Centro Culturale La Città del Sole - centroculturale@lacittadelsole.net
Convegno - Napoli, 21-23 novembre 2003: I
problemi della transizione al socialismo in URSS
La collettivizzazione dell’agricoltura in URSS: una
vittoria decisiva dell’economia socialista
di Adriana Chiaia
Premessa
«Lasciandoci, il compagno Lenin ci ha comandato di rinsaldare con
tutte le forze l’alleanza degli operai e dei contadini. Ti giuriamo, compagno
Lenin, che non risparmieremo le nostre forze per adempiere con onore anche
questo tuo comandamento!»1
Questo solenne giuramento fa parte del discorso pronunciato da Giuseppe Stalin
al II Congresso dei Soviet dell’URSS, il 26 gennaio 1924, pochi giorni dopo la
morte di Lenin (21 gennaio). In questo e negli altri punti del giuramento
Stalin ribadiva l’impegno del partito bolscevico a proseguire l’opera di Lenin
nella costruzione del socialismo. Il tono enfatico risentiva della commozione
del tragico momento. Che non si trattasse di vuota retorica fu dimostrato dalla
difesa pertinace della linea marxista e leninista che Stalin condusse per tutta
la vita, guidando il partito bolscevico nei frangenti più difficili e nelle
scelte decisive che, malgrado tutte le difficoltà esterne ed interne, ne
caratterizzarono la linea politica e la sua attuazione pratica.
Stalin motivava così questo punto del suo giuramento:
“La dittatura del proletariato è stata creata nel nostro paese sulla base
dell’alleanza degli operai e dei contadini. Questa è la base prima ed
essenziale della Repubblica dei Soviet. Senza questa alleanza, gli operai e i
contadini non avrebbero potuto vincere i capitalisti e i proprietari terrieri.
(...) Ciò è dimostrato da tutta la storia della guerra civile nel nostro paese.
Ma la lotta per il rafforzamento della Repubblica dei Soviet è ben lontana
dall’essere terminata: essa ha soltanto assunto un’altra forma. (...) Adesso
l’alleanza degli operai e dei contadini deve assumere la forma di una
collaborazione economica fra la città e la campagna, fra gli operai e i
contadini (...) poiché ha per scopo di far sì che contadini e operai si
riforniscano reciprocamente di tutto il necessario. Voi sapete che nessuno ha
perseguito con tanta tenacia questo compito come il compagno Lenin”.2
Queste affermazioni racchiudevano la volontà di proseguire nella politica della
NEP (nuova politica economica) adottata da Lenin, cogliendone il significato
essenziale di “ritirata”, obbligata ed inevitabile, ma limitata nel tempo e
finalizzata ad accumulare le forze, a creare una base economica per la ripresa dell’economia
socialista.
Nel 1921, come è noto, la situazione dell’URSS, uscita da una guerra civile di
tre anni che aveva ritardato la ricostruzione delle sue forze produttive, era
disastrosa. A ciò si era aggiunta una terribile carestia, causata dal cattivo
raccolto del 1920, dalla mancanza di foraggio e dalla moria del bestiame, che
avevano portato i contadini alla rovina e alla fame e ulteriormente compromesso
i trasporti e l’approvvigionamento delle città. Molte fabbriche furono chiuse e
molte altre dovettero sospendere la produzione per lunghi periodi per mancanza
di combustibile e di rifornimento delle derrate alimentari destinate agli
operai.
Divenne improrogabile, come non si stancò di ripetere Lenin, adottare quella
forma di transizione chiamata NEP.
Non è mio compito – spero che altri lo facciano – parlare del capitalismo di
Stato e di tutte le misure che questa scelta comportava, come le concessioni ai
capitalisti stranieri, il sistema cooperativo per governare la piccola
produzione e gli scambi commerciali.
Mi limiterò ad accennare ad una di queste misure, la principale riguardante
l’alleanza degli operai e dei contadini, che sia Lenin che Stalin consideravano
un pilastro del potere bolscevico, e cioè all’imposta
in natura.
Essa consisteva in una parte dei raccolti (soprattutto nelle zone cerealicole)
che i contadini avrebbero dovuto fornire allo Stato e che differiva dai
prelevamenti del comunismo di guerra
sia nella quantità (ne costituiva circa la metà), sia nella fissazione
preventiva e certa del suo ammontare.
Il contadino poteva vendere la parte eccedente del raccolto sul libero mercato,
scambiandola con prodotti industriali. In tal modo si sarebbero sollevate
l’economia agricola e la produzione della piccola industria, che non aveva le
stesse difficoltà di ripresa della grande industria.
