di Cristina Carpinelli
Il concetto marxista di emancipazione femminile rientra in quello più generale di emancipazione delle classi oppresse. Per il marxismo, le donne esistono in quanto «soggetti in azione» e, per tale ragione, esse costituiscono un oggetto dell’analisi di classe. Nelle opere classiche di Marx, Engels, Bebel, ma anche in quelle più recenti di Lenin e della stessa Kollontaj, la categoria di base degli studi sociali deve essere la classe. Il sesso è considerato alla luce di ciò insignificante, se non addirittura inesistente: importante è prima di tutto la classe. Si ritiene, sostanzialmente, che la differenza di genere tra ruoli e stereotipi sia governata dalla particolare struttura di classe della società e dall’esistenza degli antagonismi sociali.
Per Aleksandra Kollontaj, la visione della famiglia, del matrimonio e anche dell’amore sentimentale e sessuale è strettamente legata all’interpretazione evolutivo-lineare della storia, concepita come una sequenza di fasi (ogni fase è necessaria per l’affermazione di quella successiva che si colloca ad uno stadio di sviluppo superiore), secondo il modello marxiano ortodosso. In alcuni suoi articoli, si evince la tendenza a valutare i fatti secondo un certo determinismo economico:
Modificandosi i modi e i rapporti di produzione, anche il lavoro domestico, motivo di discriminazione tra i sessi, sarebbe stato soppiantato dalle strutture pubbliche che si sarebbero prese cura di quei lavori sino ad ora svolti dalle donne[1].
Le donne, dunque, possono ottenere la parità con gli uomini solo in un sistema socialista. Perciò, esse devono agire come alleate e sostenitrici degli uomini nella lotta per la vittoria del proletariato sulla borghesia, e come risultato dell’affermazione della classe operaia anche la loro condizione d’inferiorità sarà, di conseguenza, riscattata:
Nella nuova società della Russia sovietica - sostiene la Kollontaj - l’amore non sarebbe stato più trattato come una faccenda privata. Spettava ora ai lavoratori e alle lavoratrici del passato, cercare di scoprire quale spazio dare all’amore nel nuovo ordine sociale, e quale fosse l’ideale d’amore che corrispondeva ai loro interessi. […] Infatti, poiché le proletarie non erano affette dal morbo della proprietà privata toccava a loro, e non alle borghesi, gettare le basi della nuova morale[2].
Le teorie della Kollontaj si spingono oltre il programma del partito bolscevico al potere, prefigurando il declino della famiglia come cellula base della società:
....La famiglia ha cessato di avere qualsiasi ruolo progressivo. Essa non può più costituire in nessun modo un nucleo della nuova società[3].
Fra tutti i fattori che caratterizzano la produzione mercantile e di conseguenza il matrimonio monogamico, i più determinanti sono l’esistenza della proprietà privata e il modo di trasmettere il patrimonio. Nella società borghese, la famiglia esiste per via della necessità di conservare e di trasmettere i beni di proprietà privata.
xxxxxxxxxxxxxxxxxxx
La critica formulata dalla Kollontaj alla politica, che affronta la questione femminile senza mettere in crisi l’intero sistema economico e sociale rimane tuttora valida. Le politiche di genere, come qualsiasi altra politica, non dovrebbero perdere la loro natura di classe e, dunque, dovrebbero essere studiate e affrontate marxisticamente.
