da: Pietro Secchia – Filippo Frassati, Storia della Resistenza, Editori Riuniti, 1965, pagg 691-700
trascrizione e conversione in html a cura del CCDP
Benché ripetutamente sconfitto, l'attesismo non demordeva. Mentre il cardinale Della Costa si sforzava di combinare almeno un compromesso tra il CTLN e i fascisti (a quanto pare, non esitò nemmeno ad incontrarsi con Pavolini), nel comitato tornarono a manifestarsi divergenze anche aspre tra coloro che giudicavano conveniente la trattativa col nemico, e chi invece aveva ben compreso che solo l'insurrezione popolare, oltre a corrispondere all'interesse generale del paese, avrebbe offerto una possibilità di salvezza alla città minacciata di distruzione.
La questione fu risolta, prima ancora che dalle discussioni e dal voto del comitato, dalle condizioni reali del momento, identificabili da un lato, nella sempre più manifesta determinazione dei tedeschi a non abbandonare Firenze senza combattere (come peraltro esigeva la loro strategia: quanto più a lungo avessero ritardato l'avanzata anglo-americana, tanto più solidamente si sarebbero attestati ed organizzati a difesa sulla linea gotica); e, per altro verso, nella presenza di agguerrite formazioni partigiane, pronte ad intervenire a fianco di un efficiente apparato cittadino il cui punto di forza era ancora costituito, malgrado le recenti perdite, dai GAP.
In merito alle intenzioni del nemico, anche l'ala moderata e tendenzialmente attesista della coalizione antifascista dovette infine abbandonare ogni illusione; e il CTLN infine le denunciava, in un rapporto inviato il 30 luglio al comando alleato sulla situazione cittadina, e così redatto:
«Si porta a conoscenza la seguente relazione concernente la situazione della città di Firenze.
«Da notizie trapelanti dal comando tedesco risulterebbe che ove gli alleati facendo un'avanzata unicamente frontale sulla città di Firenze dal lato sud, sarebbe loro intenzione difendere la città palmo a palmo, facendo particolarmente barricare le strade che danno accesso ai ponti della zona centrale.
«Attualmente trovansi in Firenze circa cinquecentomila persone, cioè il doppio della popolazione normale; fra queste una enorme quantità si sono rifugiate in città perché dovute fuggire dalle circostanti campagne, razziate e saccheggiate dalle truppe tedesche in ritirata.
«Le condizioni sanitarie, alimentari ed economiche sono le seguenti:
a) sono stati asportati tutti gli impianti ospedalieri; difettano in modo assoluto medicamenti e ferri chirurgici; si verifica già qualche caso di tifo, dovuto alla ridotta erogazione dell'acqua potabile ed alla scarsa rimozione delle immondizie dalla città;
b) le scarse provviste alimentari sono ormai ridotte agli estremi ed in questi ultimi giorni vengono a difettare anche i rifornimenti di frutta e verdure che erano affluiti negli ultimi giorni nella città; particolarmente le categorie meno abbienti e i bambini risentono gravemente di questa situazione. A proposito dei rifornimenti della farina per panificazione si fa presente che è stata approvvigionata dal comando germanico limitatamente al fabbisogno giornaliero. Dato l'attuale inizio di sganciamento delle truppe germaniche, si prevede che la città rimanga assolutamente senza pane;
c) le truppe tedesche in questi ultimi tempi hanno asportato e distrutto tutto quanto possibile; in questi giorni sono in atto provvedimenti per asportare anche le opere d'arte. Gli impianti industriali, compresi quelli di alcuni servizi pubblici, sono in condizioni di non poter essere riattivati con le riserve cittadine per un tempo imprevisto. Sono stati distrutti anche i principali mulini. Per il momento il servizio idrico, pure ridotto, funziona, ma si prevede però che sia distrutto al momento dello sganciamento. A causa delle distruzioni e asportazioni di cui sopra e che proseguono tuttora, si prevede debba risentirne grave disagio ogni strato della cittadinanza. Sia per la disoccupazione, sia per la mancanza di produzione di molti generi di necessità alla vita.
«Tutto quanto sopra esposto serve per far presente a codesto comando l'assoluta urgenza e necessità di prendere tutti quei provvedimenti di carattere militare (che forse il comando stesso avrà già studiato) tendenti ad evitare un attacco frontale alla città, che dovesse eventualmente portare ad un enorme aggravamento, con distruzioni, saccheggi e massacro della popolazione, della situazione.
