
ausiliarie, contavano già nel 1944 2.130.000 uomini. Erano armate in modo
sommario ma avevano portato al livello dell’arte l’uso delle bombe a mano e
degli esplosivi.
Inoltre i comunisti cinesi avevano formato un corpo da autodifesa chiamato
“Associazione Popolare di Resistenza ai Giapponesi”, che metteva in atto forme
elementari di resistenza e rudimentali azioni offensive di ogni genere (contro
le trasmissioni, i trasporti, i rifornimenti nemici).
Già nel 1942 l’”Associazione” contava ben 16 milioni di uomini e donne che
aumentarono ancora fino al 1945.
L’assoggettamento economico della Cina era l’obiettivo principale
dell’imperialismo americano in Asia: il pezzo forte del bottino finale della
guerra contro i Giapponesi, destinato a fornire uno sbocco alla produzione
industriale americana. L’immenso mercato cinese avrebbe consentito uno sviluppo
illimitato al capitalismo statunitense. Si comprende l’accanimento impiegato
dagli americani per contrastare l’avanzata della rivoluzione cinese.
Nell’ultima fase del conflitto, quando ormai era certo che il Giappone sarebbe
stato sconfitto dagli anglosassoni, Ciang Kai Shek smise di attaccare i
Giapponesi e concentrò tutte le sue migliori truppe, addestrate dagli
Americani, e tutto il meglio del suo armamento americano, artiglieria,
aviazione e carri armati, contro l’Armata Rossa nell’inutile tentativo di
arrestarla.
Quello che ho detto qui è la premessa per comprendere quando ho sviluppato ne
“Il secolo corto”, che affronta il tema degli interventi americani in Cina per
soffocare la rivoluzione cinese. Era talmente importante per gli Stati Uniti
bloccare l’avanzata dei comunisti che giunsero a impiegare le stesse truppe
Giapponesi prigioniere contro l’Armata Rossa di Mao Tse Tung. L’imperialismo
yankee non riuscì ad arrestare la rivoluzione cinese. Ciò accadde perché i
soldati americani si rifiutarono di partecipare nella misura che sarebbe stata
necessaria alla repressione contro le masse cinesi. Nel capitolo “Riportateci a
casa”, “la rivolta delle truppe USA” de “Il secolo corto” questo tema è
sviluppato ampiamente. In definitiva gli americani riuscirono solo a ritardare
di 4 anni la vittoria finale di Mao Tse Tung.
Prima di passare ad analizzare le altre situazioni rivoluzionarie asiatiche mi
sembra necessario sottolineare un fenomeno cui ho già fatto brevemente cenno.
Parlando di rivoluzione indotta dalla guerra mondiale in Asia occorre precisare
un ulteriore fattore di contraddizione. Le idee correnti sulla guerra fra
Giappone e Stati Uniti in Asia ci vengono generalmente dai film di Hollywood.
Una fonte storica francamente insufficiente. In realtà, come ho anticipato, i
Giapponesi attuarono la conquista dell’Asia nei “duecento giorni di vittorie”
(ricordiamo che per completarla mancavano loro soltanto l’occupazione della
Nuova Guinea e l’invasione dell’Australia). La scaturigine reale della politica
giapponese verso i paesi asiatici occupati derivò dal fatto che le forze
giapponesi erano insufficienti per condurre una lotta simultanea contro gli Stati
Uniti e contro una rivolta generale dei paesi occupati dove erano da temere
sotto controllo 400 milioni di abitanti. I Giapponesi ricorsero quindi al
tentativo e di associare i popoli asiatici alla lotta contro il colonialismo
occidentale, sfoderando un programma detto di “creazione di un’area di grande
prosperità asiatica” dopo il rovesciamento del dominio coloniale inglese,
francese, americano e olandese.
In tutta l’Asia occupata dai Giapponesi le classi indigene proprietarie
produssero tendenze disposte a integrarsi nei piani giapponesi. Praticamente
ovunque nei paesi asiatici occupati i Giapponesi riuscirono a mettere in piedi
governi collaborazionisti sostenuti da un certo consenso di base. La propaganda
giapponese puntava a dare al termine DAI TOA (grande Asia) un significato di
<generosità, grandezza e armonia dei paesi dell’estremo oriente >.
All’inizio del 1942 fu creato a Tokio il DAI TOA SHO, cioè il ministero della
grande Asia, il cui programma immediato era di portare all’indipendenza la
Birmania e le Filippine.
Se si vogliono cercare obiettivamente i fattori dialettici che hanno portato
alla distruzione degli imperi coloniali in Asia occorre ammettere che il
programma giapponese conteneva in sé i fermenti capaci di dare impulso ai
nazionalismi in Asia, dove, occorre tenerlo presente, esistevano classi
dirigenti borghesi capitalistiche mature, pronte a far proprio il potere
politico.
Nei fatti, la vera opposizione ai Giapponesi è venuta in tutta l’Asia dal
basso, dai contadini ansiosi di conquistare il possesso della terra, e di
giustizia sociale, pronti a imbracciare le armi per sfruttare il momento della
disintegrazione secolare dell’ordine coloniale.
IN MALESIA
Nel 1945 la situazione si presentava ugualmente sull’orlo di uno sbocco
rivoluzionario. I Giapponesi avevano occupato la penisola di Malacca in 50
giorni nel dicembre 1941. I britannici, fatto saltare il ponte che univa
l’isola di Singapore al continente, tentarono un’ultima resistenza a Singapore
poi capitolarono. All’epoca la Malesia era uno Stato a composizione mista. A
Singapore la popolazione era costituita da 120.000 malesi, 750.000 cinesi,
oltre a 70.000 indiani e 9.000 europei. Nell’insieme della Malesia, la
maggioranza era di origine malese ma con una fortissima minoranza cinese (più
di un terzo degli abitanti).
La predominante etnica malese all’interno della quale i contadini poveri erano
in maggioranza, fu corteggiata dai Giapponesi, nel quadro della loro politica
che mirava a presentare la guerra antiamericana come una guerra di liberazione
dell’Asia. La resistenza antigiapponese in Malesia fu essenzialmente condotta
dalla parte di popolazione di origine cinese. I britannici stabilirono una
intensa collaborazione con il “Malayan Communist Party”, che nel corso del
conflitto continuò incessantemente a rafforzarsi in numero d’uomini, in
armamento e in organizzazione. Quando i giapponesi abbandonarono la Malesia, i
comunisti rappresentavano la forza dominante, sia nella penisola che a
Singapore. Anche in Malesia la lotta anticolonialista non era un fenomeno
nuovo.
Fu a partire dal 1923 che i primi militanti cinesi comunisti cominciarono a
fare proseliti in Malesia e a Singapore. Nel 1926 costituirono a Singapore il
sindacato generale dei Mari del Sud, che nel 1928 cambiò il proprio nome in
quello di Partito Comunista dei Mari del Sud. Poi, nel 1930, formò il PC di
Malesia (MCP). Immediatamente la polizia inglese ne catturò i principali capi,
riducendo il partito quasi a zero. Per una curiosa beffa della storia, saranno
proprio i Britannici che favoriranno la sua vera rinascita.