Purtroppo nella più recente letteratura (straniera e non) sull’argomento non si affronta mai la prima discriminante con la quale le donne devono fare i conti, e che è rappresentata dalla classe o ceto/strato sociale di appartenenza. Dalle analisi delle femministe di orientamento non marxista, l’universo femminile risulta essere al suo interno indifferenziato, privo di contraddizioni e di antagonismi. Le differenze e i contrasti emergono attraverso il confronto con l’altra metà del cielo (in termini di potere e ruoli economici e sociali, stereotipi e simbologie culturali, ecc.). In quest’ottica ciò che conta è, ad esempio, lo studio del gender pay gap (differenziale retributivo di genere) e non quello delle differenze salariali tra donne che emergono in base alla loro diversa posizione ricoperta nel mercato del lavoro e, più in generale, nella società. Un altro argomento affrontato in questi ultimi anni dalle femministe «borghesi» è quello della poverty feminization (femminilizzazione della povertà). Con l’avanzare del processo di globalizzazione le donne di tutto il mondo costituiscono una porzione sempre più elevata di assistiti e poveri (tabb. 1 e 2). E ciò è un fatto indiscutibile. Tuttavia, la povertà femminile non può essere affrontata solo attraverso l’analisi di fattori socio-demografici (età, titolo di studio, sesso, ecc.) o alla luce di trasformazioni in atto, soprattutto nei paesi capitalistici avanzati, e che stanno portando alla luce nuove realtà sociali. Ad esempio, quella delle donne (single, madri e anziane sole, vedove, separate o divorziate) che devono provvedere autonomamente al proprio sostegno e a quello dei figli o di altri componenti del nucleo familiare. Il fattore chiave della femminilizzazione della povertà è prima di tutto l’espulsione delle donne dal mercato del lavoro e lo smantellamento dello stato sociale causati dalle politiche liberiste e devastanti del nuovo fondamentalismo del libero mercato mondializzato. La loro prima vera oppressione sono, dunque, i meccanismi economici e finanziari promossi dalle principali istituzioni della globalizzazione (Fmi, Wto, Banca mondiale) che non sradicano la povertà, anzi l’accentuano, e dove i poveri sono sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi.
Esistono, poi, delle discriminazioni che riguardano trasversalmente tutto l’universo femminile e che attengono alla posizione svantaggiata delle donne nel mercato del lavoro, alla loro segregazione in aree e tipi d’impiego dove più basse sono le retribuzioni (tab. 3), a tassi più bassi d’uscita dalla condizione di disoccupate e d’ingresso in quella di occupate, e cosi via. Ma anche questi fenomeni non dovrebbero essere affrontati fuori del contesto economico e sociale che li ha prodotti. Ciò che si è verificato nei paesi dell’ex Unione sovietica dimostra quanto sia importante non sottovalutare l’impatto dei cambiamenti socioeconomici sul mondo femminile. Gli aggiustamenti strutturali avvenuti nel corso della transizione da un’economia di piano ad una di libero mercato hanno causato un forte riflusso femminile di massa e l’avvento di un nuovo rinascimento patriarcale. Nella storia dei movimenti e dell’immaginario femminile dei paesi ex sovietici, la separazione tra sfera pubblica e sfera privata era stata motivo di lotta, opposizione e resistenza contro un sistema di tipo patriarcale feudale che aveva storicamente assegnato alla donna il ruolo della cura della famiglia e della casa, all’interno della sfera domestica, escludendola dall’ambito pubblico, luogo della politica e del lavoro. Dopo la rivoluzione d’Ottobre, questa storica separazione era stata annullata. Tuttavia, con il passaggio dall’era sovietica a quella russa, essa è riemersa con prepotenza. Con altrettanta prepotenza è riemersa la povertà femminile secondo le modalità con cui il capitalismo gestisce la vita lavorativa salariata, la dipendenza economica femminile, ecc.
Afferma Enzo Mingione:
Nella fase storica del capitalismo, caratterizzata da industrializzazione e urbanizzazione, gli sviluppi della separazione tra ambiti produttivi e riproduttivi, tra responsabilità economiche per il sostegno della famiglia e responsabilità di cura dei suoi membri, hanno occultato i termini della povertà femminile. Le donne dipendono da redditi maschili e sono ovviamente povere quando i redditi sono insufficienti, ma si assume che siano anche più protette rispetto ai rischi di derive individualistiche di pauperizzazione per il fatto che a loro sono delegate le responsabilità di cura, soprattutto quelle relative ai figli. Tuttavia, questa divisione di genere, che si è consolidata in modalità culturali diverse e in ambienti diversi, ha in realtà offuscato i termini della povertà femminile[4].
Nei paesi dell’ex Unione sovietica, la divisione di genere, di cui parla Mingione, ha assunto caratteristiche specifiche collegate alle politiche di aggiustamento strutturale intraprese nel corso della transizione liberista. La chiusura della maggior parte delle imprese statali e la mancanza d’incentivi economici a favore delle industrie per creare nuovi posti di lavoro, hanno condotto all’espulsione di milioni di lavoratori dal mercato del lavoro. L’assenza di una social safety net (rete di protezione sociale) ha creato un esercito di diseredati e miserabili. Coloro che sono rimasti nel mercato del lavoro, pur di non entrare a far parte del pool dei disoccupati, hanno accettato di mantenere il posto di lavoro anche a salario zero. In una tale situazione, dove la maggioranza dei nuovi disoccupati manifesti e nascosti sono donne, dove il salario medio maschile non corrisponde al salario di sussistenza (living wage), la divisione di genere ha prodotto forme estreme di povertà tali per cui le donne risultano essere «le più povere tra i poveri». I meccanismi impietosi dell’economia finanziaria e mondiale applicati nella ex Unione sovietica fanno sì che oggi la moltitudine delle donne di quei paesi non debba preoccuparsi tanto di sfondare il c.d. «soffitto di vetro», quanto di «sfondare» la soglia di povertà.