Lenin non ha mai nascosto che la libertà di commercio (anche se soltanto
locale) avrebbe comportato il risorgere della piccola borghesia e lo sviluppo
del capitalismo. E’ pericoloso tutto ciò? Si chiedeva Lenin e rispondeva:
“Sì, ciò significa sviluppare il capitalismo, ma questo sviluppo non è
pericoloso perché il potere resta nelle mani degli operai e dei contadini e
poiché non viene restaurata la proprietà dei grandi proprietari fondiari e dei
capitalisti”.3
In tutti i suoi scritti, rapporti e discorsi, in tutta la paziente opera di
convinzione verso i suoi compagni di partito, i dirigenti dei soviet e delle
organizzazioni locali nonché dei rappresentanti dei partiti comunisti nell’IC,
Lenin ribadisce il significato dell’imposta in natura nel quadro della NEP che
qualifica come una ritirata, da compiersi tuttavia in buon ordine,
sottoponendosi ad una ferrea disciplina.
In particolare l’imposta in natura era una misura temporanea, volta alla
finalità della ripresa della transizione socialista, nella prospettiva
strategica del comunismo:
“L’imposta in natura è una delle forme transitorie da un particolare ‘comunismo
di guerra’, che era necessario a causa dell’estremo bisogno, della rovina e
della guerra, al giusto scambio socialista dei prodotti. E quest’ultimo, a sua
volta, è una delle forme di passaggio dal socialismo, con le particolarità
dovute alla preponderanza nella popolazione dei piccoli contadini, al
comunismo”.4
Inoltre, durante la NEP, l’estremo sforzo per sviluppare la grande industria
non venne mai meno, grazie all’abnegazione della classe operaia e dei dirigenti
bolscevichi. Al IX Congresso dei Soviet di tutta la Russia, nel dicembre 1921,
Lenin, dopo aver reso conto dei primi risultati dell’applicazione dell’imposta
in natura, riferì in modo particolareggiato e preciso sullo stato del piano
nazionale dello sviluppo dell’industria. A cominciare dai combustibili, che
Lenin chiamava “il pane dell’industria”, egli passò in rassegna la carenze e i
progressi del piano di produzione dei combustibili: dalla legna, al carbone, al
petrolio, alla torba. Espose i piani di costruzione di nuove centrali
elettriche, grandi e piccole, queste ultime adatte ad alimentare la piccola
industria. Ricordò che al piano generale di elettrificazione del paese
lavoravano tecnici e ingegneri stranieri capitalisti. A proposito della
collaborazione dei capitalisti, con la consueta franchezza, affermò:
“Dobbiamo costringerli, dobbiamo fare in modo che lavorino con le loro mani per
noi, e non in modo che i comunisti responsabili siano alla testa, abbiano i
gradi e nello stesso tempo seguano la corrente a fianco della borghesia. La
sostanza è tutta qui”.5
Lenin esortava ad imparare dai capitalisti ad amministrare e a commerciare, ma
a dirigere e non essere diretti. Ciò era possibile giacché il potere restava
saldamente nelle mani degli operai e dei contadini. E senza trascurare di
punire la minima infrazione alle leggi sovietiche: i tribunali popolari c’erano
per questo.
Nel suo rapporto all’XI Congresso del PC(b) della Russia (27 marzo 1922) Lenin
dichiara e ribadisce:
“Per un anno ci siamo ritirati. Ora a nome del partito dobbiamo dire: basta. Lo
scopo perseguito con la ritirata è stato raggiunto. Questo periodo sta per
finire o è già finito. Ora si pone un altro obiettivo: raggruppare le forze in
un altro modo”.6
Con l’abituale vis polemica attacca duramente coloro che avevano tentato di
trasformare la ritirata in rotta (costoro hanno sbagliato porta), nonché i
menscevichi, i socialisti rivoluzionari russi all’estero e i dirigenti della II
Internazionale e dell’Internazionale due e mezzo che sentenziano:
“ ‘La rivoluzione si è spinta troppo avanti. Noi abbiamo sempre detto ciò che
tu dici ora. Permetteteci di ripeterlo ancora una volta’. E noi rispondiamo:
‘Permetteteci di mettervi per questo al muro’ ”.7
Non si trattava evidentemente, come sosteneva Bauer, di una marcia indietro
verso il capitalismo, bisognava andare avanti con la NEP per alcuni anni, ma
con più competenza (studiare era la parola d’ordine) e capacità di direzione ed
esecuzione.
“Noi siamo giunti alla conclusione che nella presente situazione l’essenziale
siano gli uomini, l’essenziale è la scelta degli uomini”.8
E ancora nel discorso ai Soviet di Mosca (20 novembre 1922):
“Permettetemi di concludere esprimendo la certezza che, per quanto difficile si
presenti questo compito, per quanto nuovo sia in confronto al vecchio e
nonostante le grandi difficoltà che farà sorgere, noi tutti insieme, non
domani, ma nel corso di alcuni anni, lo adempiremo a qualunque costo, per far
sì che la Russia della NEP si trasformi nella Russia socialista (corsivo
mio)”.9
Fu questo il mandato che fu trasmesso da Lenin al partito e ai soviet. Stalin,
alla morte di Lenin, si accinse ad adempiere questo compito con tutte le sue
forze.