«Il Comitato toscano di liberazione nazionale rimane a completa disposizione con tutti i suoi mezzi, servizi politici, amministrativi e militari, del comando alleato e prega vivamente di stabilire un collegamento per una proficua collaborazione».
Pochi giorni prima, il 21 luglio, il CTLN aveva inoltre proclamato, su proposta del PCI, lo stato insurrezionale, decidendo in pari tempo di rendersi padrone di fatto della città prima dell'arrivo delle truppe alleate, e raccomandando al comando militare di «prendere tutte le misure necessarie per non essere colto alla sprovvista da una situazione che potrebbe, com'era avvenuto a Roma ed a Siena, risultare così incerta da non permettere un tempestivo impiego delle sue forze».
Il comando militare (al quale s'accennava nel rapporto Roasio) era stato formato sin dal 10 giugno, col compito di assumere - come sanciva l'atto costitutivo approvato dal CTLN - «l'effettiva direzione di tutte le forze armate operanti nella regione, che ogni partito è tenuto a mettere a sua disposizione». La sua composizione era la seguente:
Comandante: colonnello Nello Niccoli, del partito d'azione; vice-comandante: capitano Nereo Tommasi, della democrazia cristiana; commissario politico: Luigi Gaiani, del PCI; vice-commissario politico: Dino Del Poggetto, del PSIUP; capo di stato maggiore: Achille Mazzi, del partito liberale.
Il comando - che per quanto definito regionale, esercitava le sue funzioni esclusivamente nella zona di Firenze - disponeva per l'imminente battaglia di forze organizzate notevoli, tra le quali primeggiava la divisione Garibaldi Arno, comandata da «Potente» (Aligi Barducci), un giovane ufficiale di complemento che aveva assunto come nome di battaglia la denominazione del reparto arditi delle truppe da sbarco nel quale aveva prestato servizio. Il commissario politico era «Giobbe» (Danilo Dolfi).
L'organico della divisione comprendeva le brigate Lanciotto (comandante Romeo Fibbi), Sinigaglia (Angelo Gracci «Gracco»), Fanciullacci (Piero Loder) e Caiani: in totale, milleseicento uomini circa. Con una lunga attività bellica al proprio attivo, queste brigate formavano ormai un efficiente complesso, dislocato ad arco nella zona compresa tra il monte Morello ed il gruppo del monte San Michele.
Due brigate GL, la 2a e la 3a Rosselli, operavano rispettivamente nella zona di monte Giovi, ed a sud di Firenze, tra Montespertoli e Lastra a Signa; con una 4a brigata, di formazione recente, e con gruppi minori di scarsa consistenza, esse costituirono verso la metà di agosto la divisione Giustizia e libertà, con una forza effettiva di circa mille uomini.
In città l'organizzazione di gran lunga più attiva era, come s'è già detto, quella dei GAP. Inoltre nelle quattro zone in cui l'abitato di Firenze era suddiviso, agivano squadre costituite dai partiti del CLN. Come risulta dalla «Relazione militare» sulla battaglia di Firenze, redatta dal colonnello Niccoli, il PCI schierava complessivamente centosessantaquattro squadre con milleottocentosettantacinque uomini; i gruppi organizzati dagli altri partiti erano ottantasei, con novecentodiciassette uomini.
L'approssimarsi delle truppe dell'VIII armata britannica indusse il comando tedesco a pubblicare, dopo avere adottato ogni possibile misura difensiva e repressiva, un'ordinanza che imponeva alla popolazione lo sgombero di due vasti settori sulle rive dell' Amo; il provvedimento, emanato il 30 luglio, confermava l'intenzione dei tedeschi di far saltare i ponti sull'Arno, e fu eseguito con la forza dopo il rifiuto dei cittadini abitanti in quei quartieri ad abbandonare le loro case.
L'ordine, oltretutto, comportava la divisione della città in due parti non più collegabili; perciò il CTLN dispose immediatamente la costituzione di una propria «Delegazione d'Oltrarno», che entrò in funzione immediatamente con pieni poteri civili e militari sulla zona meridionale della città.