Nel dicembre 1941, qualche giorno prima dell’invasione giapponese, l’MCP prese
la decisione di passare alla clandestinità per organizzare, sull’esempio di
quando accadeva in Cina, la lotta dei contadini poveri per opporsi alle
immancabili razzie di raccolti che i giapponesi operavano, secondo tradizione,
sistematicamente. Poco prima della caduta di Singapore,
i comunisti, che avevano una formazione militare, furono disseminati in
Malesia, per costituire l’ossatura dell’armata popolare malese antigiapponese
(APMAJ). Nell’aprile 1945, il PCM proclamò in chiaro che l’obiettivo della
lotta armata consisteva nella “lotta per la liberazione nazionale” e nella
creazione di un “esercito di liberazione” per la costituzione di una Repubblica
Democratica Popolare alla fine delle ostilità. I Britannici erano perciò
coscienti di queste mire, ma decisero di assumersi un rischio calcolato
sostenendo le unità di guerriglia dell’MCP che costituivano d’altronde la sola
forza in grado di opporsi in Malesia agli occupanti Giapponesi. Nel dicembre
1945, dopo la resa giapponese, i guerriglieri tornarono ai loro villaggi ma
rifiutarono di farsi disarmare e si organizzarono politicamente
nell’Associazione dei Veterani dell’APMAJ e nella Federazione dei sindacati
pan-malesi. Inoltre, circa 4.000 guerriglieri rimasero nascosti nella giungla,
perfettamente armati e inquadrati. Nel 1945 la guerriglia comunista era in
realtà la forza di potere decisiva in Malesia. Nel febbraio 1948 si verificò un’importante
svolta con la Conferenza della Gioventù Asiatica di Calcutta. La repressione
colonialista era stata scatenata in tutta l’Asia. La parola d’ordine
dell’insurrezione armata fu lanciata a Calcutta e raccolta dal Partito
Comunista Malese. La federazione dei sindacati pan-malesi organizzò sciopero su
sciopero.
L’APMJ si trasformò nell’esercito popolare antibritannico di Malesia e in
seguito, il primo febbraio 1949, in Armata Nazionale Per la Liberazione della
Malesia (ANLM). Fu costituita la Lega per la Liberazione Nazionale della
Malesia (LLNM). I comunisti malesi fecero ogni sforzo per unire insieme tutte
le nazionalità della Malesia, ma con un successo relativo. La guerriglia
antibritannica raggiunse uno sviluppo notevolissimo. 5.000 guerriglieri
restarono alla macchia nella giungla a tempo pieno, e 9.000 partigiani agivano
in funzione di truppe di sostegno. I 14.000 uomini erano suddivisi in reparti
organici che noi tenderemmo a chiamare “brigate”. Il 95% di queste 12 “brigate”
era costituito da combattenti di etnia cinese; solo la decima brigata, che
agiva nella provincia di Pahang, era composta da 300 malesi musulmani. Le
azioni armate dell’ANLM erano sostenute dal movimento popolare “Min Yuen”, che
ne costituiva la logistica, per il rifornimento dei guerriglieri di alimenti,
medicamenti e fondi, per le informazioni. Al vertice, l’ANLM, l’LLNM e il
movimento popolare erano sotto il diretto controllo dei 12 membri del comitato
centrale del Partito Comunista Malese. Le decisioni politiche e le direttive
militare generali erano prese sotto la responsabilità dei tre membri
dell’ufficio politico e dal segretario generale Chin Peng.
La tattica del PCM consistette nell’applicazione di un terrorismo senza
sfumature contro i Britannici e i loro sostenitori. Gli Inglesi sfruttarono
questa tattica errata per dividere Cinesi da Malesi e per alimentare nei Malesi
risentimento e paura. Nell’ottobre 1951 il Comitato Centrale prese coscienza
che l’insurrezione stava andando incontro alla sconfitta e decise un cambiamento
di strategia. I guerriglieri si ritirarono nelle regioni montagnose mentre il
movimento popolare ricevette la direttiva di agire soprattutto sul piano della
propaganda.
Gli Inglesi usarono una tattica spietata e in 12 anni di lotta giunsero quasi a
sterminare la guerriglia cino-malese.
Nel 1955 apparve evidente che la lotta armata era fallita e i superstiti
dell’ANLM ripiegarono all’estremo sud della Thailandia.
La repressione inglese fu l’unico successo pieno ottenuto dai colonialisti
occidentali in Asia e ha continuato a essere studiata come un modello di
controguerriglia nelle accademie occidentali. Era basata sul principio di
frantumare le unità guerrigliere, isolarle in piccoli gruppi e distruggerle con
forze soverchianti.
Tutta la popolazione suscettibile di fornire aiuto alla guerriglia venne
concentrata in 480 campi sorvegliati, spopolando le campagne. I lavoratori
delle piantagioni furono obbligati a vivere, dopo il lavoro, in villaggi posti
sotto sorveglianza militare.
LA BIRMANIA
offre un altro esempio degli inesorabili meccanismi della dialettica
rivoluzionaria. Notoriamente la Birmania, paese molto ricco di risorse (legno
di tek, rubini, piombo, rame, zinco, tungsteno era considerata uno dei gioielli
della corona inglese, ed era governata dall’amministrazione coloniale
britannica con mano di ferro.
Un’agitazione per l’indipendenza era in atto in Birmania fin dal 1931. La
resistenza anti inglese era animata dagli strati intellettuali della società
indigena, espressione principalmente del desiderio della borghesia birmana di
strappare agli Inglesi lo sfruttamento delle ricchezze del paese. Nelle
campagne i contadini erano invece in movimento per la riforma agraria. Al loro
interno andavano rapidamente radicandosi i movimenti di ispirazione comunista.
Quando i Giapponesi invasero la Birmania nel 1942 non vi fu una resistenza
propriamente birmana. Solo le popolazioni di frontiera, al nord, al centro me
al sud, non propriamente birmane, che erano state artificiosamente annesse alla
Birmania dall’amministrazione coloniale britannica, i Karen a est di Rangoon,
gli Shan a nord-ovest, i Cachin e i Chin alla frontiera con l’India, opposero
una accanita resistenza agli invasori giapponesi. I Birmani propriamente detti,
o per meglio dire le classi abbienti birmane accettarono globalmente i vantaggi
della politica di “co-prosperità” giapponese che offriva la possibilità di
accedere, almeno formalmente, a una parvenza di indipendenza. Fu cosi formato
anche un governo birmano filo giapponese che dichiarò guerra alla Gran Bretagna
e agli Stati Uniti.
Nel maggio 1943, come ho accennato, un esercito nippo-indio-birmano penetrò per
qualche decina di chilometri nel Bengala. Era un tentativo di spingere alla
sollevazione gli Indiani, ma l’India non era matura per questa evenienza.
Se la politica filo giapponese trovò successo negli strati superiori della
società birmana, lasciò indifferenti gli strati interiori. I contadini erano
contro tutti i colonialismi, sia quello giapponese che quello inglese, poiché
il colonialismo era ciò che impediva la riforma agraria.