Al bivio: economia capitalista o economia
socialista?
Nel biennio 1924-1925 il bilancio della ricostruzione era positivo.
La produzione dell’agricoltura si avvicinava al livello dell’anteguerra,
raggiungendone complessivamente l’87%. La grande industria aveva dato nel 1925
circa i ¾ della produzione industriale dell’anteguerra. Il piano di
elettrificazione si stava realizzando con successo.
Si imponeva quindi la scelta decisiva sulla direzione che avrebbe preso lo
sviluppo economico dell’Unione Sovietica. Verso il socialismo o verso un altro
tipo di economia? Era possibile costruire un’economia socialista mentre la
rivoluzione tardava nei paesi capitalisti, mentre non era cessato
l’accerchiamento dei paesi imperialisti e perdurava il pericolo di nuove
provocazioni ed interventi armati? Si presentava quindi con forza il problema
della possibilità della costruzione del socialismo in un solo paese ed in
particolare in un paese arretrato come l’URSS.
Fu la questione basilare che dovette affrontare la XIV Conferenza del partito
(aprile 1925) e che contrappose, in uno scontro senza mediazioni e destinato ad
inasprirsi ulteriormente nel tempo, la maggioranza del partito sotto la
direzione del CC e di Stalin, all’opposizione di Trotski (con la nota teoria
della “rivoluzione permanente”) e dei bukhariniani con le loro posizioni di
destra (teoria dell’integrazione pacifica dei capitalisti nel socialismo).
La risoluzione della XIV Conferenza condannò tutte le teorie dell’opposizione e
confermò l’orientamento del partito verso la costruzione del socialismo in
URSS.
Il nodo principale intorno a “quale economia?” si ripresentò al XIV Congresso
del partito (dicembre 1925).
Nel suo ultimo discorso pubblico, al Soviet di Mosca (21 novembre 1922) Lenin
aveva detto:
“Il socialismo ormai non è più un problema del lontano futuro (...). Abbiamo
portato il socialismo sul terreno della vita quotidiana e qui ci dobbiamo
districare”.10
Per “districarsi” in un cammino ancora inesplorato nella storia dell’umanità,
in un paese ancora arretrato in cui i 2/3 della produzione erano dati
dall’agricoltura e 1/3 dall’industria, si imponeva una scelta decisiva. Due le
alternative: o l’URSS era destinata a rimanere un paese agricolo produttore di
materie prime e derrate alimentari da esportare all’estero per importare le
macchine che non era in grado di produrre, cioè era destinata a trasformarsi in
un paese dipendente dai paesi capitalisti avanzati (ed era la linea dei
zinovievisti) o doveva trasformarsi da paese agrario a paese industriale,
capace di produrre con le proprie forze i macchinari di cui avevano bisogno
l’industria e l’agricoltura. Questa seconda linea prevalse.
A chi, come Trotski, sosteneva la tesi dell’impossibilità della costruzione del
socialismo in URSS senza l’aiuto del proletariato internazionale che avesse
preso il potere in almeno alcuni Stati capitalisti, è lecito porre le domande:
sul piano della prospettiva della vittoria della rivoluzione mondiale avrebbe
contribuito maggiormente alla causa dell’internazionalismo proletario un paese
che, malgrado la conquista del potere e l’instaurazione della dittatura del
proletariato, fosse ridotto ad essere un’appendice impotente del mondo
capitalista o un paese che, malgrado non potesse contare sull’aiuto immediato
del proletariato internazionale, cercava – contando sulle proprie forze – di
costruire un’economia socialista? Ed inoltre, quale delle due scelte avrebbe
reso l’URSS più forte o più debole e disarmata di fronte all’accerchiamento
imperialista?
Il XIV Congresso sancì quindi il passaggio dalla fase della ricostruzione allo
sviluppo dell’industria socialista e la sconfitta della “nuova opposizione”.
Il XIV Congresso adottò anche il nuovo statuto del partito che prese il nome di
Partito Comunista (bolscevico) dell’URSS, PC(b) dell’URSS.
La necessità di un’economia collettiva
|
|
|
|
||
Milioni |
% |
Milioni |
% |
||
Prima della guerra |
|
|
|
|
|
1. Grandi proprietari terrieri |
600 |
12 |
281,6 |
21,6 |
47,0 |
Totale |
5.000 |
100 |
1.300,6 |
100 |
26,0 |
Nel 1926-27 |
|
|
|
|
|
1. Sovcos e kolcos |
80,0 |
1,7 |
37,8 |
6,0 |
47,2 |
Totale |
4.749,0 |
100 |
630,0 |
100 |
13,3 |
* misura russa
equivalente a 16,38 kg.