Continuava intanto la marcia alleata: il 2 agosto la 10a divisione indiana entrava a San Sepolcro e la 1a brigata canadese liberava Empoli e Castiglione; il 3, reparti sudafricani s'impadronivano dell'Impruneta e di altre località vicine. Lo stesso giorno, 3 agosto, alle ore 15, il comando tedesco proclamò lo stato di emergenza; il relativo bando imponeva tra l'altro a tutti i cittadini di non uscire dalle proprie abitazioni e vietava d'affacciarsi alle finestre: «Le pattuglie delle forze armate germaniche - avvertiva il comando nemico - hanno l'ordine di sparare contro le persone che verranno trovate per le strade oppure si mostreranno alle finestre».
Cominciava la battaglia. Ma quell'ordine non previsto dal comando partigiano ne intralciava lo sviluppo iniziale, rendendo più difficili, se non impossibili, i collegamenti ed i concentramenti di forze predisposti.
I tedeschi occupavano ancora con forze ragguardevoli la città: disponevano di reparti di fanteria di consistenza imprecisata, di una compagnia di paracadutisti, della feldgendarmerie e di altri elementi sfusi; ma soprattutto avevano una incolmabile supremazia di mezzi: carri armati, lanciafiamme, mortai ed artiglierie di vario tipo in quantità assai elevata. Inoltre le loro forze di stanza in città erano di continuo accresciute dall'afflusso delle unità in ritirata. In queste condizioni, se il bando tedesco non bloccava i partigiani in armi, intralciava tuttavia i loro movimenti, e per giunta influiva sull'atteggiamento della maggioranza dei cittadini, non organizzati nei reparti combattenti.
Nella città paralizzata, fra il crepitio e i sibili di raffiche intermittenti, i GAP e le squadre più audaci sfidarono gli ordini del nemico e raggiunsero in buon numero i loro posti. Sulle rive dell'Arno si ebbero i primi scontri, mentre cominciava, per ordine del comando militare, l'avvicinamento delle formazioni esterne. Sui colli circostanti, batterie britanniche venivano piazzate ad interdire tutti i passaggi attraverso il fiume ad occidente della città.
Il mattino del 3 agosto una pattuglia della brigata Garibaldi Sinigaglia stabilì il primo contatto con avanguardie alleate, mentre il resto della formazione e le altre brigate partigiane in marcia sostenevano scontri con pattuglie della divisione Göring in varie località: a monte Murlo, a monte Masso, a Poggio Firenze, a Fonte Santa, a Poggio alla Croce, a Torre Cona, a Gamberaia, al borro di Palazzaccio. A sera, due compagnie della brigata Lanciotto, con alla testa Francesco Leone, penetrarono nei quartieri d'Oltrarno e si congiunsero con le squadre d'azione locali. La consistenza delle forze partigiane della riva sinistra raggiungeva così il numero di settecentottanta uomini; l'armamento, tuttavia, era assai scarso: duecentottanta fucili, dodici armi automatiche individuali di vario tipo, centonovantuno pistole e quattrocentonovanta bombe a mano. A questi uomini il comando affidò il compito d'impedire la distruzione dei ponti; ma, come si dovette constatare nella notte sul 4, ben scarse erano le possibilità di successo perché il comando nemico aveva schierato sull'altra riva ingenti forze che controllavano la situazione. Alcuni tentativi vennero comunque compiuti. Scrisse poi il colonnello Niccoli nella sua relazione: «Al ponte della Vittoria due squadre di arditi munite di armi automatiche tentarono di tagliare i fili che univano le linee alla stazione di brillamento. Avvistate dal nemico in prossimità dei fili, furono sottoposte a violente azioni di fuoco cui risposero con alquanta risolutezza e coraggio. L'azione di fuoco si prolungò finché, colpito a morte uno dei capi squadra e serrate da vicino da preponderanti forze tedesche, le squadre furono costrette a ritirarsi portando seco un morto ed un ferito».
Il comandante di squadra caduto era Renzo Dolfi, fratello di «Giobbe», il commissario politico della divisione Arno.
Continua la relazione Niccoli: «Al ponte della Carraia una compagnia di patrioti aveva il compito di impedirne la distruzione. I tedeschi difendevano il ponte con 4 mitragliatrici e vedette varie.
«Quando apparve evidente dal ritiro delle ultime sentinelle che i tedeschi si apprestavano a far saltare il ponte un plotone della citata compagnia uscì al completo ed attaccò di sorpresa due dei quattro centri di fuoco tedeschi, avendo ragione degli uomini dei centri stessi. La violenta reazione nemica arrestò l'avanzata del plotone mentre il ponte saltava. L'intervento di un secondo plotone riaccese la violenza del combattimento che si protrasse per diverse ore.