Nel 1944 gli alleati occidentali intrapresero la riconquista della Birmania con
un corpo di spedizione di 750.000 uomini composto di truppe inglesi, americane,
di due divisioni cinesi nazionaliste addestrate in India, di mercenari gurka e
coscritti indiani. La nuova situazione diede luogo alla nascita di un forte
movimento contro l’occupazione angloamericana, che assunse tutta le
caratteristiche di una guerra di liberazione nazionale. La borghesia birmana capì
che era giunto il momento di approfittare delle contraddizioni
interimperialistiche per ottenere l’indipendenza e i contadini compresero che
occorreva costituire una forza armata popolare. Il generale Aung San, che era
stato ministro della guerra nel governo birmano filo giapponese, fondò la “Lega
Popolare Antifascista per la Libertà” attorno alla quale si agglomerarono
successivamente tutte le forze moderate birmane. Fu poi proprio alla Lega
Popolare Antifascista per la Libertà che gli Inglesi si affidarono per
salvaguardare i loro interessi in Birmania, in quanto la “Lega” era la
formazione più a destra di tutte quelle esistenti. Tutte le altre erano
caratterizzate da programmi politici e sociali radicali. Quando, dopo il ritiro
dei Giapponesi dalla Birmania, la forza d’occupazione anglo-cino-americana
viene sciolta e ritirata, restarono sul terreno da una serie di forze
guerrigliere organizzate per etnie, all’interno delle quali i comunisti
costituivano la forza decisiva (PCB), e dall’altro la “Lega Popolare” del
generale Aung San.
In ogni modo la situazione birmana era assolutamente sfuggita a qualsiasi
possibilità di controllo da parte dell’impero inglese e nel settembre del 1947
Londra si rassegnò a dare alla Birmania lo statuto di Stato sovrano.
Le elezioni del 9 aprile 1947 furono boicottate dai partiti nazionalisti
regionali ed etnici e comunisti, e furono perciò poco o nulla rappresentative.
Gli scarsi elettori portarono al potere la “Lega Popolare Antifascista per la
Libertà”, contro la quale si produsse subito una intensificazione in tutta la
Birmania delle guerriglie etniche. Come detto, al loro interno, come fattore di
unità e di coesione, operava il PCB, organizzato su basi politiche e
ideologiche a scala nazionale.
Il generale Aung San, considerato vicino ai comunisti, fu assassinato subito
dopo le elezioni e la sua sparizione aprì la strada alla trasformazione del
potere centrale birmano in un regime dittatoriale militare esasperatamente
anticomunista anche se mascherato sotto l’etichetta di “Governo del partito del
programma socialista”. Più tardi il governo militare portò l’equivoco alle
estreme conseguenze proclamando la Birmania “Repubblica socialista dell’unione
birmana” volta a realizzare la “via birmana al socialismo”.
Il suo programma reale era la lotta al comunismo. I comunisti erano usciti
dalla guerra come una potente forza militare e politica, avevano reparti in
armi in tutto il paese, e conducevano la guerriglia in appoggio alle
rivendicazioni dei contadini per la terra non solo nelle regioni periferiche,
in alleanza con le guerriglie etniche, ma anche nel cuore del paese birmano e
giunsero a occupare le due maggiori città birmane, Mandalay e la capitale
Rangoon.
Non potrò qui fare tutta la storia della molto complessa evoluzione della
situazione birmana. Il mio scopo era solo quello di evidenziare come alla fine
della guerra, nel 1945, esistevano in Birmania una grande forza rinnovatrice di
cui i comunisti costituivano il nerbo ed il collante. Mi limiterò a segnalare
che l’azione repressiva dei militari di Rangoon ha avuto ragione della
resistenza armata comunista solo nelle regioni centrali della Birmania del
fiume Iravadi, del Pegu e dell’Arcan.
A distanza di decenni l’immutato governo dittatoriale di Rangoon si trova oggi
a fronteggiare una quindicina di eserciti ribelli che controllano circa un
terzo della Birmania. Il partito comunista in quanto tale ha un esercito di
circa 10.000 uomini e controlla un territorio di circa 20.000chilometri
quadrati con capitale Pangshan, nel nord-est, ai confini con la Cina. Ma i
comunisti sono presenti e organizzati in tutti gli stati e in tutti gli
eserciti etnici, perciò continuano a rappresentare ancor oggi il vero fattore
di unità nella frammentazione regionale ed etnica. A distanza di quasi cinquant’anni
la situazione in Birmania resta complessa. Sono in attività il Kachin
Indipendence Army, lo Shan State Army, il Consiglio Nazionale Socialista del
Nagaland alla frontiera con l’India, il fronte Rohyngyas dell’Arakan, gli
eserciti delle popolazioni Wa, Palaung, Pao, Karenni e Kayan. Tutte queste
rivolte sono, per lo meno formalmente, collegate nel Fronte Nazionale
Democratico, alleato su un piano di uguaglianza al Partito Comunista Birmano.
Soltanto il Karen National Liberation Army rifiuta l’alleanza con i comunisti
per ragioni ideologiche. I Karen controllano una banda di territorio di 1.000
chilometri lungo la frontiera con la Thailandia.
LA THAILANDIA
Fa eccezione nel quadro. Sfuggita alla colonizzazione diretta occidentale la
Thailandia era nel 1940 un paese retto, a partire dal 1933, da una elite
aristocratica rigidamente nazionalista che fu attratta dal programma giapponese
della “ grande area di prosperità” e firmò un trattato di alleanza con il
Giappone, e nel gennaio 1942 dichiarò guerra alla Gran Bretagna e agli Stati
Uniti. Un esercito tailandese di 90.000 uomini partecipò a fianco dei
giapponesi alla conquista della Birmania. L’alleanza con i Giapponesi portò la
Thailandia ad annettersi, durante la guerra, 70.000 chilometri quadrati di territorio
laotiano e cambogiano, quattro province malesi, e il territorio birmano abitato
dalla popolazione Shan. La Thailandia non subì l’occupazione giapponese.
L’organizzazione comunista era debole. Esisteva dal 1932 un Partito Comunista
del Siam, che però aveva aderenti quasi esclusivamente nella minoranza cinese.
Anche se nel 1942, nel momento dell’alleanza tailandese con il Giappone, il
Partito Comunista dalla clandestinità si era dichiarato aperto a tutta la
popolazione Thai, i comunisti restarono sostanzialmente il partito dei cinesi.
Alla fine della guerra l’elite dirigente tailandese operò un perfetto
voltafaccia in senso filo occidentale, allineandosi agli interessi Inglesi e
americani, sfruttando la sua preziosa posizione strategica di baluardo reazionario
giusto al centro di tutta la regione in rivolta (Birmania, Malesia, Indovina).
La Thailandia ufficiale passò così dal campo giapponese al campo occidentale
senza subire danni. Si avrà una fase guerrigliera tailandese successiva ma sarà
una estensione della guerra del Vietnam.
IL VIETNAM
La rivoluzione del Vietnam è quella su cui l’attenzione del mondo si è
maggiormente fermata. Basterà ricordarla per sommi capi. Lo sviluppo della
forza rivoluzionaria in Indovina può essere considerata una emanazione diretta
della Rivoluzione d’Ottobre, e si può ricostruire attraverso le diverse fasi
della vita del suo massimo esponente, Ho Chi Minh.