xxxxxxxxxxxxxxxxxxx
Per ritornare alla Kollontaj, va anche detto però che le sue tesi d’avanguardia e anticipatrici presentano alcuni limiti teorici, fra i quali il più importante è quello di aver ridotto la questione femminile a un solo problema, e cioè quello della trasformazione dei modi e dei rapporti di produzione da capitalisti a socialisti. Dopo la rivoluzione d’Ottobre, i teorici del bolscevismo pensavano che la discriminazione della donna si sarebbe facilmente risolta con il suo ingresso nel mondo del lavoro, vale a dire con la sua indipendenza economica. Una gigantesca semplificazione che ha impedito nel corso del tempo un reale confronto sul rapporto tra uomo e donna in Unione sovietica.
Anche dopo l’avvento della società socialista, l’influenza degli stereotipi tradizionali patriarcali riguardo alla natura e al ruolo della donna rimaneva forte: la politica di genere in epoca sovietica aveva certamente registrato un progresso riguardo alla partecipazione delle donne nel mercato del lavoro ma ad esse, di fatto, era piombato sulle spalle un altro lavoro, che si era dimostrato difficile da conciliare con quello domestico e di cura, reso a sua volta faticoso dal disastro degli approvvigionamenti, dalle code infinite davanti ai negozi e dal degrado dei servizi registrato soprattutto a partire dagli anni settanta. Il problema del «doppio carico» e della sua difficile conciliazione aveva rappresentato una costante per la donna sovietica. A tale proposito, i sociologi russi avevano ammesso, già negli anni settanta, che il socialismo in Unione sovietica non era ancora riuscito a dare origine a una «trasformazione radicale della vita domestica».
Poiché nessun avanzamento si era avuto riguardo all’asimmetria di genere nella distribuzione dei compiti domestici e di cura, la donna sovietica si era trovata a dover gestire un doppio fardello. Inoltre, l’ineguale distribuzione delle responsabilità familiari e del lavoro domestico aveva contribuito in maniera evidente a metterla in una condizione di svantaggio anche nel mercato del lavoro. Mentre ancora negli anni novanta venivano propagandate le teorie di Marx, Engels, Lenin e Babeuf sul lavoro professionale della donna, quale condizione indispensabile per una sua totale liberazione e come «unità di misura del progresso sociale» di un paese, nessuno sforzo veniva fatto per costruire una rete efficiente di servizi allo scopo di agevolare la donna nel difficile compito della conciliazione. Nessuno sforzo veniva fatto anche per quanto riguardava l’affermazione di una cultura della parità nel campo della distribuzione dei compiti domestici e delle responsabilità di cura. Poiché gli indicatori d’istruzione e di occupazione femminili erano molto alti, era comune credenza che la donna avesse ottenuto la piena uguaglianza. Particolarmente sentita dalle donne era, invece, la contraddizione tra emancipazione nel mondo del lavoro e ruolo familiare. Il tema della compatibilità tra famiglia e tempi di lavoro rimaneva un nodo difficile da sciogliere.
Inoltre, se il concetto sovietico che dava valore al lavoro femminile, sia come strumento di autoaffermazione sia come dovere sociale per la costruzione dei principi del comunismo, trovava ancora negli anni settanta consenso tra le donne, negli anni successivi esso veniva messo pesantemente in discussione: a causa dell’assenza delle infrastrutture sociali, cui compensava il lavoro della donna, e della mancanza di un’affermazione della cultura di parità nella vita familiare, la struttura occupazionale tendeva sempre più a riprodurre lo stereotipo della «predestinazione femminile», che tendeva a giustificare qualsiasi forma di discriminazione e segregazione di genere: concentrazione della manodopera femminile nei settori e nelle professioni meno retribuite e qualificate, accesso privilegiato per gli uomini ai lavori con mansioni e responsabilità superiori, ecc. Sul piano politico, queste carenze che spingevano in direzione della disparità venivano occultate da un lato con una propaganda che tendeva ad esaltare il lavoro professionale della donna quale condizione indispensabile per una sua totale liberazione, e dall’altro enfatizzando la womanly mission: «per le sorti del paese e del socialismo la forma del lavoro femminile più utile è quella di madre e casalinga». Avevano contribuito ad alimentare questa contraddizione, i tassi di fertilità che dagli anni ottanta cominciavano a registrare cali preoccupanti.
