Le rivalità interimperialiste divengono attenuate nel regime della globalizzazione per un'ulteriore importante ragione, non solo per causa della soverchiante forza di una potenza imperialista, come è stato nel caso della congiuntura del dopoguerra, ma anche perché lo stesso capitale finanziario è divenuto globalizzato e pertanto si oppone ad ogni partizione del mondo in sfere di influenza di particolari potenze che possano ostacolare la sua mobilità globale.
Mentre questo fatto dell'attenuazione delle rivalità interimperialiste è stato notato da molti, questo è stato interpretato come indice della vendetta della posizione di Karl Kautsky, che aveva visualizzato la possibilità di un "ultra imperialismo", contro Lenin che aveva enfatizzato l'esistenza di uno stato perenne di rivalità interimperialiste. Ciò è comunque errato. Entrambi, Lenin e Kautsky, avevano in mente e davanti agli occhi un contesto di capitali finanziari nazionali, dove il capitale finanziario che occupava il centro della scena aveva base nazionale ed era aiutato dalla sua nazione. Non è questo il caso di oggi, dove il capitale è esso stesso internazionale, un'entità totalmente differente dal capitale finanziario di cui parlavano Lenin e Kautsky. L'attenuazione delle rivalità interimperialiste nell'era della globalizzazione non è causa di un "congiunto sfruttamento del mondo da parte di un capitale finanziario internazionalmente unito", come aveva suggerito Kautsky, ma per l'emergere di un capitale finanziario internazionale.
Questo fatto viene perso di vista in parecchi dibattiti sulla "multipolarità". Qui, viene spesso suggerito che in un mondo dove la "multipolarità" sembra emergere, si assiste al ritorno delle rivalità interimperialiste. Ma ciò in cui sbaglia questa analisi è che in questo contesto non si deve tenere conto dei soli fattori politici, ma anche, sopra tutto, dei fenomeni economici sottostanti; e un elemento chiave di questi fenomeni economici è l'egemonia del capitale finanziario internazionale.
Il fatto di avere un capitale finanziario internazionale in un mondo di stati-nazione, contrariamente alle prescrizioni del saggio di Keynes del 1933 per cui "soprattutto la finanza deve essere nazionale", costituisce una caratteristica peculiare della globalizzazione contemporanea. Ciò implica che gli stati nazione devono, volenti o nolenti, accedere alle richieste del capitale, altrimenti la finanza lascerebbe semplicemente i loro confini per spostarsi altrove, facendoli precipitare in crisi. Il fatto che, indipendentemente dal tipo e dalla qualità del governo che un popolo possa eleggere, quest'ultimo deve seguire le medesime politiche economiche, vale a dire quelle favorite dal capitale finanziario internazionale al fine di prevenire l'allontanamento di questo, implica un indebolimento delle stesse fondamenta della democrazia. Per giunta, venir catturati nel vortice della finanza globalizzata possiede diverse importanti implicazioni economiche.
Per prima cosa implica un cambiamento nella natura dello Stato. Invece di posizionarsi, a dispetto del suo carattere di classe, come entità al di sopra della società ed apparentemente proteggendo gli interessi di tutti, lo Stato oggi diventa più preoccupato a promuovere esclusivamente gli interessi del capitale finanziario globalizzato, in base all'argomento che gli interessi della nazione coincidono con gli interessi di tale capitale. (l'aumento dell'affidabilità creditizia sanzionato da Moody diventa una questione di orgoglio nazionale.) Una grande ricaduta di tutto ciò, specialmente nel contesto del Terzo Mondo è il ritiro del sostegno statale al settore della piccola impresa, inclusi i coltivatori diretti, che espone la vasta massa di piccoli imprenditori a subire l'invasione da parte del grande capitale, incluse le compagnie multinanzionali.
La lotta anticolonialista in gran parte del Terzo Mondo aveva assunto il sostegno dei contadini con la promessa che il regime post-coloniale avrebbe protetto la piccola agricoltura contadina dall'invasione da parte del grande capitale, ed anche dalle fluttuazioni del mercato mondiale dei prezzi; e molti regimi post-coloniali avevano in vari gradi protetto e promosso la piccola agricoltura e la piccola impresa in generale. I beneficiari di tali misure sono stati senza dubbio per un vasto settore i segmenti prosperosi tra questi produttori; ma il settore nel suo complesso, sebben soggetto alle tendenze dello sviluppo capitalistico dal suo interno, era stato protetto dalle incursioni del grande capitale dall'esterno. Lo stato neoliberista ritira questo sostegno e questa protezione, precipitando questo vasto settore in una crisi. Un vasto numero di piccoli produttori insieme ai loro dipendenti, o tiravano avanti affondando sempre più nella miseria, oppure migravano nelle città in cerca di lavori inesistenti, od ancora (come avviene in India) ricorrevano ai suicidi di massa.
In secondo luogo, vi è un aumento della dimensione dell'esercito industriale di riserva, perché l'aumento nella domanda di forza lavoro, anche con alti tassi di PIL, non è grande abbastanza da assorbire l'aumento naturale della forza lavoro, figuriamoci i piccoli artigiani scalzati dalla loro posizione produttiva. Pertanto, i salari reali dei lavoratori , anche quelli dei lavoratori organizzati, aumentano a malapena, mentre aumenta piuttosto la produttività del lavoro. Ciò aumenta la quota di surplus o plusvalore all'interno del terzo mondo, che è fornito di grandi riserve di forza lavoro, e quindi aumenta la diseguaglianza dei redditi.