Nel 1921 Ho Chi Minh, studente in Francia, fu fra i fondatori del Partito
Comunista Francese ed eletto a occuparsi delle questioni coloniali nel comitato
centrale del PCF. Probabilmente, ma non è documentato, fu presente al Congresso
dei Popoli d’Oriente di Baku, nell’agosto del 1920. In Francia iniziò subito la
preparazione della rivoluzione anticolonialista fondando “L’Unione
Intercoloniale”, come organizzazione di lotta dei popoli coloniali sottomessi
alla Francia, e il giornale “Le paria”.
Nel 1933, a Mosca, assunse l’incarico di rappresentante delle masse contadine
delle colonie nel Komintern. Nel 1925 raggiunse i comunisti cinesi per incarico
del Komintern e a Canton fondò “L’Unione dei Popoli Oppressi dell’Asia”
riunendo gli emigrati del Vietnam, della Corea, dell’Indonesia, della Malesia e
dell’India che vivevano in Cina.
In Vietnam esisteva un gruppo giovanile di ispirazione rivoluzionaria: i “Cuori
fraterni del Vietnam”, primo nucleo del futuro Partito Comunista anche se
dall’esterno questo gruppo si presentava come nazionalista. La tattica
predicata da Ho Chi Minh allo scopo di evitare la repressione era quella di
mimetizzarsi e consolidarsi. In un opuscolo “La via della rivoluzione”, nel
1926, Ho Chi Minh indica come obiettivo possibile la rivoluzione dei popoli
coloniali contro gli imperialisti e non la rivoluzione socialista. Quest’ultima
restava un obiettivo implicito ma non espresso, il cui conseguimento era
affidato alla dialettica dei fatti.
La guerra in Asia fu per i comunisti vietnamiti l’occasione per introdurre
l’elemento soggettivo nella oggettività del processo storico. Nel 1940, dopo il
crollo della Francia di fronte ai Tedeschi, i Giapponesi stabilirono un accordo
con l’amministrazione coloniale francese, che seguiva le direttive del governo
di Vichy, ottenendo il diritto di passaggio sulle strade vietnamite cambogiane
e laotiane per raggiungere la Cina meridionale. Questa prima penetrazione si
trasformò in un controllo totale del Vietnam. Spontaneamente un po’ in tutto il
Vietnam nacquero nuclei di resistenza, che per inesperienza rischiarono di
farsi sterminare da Giapponesi e Francesi uniti. Ho Chi Minh intervenne per
impedire le rivolte isolate. Istituì un comando centrale, al confine con la
Cina e intraprese l’organizzazione capillare della resistenza armata. Tutto
veniva fatto non in nome del partito ma in nome dell’Esercito per la
Liberazione della Patria”. L’esercito venne effettivamente costituito, ma evitò
qualsiasi combattimento fino al 1944. Fino ad allora si limitò a raccogliere
uomini ed armi e ad addestrarli. Nel 1944, quando si fece palese che i
Giapponesi avrebbero perduto la guerra, Ho Chi Minh affidò a Vo Nguyen Giap il
compito di organizzare una grande forza armata per la lotta decisiva contro il
colonialismo. Giap creò i reparti di “propaganda armata” che si affiancarono
alle “Unità per la Liberazione della Patria” e creò in ogni villaggio i
“comitati di autodifesa”. Il tutto costituì l’”Esercito per la Liberazione del
Vietnam”. Politicamente tutti gli elementi rivoluzionari furono raggruppati
nella “Vietnam Doc Lap Dong Minh”, cioè la “Lega per l’indipendenza del
Vietnam”, conosciuta come Viet Minh.
Nel corso della guerra antigiapponese l’organizzazione militare rivoluzionaria
vietnamita mantenne uno stretto contatto con gli Americani. Gli osservatori del
Viet Minh controllavano ogni movimento dei Giapponesi e delle forze colonialiste
francesi. Una nutrita delegazione dei servizi segreti strategici USA era
collocata presso il quartier generale di Ho Chi Minh, dotata di una radio
potente. L’organizzazione del Viet Minh aiutò i piloti americani abbattuti ad
attraversare il territorio controllato dai Giapponesi per rientrare in Cina. Di
tempo in tempo le unità militari vietnamite fecero anche saltare ponti o
minarono tratti di strada, su richiesta americana, per ostacolare i movimenti
Giapponesi. In cambio i Vietnamiti ricevettero dagli Americani e dai Cinesi
lanci di armi e di equipaggiamento.
Nel marzo del 1945 i Giapponesi attaccarono e disarmarono le guarnigioni
francesi sospettate di seguire gli ordini di De Grulle e cioè degli alleati. La
rivoluzione vietnamita veniva automaticamente spinta nella fase finale. Nel
giugno del 1945 tutte le forze pronte al combattimento furono concentrate nelle
province di Cao Bang, Bac Can, Lang Son, Thai Nguyen,
Tuyen Quang e Ha Giang. Questo territorio fu dichiarato territorio libero.
Il 24 luglio 1945, quando già il Giappone era in procinto di arrendersi, il
governo di Tokio emise una dichiarazione formale proclamando l’indipendenza del
Vietnam e trasferendo il potere all’imperatore Bao Dai. Dopo la seconda
atomica, quella di Nagasaki, il 10 agosto la radio giapponese annunciò che il
Giappone era pronto a capitolare. Lo stesso 10 agosto Ho Chi Minh fu eletto
presidente del governo provvisorio del Vietnam, e venne lanciato l’ordine di
insurrezione generale. Agli ordini di Nguyen Giap, comandante militare, le
unità dell’esercito popolare uscirono dalle foreste ed irruppero nei territori
fin li occupati da Giapponesi e Francesi impadronendosi di un grande bottino di
armi e munizioni, che furono subito distribuite al popolo. Contemporaneamente
le “Brigate di propaganda” promossero manifestazioni di massa ad Hanoi, nella
città imperiale di Hue e a Saigon.
Il 26 agosto l’imperatore Bao Dai abdicò compiendo in modo ufficiale e solenne
il gesto pubblico di consegnare il “sigillo imperiale di Stato” all’inviato del
governo provvisorio di Ho Chi Minh. Fatto di grande significato poiché: a)
legittimò giuridicamente il potere del nuovo governo; b) agli occhi di quella
parte dei vietnamiti ancora chiusi nella tradizione confuciana, il “mandato del
cielo” passò direttamente dall’imperatore ai comunisti e assicurò la legale
continuità del potere statale.
Il 2 settembre infine, mentre a bordo della corazzata Missouri gli Americani
ricevevano a Tokio la capitolazione giapponese, ad Hanoi Ho Chi Minh proclamava
la nascita della Repubblica democratica del Viet Nam.
Il Viet Nam fu il primo paese ex coloniale che raggiunge insieme i due
obiettivi, quello di scrollarsi di dosso l’oppressione coloniale, quello di
raggiungere l’indipendenza come Stato e quello di porre le basi di un regime di
uguaglianza sociale.
Quello vietnamita è stato un modello insuperato di strategia e di tattica
rivoluzionaria.
