Aprile 1975: dalla vittoria del Vietnam una grande spinta ai movimenti di liberazione del terzo mondo
E’ la primavera del 1975. In poco più
di trenta giorni l’Armata popolare e i guerriglieri vietcong riusciranno a
compiere la marcia di circa mille km., dal 18° parallelo al delta del Mekong,
che li separa dalla vittoria. In rapida
sequenza vengono liberate le città vietnamite che per parecchi anni hanno
occupato le prime pagine di tutto l’apparato mass-mediatico planetario. La prima a cadere è Huè, l’antica capitale
imperiale la cui cittadella è diventata celebre per l’eroica resistenza che un
pugno di vietcong seppe opporre per settimane alle soverchianti forze degli
invasori americani. Poi, il 29 marzo, è
la volta di Da Nang, trasformata dal Pentagono nella più grande base
militare di tutto il sud-est
asiatico. Ancora oggi i suoi dintorni
sono disseminati di rottami di panzer, di jeep, di mezzi blindati corrosi dalla
salsedine che soffia da una delle più incantevoli spiagge di tutto il
Vietnam. Le rovine dei bunker che la
circondano raccontano di una piazzaforte USA superarmata, ma incapace di
rompere l’assedio dei guerriglieri che ogni notte, per migliaia di notti,
partendo dai loro rifugi inaccessibili sui Monti di Granito che la circondano,
non hanno mai dato tregua ai baldanzosi ragazzi del Texas e dell’Arkansas che
la ribattezzarono the gate off the hell,
la porta dell’inferno.
Huè, Da Nang, Quan Tri, Khe San, Dong Ha, le città rese tristemente celebri da
tanti anni di guerra vengono rapidamente liberate, una dopo l’altra, dalla
travolgente avanzata dell’Armata popolare di Nguyen Van Giap. Poi, finalmente,
dopo 4952 giorni, la lunga guerra di liberazione contro gli Stati Uniti
d’America ed il loro esercito fantoccio, consuma le sue ultime ore. E’ il 30 aprile 1975, un giorno che il
popolo vietnamita continua a ricordare con legittimo orgoglio. Al levar del sole quattro colonne corazzate
si mettono in marcia per sferrare da quattro direzioni l’attacco finale a
Saigon, la capitale sudvietnamita. E’
l’ultimo giorno di una guerra di liberazione durata trent’anni. I cento blindati della Brigata 203 attestati
a Ho Nai hanno ricevuto l’ordine dal comando mobile di Bien Hoa dell’Armata
Popolare di conquistare il “grande ponte di Saigon”, poi di dividersi in due
tronconi e di marciare a tutto gas verso il palazzo presidenziale, ultima
roccaforte nemica nel centro della città.
E’ da poco passato mezzogiorno quando il carro 843, un T54 di fabbricazione
sovietica, ancora coperto da uno strato mimetico di foglie di cocco, comandato
dal capocarro Bui Quang Tanh, sfonda il cancello del palazzo presidenziale di
Doc Lap e accoglie la resa di quel che resta dell’esercito fantoccio. Lo sfacelo è totale e la resa degli ultimi
combattenti sudisti, ormai sconfitti e abbandonati dai generali del Pentagono,
assume tratti di involontaria comicità: escono tutti in mutande e a braccia
alzate dal portone principale dell’imponente palazzo simbolo di un potere
profondamente detestato dal popolo vietnamita.La disfatta militare è completa,
la fuga degli americani è molto più caotica e umiliante di quella dei francesi dopo la disfatta di Dien Bien
Phu. Memorabili le immagini degli
ultimi marines e dei loro collaborazionisti che si aggrappano disperatamente
agli elicotteri in fuga dal tetto dell’ambasciata americana.