«In questa zona i patrioti ebbero un morto e quattro feriti.
«Nella zona compresa tra il ponte della Vittoria e Ugnano reparti di patrioti, mentre ancora transitavano truppe tedesche, riuscivano a neutralizzare le mine destinate a far saltare il ponte di Mantignano. Venne inoltre proceduto al rastrellamento delle mine nell'acquedotto di Mantignano, che pertanto rimase intatto. In tali azioni caddero cinque patrioti ».
Cinque ponti sull' Amo saltarono. Rimase pressoché intatto solo Ponte Vecchio, reso peraltro intransitabile dai cumuli di macerie che ne ostruivano gli imbocchi. Erano le rovine dei vecchi palazzi e delle torri medievali dei quartieri adiacenti.
Gli alleati, il cui tempestivo intervento avrebbe impedito, o quantomeno ridotto le devastazioni predisposte dai tedeschi, arrivarono troppo tardi. «Le truppe alleate, annotò il comandante Niccoli nella sua relazione, erano ancora ben lungi dal poter validamente sostenere l'azione dei patrioti. Infatti si constatò che le prime pattuglie alleate giunsero a Porta Romana quattro ore dopo il brillamento dei ponti ed erano di così esigua forza che non avrebbero potuto in alcun modo consentire ai patrioti di mantenere ì ponti contro la reazione tedesca. Nella zona piazza Gavinana e il Bandino e nel rione della Colonna le prime pattuglie alleate comparvero dodici ore dopo di quelle di Porta Romana. Il grosso dell'avanguardia seguì le pattuglie di ben dodici ore ».
I soldati dell'VIII armata, entrando in città, vi trovarono i partigiani della brigata Sinigaglia che li avevano preceduti: alle 11 del 4 agosto erano in piazza Gavinana, in via Senese, a Porta Romana e in San Frediano, accolti con fervido entusiasmo dalla popolazione. Nel pomeriggio, Antonio Roasio tenne un comizio nel piazzale di Porta Romana, gremito di folla acclamante: fu la prima pubblica manifestazione democratica dopo un ventennio di cupo silenzio, violato soltanto dalla voce ossessiva della dittatura.
In serata anche la brigata Lanciotto era al completo in Oltrarno; e con essa sopraggiunse il comando della divisione Arno, che s'insediò a villa Cora.
Sempre il 4 cominciarono a farsi vivi i cosiddetti «franchi tiratori»: erano sparuti gruppi di repubblichini rimasti in città, in buona parte giovani esaltati, e ingannati sino all'ultimo istante dai caporioni fascisti squagliatisi per tempo col grosso delle loro milizie. L'idea di lasciare in città qualche dozzina di sprovveduti ragazzi fu concepita, a quanto pare, dallo stesso Pavolini, il quale tuttavia s'era anch'egli squagliato, non senza ricordarsi di prelevare dalla cassaforte della prefettura, prima della partenza, cinque milioni che distribuì generosamente agli sbirri della sua scorta.
Nel quartiere di San Frediano, al Coventino e a San Niccolò, i franchi tiratori, appollaiati sui tetti delle case, presero a sparare non solo contro i partigiani ed i soldati alleati, ma anche contro passanti inermi. Ma la loro attività non si protrasse a lungo:
«Ovunque individuati - riferisce il colonnello Niccoli nella più volte citata relazione - vennero inseguiti ed in parte catturati e passati immediatamente per le armi». A rastrellare quegli sciagurati furono i partigiani della divisione Arno, sui quali peraltro incombeva una minaccia che sicuramente li preoccupava assai più che i colpi degli improvvisati «cecchini» fascisti.
Nell'Oltrarno ormai liberato mentre i tedeschi occupavano ancora i quartieri alla destra del fiume gli alleati pretendevano di procedere immediatamente, in base a un'ordinanza del generale Alexander (si ritornerà sull'argomento nel prossimo capitolo), al disarmo e al cosidetto «disband» delle formazioni partigiane.
Nella notte sul 5 il comandante «Potente» convocò a rapporto i comandanti di brigata; era presente un colonnello inglese latore degli ordini del quartier generale alleato che esigeva la consegna delle armi e lo scioglimento immediato della divisione.