Non entrerò nel merito di ciò che è accaduto poi: lo sbarco degli Inglesi nel
sud, il ritorno dei colonialisti francesi, la prima guerra di Indovina, la
sconfitta francese di Dien Bien Phu, il subentro degli Americani, la seconda
guerra e la sconfitta definitiva dell’imperialismo yankee, poiché ciò fa parte
della storia a tutti nota.
LE FILIPPINE
Le Filippine sono un paese con una lunga tradizione di lotta anticoloniale.
Colonizzate dagli spagnoli alla fine del 1500 furono invase dagli Americani nel
1899. I filippini condussero contro l’occupazione USA una guerriglia di
resistenza che durò fino al 1907.
I comunisti comparvero sulla scena filippina nel 1931, interpreti soprattutto
delle esigenze dei contadini fra cui misero salde radici, e dello scarso
proletariato industriale, in particolare i minatori. I Giapponesi occuparono le
Filippine fra il dicembre del 1941 e l’aprile del 1942, e giocarono con la
borghesia filippina la carta della “grande prosperità”.
La maggior parte della classe dirigente filippine si mostrò pronta a collocarsi
nell’orbita giapponese. La resistenza antigiapponese fu esclusivamente
popolare, in specie contadina, in quanto le truppe giapponesi si sostenevano
con requisizioni e razzie dei raccolti e i contadini erano nella necessità di
difendersi. C’era dunque una ragione materiale perché i contadini prendessero
la armi contro i Giapponesi.
La resistenza popolare cominciò a prendere forma nel marzo del 1942 come
movimento Huk, abbreviazione della parola “Hukhalahap”, che significa Eserciti
di Liberazione. Il movimento si estese rapidamente e al termine della guerra
gli Huk disponevano di una forza armata di oltre 100.000 uomini. Gli americani
avevano inizialmente sostenuto gli Huks per indebolire i Giapponesi, ma si
resero rapidamente conto che a guerra finita gli Huks avrebbero rappresentato
un pericolo per il colonialismo. Prima ancora che la guerra finisse, nelle zone
sotto loro controllo gli Huks avevano stabilito, per la prima volta nella
storia filippina, delle istituzioni democratiche nei villaggi, lo sfruttamento
in comune delle terre senza padrone, il sequestro dei raccolti dei proprietari
feudali pro imperialisti.
Gli Americani iniziarono il doppio gioco contro gli Huks già a meta del 1944 e
dopo il termine della guerra scatenarono la guerra aperta contro gli Huks che
rifiutarono di lasciarsi disarmare. Una guerra che non è mai terminata, perché
la guerriglia Huks, fra alti e bassi è viva ancora oggi. In conclusione nel
1945 si era formata una forza popolare nelle Filippine che era nelle condizioni
di assumere il potere, cosa che, senza l’intervento americano, sarebbe
inevitabilmente accaduta.
Il nazionalismo borghese filippino segui una diversa strada. Una parte legata
agli interessi americani si limitò ad attendere il ritorno degli Stati Uniti.
Una parte si schierò a fianco dei Giapponesi e formò un governo
collaborazionista. Nell’autunno del 1944 gli Americani intrapresero la
riconquista delle Filippine che fu compiuta in nove mesi. Al termine, come
detto, l’amministrazione coloniale americana subito intraprese la repressione
degli Huks. Fu concessa l’amnistia a coloro che avevano collaborato con i
Giapponesi e fu dichiarato illegale il partito comunista.
L’INDONESIA
La lotta contro il colonizzatore olandese aveva radici antiche. Nel 1923, nel
1926 e nel 1927 si erano avuti violenti moti anticolonialisti a Giava e
Sumatra.
La direzione del movimento era nelle mani del Partito Nazionalista,
rappresentante delle classi proprietarie, Un movimento nato dopo la prima
guerra mondiale e sviluppatosi clandestinamente fra le due guerre.Il suo
leader, Suekarno, fu imprigionato dagli Olandesi e liberato dai Giapponesi nel
1942. In Indonesia i Giapponesi giocarono fino il fondo la carta dell’”area di
grande prosperità”. Fin dall’inizio della loro occupazione (dicembre
1941-gennaio 1942) lasciarono una certa autonomia ai nazionalisti e pochi
giorni prima della capitolazione, il 14 agosto 1945, proclamarono
l’indipendenza dell’Indonesia con presidente Suekarno, con l’evidente scopo di
strappare l’Indonesia alla dominazione olandese. Con le armi lasciate dai
Giapponesi, il nuovo governo indonesiano armò subito un esercito di 300.00
uomini. Entità piuttosto eterogenea, con ufficiali usciti dalle scuole olandesi
e altri provenienti dalle file della “resistenza” fra cui non pochi, anche se
minoritari, di tendenza progressista e anche comunisti. Complessivamente
l’esercito manifestò però una prevalenza di elementi anticomunisti. Non mi
dilungherò nella descrizione di quello che è accaduto in seguito, che sfocerà
nella tragedia del 1965 nella quale un milione di comunisti furono uccisi e il
Partito Comunista distrutto. Ricorderò solo tre fatti : 1) che subito dopo la
nascita della Repubblica indonesiana si presentò un problema di equilibrio fra
Suekarno e i comunisti, Il partito comunista era stato fondato nel 1920 e aveva
appoggiato i moti degli anni ’20. Ma nel 1927, dopo la rivolta di Suekarno, il
PKI era stato oggetto di una repressione spietata da parte degli olandesi e fu
schiacciato. Per molto tempo non fu in grado di esercitare un peso
significativo sugli avvenimenti. Con l’occupazione giapponese dell’Indonesia i
comunisti assunsero – nella clandestinità – un nuovo ruolo, mettendosi al
centro di un nugolo di organizzazioni militanti anticolonialiste di varia
estrazione e dando vita a una organizzazione militare comunista. Dopo la
proclamazione dell’indipendenza i comunisti appoggiarono Suekarno, che poteva
essere definito un nazionalista radicale. Ma il colonialismo occidentale non
aveva alcuna intenzione di rinunciare alla colonia Indonesia. Già nel settembre
1945 gli Inglesi intrapresero la riconquista delle “Indie Olandesi” cominciando
dal Borneo. Non incontrarono alcuna resistenza nel Borneo settentrionale, già
colonia britannica, e nel Sarawak. Ma nelle sei settimane trascorse dal crollo
giapponese i nazionalisti di Suekarno appoggiati dai comunisti si erano nel
frattempo organizzati nominando un primo ministro socialista, un presidente
simbolo dell’unità, Suekarno, strutturando il nuovo stato e rafforzando
l’esercito.