Il clima culturale evidenziava un forte regresso nel percorso di liberazione della donna. Esso faceva parte del grande movimento di rinascita della conservazione nel paese, insieme allo spirito nazionale, al ritorno alle fedi religiose, alla volontà di rendere ideale ed eroica l’età presocialista, il passato feudale. Quest’involuzione si manifestava anche nell’affermazione di stereotipi culturali tesi sempre più a «mascolinizzare» la società e nell’uso sempre più frequente di espressioni sessiste e sessuofobiche. Se il mito della classe operaia al potere era stato una beffa, quello della donna sovietica liberata dall’oppressione maschile lo era stato due volte di più. Alla soglia degli anni novanta, le teorie politiche marxiste di Aleksandra Kollontaj, Klara Zetkin, Ines Armand, Rosa Luxemburg erano state spazzate via definitivamente dalla storia. Lenin aveva prospettato la grandiosa funzione della donna al potere affermando che «ogni cuoca sovietica aveva le capacità di governo dello stato dei Soviet». Ma essa era ritornata a casa, aveva ripiegato striscioni e bandiere, abbandonato gli slogan sull’emancipazione assoluta. Tuttavia, ciò non era da imputare solo alla riscoperta di antichi valori presocialisti, ma anche all’emergere di contraddizioni sempre più profonde ereditate dal vecchio sistema sovietico.
Come afferma Olga Voronina, l’approccio sovietico alle questioni di genere era stato sempre primitivo:
l’approccio della sociologia sovietica alla funzione riproduttiva e familiare della donna si era ridotto in sostanza alla constatazione dei singoli difetti del lavoro in casa e fuori. Gli orientamenti di valore, il problema del lavoro, della famiglia, delle donne e degli uomini, l’idea di una collaborazione socioeconomica e spirituale tra i sessi, l’opinione pubblica relativa al nuovo ruolo della donna, erano tutti problemi finora mai studiati esaurientemente[5].
Nonostante l’indubbia differenza dei contesti, non è difficile individuare anche nell’ex Urss il riproporsi di alcuni nodi tematici che avevano segnato e segnano ancora la cultura delle donne nei paesi capitalisti occidentali: la contraddizione tra emancipazione e ruolo familiare, che resta aperta sia sul piano dell’identità che su quello dell’organizzazione sociale, il nodo della discriminazione e valorizzazione femminile nel lavoro e nel sociale, la differente collocazione di uomini e donne nella società in termini di potere, riconoscimento e valore.
xxxxxxxxxxxxxxxxxxx
Il rapporto tra donna e socialismo nella pratica sovietica chiarisce alcuni aspetti trascurati a lungo dalla teorie femministe di orientamento marxista. Esso merita di essere più largamente conosciuto e studiato, con la consapevolezza che non si ha che fare con l’attuazione delle teorie di Marx e di Engels sulla famiglia, o di alcuni socialisti utopisti come Bebel sulla donna, anche se l’esperimento del Soviet è stato indubbiamente influenzato da quelle teorie classiche almeno per parecchi anni. Esso rappresenta, inoltre, il contributo storico concreto più importante per chi desideri approfondire il nesso tra movimenti di liberazione della donna e socialismo.
I limiti e gli errori riguardo al processo di emancipazione della donna compiuto in Unione sovietica si sono nel tempo moltiplicati in concomitanza con il processo di dissoluzione di quel Paese, sino a esplodere in tutta la sua virulenza con l’affermarsi di un capitalismo e di un mercato al di fuori di ogni sistema di regole e garanzie. Il regresso attuale della donna postsovietica è forse il segno più evidente della crisi di un’intera società. In un contesto di miseria generale, dove un cittadino su tre vive sotto la soglia di povertà, l’affermazione del principio di uguaglianza è reso impossibile. Le difficoltà economiche e la disoccupazione suggeriscono alle donne dei paesi dell’ex Urss risposte al limite della legalità e dell’accettabilità sociale. In linea con le tendenze più generali che caratterizzano il fenomeno della prostituzione mondiale, si sta affermando anche in queste realtà un mercato possente della prostituzione e della schiavitù sessuale in stretto contatto con il crimine e la corruzione. Un mercato vasto e lucrativo pari al traffico dei narcotici o al contrabbando delle armi.