I comandanti partigiani ascoltarono con amara sorpresa la comunicazione. Poi tornarono ai loro reparti, dove qualche voce era già trapelata, ed informarono gli uomini riuniti in assemblea. Sdegnate proteste accolsero la notizia, ed infine racconta il comandante «Gracco» «i partigiani decisero di non consegnare le armi e di non ritirarsi dalla battaglia. Il comando della nostra divisione ne informò gli alleati che risposero insistendo nell'ordine impartito.
«Nel pomeriggio - prosegue "Gracco" - la situazione si aggravò perché gli alleati fecero capire che erano pronti ad imporre, se necessario, il disarmo e lo scioglimento delle formazioni. Dirigenti politici popolari come Roasio e altri parlarono ai partigiani per calmare gli animi esacerbati e per evitare gesti di disperazione che avrebbero creato nelle immediate retrovie del fronte incidenti di tale portata da compromettere i rapporti tra il movimento partigiano e le autorità militari alleate...
«Incidenti non vennero, ma al tramonto i partigiani della Sinigaglia di loro iniziativa avevano già costituito posti di blocco e appostamenti di armi automatiche intorno agli alloggiamenti, invitando i propri responsabili a far sapere agli alleati, a mezzo di "Potente", che essi avrebbero trattato da nemico chiunque si fosse presentato a imporre con la forza la consegna delle loro armi, strappate ai nemici a prezzo di sangue o raccolte dalla mano dei compagni caduti.
«E vinsero.
«Il 6 agosto il quartier generale dell'VIII armata decideva di utilizzare tutti i milleseicento partigiani della divisione Garibaldi nelle operazioni per la liberazione di Firenze».
La morte di «Potente»
Trascorsero altri due giorni prima che il comando britannico precisasse i compiti che la divisione Arno avrebbe dovuto espletare; infine le insistenti sollecitazioni di «Potente» vennero accolte e l'unità, rafforzata da alcune compagnie canadesi poste agli ordini del comandante italiano, ricevette l'ordine di tenersi pronta per l'impiego al di là del fiume, nella parte della città ancora saldamente tenuta dai tedeschi.
La sorte purtroppo non concesse a «Potente» di condurre la sua divisione all'ultima battaglia. Quel giorno stesso, 8 agosto, una bomba da mortaio lo ferì mortalmente. Stava recandosi con un gruppo di ufficiali del suo comando all'accantonamento della brigata Sinigaglia, nel convento di Santo Spirito, ed era ormai giunto nella piazza che prende il nome dal monastero, quando scoppiò la bomba. Le schegge lo colpirono al ventre e a una gamba, ferirono anche un capitano britannico che lo accompagnava, ed uccisero due civili.
Dacché 1'Oltrarno era libero, le artiglierie ed i mortai tedeschi, piazzati sull'altra sponda, sparavano quasi senza sosta sull'abitato, a casaccio, al solo scopo d'atterrire la popolazione. Fu durante uno di questi bombardamenti che «Potente» rimase ferito. Trasportato all'ospedale militare alleato di Greve nel Chianti, il mattino dopo era morto. Lo riportarono a Firenze, dove il funerale si svolse lungo il viale Galilei, accompagnato dal vicino fragore dei combattimenti in corso. C'era tutta la divisione schierata; intervenne una delegazione di alti ufficiali alleati, e al lamento dei pifferi d'una banda scozzese il corteo funebre percorse il viale dove tutta la gente dei quartieri di San Frediano e del Pignone era accorsa a recare l'ultimo saluto al comandante. In cima a un'asta sventolava la camicia rossa di «Potente», lacera e insanguinata; la nuova bandiera dell'unità che aveva mutato nome: adesso era la divisione Garibaldi Potente.
Frattanto sulla destra dell'Arno le condizioni di vita della popolazione si facevano di ora in ora più tragiche. Mancavano i viveri e l'acqua, mancava la possibilità di curare gli ammalati e persino di seppellire i morti perché le ronde tedesche che pattugliavano la città sparavano a vista contro chiunque si arrischiasse a scendere in strada.