Gli Inglesi temporeggiarono in attesa degli Olandesi che impiegarono due anni a
concentrare le forze di 140.000 uomini per riconquistare la colonia. Partirono
all’attacco nel 1947. La lotta contro gli olandesi fu il momento
dell’espansione del PKI. Gli Olandesi furono alla fine obbligati a concedere
l’indipendenza alla colonia indonesiana, ma l’Occidente, Americani in testa,
manovrarono attivamente per rafforzare le tendenze di destra. La vicenda
indonesiana è piena di insegnamenti per la sinistra. Nel 1965, i militari di
destra guidati dalla CIA fecero il colpo di Stato. Il Partito Comunista
indonesiano aveva in quel momento raggiunto una forza impressionante : aveva 3
milioni di iscritti al partito, 2 milioni di iscritti all’organizzazione
giovanile, 1.750.000 al movimento femminile, 3.200.000 all’organizzazione
sindacale, 8 milioni al Fronte Contadino. Esisteva anche un settore di sinistra
dall’esercito influenzato da ufficiali di fede comunista. Ciononostante le
forze reazionarie indonesiane pilotate dallo spionaggio americano finirono per
prevalere. Oltre un milione di comunisti furono massacrati
TIMOR-EST
Era una colonia portoghese, la sua posizione geografica ne faceva un trampolino
di lancio naturale per una eventuale invasione giapponese dall’Australia. I
Giapponesi vi sbarcarono una forza di invasione di 20.000 uomini nel 1942. I
Portoghesi non opposero alcuna resistenza, secondo gli ordini ricevuti da
Lisbona. La popolazione, cogliendo l’occasione di indebolire il colonizzatore,
si schierò unanimemente contro i Giapponesi appoggiando la piccola forza
guerrigliera di 400 uomini installata a Timor-Est dagli australiani. La lotta
armata antigiapponese produsse un impatto notevole sull’evoluzione politica
degli abitanti di Timor-Est. I Giapponesi applicarono metodi feroci e gli
abitanti di Timor-Est subirono perdite proporzionalmente disastrose: circa
60.000 morti, cioè il 13% della popolazione. Molti villaggi e paesi furono
distrutti.
Dopo la resa giapponese, gli Australiani riconsegnarono Timor-Est ai
Portoghesi, i quali si vendicarono sugli “indigeni” imponendo loro il lavoro
forzato ed esercitando l’autorità coloniale in modo brutale. L’avvento a
Giakarta del governo anticolonialista di Suekarno indusse negli abitanti di
Timor-Est a dar vita a una organizzazione di resistenza che ottenne l’appoggio
unanime della popolazione. Passarono però 13 anni prima che si creassero le
condizioni della rivolta, che fu scatenata nel 1958, ma venne schiacciata nel
sangue dei Portoghesi. Nel movimento del crollo della dittatura fascista in
Portogallo nel 1974, i militari indonesiani occuparono Timor-Est facendo
ripiombare questo territorio nella guerriglia, che dura ancor oggi. Gli
abitanti di Timor-Est sono in guerriglia ininterrottamente da cinquantadue
anni.
LA COREA
La Corea era stata sottoposta al dominio coloniale giapponese per 40 anni, a
partire dal 1905.
Fu coinvolta direttamente nella guerra nel 1945 quando i Sovietici, provenendo
da nord, prolungando l’avanzata dopo aver occupato la Manciuria, la
presidiarono fino all’altezza del 38º parallelo, secondo gli accordi con gli
alleati, mentre gli Americani, sbarcando da sud, occuparono l’altra metà fino
al 38º parallelo sbarcandovi l’8 settembre 1945. La sola resistenza
antigiapponese mai esistita in Corea, era stata quella comunista cui si era
affiancata una resistenza democratica ispirata a varie tendenze negli ultimi mesi
quando la sconfitta giapponese si delineava inevitabile.
Nella zona sovietica, il comando militare pose il governo nelle mani dei
comunisti che subito distribuirono le terre ai contadini confiscandole ai
proprietari giapponesi e ai coreani che avevano collaborato con i nipponici.
Gli Americani arrivarono in Corea con un presidente anticomunista già
confezionato, Singhman Rhee. Lo scontro fra rivoluzione e reazione capitalista
in Corea assunse subito il valore di una questione di principio, di una cardine
della contesa fra est e ovest e ad esso è dedicato larga parte de “Il secolo
corto” a cui rimando chi vuole approfondire l’argomento.
AFRICA E MEDIO ORIENTE
Un fenomeno analogo a quello che si è prodotto in Asia si è verificato in
Africa e in Medio Oriente. Il processo di trasformazione ha seguito lo stesso
iter che in Asia. La guerra mondiale ha coinvolto tutte le colonie europee in
Africa. Nella guerra di difesa della
cosiddetta Africa Orientale italiana, Etiopia, Eritrea e Somalia, gli italiani
armarono e gettarono nella mischia 200.000 uomini di truppe coloniali. Le
contraddizioni della guerra strapparono Libia, Etiopia, Somalia ed Eritrea al
dominio del colonialismo italiano e le misero sulla via dell’indipendenza.
LA LIBIA
divenne campo di battaglia per tre anni fra Inglesi e italo-tedeschi e fu
occupata dagli Inglesi. Il nazionalismo libico non era una novità : una potente
insurrezione contro l’occupazione italiana si era già prodotta nel 1919-1922
che aveva obbligato gli italiani a una riconquista militare durata fino al 1930
e a una repressione durissima. Durante la guerra si era formato in Egitto un
corpo militare libico rafforzato da volontari arabi che operò concretamente
contro le truppe italiane nel quadro dell’ottava armata inglese.
Questi combattenti antitaliani costruirono l’ossatura dell’indipendenza
libica., la cui proclamazione fu peraltro laboriosa. Le compagnie petrolifere
ango-franco-americane non volevano al potere rivoluzionari che
nazionalizzassero il petrolio.
Praticamente tutt al’Africa fu coinvolta nella guerra.
IL MADAGASCAR
fu occupato dagli Inglesi nel maggio del 1942 con un corpo di spedizione di
10.000 uomini con il pretesto strategico di proteggere il traffico navale del
canale del Mozambico. Fra il maggio e la fine di ottobre gli Inglesi
liquidarono le forze francesi fedeli al regime filotedesco del maresciallo
Petain. Riconsegnarono poi il Madagascar alla Francia di De Grulle. Ma nel
frattempo la resistenza anticolonialista malgascia, organizzata nel Movimento
Democratico del Rinnovamento Malgascio, era ormai divenuta una forza capace di
condurre alla fine della guerra una interruzione generale. I francesi tentarono
di soffocarla con una vera guerra di sterminio a base di massacri. I Malgasci
subirono 89.000 morti.
AFRICA DEL NORD
Nell’Africa del Nord c’era già una situazione insurrezionale fra il 1942 e il
1945. Gli Americani sbarcarono in Marocco nel novembre del 1942. Già nel 1943
il nazionalismo marocchino unito nel Partito Unico dell’Indipendenza (ISTIOLAL)
era in movimento per ottenere l’indipendenza. La resistenza del Marocco al
colonialismo francese aveva già dato luogo a una guerra lunga e sanguinosa che
era terminata solo nel 1934. La repressione francese fu durissima e il simbolo
ne resta il massacro di Rabat e Fes per reprimere una sollevazione popolare
antifrancese nel gennaio-febbraio 1944, seguito poi da vari altri massacri.
