www.resistenze.org - cultura e memoria resistenti - storia - 02-04-05

Aprile 1975: dalla vittoria del Vietnam una grande spinta ai movimenti di liberazione del terzo mondo


E’ la primavera del 1975.  In poco più di trenta giorni l’Armata popolare e i guerriglieri vietcong riusciranno a compiere la marcia di circa mille km., dal 18° parallelo al delta del Mekong, che li separa dalla vittoria.  In rapida sequenza vengono liberate le città vietnamite che per parecchi anni hanno occupato le prime pagine di tutto l’apparato mass-mediatico planetario.  La prima a cadere è Huè, l’antica capitale imperiale la cui cittadella è diventata celebre per l’eroica resistenza che un pugno di vietcong seppe opporre per settimane alle soverchianti forze degli invasori americani.  Poi, il 29 marzo, è la volta di Da Nang, trasformata dal Pentagono nella più grande base militare  di tutto il sud-est asiatico.  Ancora oggi i suoi dintorni sono disseminati di rottami di panzer, di jeep, di mezzi blindati corrosi dalla salsedine che soffia da una delle più incantevoli spiagge di tutto il Vietnam.   Le rovine dei bunker che la circondano raccontano di una piazzaforte USA superarmata, ma incapace di rompere l’assedio dei guerriglieri che ogni notte, per migliaia di notti, partendo dai loro rifugi inaccessibili sui Monti di Granito che la circondano, non hanno mai dato tregua ai baldanzosi ragazzi del Texas e dell’Arkansas che la ribattezzarono the gate off the hell, la porta dell’inferno.

Huè, Da Nang, Quan Tri, Khe San, Dong Ha, le città rese tristemente celebri da tanti anni di guerra vengono rapidamente liberate, una dopo l’altra, dalla travolgente avanzata dell’Armata popolare di Nguyen Van Giap. Poi, finalmente, dopo 4952 giorni, la lunga guerra di liberazione contro gli Stati Uniti d’America ed il loro esercito fantoccio, consuma le sue ultime ore.  E’ il 30 aprile 1975, un giorno che il popolo vietnamita continua a ricordare con legittimo orgoglio.  Al levar del sole quattro colonne corazzate si mettono in marcia per sferrare da quattro direzioni l’attacco finale a Saigon, la capitale sudvietnamita.  E’ l’ultimo giorno di una guerra di liberazione durata trent’anni.  I cento blindati della Brigata 203 attestati a Ho Nai hanno ricevuto l’ordine dal comando mobile di Bien Hoa dell’Armata Popolare di conquistare il “grande ponte di Saigon”, poi di dividersi in due tronconi e di marciare a tutto gas verso il palazzo presidenziale, ultima roccaforte nemica nel centro della città.

E’ da poco passato mezzogiorno quando il carro 843, un T54 di fabbricazione sovietica, ancora coperto da uno strato mimetico di foglie di cocco, comandato dal capocarro Bui Quang Tanh, sfonda il cancello del palazzo presidenziale di Doc Lap e accoglie la resa di quel che resta dell’esercito fantoccio.  Lo sfacelo è totale e la resa degli ultimi combattenti sudisti, ormai sconfitti e abbandonati dai generali del Pentagono, assume tratti di involontaria comicità: escono tutti in mutande e a braccia alzate dal portone principale dell’imponente palazzo simbolo di un potere profondamente detestato dal popolo vietnamita.La disfatta militare è completa, la fuga degli americani è molto più caotica e umiliante di quella  dei francesi dopo la disfatta di Dien Bien Phu.  Memorabili le immagini degli ultimi marines e dei loro collaborazionisti che si aggrappano disperatamente agli elicotteri in fuga dal tetto dell’ambasciata americana.