Tuttavia quella vigilanza feroce non riusciva a impedire le sortite dei GAP, ognuna delle quali costava la vita a qualche tedesco. Né riuscì a impedire che il comando militare partigiano si collegasse con l'Oltrarno liberato. L'impresa fu realizzata dal comunista Orazio Barbieri e dall'azionista Enrico Fischer. «Dal Palazzo Vecchio - ha scritto poi Barbieri, rievocando il fatto, - c'è l'accesso alla Galleria degli Uffizi. Di qui la Galleria prosegue sulla costruzione del Vasari sul lungarno Archibusieri, sul Ponte Vecchio fino a Pitti. I tedeschi hanno avuto sentore di un tale passaggio, ma non sono riusciti ad individuarlo e quindi a controllarlo.
«I due uomini della resistenza fiorentina forzano i passaggi, attraversano il ballatoio del salone dei cinquecento fra pericoli di crolli, tubi contorti, passano quasi sulla testa dei tedeschi, appostati sul Lungarno, passano il fiume attraverso il corridoio del Ponte Vecchio e infine, calandosi con una fune (poiché l'arco di via dei Bardi è crollato) entrano in piazza S. Felicita e di qui in Palazzo Pitti dove s'incontrano con gli esponenti del CTLN d'Oltrarno, col comando inglese e col comando partigiano».
Grazie alla scoperta di quel passaggio, inoltre, - come riferisce il colonnello Niccoli nella sua relazione - «il giorno 6 agosto il comando militare toscano prendeva un primo contatto con il comando inglese. Il comandante stesso si recava Oltrarno e conferiva con il maggiore capo dell'ufficio informazioni e con il capo di stato maggiore della divisione inglese schierata a sud di Firenze. Da parte italiana venne fatta un'esposizione della situazione militare riferita alle forze patriottiche ed allo schieramento tedesco ed un quadro della situazione alimentare, sanitaria e morale della città di Firenze. Da parte inglese, dopo aver ringraziato il comando per il contributo dato fino allora dai patrioti alla causa comune, venne assicurato che allo scopo di evitare ulteriori distruzioni della città di Firenze, gli alleati avrebbero forzato l'Arno con due colonne a monte e a valle della città. Lo stesso comando inglese dichiarò che avrebbe avvertito il comando militare sull'inizio delle operazioni. Consigliò inoltre di mantenere i nostri posti di osservazione per lasciarci la responsabilità dell'inizio dell'insurrezione secondo lo svolgersi della battaglia».
Da tre giorni ormai le truppe britanniche sostavano sulla riva sinistra e quell'inopinato arresto, oltre a rendere spasmodica l'attesa della cittadinanza ancora soggetta all'occupazione nemica, sconvolgeva i piani del comando militare, elaborati partendo dal presupposto che le operazioni per la liberazione di Firenze non avrebbero subito soluzioni di continuità. Stava accadendo, invece, l'imprevisto; e tanta era l'urgenza di conoscere le intenzioni alleate che il colonnello Niccoli si portò, appena possibile, in Oltrarno, omettendo di farsi accompagnare da una delegazione che includesse almeno un rappresentante delle forze partigiane più numerose e meglio organizzate (con lui andarono Carlo Ragghianti, responsabile militare del partito d'azione, e Fischer, subito rientrato dopo la scoperta del passaggio attraverso Ponte Vecchio).
Campane a martello
Come appare chiaro dalla relazione citata, l'incontro valse a confermare che gli alleati non avevano alcuna fretta di completare la liberazione della città. Al comando militare, con una disponibilità di circa milleduecento uomini armati, tutti appartenenti alle squadre cittadine, non restò che prendere le misure opportune per ridurre al minimo gli effetti negativi del ritardo; intanto i partiti più attivi del CTLN si prodigavano per mantenere elevato lo spirito combattivo delle masse popolari. Il 6 agosto il giornale Azione comunista scriveva: «Mentre i quartieri d'Oltrarno sono stati liberati dalla peste nazista, di qua dal fiume si combattono le ultime, le più difficili, ma anche le più eroiche battaglie per la liberazione di Firenze.
«Si combatte contro le pattuglie tedesche che intenderebbero vietare ai cittadini assetati e affamati di procurarsi acqua e qualcosa da cibarsi. Troppo poco purtroppo, perché le iene tedesche ci hanno depredato di tutto, devastato gli stabilimenti alimentari, distrutto i raccolti. Ci si prepara per impedire che le distruzioni radano al suolo la nostra bella e cara città, per impedire che essa subisca la sorte di Pisa. Ci si prepara per assestare il colpo decisivo all'odiato oppressore tedesco.