Tratta da un fondamentale scritto di Stalin “Sul fronte del grano”11,
la tabella che riproduciamo qui sopra illustra molto chiaramente la struttura
della produzione del grano, nel periodo dell’anteguerra e nel periodo seguente
alla rivoluzione d’Ottobre (1926-27).
Che cosa dimostra questa tabella?
Dimostra che, in conseguenza dell’abolizione della proprietà fondiaria (decreto
sulla terra, approvato dal II Congresso dei Soviet di tutta la Russia il 26
ottobre 1917), dell’abolizione degli onerosi affitti imposti dai proprietari
terrieri ai contadini, del ridimensionamento del potere dei kulaki ed infine
per le condizioni più favorevoli di scambio dei loro prodotti con quelli
industriali in regime di NEP, i contadini medi e poveri avevano migliorato il
loro livello di vita ed erano diventati i maggiori produttori di grano. Questo
progresso era la base del rafforzamento dell’alleanza del potere proletario con
la gran massa dei contadini.
Tuttavia, come risulta dal confronto dei dati della tabella, sia le aziende dei
grandi proprietari terrieri, sia i sovcos e i kolcos, disponendo di mezzi
meccanizzati per la coltivazione della terra, di concimi e di sementi
selezionate, per la loro alta produttività furono in grado di fornire le più
alte percentuali del grano mercantile, mentre i contadini medi e piccoli nel
biennio 1926-27 ne fornirono soltanto l’11,2% del totale. Complessivamente la
quantità di grano mercantile prodotto dall’agricoltura nel biennio 1926-27 era
la metà di quello destinato al mercato, cioè alle industrie, alle città,
all’esercito.
La spiegazione di questo fenomeno è che la produzione delle piccole e
piccolissime aziende dei contadini medi e piccoli si basava ancora su metodi
primitivi di coltivazione della terra e destinava i produttori ad una economia
di autoconsumo con pochi margini per il mercato.
“I contadini russi nel 1928 coltivavano la terra con metodi medioevali (...).
Il podere familiare era spesso frazionato in una dozzina di appezzamenti, a
volte dispersi in zone diverse, e per lo più così ridicolmente piccoli da non
potervi nemmeno girare l’erpice. Il venticinque per cento dei contadini non
possedeva nemmeno un cavallo, meno del cinquanta per cento disponeva di una
pariglia di cavalli o di buoi; così l’aratura avveniva a grandi intervalli e il
vomere grattava appena il suolo: era ancora in uso il vomere di legno, sbozzato
dallo stesso contadino e senza una punta di metallo. La semina si faceva a
mano, spargendo sul terreno la semente portata in un grembiule, così molta se
la prendevano gli uccelli o la portava via il vento. Le macchine agricole erano
quasi ignote”.12
Quale era la soluzione?
Nella sua relazione al XV Congresso del partito (dicembre 1927) , Stalin, a
nome del Comitato centrale, affermò:
“La via d’uscita sta nel passare dalle piccole aziende contadine disperse al
loro raggruppamento in grandi aziende, basate sulla coltivazione in comune
della terra; sta nel passare alla coltivazione collettiva della terra sulla
base di una tecnica nuova, superiore. La via d’uscita sta nel raggruppare
piccole e piccolissime aziende contadine, gradualmente ma costantemente – non
esercitando affatto pressioni ma con l’insegnamento dei fatti e la persuasione
– in grandi aziende basate sulla coltivazione in comune della terra per mezzo
di cooperative, di collettività, valendosi dei procedimenti scientifici della
coltura intensiva. Non esiste altra via d’uscita”.13
Il XV Congresso adottò la decisione di dare impulso alla collettivizzazione
dell’agricoltura, tracciò un piano per estendere e consolidare la rete dei
sovcos e dei kolcos ed inoltre stabilì la direttiva di:
“Sviluppare ulteriormente l’offensiva contro i kulaki e prendere una serie di
nuovi provvedimenti che limitino lo sviluppo del capitalismo nelle campagne e
orientino l’economia contadina verso il socialismo”.[14]
Le altre decisioni del Congresso riguardarono: il mandato agli organismi
competenti di elaborare il primo piano
quinquennale per lo sviluppo dell’economia dell’URSS; la ratifica
dell’espulsione dal partito di Trotski e Zinoviev, adottata dall’Assemblea del
Comitato centrale e della Commissione centrale di controllo il 14 novembre
1927, espulsione che segnava il culmine di una lotta durissima all’interno del
partito, condotta dal blocco formato dai zinovievisti e dai trotskisti. Sulle
sue fasi e sui suoi contenuti, ai quali abbiamo solo accennato precedentemente,
non posso soffermarmi per ragioni di spazio e poiché esulano – ma fino ad un
certo punto, perché tutto è strettamente collegato – dal tema specifico di
questa relazione. Certamente l’argomento, che sarà trattato in altre relazioni
nel convegno, deve costituire una parte importante delle ricerche del Centro
studi che stiamo per formare. E’ necessario infatti, attraverso lo studio delle
fonti originali sfatare la vulgata borghese, ma non solo, che si sia trattato
di una disputa per il potere tra i dirigenti del partito, dopo la morte di
Lenin. Si trattò invece - ed è possibile dimostrarlo - di una lotta di classe
all’interno del partito, specchio della lotta di classe nella società, e che
gli oppositori che furono sconfitti in quel periodo erano i rappresentanti
degli interessi delle classi capitaliste ancora esistenti nel periodo della
transizione socialista, che lottavano disperatamente per la loro sopravvivenza.