La guerra di liberazione durata trent’anni è finita ma il popolo vietnamita
dovrà pagare ancora un prezzo molto alto per la sua indipendenza: per altri 18
lunghissimi anni il Vietnam è vissuto nel più completo isolamento, stritolato
dalla morsa di un embargo micidiale che ha aggiunto molte altre vittime ai due
milioni massacrati durante la guerra, morti per fame e malattie di ogni genere,
anche le più banali, che noi curiamo solitamente con qualche aspirina. Per non parlare dei danni enormi provocata
dalla diossina sprigionata dall’agente
orange gettato a tonnellate sulla giungla indocinese. Una feroce
punizione supplementare consumata dagli invasori lontano dagli occhi
indiscreti delle telecamere. Il prezzo
della vendetta fatta pagare dagli Stati uniti al popolo di “straccioni” che
aveva osato sfidare e vincere la più grande potenza militare della storia,
malgrado che contro di esso siano state usate senza risparmio le più micidiali
armi di distruzione di massa incluse quelle chimiche come il napalm e la
diossina. Va ricordato inoltre che sul
sud-est asiatico l’aviazione americana ha scaricato una quantità di
esplosivo quasi doppio rispetto a
quello scaricato sull’Europa occupata durante tutta la seconda guerra mondiale.
Prima la Francia, poi il Giappone, ancora la Francia e infine gli Stati
Uniti. Come ha potuto un piccolo paese,
tra i più poveri del mondo, reggere
cosi a lungo una sfida di quella portata contro tre delle maggiori potenze
imperialiste del pianeta?
Senza trascurare i fattori storici oggettivi (un secolo di continue
insurrezioni anticoloniali ha sicuramente concorso a formare una forte volontà
popolare di resistenza contro gli invasori), determinante è stata la creazione
negli anni trenta di un forte partito comunista indocinese e di un suo gruppo
dirigente cresciuto nell’alveo ideale e politico della 3° internazionale con
alla testa un leader di grande levatura teorica come Ho Ci Minh che ha saputo
plasmare il movimento di liberazione fondendo l’esigenza di una trasformazione
rivoluzionaria del Vietnam con le peculiarità di un paese contadino arretrato,
nel quadro di una politica di alleanze lungimirante. Un percorso segnato da una forte identità nazionale che, pur
mantenendo alto il valore di appartenenza al movimento comunista
internazionale, non ha mai rinunciate alla sua autonomia critica, pesando non
poco, negli anni 60, sulle correzioni di rotta del suddetto movimento,
costretto a prendere atto dai nuovi eventi (Vietnam,Algeria, Cuba) che lo
schema rigido della coesistenza pacifica a gestione bipolare non era più
compatibile con la nuova articolazione offensiva dei movimenti antimperialisti
e anticoloniali dei paesi del Terzo mondo.
La contraddizione divenne evidente nel 1964 quando, dopo la provocazione USA
nel Golfo del Tonchino, il Vietnam si trovò davanti al bivio più drammatico
della sua storia: decidere cioè se rinunciare alla liberazione completa del
Paese piegandosi, come chiedeva Krusciov, alle regole della gestione bipolare, che
escludeva la modifica degli equilibri planetari concordati dalle due grandi
potenze, oppure, pur consapevoli dei rischi che una tale sfida comportava,
assumersi la responsabilità di compiere una scelta nettamente trasgressiva
rispetto all’ordine mondiale di quel tempo.
Evitando nel contempo che nello scontro aspro e lacerante apertosi nel
comitato centrale del PC vietnamita
prevalessero i gruppi legati a Mosca o a Pechino. Il capolavoro politico di Ho Ci Minh fu
quello di riuscire, con una politica di rigorosa equidistanza dai due giganti
del comunismo mondiale, URSS e Cina, in conflitto tra di loro, ad ottenere il
sostegno politico e militare di entrambi in una guerra di liberazione che
nessuno dei due, per ragioni diverse, caldeggiava. E’ bene aggiungere anche che, senza quel sostegno, che divenne
sempre più aperto e generoso, unitamente a quello di tutto il campo socialista
e del movimento comunista mondiale, il Vietnam da solo non ce l’avrebbe fatta
né avrebbe potuto diventare il paese trainante di una eroica lotta
antimperialista che ha alimentato gli ideali, la fiducia e la speranza, non
solo dei movimenti di liberazione, ma anche quella degli operai e degli
studenti protagonisti in questa parte del mondo dei grandi movimenti sociali e
politici degli anni 60/70. Con buona
pace di chi vuole sotterrare con infamia l’esperienza storica del movimento
operaio del ‘900.