La guerra di liberazione durata trent’anni è finita ma il popolo vietnamita dovrà pagare ancora un prezzo molto alto per la sua indipendenza: per altri 18 lunghissimi anni il Vietnam è vissuto nel più completo isolamento, stritolato dalla morsa di un embargo micidiale che ha aggiunto molte altre vittime ai due milioni massacrati durante la guerra, morti per fame e malattie di ogni genere, anche le più banali, che noi curiamo solitamente con qualche aspirina.  Per non parlare dei danni enormi provocata dalla diossina sprigionata dall’agente orange  gettato a tonnellate sulla giungla indocinese.  Una feroce  punizione supplementare consumata dagli invasori lontano dagli occhi indiscreti delle telecamere.  Il prezzo della vendetta fatta pagare dagli Stati uniti al popolo di “straccioni” che aveva osato sfidare e vincere la più grande potenza militare della storia, malgrado che contro di esso siano state usate senza risparmio le più micidiali armi di distruzione di massa incluse quelle chimiche come il napalm e la diossina.  Va ricordato inoltre che sul sud-est asiatico l’aviazione americana ha scaricato una quantità di esplosivo  quasi doppio rispetto a quello scaricato sull’Europa occupata durante tutta la seconda guerra mondiale.

Prima la Francia, poi il Giappone, ancora la Francia e infine gli Stati Uniti.  Come ha potuto un piccolo paese, tra i più poveri  del mondo, reggere cosi a lungo una sfida di quella portata contro tre delle maggiori potenze imperialiste del pianeta?
Senza trascurare i fattori storici oggettivi (un secolo di continue insurrezioni anticoloniali ha sicuramente concorso a formare una forte volontà popolare di resistenza contro gli invasori), determinante è stata la creazione negli anni trenta di un forte partito comunista indocinese e di un suo gruppo dirigente cresciuto nell’alveo ideale e politico della 3° internazionale con alla testa un leader di grande levatura teorica come Ho Ci Minh che ha saputo plasmare il movimento di liberazione fondendo l’esigenza di una trasformazione rivoluzionaria del Vietnam con le peculiarità di un paese contadino arretrato, nel quadro di una politica di alleanze lungimirante.   Un percorso segnato da una forte identità nazionale che, pur mantenendo alto il valore di appartenenza al movimento comunista internazionale, non ha mai rinunciate alla sua autonomia critica, pesando non poco, negli anni 60, sulle correzioni di rotta del suddetto movimento, costretto a prendere atto dai nuovi eventi (Vietnam,Algeria, Cuba) che lo schema rigido della coesistenza pacifica a gestione bipolare non era più compatibile con la nuova articolazione offensiva dei movimenti antimperialisti e anticoloniali dei paesi del Terzo mondo.

La contraddizione divenne evidente nel 1964 quando, dopo la provocazione USA nel Golfo del Tonchino, il Vietnam si trovò davanti al bivio più drammatico della sua storia: decidere cioè se rinunciare alla liberazione completa del Paese piegandosi, come chiedeva Krusciov, alle regole della gestione bipolare, che escludeva la modifica degli equilibri planetari concordati dalle due grandi potenze, oppure, pur consapevoli dei rischi che una tale sfida comportava, assumersi la responsabilità di compiere una scelta nettamente trasgressiva rispetto all’ordine mondiale di quel tempo.   Evitando nel contempo che nello scontro aspro e lacerante apertosi nel comitato centrale del PC vietnamita  prevalessero i gruppi legati a Mosca o a Pechino.   Il capolavoro politico di Ho Ci Minh fu quello di riuscire, con una politica di rigorosa equidistanza dai due giganti del comunismo mondiale, URSS e Cina, in conflitto tra di loro, ad ottenere il sostegno politico e militare di entrambi in una guerra di liberazione che nessuno dei due, per ragioni diverse, caldeggiava.   E’ bene aggiungere anche che, senza quel sostegno, che divenne sempre più aperto e generoso, unitamente a quello di tutto il campo socialista e del movimento comunista mondiale, il Vietnam da solo non ce l’avrebbe fatta né avrebbe potuto diventare il paese trainante di una eroica lotta antimperialista che ha alimentato gli ideali, la fiducia e la speranza, non solo dei movimenti di liberazione, ma anche quella degli operai e degli studenti protagonisti in questa parte del mondo dei grandi movimenti sociali e politici degli anni 60/70.  Con buona pace di chi vuole sotterrare con infamia l’esperienza storica del movimento operaio del ‘900.
 