Si accende la lotta di classe nelle campagne.
Le forze in campo
La composizione di classe dei contadini nel 1927 era la seguente: i
contadini poveri costituivano il 35% del totale. Bisogna aggiungere che, “a
causa dell’evoluzione spontanea del libero mercato, nel 1927 il 7% dei
contadini, cioè 2.7000.000 capi di famiglia, erano regrediti alla condizione di
‘senza terra’ ”.[15]
E il fenomeno si prospettava in forte aumento. La grande maggioranza della
popolazione agraria, dal 51 al 53%, era costituita dai contadini medi (le cui
condizioni di lavoro erano tuttavia arretrate). “Nell’insieme dell’Unione
sovietica, tra il 5% e il 7% dei contadini erano riusciti ad arricchirsi: i
kulaki. Dai dati del censimento del 1927, il 3,2% delle famiglie dei kulaki
possedeva in media 2,3 animali da tiro e 2,5 vacche contro una media di 1,0 e
1,1 per le rimanenti famiglie. 950.000 famiglie, cioè il 3,8%, occupavano
operai agricoli o affittavano mezzi di produzione”.[16]
Quali erano le forze del partito nelle campagne?
“Al 1° ottobre 1928 su 1.360.000 membri e candidati, 198.000 erano contadini.
Nelle campagne c’era un membro del partito ogni 420 abitanti e 20.700 cellule
del partito, una ogni quattro villaggi. Queste cifre acquistano maggior peso se
messe a confronto con quelle degli ‘effettivi permanenti’ della reazione
zarista, i preti ortodossi e gli altri religiosi a tempo pieno, che erano
60.000. La gioventù contadina costituiva la più grande riserva del partito.
Sempre nel 1928 un milione di giovani contadini militavano nel Komsomol ed
inoltre il partito poteva contare sui soldati che avevano combattuto nell’Armata
rossa durante la guerra civile e sui 180.000 contadini che si arruolavano ogni
anno nell’esercito, dove ricevevano un’educazione comunista”.[17]
Due dei maggiori ostacoli che le esigue forze del partito dovevano affrontare
erano l’ignoranza e le abitudini, frutto dell’estrema povertà e
dell’asservimento secolare cui i contadini poveri erano stati sottoposti.
“I rapporti sociali erano medioevali. Il vecchio dirigeva la casa. I figli
sposati portavano le mogli nella casa patriarcale e lavoravano nella fattoria
che il padre continuava a dirigere. Così i metodi di coltivazione rimanevano
quelli antiquati, né le vedute dei giovani potevano mutarli. Gran parte di
questi metodi venivano determinati dalla religione. Le festività religiose
indicavano i giorni della semina, le processioni irroravano i campi di acqua
santa per assicurarne la fertilità. La pioggia veniva auspicata mediante
processioni e preghiere. I più osservanti consideravano i trattori ‘macchine
infernali’ e vi furono dei preti che incitavano i contadini a lapidarli.
Qualunque battaglia per un’agricoltura moderna diveniva così una battaglia
contro la religione”.[18]
Con queste difficoltà culturali che non potevano risolversi in tempi brevi, il
partito ed il governo bolscevico dovettero affrontare la principale
contraddizione di classe rappresentata dai kulaki.
La battaglia scoppiò quando i kulaki si
rifiutarono di vendere allo Stato sovietico le forti eccedenze di grano al prezzo
fissato, che era lo stesso stabilito per i medi e piccoli contadini. Quando gli
fu imposto (in base ad una legge del codice penale che consentiva di confiscare
le eccedenze non corrisposte) di consegnare le quote dovute, ricorsero
all’aperta ribellione e perfino al terrore contro i kolcosiani e i militanti
del partito e delle istituzioni sovietiche rurali.