Quanto abbia inciso il Vietnam sugli equilibri politici mondiali nella seconda
metà del novecento lo si può cogliere dalle parole di Ernesto Che Guevara
pronunciate davanti alla seconda Conferenza di Algeri dei paesi non allineati, quando invitò i movimenti di liberazione
ad aprire focolai di resistenza in altre parti del Terzo mondo (….due, tre,
cento Vietnam). In quel passaggio venne
espresso il significato storico dirompente della rivoluzione vietnamita, la sua
proiezione su scala planetaria, nel momento in cui la crisi irreversibile del
vecchio mondo coloniale sembrava ormai
giunta al capolinea. Un ottimismo,
quello del Che, forse eccessivo, che poi sarebbe stato attenuato da avvenimenti
successivi, ma che nulla toglie alla dinamica positiva innescata da quella
straordinaria stagione politica.
Il risultato più rilevante del Vietnam di Ho Ci Minh fu quello di avere
esportato in casa del nemico una crisi sociale e politica profonda. Appartengono alla storia di quegli anni le
esplosioni antirazziste nei ghetti neri delle metropoli americane. La nascita
delle pantere nere, le ribellioni
di massa nei campus universitari, il dilagare delle diserzioni dalle chiamate
di leva, l’affermarsi del pacifismo come nuova frontiera della cultura
americana, la stessa produzione holliwoodiana contagiata dalla protesta
dilagante.
Lo shok della sconfitta ha provocato sensi di colpa e laceranti divisioni in un
paese abituato a vincere qualsiasi competizione, mai a perderle. L’America puritana e imperialista non ha mai
perdonato ai suoi soldati superarmati, supernutriti e superpagati l’onta della
sconfitta e la perdita del mito dell’invincibilità ad opera di un esercito di
contadini poverissimi del Terzo mondo.
Era da quando Custer fu sconfitto dai Siox e dai Cheyennes a Little Big
Horn che non succedeva. Nella sua coscienza
collettiva si è insinuata una sorta di sindrome
vietnamita difficile da rimuovere ed ancora percepibile ogni
qualvolta che al Pentagono si pone il dilemma se e come iniziare una nuova
guerra di aggressione. Non a caso,
trent’anni dopo si evoca l’ombra del Vietnam guardando al pantano iracheno.
Di segno ovviamente opposto le risposte date dall’America democratica e radical
che, sebbene minoritaria, si è impegnata in tutti i modi possibili per
contrastare e denunciare una delle
pagine più infami della storia politica e militare degli Stati Uniti
d’America. Uno dei risultati più
significativi di questo impegno è stato raccolto quando, vent’anni dopo la fine
della guerra, si sono incontrati ad Hanoi il generale Giap, stratega e
vincitore della guerra di popolo, e Robert Mc Namara, braccio destro del
presidente J.F. Kennedy e segretario del dipartimento alla difesa di L. Johnson
quando nel 1964 fu architettata la tristemente famosa provocazione del Golfo
del Tonchino. “Ci siamo inventati tutto e fu la CIA ad
organizzarla”. Questa la
sconcertante dichiarazione pronunciata da Robert Mc Namara il giorno del suo arrivo ad Hanoi a cui seguirono altre
inquietanti parole: “Quella guerra è stata
un grande errore ed è stata una delle pagine più vergognose della storia
americana”. Frasi un po’
tardive e sicuramente poco gratificanti per i tre milioni di vietnamiti
massacrati dai B 52, dal napalm e dalla diossina, ed anche per i 58 mila
soldati americani mandati a morire in Indocina. Ma pur sempre un riconoscimento ad un popolo che ha insegnato a
tutti la rara virtù che libertà e indipendenza
non sono mai merci barattabili:
Sergio Ricaldone