Amartya Sen, premio Nobel 1998, ha detto:
....il successo della globalizzazione, che ha ridotto drasticamente i poteri dello Stato trasferendoli di fatto alle forze cieche del mercato e alle banche, è da accreditare anche al mercato del corpo femminile[6].
Oggi, la prostituzione, per molte donne dell’ex Urss, è una vera e propria occupazione. Anche le casalinghe e le studentesse sono disponibili a prendere in considerazione questo tipo di mercato. Accanto alla prostituzione criminale, sotto il controllo delle organizzazioni illegali, alla prostituzione nazionale e a quella esercitata all’estero, che comunque produce un ritorno di valuta straniera, affiora sempre più una prostituzione domestica che serve semplicemente per arrotondare le entrate o per accedere ad alcuni beni di consumo.
Afferma Marina Piazza:
Se la transizione della Russia al libero mercato segna il «passaggio dal consumo senza merci alle merci senza consumo» verrebbe da dire che i corpi femminili fanno eccezione. L’espulsione dal mercato del lavoro e la pressione di una povertà sempre più pesante e con sempre meno prospettive di uscita per le donne, sembra trovare un incastro perverso con un’altra modalità di fuoriuscita dalla miseria, quella della criminalità, grande e piccola, che mette a mercato con profitto ciò che dal mercato è espulso come forza lavoro ma recuperato come merce[7].
Nella nuova struttura economica capitalistica russa, dove il salario non basta per vivere, la vendita del proprio corpo appare alla donna una delle poche risorse alla sua portata.
Numero delle famiglie suddivise in base al sesso del capo-famiglia
e alla sua condizione sociale (milioni)
nel Mondo (tab. 1)
Donne capo-famiglia nel mondo |
271.2 |
Uomini capo-famiglia nel mondo |
1148.2 |
Donne capo-famiglia nel mondo povere |
90 |
Uomini capo-famiglia nel mondo poveri |
177 |
Fonte: International Food Policy Research Institute (IFPRI), 2000
Tasso di povertà delle famiglie suddivise in base al sesso del capo-famiglia
e alla sua condizione sociale (%)
nel Mondo (tab. 2)
Donne capo-famiglia nel mondo povere |
33.18% |
Uomini capo-famiglia nel mondo poveri |
15.41% |
Fonte: International Food Policy Research Institute (IFPRI), 2000
Salario mensile delle donne in percentuale dal salario mensile degli uomini
(tab. 3)
Paesi ex sovietici |
Rapporto |
Anno |
Estonia |
79,8 72,6 |
1992 1996 |
Lettonia |
79,9 |
1998 |
Lituania |
71,0 |
1997 |
Russia |
70,9 68,5 69,5 |
1989 1992 1996 |
Ucraina |
77,7 |
1996 |
Azerbajgian |
52,6 |
1995 |
Kazachstan |
72,3 |
1996 |
Kirgizistan |
73,3 71,5 |
1995 1997 |
Uzbekistan |
80,5 |
1995 |
Fonte: Unicef, Zhenshchiny v perechodnyj period, 1999, p. 36.
[1] A. Kollontaj, “La famiglia e il comunismo” in Kommunistka, n. 2, 1920.
[2] A. Kollontaj, “Sorelle” in Kommunistka, 1923
[3] A. Kollontaj, “La famiglia e il comunismo”, op. cit.
[4] E. Mingione, “La povertà delle donne in Italia: dalla casalinga proletaria meridionale all’anziana sola” in Inchiesta, n. 128, 2000.
[5] A. Lichtestein, “Ditemi che emancipata è bello e vi prendo a schiaffi” in CCCP ’89, n. 2, 1989.
[6] B.Ehrenreich e A.Hochschild, Donne globali, Il Mulino ed., 2003.
[7] M. Piazza, Prefazione al libro di C. Carpinelli, Donne e povertà nella Russia di El’cin, F. Angeli ed., 2004.