L’offensiva dei kulaki poggiava anche sulla certezza di non essere soli, ma di
godere di influenti appoggi all’interno del partito, e della complicità di
alcune amministrazioni locali.
Infatti il gruppo di Bukharin - Rykov era insorto contro l’applicazione delle
misure eccezionali che avevano limitato il potere dei kulaki. Essi pretendevano
che fossero abolite, sostenendo che la repressione dei kulaki avrebbe avuto per
conseguenza la degradazione dell’agricoltura e che, al contrario, il
rafforzamento del socialismo avrebbe portato all’attenuarsi della lotta di
classe ed in particolare i kulaki si sarebbero integrati nella società
socialista ed avrebbero fornito spontaneamente le quote di grano richieste.
La direzione del partito era convinta invece, sulla base dell’esperienza e dei
principi elementari del marxismo, che le forze capitaliste nel paese avevano
rialzato la testa e scatenato un’offensiva generale per opporsi allo sviluppo
socialista nel paese. Ricordando in particolare il sabotaggio degli specialisti
borghesi nella zona di Sciakhti (nelle miniere del bacino del Donez), Stalin
spiegava così la resistenza dei kulaki:
“Il kulak sa che il grano è il valore dei valori. Il kulak sa che le eccedenze
di grano sono per lui non solamente un mezzo per arricchirsi, ma anche un mezzo
per asservire i contadini poveri. Nelle condizioni attuali, le eccedenze di
grano sono, nelle mani dei kulaki, un mezzo per rafforzare economicamente e
politicamente le loro posizioni. E’ per questo che prendendo queste eccedenze
di grano ai kulaki, noi, non solo facilitiamo l’approvvigionamento di grano per
le città e per l’Armata rossa, ma togliamo anche alla classe dei kulaki il
mezzo per rafforzarsi economicamente e politicamente”.[19]
E concludeva:
“La vittoria della deviazione di destra nel nostro partito darebbe libero corso
alle forze del capitalismo, scalzerebbe le posizioni rivoluzionarie del
proletariato e accrescerebbe la probabilità di restaurazione del capitalismo
nel nostro paese”.[20]
La XVI Conferenza del partito (aprile 1929) approvò il primo piano quinquennale
per la costruzione del socialismo nell’URSS.
Gli investimenti principali fissati per il 1928-1933 ammontavano a 64 miliardi
e 600 milioni di rubli così ripartiti: 19,5 per l’industria e
l’elettrificazione, 10 per i trasporti e 23 miliardi e 200 milioni per
l’agricoltura.
Ma la fattibilità del piano non si fondava soltanto su questi cospicui
investimenti. In primo luogo essa era il frutto dell’impegno di milioni di
operai e contadini che avevano profuso le loro forze in uno sforzo gigantesco
per aumentare la produzione, slancio che aveva trovato la sua espressione nel
movimento di emulazione socialista.
Il loro impegno era una garanzia per il futuro, per l’attuazione del piano.
Ancora una volta sono costretta a rimandare ad altra relazione o alle nostre
ricerche future l’illustrazione degli enormi successi nel campo dell’industria
e della costruzione per occuparmi specificatamente dei progressi, altrettanto
straordinari, nel campo dell’agricoltura.
Negli anni 1928 e 1929 si assistette al fenomeno di masse sempre più
consistenti di contadini, inclusi i contadini medi, che abbandonavano
l’economia individuale e si orientavano verso l’economia collettiva, scegliendo
la via dello sviluppo, della tecnica, della meccanizzazione.
Questa svolta decisiva nell’agricoltura è testimoniata da una serie di dati
relativi al biennio 1928-29.
“Nel 1928, la superficie seminata dei sovcos era di 1.425.000 ha, con una
produzione mercantile di più di 6 milioni di quintali di cereali, la superficie
seminata dei kolcos raggiungeva 1.390.000 ha, con una produzione mercantile di
circa 3 milioni di quintali di cereali.
Nel 1929, la superficie seminata dei sovcos era di 1.816.000 ha, con una
produzione mercantile di circa 8 milioni di quintali di cereali, mentre la
superficie seminata dei kolcos era di 4.262.000 ha, con una produzione
mercantile di quasi 13 milioni di quintali di cereali”.[21]
Le previsioni per l’anno successivo (1930) indicavano un incremento ancora
maggiore.
Le ragioni di tale sviluppo, “sconosciuto” perfino se paragonato ai ritmi
serrati di crescita della grande industria, venivano individuate da Stalin nei
seguenti punti:
1. la prima ragione stava nella politica del partito che aveva guidato le masse
contadine ad associarsi nei kolcos, come estensione del movimento delle
cooperative. Ciò spiegava perché il partito aveva dovuto lottare contro le
deviazioni di sinistra (le tendenze a forzare la crescita dei kolcos a colpi di
decreti) e di destra (i tentativi di frenare il movimento, restando alla coda
delle masse).