ALGERIA
L’8 novembre 1942 – 850 navi inglesi e americane di cui 350 da guerra
sbarcarono gli alleati il Algeria e con poche azioni di guerra neutralizzarono
le truppe francesi fedeli a Petain. Algeri diventò così la sede di un vero e
proprio governo francese in territorio extrametropolitano, sotto la presidenza
del generale Giraud e di De Gaulle. Partendo dall’Algeria i gaullisti poterono
organizzare la partecipazione della Francia “libera” al fianco degli
angloamericani. Come ho già detto i Francesi reclutarono un corpo di spedizione
militare composto di truppe coloniali, in particolare algerine e marocchine,
che fu impiegato in Italia (a Cassino e altrove). Dai graduati algerini che
avevano combattuto in Italia, uscì lo stato maggiore che vincerà la guerra di
liberazione antifrancese e porterò l’Algeria all’indipendenza. In Algeria
l’attività indipendentista era già stata messa fuori legge nel 1939 e
l’agitazione nazionalista si manifestò in modo scoperto nel maggio 1945, con
manifestazioni represse con assurda durezza dalle truppe francesi. A Setif
nella regione di Costantina, le manifestazioni si trasformarono in rivolta
armata. Nello spazio di due mesi (maggio giugno) la repressione francese causò
45.000 morti fra gli Algerini. Questo massacro segnò l’inizio di una guerra
lunga e spietata terminata con la sconfitta francese.
TUNISIA
Era attivo da lungo tempo un partito indipendentista (Neo-Destur). Dopo i moti
indipendentisti di Tunisi nel 1938 era stato messo fuori legge e i suoi capi
arrestati. Nel novembre 1942 tedeschi e italiani occuparono la Tunisia e
l’occupazione durò fino al maggio 1943, al momento della resa finale delle truppe
italo-tedeschi. In questo periodo il movimento nazionalista tunisino ebbe la
possibilità di organizzarsi praticamente allo scoperto.
Dopo la rioccupazione alleata il governo francese operò una profonda e radicale
epurazione nell’intento di distruggere il nazionalismo tunisino provocando una
serie di rivolte tutte duramente represse. Il capo del partito Uabib Burguiba
si rifugiò al Cairo.
IL SENEGAL
Che era controllato dalle forze di Vichy, fu oggetto di un fallito tentativo di
riconquista da parte di un corpo di spedizione anglo-gollista appoggiato da una
parte della flotta britannica con due corazzate. Gli inglesi bombardarono Dakar
producendo numerose vittime ra i civili europei e africani, ma furono respinti
dal fuoco dell’artiglieria costiera che danneggiò le corazzate e perdettero 19
aerei.
Nel 1942, nel momento dell’invasione dell’Africa del Nord, gli Americani
imposero al governatore antigaullista Boisson di poter utilizzare Dakar come
base per la loro flotta. In tal modo il Senegal e tutta l’Africa Occidentale
francese (oltre al Senegal, la Guinea francese, la Costa D’Avorio, il Dahomey,
il Ciad, la Mauritania e il Niger) tornarono sotto l’autorità della Francia
gollista. Ma in tutti questi paesi era in atto la rivolta anticolonialista.
Le vicende della guerra avevano ormai determinato il collo della credibilità
imperiale francese e distrutto il mito dell’invincibilità del colonialismo. Le
popolazioni manifestavano apertamente una esigenza di indipendenza. La reazione
francese si espresse sotto forma di una serie di massacri.
Il dicembre 1944, alcune centinaia di “Tirailleurs Senegalais” fucilieri
senegalesi, un corpo coloniale dell’esercito francese, liberati dai campi di
prigionia tedeschi, sbarcati qualche giorno prima a Dakar, si trovavano concentrati
nel campo di Thiaroye. Reclamavano le paghe arretrate e la smobilitazione e
organizzarono una manifestazione. L’esercito francese intervenne e aprì il
fuoco uccidendone 60 e ferendone decine altri. Molti dei superstiti furono poi
processati e condannati e restarono in carcere fino al 1947. Questa fu una
specie di repressione preventiva, seguita da una serie di 17 altri massacri nei
diversi paesi in rivolta nell’impero coloniale francese in Africa.
Anche il CONGO BELGA
fu coinvolto a sua volta nel processo evolutivo generato dalla guerra. Ma il
Congo Belga era troppo importante per la strategia militare occidentale in
quanto produttore dell’uranio necessario alla fabbricazione delle armi
atomiche. Nel 1942 gli Stati Uniti lo presero sotto la propria tutela. Dalla
lotta politica contro il colonialismo occidentale usci uno dei grandi eroi
africani, PATRICE LUMUMBA; assassinato poi dalla CIA.
Il quadro della situazione rivoluzionaria nel 1945 potrebbe essere approfondito
dicendo che i Francesi si trovarono la rivolta a Tahiti che peraltro aveva già
una sua tradizione di guerriglia anticolonialista (1844-1846). Qui il movimento
nazionalista fu galvanizzato dal ritorno di 300 veterani tacitiani dalla guerra
mondiale.
Analogamente, i soldati indigeni (kanaki) della Nuova Caledonia usati
dall’esercito francese su vari fronti, smobilitati e rimpatriati, si
organizzarono per la protesta. Tornando ai loro campi e ai loro villaggi,
constatarono che le loro famiglie erano rimaste senza assistenza nei sei anni
della loro assenza. Reclamarono giustizia, uguaglianza e socialismo e diedero
vita a una resistenza anche armata, in atto ancora oggi.
MEDIO ORIENTE, GOLFO PERSICO, BALCANI E SPAGNA
Resta da analizzare brevemente la situazione rivoluzionaria in Medio Oriente e
nel Golfo Persico, nei Balcani e in Spagna.
Per ciò che riguarda i Balcani ricorderò solo che nel 1945 nacquero due
repubbliche socialiste, prodotto della resistenza armata popolare contro il
nazismo e il fascismo: quella di Jugoslavia e quella di Albania. Furono le
prime due repubbliche socialiste europee di una potenziale, ipotizzabile Europa
socialista.
Questo argomento è da me trattato diffusamente ne “Il secolo corto”. Voglio
sottolineare solo il fatto che sia in Albania che in Jugoslavia la resistenza antitedesca
guidata dai comunisti giunse alla vittoria nel 1945 senza alcun aiuto esterno.
Avremmo avuto una terza repubblica socialista in Grecia senza l’intervento
diretto dell’esercito inglese prima, nel 1945, e di quello americano poi,
giacché i partigiani, all’interno dei quali i comunisti erano la maggioranza,
detenevano il controllo del territorio al momento del ritiro tedesco.
Potrebbe sembrare una fantasia, un eccesso di inguaribile ottimismo introdurre
la Spagna nel novero delle nazioni che avrebbero potuto conquistare il
socialismo nel 1944-1945, essendo allora la Spagna dominata dal fascismo del
generalissimo Franco. Ma non è così. La storia spagnola è quella su cui più
brutalmente si è scatenata la volontà di occultare, nascondere, deformare, stravolgere,
falsificare della cultura borghese e dei suoi mercenari intellettuali. In
realtà nel 1945 in Spagna si era concentrata e condensata una forza esplosiva
rivoluzionaria che un nonnulla avrebbe potuto far deflagrare e che sarebbe
inevitabilmente esplosa se un concorso straordinario di forze internazionali
unite in un complotto tanto immane quanto mostruoso a danno del popolo spagnolo
non avesse soffocato il movimento.
Non credo che si possa vivere lucidamente senza conoscere la vera storia della
Spagna repubblicana. Ciò almeno per una ragione: che questa storia illustra
spietatamente qual è la vera natura della destra europea e del democraticismo
liberale.