Tuttavia, questo non vale solamente per il Terzo Mondo. Dal momento che il capitale è diventato mobile tra paesi avanzati e sottosviluppati, anche i lavoratori dei paesi avanzati diventano soggetti alla concorrenza dei lavoratori a basso salario del Terzo Mondo, e pertanto all'effetto nocivo delle riserve di forza lavoro del Terzo Mondo che mantiene bassi i loro salari. Ciò significa che anche i salari reali dei lavoratori dei paesi avanzati non crescono (sebbene naturalmente non scendano ai livelli del Terzo Mondo), e parimenti anche in questi paesi aumenta la produttività del lavoro. C'è un aumento nella quota di surplus o plusvalore e quindi come risultato un aumento nella diseguaglianza dei redditi anche in questi paesi. (Negli USA, secondo Joseph Stieglitz, il salario reale di un lavoratore maschio medio non solo non è aumentato dal 1968 al 2011, ma è addirittura leggermente diminuito) (10). Ciò che in breve accade è un aumento della quota di plusvalore nella produzione mondiale.
In terzo luogo, dal momento che la propensione marginale al consumo dai redditi salariali è più alta di quella derivante dall'aumento di plusvalore economico (che tipicamente si accumula nei ricchi), l'aumento nella quota di plusvalore dà vita ad una tendenza verso la sovrapproduzione nell'economia mondiale, esattamente la tendenza che avevano sostenuto Baran e Sweezy nel contesto dell'economia USA negli anni 50 e 60. (11)
In quarto luogo, la capacità di ogni stato-nazione di intervenire contro questa tendenza ex ante alla sovrapproduzione (che, secondo Baran e Sweezy è ciò che fecero gli USA attraverso l'aumento della spesa militare negli anni 50 e 60) viene sventata nel regime della globalizzazione.
Perché l'intervento dello Stato possa bilanciare questa tendenza alla sovraproduzione, questo deve essere finanziato sia attraverso un debito fiscale, sia attraverso imposte che ricadono per lo più sui risparmi , il che significa tasse sui capitalisti (sia sui profitti che sulle riserve di capitale) finché la loro propensione al risparmio rimane alta. Ma nessuno stato-nazione che sia stato catturato nel vortice della finanza globale è in grado di sostenere un deficit fiscale (al di là del limite legale del 3 per cento del PIL in molti paesi) o di applicare tasse ai capitalisti, per paura di causare un esodo di capitali. E gli USA, i qualì né possiedono alcuna "legislazione di responsabilità fiscale" (che limiti il deficit al 3 per cento del PIL) né hanno necessità di essere preoccupati dell'esodo di capitali, dal momento che la loro valuta è ancora considerata, anche nel mondo post Bretton Woods, al pari del cambio oro su oro, sono comunque riluttanti a varare una politica di deficit fiscale. Ciò avviene perché nel regime della globalizzazione, nel quale le compagnie statunitensi hanno localizzato impianti all'estero per avvantaggiarsi dei bassi salari, un incentivo fiscale implica la generazione di occupazione all'estero, con importazione di beni negli USA che farebbero crescere il debito estero del paese.
La tendenza verso una sovrapproduzione ex ante crea quindi una crisi strutturale che può al più essere frenata da bolle speculative sui prezzi di beni, ma si manifesta nuovamente quando simili bolle scoppiano e collassano (12). Pertanto, il regime della globalizzazione implica la crescita della diseguaglianza, la stagnazione dei salari, la decimazione della piccola impresa che causa l'impoverimento assoluto di larghe fasce della popolazione lavoratrice del Terzo Mondo e la tendenza verso una crisi strutturale che può al massimo essere frenata attraverso bolle speculative occasionali, il cui collasso peggiorerà ancora di più le condizioni del popolo dei lavoratori del mondo attraverso una estesa disoccupazione. Il conservatorismo fiscale agisce non solo nella direzione di non accentuare la crisi (pertanto ha un effetto pro-ciclico) ma comporta altresì tagli alla spesa sociale e nel "salario sociale".
In contrasto con la congiuntura dirigista del dopoguerra, che ha visto un'attenuazione delle rivalità interimperialiste insieme con le concessioni che il capitale è stato costretto a fare, creando quindi l'impressione che "il capitalismo fosse cambiato", il regime della globalizzazione, sebbene continui a mostrare un'attenuazione delle rivalità interimperialiste, implica che "l'orologio sia rimesso indietro", quando si parla di stato sociale, il cosiddetto "volto umano del capitalismo", sia nelle economie capitaliste avanzate che in quelle sottosviluppate. L'influenza del capitale finanziario internazionale, mentre attenua le rivalità interimperialiste, porta alla luce ancora una volta la natura estremamente predatoria del capitalismo, il fatto che, per usare il linguaggio di Keynes, "non sia equo", "non sia virtuoso", "non distribuisca la ricchezza" ed è capace solo di essere "disprezzato".
(continua...)
Note:
(10) Joseph Stiglitz, Inequality is holding back the recovery, The NY Times, 13 gennaio 2013.
(11) Paul A. Baran e Paul M. Sweezy, Monopoly Capital, New York, Monthly Review Press, 1966.
(12) La questione è stata affrontata più in dettaglio in Prabhat Patnaik, Capitalism and its current crisis, in Monthly Review, 67, no 8, January 2016, 1-13.
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