2. La seconda ragione stava nello sforzo dei soviet locali che si erano
adoperati per liberare i contadini dai metodi antiquati di coltivazione
offrendo loro la possibilità di affittare i mezzi meccanici, creando le
Stazioni di macchine e trattori ed usufruendo dell’aiuto dei sovcos.
3. La terza ragione discendeva dall’aiuto portato all’organizzazione della
produzione delle campagne dagli operai avanzati. Cioè dal prezioso lavoro di
propaganda, educazione, coscientizzazione ed organizzazione delle masse
contadine compiuto dalle brigate operaie.
Questi punti che illustrano i motivi del successo della collettivizzazione, per
la loro sinteticità non danno l’idea, in tutta la sua complessità, di quella
che fu una profonda rivoluzione nelle campagne che fece uscire dal medioevo
masse sterminate di contadini.
Il libro di Ludo Martens, già citato, ne illumina efficacemente alcun aspetti.
L’autore dedica varie pagine alle testimonianze, anche di parte non comunista,
sul ruolo che ebbero i 25.000 quadri operai, membri dei soviet e soldati
dell’Armata rossa che risposero volontariamente all’appello del partito e
furono inviati nelle campagne. L’autore descrive la loro lotta contro il
burocratismo, la passività o gli abusi e gli eccessi degli amministratori
locali e dà risalto alla funzione che svolsero nell’organizzazione del lavoro,
nel riordino del sistema salariale e nell’introduzione della disciplina del
lavoro. Gli operai delle grandi industrie trasmisero la loro esperienza ai
contadini che, malgrado l’entusiasmo per le prospettive di una nuova vita che
li liberava dalla miseria e dall’asservimento, non erano in grado di
organizzare razionalmente il lavoro collettivo.
Le brigate di questi quadri comunisti furono da un lato “gli occhi e gli
orecchi del partito” per un’indagine sul campo, e dall’altro si inserirono
profondamente nel tessuto sociale in cui avevano scelto di operare: furono
maestri nell’alfabetizzazione e nell’insegnamento delle nozioni politiche elementari,
istruttori nella tecnica dell’uso e della riparazione delle macchine agricole e
soprattutto difensori dei contadini poveri nella lotta contro i kulaki. Molti
di loro pagarono con la vita questo loro impegno.
Dovettero inoltre lottare contro l’intossicazione ideologica prodotta dalle
calunnie e dalle falsità divulgate dall’ “agit-prop” dei kulaki. Martens ne dà
qualche esempio:
“Negli anni 1928-1929 si diffusero le stesse voci sullo sterminato territorio
sovietico. Nei kolcos, le donne e i bambini sarebbero stati collettivizzati.
Nei kolcos tutti avrebbero dormito insieme sotto un’enorme coperta comune. Il
governo bolscevico avrebbe obbligato le donne a tagliarsi i capelli al fine di
esportarli. I bolscevichi avrebbero marcato le donne sulla fronte per la loro
identificazione. Essi avrebbero imposto la russificazione alle popolazioni
locali. Ed altre “informazioni” terrificanti circolavano. Nei kolcos, una
macchina speciale avrebbe bruciato i vecchi affinché non mangiassero il grano.
I bambini sarebbero stati tolti ai loro genitori per essere inviati in nidi
d’infanzia. 40.000 giovani donne sarebbero state spedite in Cina per pagare la
ferrovia orientale cinese. I kolcosiani sarebbero stati mandati per primi in
guerra. Infine le solite voci annunciavano che ben presto sarebbero ritornati
gli eserciti dei Bianchi. I credenti furono informati della prossima venuta
dell’anticristo e della fine del mondo nello spazio di due anni”.[22]
La liquidazione dei kulaki in quanto classe
L’adesione in massa ai kolcos per villaggi, mandamenti e interi
circondari prendeva la forma della collettivizzazione integrale. Essa non
avveniva pacificamente, ma attraverso la lotta dei contadini, soprattutto dei
contadini poveri, contro i kulaki. Collettivizzazione integrale, infatti,
significava il passaggio di tutta la terra dei villaggi ai kolcos. In
conseguenza, le terre dei kulaki venivano espropriate, il loro bestiame e le
macchine agricole requisite, a somiglianza di quanto era avvenuto nei primi
anni della Rivoluzione d’Ottobre contro i grandi agrari. I kulaki venivano
scacciati dai villaggi e i contadini ne chiedevano l’espulsione.
Questa rivoluzione “dal basso” ricevette il crisma dell’ufficialità “dall’alto”
con la svolta nella politica del partito, nota per la parola d’ordine:
“liquidazione dei kulaki in quanto classe”.