Potete lasciar perdere tutto il resto ma questa lezione dovete studiarla e
impararla perché niente è cambiato da allora: la destra e la falsa democrazia
sono rimaste inalteratamente quelle dal 1936 al 1989.
La seconda guerra mondiale non è cominciata in Polonia bel 1939, come pretende
la storiografia convenzionale. Ma in Spagna nel 1936. L’eroica resistenza dei
repubblicani spagnoli fra il 1939 e il 1939 ha deciso la seconda guerra
mondiale in Europa prima ancora che questa cominciasse, in quanto lasciò i
fascisti spagnoli talmente stremati da rendere impossibile la loro
partecipazione alla guerra a fianco di Hitler e Mussolini. Ciò impedì che i
Tedeschi potessero impadronirsi di Gibilterra. Se Gibilterra fosse caduta in
mano tedesca il Mediterraneo sarebbe stato chiuso alle flotte inglese e
americana e la guerra nel Mediterraneo avrebbe avuto un corso diverso.
Questo è solo uno degli aspetti.
Il carattere feroce del fascismo spagnolo, l’ipocrisia delle democrazie
occidentali nel soffocare la Repubblica, il ruolo delle Brigate Internazionali
come matrice della resistenza in Europa, Il modo in cui gli angloamericani
fanno tenuto in piedi Franco fino all’abbraccio finale fra Franco e Eisenhower.
Tutto questo è descritto ampiamente nel mio libro e non avrebbe ragione che mi
dilungassi qui a ripetere quanto ho scritto. La lettura del lungo capitolo che
ho dedicato alla Spagna ne “Il secolo Corto” potrà convincere che ascolta che
la Spagna era una polveriera rivoluzionaria nel 1945.
LIBANO E SIRIA
La Francia aveva occupato il Libano come eredità dello smembramento dell’impero
turco nel 1919. ma i Francesi si erano scontrati subito con il nascente
nazionalismo arabo. Ne era nata una vera guerra. Solo nel periodo 1919-1920 le
truppe d’occupazione francesi subirono 6.000 morti e feriti. Allo scoppio della
seconda guerra mondiale, data la delicatezza della posizione strategica del
Medio Oriente, gli alleati dichiararono l’indipendenza del Libano con la
limitazione che si assumeva la “difesa” del paese per la durata della guerra.
Era implicita la promessa dell’indipendenza. Già nel 1943 i libanesi erano in
armi contro gli occupanti francesi. Nel maggio 1945, lo sbarco di nuove truppe
francesi portò alla insurrezione armata. Si produsse un conflitto sanguinoso
con centinaia di morti, bombardamenti aerei e di artiglieria. I Francesi
dovettero infine piegarsi e abbandonare il levante. Nel 1945 c’era dunque una
rivoluzione armata in Libano e in Siria.
In IRAK
erano invece gli Inglesi che dal dopoguerra 1914-1914 “proteggevano” le zone
petrolifere gestite dall’Anglo-Iranian Oil Company. L’Irak era stato
conquistato dagli Inglesi nel corso di questa guerra con un corpo di spedizione
formato in gran parte da truppe coloniali. Ma esistevano un nazionalismo
iracheno risultato della lotta contro la dominazione turca. Nel maggio 1920,
all’annuncio che gli Inglesi avevano ottenuto dalla Società delle Nazioni il
mandato, l’Irak per sfida si proclamò indipendente. Iniziò una guerriglia che
fu soffocata con 30.000 soldati indiani e l’uso di gas asfissianti (9.000 morti
fra gli iracheni, 2.000 fra gli inglesi.)
Il nazionalismo iracheno restò tuttavia attivo, Nel 1941, allo scoppio della
seconda guerra mondiale, elementi antibritannici presero il potere a Baghdad e
gli Inglesi concentrarono truppe a Bassora. La resistenza nazionalista fu vinta
e le forze britanniche ripresero il controllo di tutto il paese stabilendo basi
aeree e navali e presidi terresti.
Alla fine della guerra, con il graduale ritiro delle truppe britanniche,
l’agitazione nazionalista riprese in grande stile. L’Irak nel 1945 si trovava
anch’esso in una situazione rivoluzionaria, che condusse più tardi gli Inglesi
al ritiro definitivo.
La situazione del Medio Oriente e del Golfo Persico non è riassumibile così
schematicamente. Ho trattato questo argomento nel libro “Le frontiere maledette
del Medio Oriente”, che affronta l’analisi di molteplici situazioni :
Palestina, Kuwai, Iran, Arabia Saudita, Yemen.
Nel 1945 esisteva una situazione rivoluzionaria anche in Kurdistan e nel nord
dell’Iran. Nel 1941 l’Iran fu occupato contemporaneamente da forze
angloamericane e sovietiche. La nuova situazione consentì un rapido sviluppo
del partito comunista Tudeh, che significa massa, nato nel 1920 e costretto
sempre ad agire in clandestinità.
Le forze d’occupazione sovietiche favorirono l’organizzazione di forza
autonomista e progressiste nell’Azerbajgian iraniano, nel Nord dell’Iran e nel
Kurdistan iraniano, dove si formarono due repubbliche autonome. Ma nel 1946 i
due movimenti rivoluzionari subirono una dura repressione. L’influenza inglese
(che era collegata al monopolio dell’Anglo-Iranian Oil Company) sul petrolio
iraniano venne decisamente sostituita da quella americana.
Credo che questo breve sguardo gettato sul 1945 dimostri che alla fine della
seconda guerra mondiale un fenomeno rivoluzionario era in atto
contemporaneamente in tutti i paesi soggetti al dominio coloniale, e che la
spinta rivoluzionaria si estendeva nei Balcani e si presentava in Spagna.
E SE GLI STATI UNITI NON AVESSERO AVUTO LA
BOMBA ATOMICA ?
Fu legittimo chiedersi che cosa sarebbe accaduto se gli Stati Uniti
non avessero avuto la bomba atomica e se fossero stati costretti a programmare,
assieme agli ex paesi colonialisti, la ricolonizzazione dell’Asia e dell’Africa
con i soli mezzi convenzionali.
Gli Stati uniti hanno potuto gravare sulla testa dei Popoli l’ipotesi dell’Uso
dell’arma atomica fin dal giorni immediatamente successivi a Hiroschima e
Nagasaki. L’ arma atomica ha funzionato come elemento di dissuasione nei
confronti delle classi possidenti dei paesi coloniali, pronte ad associarsi al
più potenze, nella cui ombra prosperano. I riverberi dell’arma atomica
paralizzarono la spinta nazionalista poiché consolidarono l’idea
dell’invincibilità degli Stati Uniti e con gli Stati Uniti dell’invincibilità
dell’Occidente.
Senza l’arma atomica gli alleati occidentali si sarebbero trovati di fronte a
un problema militare, per tornare a sottomettere Asia e Africa, di proporzioni
così vaste da diventare insolubile. Sarebbe loro occorso un esercito
sterminato, di decine di milioni di uomini, per reprimere tutte le nazioni che
si trovavano contemporaneamente in rivolta. E questo esercito non esisteva.
A cura di Maquis, stampato in proprio 12-10-2002