«Se a noi tocca questa lotta difficile nelle condizioni più sfavorevoli, di là d'Arno i nostri compagni, tutto il popolo fiorentino combattono apertamente con rinnovata energia a fianco degli alleati... Anche noi dobbiamo moltiplicare le azioni per affrettare la nostra liberazione. Un'unica volontà anima infatti tutti i cittadini di qua e di là d'Arno: schiacciare l'oppressore nazista».
E due giorni dopo, 1'8 agosto, lo stesso giornale - che malgrado le condizioni dell'occupazione, inasprite dallo stato d'amergenza, usciva quasi quotidianamente - lanciava un drammatico appello: «Assaliamo i nostri carnefici! Senza pane, senza fuoco, senza luce, senza medicine, senz'acqua; fra il boato delle mine, il rombo dei mortai, il sibilo dei proiettili, che cosa ci può ormai più spaventare? Braccati per le strade, colpiti nelle abitazioni, mitragliati sulle porte di casa, di che cosa dobbiamo aver più paura?».
Nel pomeriggio dell'8 agosto il comando militare, desumendo da varie informazioni che i tedeschi s'apprestavano ad abbandonare la città, mise in stato d'allarme tutte le squadre d'azione. alle quali comunicò che il segnale dell'insurrezione generale sarebbe stato dato dal suono a martello del campanone di Palazzo Vecchio, la Martinella.
Nella notte sull'11 i tedeschi cominciarono lo sganciamento. Ed alle ore 6,45 i rintocchi della Martinella chiamarono il popolo di Firenze alla lotta. L'insurrezione esplose in ogni punto della città, accanto ai partigiani delle squadre organizzate scesero in campo cittadini d'ogni ceto e d'ogni età, ed attaccarono il nemico impegnandolo in una serie di scontri accaniti. Poi sopraggiunse la divisione Potente: alle 11 un fonogramma del comando britannico le aveva dato via libera. Guadato l'Arno al passaggio della Pescaia di Santa Rosa, la formazione lanciò i suoi reparti contro le retroguardie tedesche, nel pomeriggio accorse a disimpegnare alcune squadre rimaste circondate dal nemico a Rifredi, e intraprese la caccia ai franchi tiratori fascisti.
A sera Firenze era libera.
Intanto, sin dai primi rintocchi della Martinella, il CTLN e il comando militare s'erano insediati a Palazzo Riccardi, mentre a Palazzo Vecchio una giunta comunale, già da tempo designata dal comitato di liberazione, assumeva l'amministrazione della città. Sindaco era il socialista Gaetano Pieraccini, vicesindaci il comunista Renato Bitossi e il democristiano Adone Zoli.
Ma non era finita. Le truppe britanniche non varcarono l'Arno, e il ripiegamento tedesco non andò oltre il Mugnone. La città, sin'allora assediata dagli alleati, ora subiva l'assedio dei tedeschi che con frequenti puntate offensive riportavano la lotta nelle vie cittadine. Nella notte sul 15 agosto si spinsero fino in piazza San Marco, nel pieno centro di Firenze.
I primi reparti alleati attraversarono il fiume nella giornata del 13, ma solo il 15 completarono l'operazione e si schierarono a fronteggiare il nemico sulla linea del Mugnone. Ma non attaccarono a fondo, ed anzi subirono spesso l'iniziativa del nemico che sicuramente non aveva previsto uno sviluppo tanto favorevole della battaglia comunque perduta.
A fianco delle truppe alleate, «i partigiani di tutte le formazioni - ha scritto Orazio Barbieri - tengono la linea con ammirevole spirito di sacrificio e respingono ogni velleità nazista. Ma il martirio della città non è finito perché i tedeschi continuano a cannoneggiare 1'abitato dalle colline. Gli obici colpiscono le case, sfondano i tetti: la gente dorme nelle cantine anche dopo la liberazione».
Solo il 31 agosto le bombe cessarono di cadere sulla città. Già alcuni giorni prima il nemico aveva mostrato per chiari segni d'essere in procinto di cedere, e nella notte cominciò a ritirarsi, incalzato dai partigiani e dalle forze dell'VIII armata. Il 1° settembre Fiesole fu liberata dai partigiani, mentre nella zona collinare si avviavano operazioni di rastrellamento contro gli ultimi gruppi nemici che resistevano ancora. E il giorno successivo, il 2 settembre, la battaglia era veramente finita.