Quanto abbia inciso il Vietnam sugli equilibri politici mondiali nella seconda metà del novecento lo si può cogliere dalle parole di Ernesto Che Guevara pronunciate davanti alla seconda Conferenza di Algeri  dei paesi non allineati, quando invitò i movimenti di liberazione ad aprire focolai di resistenza in altre parti del Terzo mondo (….due, tre, cento Vietnam).  In quel passaggio venne espresso il significato storico dirompente della rivoluzione vietnamita, la sua proiezione su scala planetaria, nel momento in cui la crisi irreversibile del vecchio mondo coloniale  sembrava ormai giunta al capolinea.  Un ottimismo, quello del Che, forse eccessivo, che poi sarebbe stato attenuato da avvenimenti successivi, ma che nulla toglie alla dinamica positiva innescata da quella straordinaria stagione politica.


Il risultato più rilevante del Vietnam di Ho Ci Minh fu quello di avere esportato in casa del nemico una crisi sociale e politica profonda.  Appartengono alla storia di quegli anni le esplosioni antirazziste nei ghetti neri delle metropoli americane. La nascita delle pantere nere, le ribellioni di massa nei campus universitari, il dilagare delle diserzioni dalle chiamate di leva, l’affermarsi del pacifismo come nuova frontiera della cultura americana, la stessa produzione holliwoodiana contagiata dalla protesta dilagante.

Lo shok della sconfitta ha provocato sensi di colpa e laceranti divisioni in un paese abituato a vincere qualsiasi competizione, mai a perderle.  L’America puritana e imperialista non ha mai perdonato ai suoi soldati superarmati, supernutriti e superpagati l’onta della sconfitta e la perdita del mito dell’invincibilità ad opera di un esercito di contadini poverissimi del Terzo mondo.  Era da quando Custer fu sconfitto dai Siox e dai Cheyennes a Little Big Horn che non succedeva.  Nella sua coscienza collettiva si è insinuata una sorta di sindrome vietnamita difficile da rimuovere ed ancora percepibile ogni qualvolta che al Pentagono si pone il dilemma se e come iniziare una nuova guerra di aggressione.  Non a caso, trent’anni dopo si evoca l’ombra del Vietnam guardando al pantano iracheno.

Di segno ovviamente opposto le risposte date dall’America democratica e radical che, sebbene minoritaria, si è impegnata in tutti i modi possibili per contrastare e denunciare una delle  pagine più infami della storia politica e militare degli Stati Uniti d’America.  Uno dei risultati più significativi di questo impegno è stato raccolto quando, vent’anni dopo la fine della guerra, si sono incontrati ad Hanoi il generale Giap, stratega e vincitore della guerra di popolo, e Robert Mc Namara, braccio destro del presidente J.F. Kennedy e segretario del dipartimento alla difesa di L. Johnson quando nel 1964 fu architettata la tristemente famosa provocazione del Golfo del Tonchino.   “Ci siamo inventati tutto e fu la CIA ad organizzarla”.    Questa la sconcertante dichiarazione pronunciata da Robert Mc Namara il giorno del  suo arrivo ad Hanoi a cui seguirono altre inquietanti parole: “Quella guerra è stata un grande errore ed è stata una delle pagine più vergognose della storia americana”.  Frasi un po’ tardive e sicuramente poco gratificanti per i tre milioni di vietnamiti massacrati dai B 52, dal napalm e dalla diossina, ed anche per i 58 mila soldati americani mandati a morire in Indocina.  Ma pur sempre un riconoscimento ad un popolo che ha insegnato a tutti la rara virtù che libertà e indipendenza  non sono mai merci barattabili:

Sergio Ricaldone