Abbiamo già visto che i provvedimenti sulla limitazione del potere dei kulaki,
adottati all’inizio del 1929, erano consistiti nell’obbligo di vendere il grano
al prezzo stabilito dallo Stato e nel pagamento di tasse più alte.
Comprendevano anche altre misure che impedivano ai kulaki di affittare terre
oltre determinati limiti e di impiegare operai salariati oltre un certo numero.
Come si vede, erano provvedimenti che limitavano
lo sviluppo dei kulaki, ma non portavano alla loro liquidazione in quanto classe.
Il Comitato centrale del partito del 5 gennaio 1930 compì questo ulteriore
passo, adottando nuove misure più restrittive che abolivano i residui diritti.
Ed inoltre approvò importanti decisioni per razionalizzare i ritmi e
ristabilire la legalità nel magmatico e contraddittorio movimento di
collettivizzazione:
1. stabilì scadenze differenziate di collettivizzazione tenendo conto delle
diversità regionali;
2. ritenne necessario accelerare i tempi di costruzione dei trattori e delle
macchine mietitrici e trebbiatrici per tenere il passo con i ritmi della
collettivizzazione; raccomandò al tempo stesso di non sottovalutare l’impiego
temporaneo dei cavalli da traino e pertanto di frenare la tendenza a
sbarazzarsene;
3. raddoppiò i crediti ai kolcosiani.
Nella risoluzione veniva ribadito l’importante principio, spesso disatteso
nella pratica, che la forma principale dell’organizzazione dei kolcos era l’artel agricolo, cooperativa in cui erano
collettivizzati soltanto i principali mezzi di produzione.
In generale, in merito alla svolta politica della liquidazione dei kulaki in
quanto classe, merita una digressione l’importante riflessione di Stalin, nel
suo discorso alla Conferenza degli specialisti di politica agraria (27 dicembre
1929), a proposito della linea di Trotski in materia. Stalin si chiede:
“Potevamo cinque o tre anni addietro intraprendere questa offensiva contro i
kulaki?” E motiva la sua risposta negativa: “Perché non avevamo ancora nelle
campagne quei punti di appoggio che sono i numerosi sovcos e kolcos sui quali
avremmo potuto basarci per intraprendere un’offensiva risoluta contro i kulaki.
Perché non avevamo in quel momento la possibilità di rimpiazzare la produzione
capitalista dei kulaki con la produzione socialista dei kolcos e dei sovcos”. E
ricorda: “Nel 1926–27 l’opposizione zinovievista – trotskista si sforzava di
imporre al partito una politica offensiva immediata contro i kulaki. Il partito
non si gettò in quella pericolosa avventura...”.[23]
Ed ecco come Trotski, senza timore di cadere nel ridicolo, si attribuisce la
paternità della decisione del partito:
“Senza la critica decisa dell’opposizione e senza il timore dell’opposizione da
parte della burocrazia, il corso Stalin - Bukharin a favore dei kulaki sarebbe
sfociato in una ripresa del capitalismo. Sotto la sferza dell’opposizione, la
burocrazia fu costretta a servirsi di pezzi importanti della nostra piattaforma.
I leninisti non potevano salvare il regime sovietico dal processo di
degenerazione e dalle difficoltà del regime personale. Ma lo salvarono dalla
completa distruzione sbarrando la strada alla restaurazione capitalista. Le
riforme progressiste della burocrazia erano conseguenze della battaglia
rivoluzionaria dell’opposizione. Per noi è ancora insufficiente, ma è
qualcosa”.[24]
Kostas Mavrakis così commenta:
“La linea seguita da Stalin assomigliava, sotto molti aspetti, a quella
preconizzata da Trotski nel 1924. Questo comunque non dava ragione
retrospettivamente a Trotski, come sostengono i suoi seguaci, il cui pensiero è
altrettanto atemporale
(sottolineatura mia) di quello del loro maestro, perché le condizioni del 1929 non
erano per nulla simili a quelle del 1924. Nel constatare che Stalin “plagiava”
il suo programma (Lenin avrebbe fatto lo stesso nei confronti di quello dei
socialisti-rivoluzionari) (...) Trotski decise di rivedere completamente le
proprie concezioni. (...) Egli condannò la liquidazione dei kulaki e affermò
che i kolcos (…) si sarebbero sfaldati da sé per il fatto che non possedevano
macchine moderne”.[25]
In tal modo, si allineava alle posizioni di destra di Bukharin, piuttosto che
dar ragione a Stalin.
La vertigine del successo
Nel suo famoso articolo “Questioni della collettivizzazione
agricola”, pubblicato dalla Pravda
del 2 marzo 1930, Stalin denunciò le deformazioni della politica del partito
nel campo della costruzione dei kolcos.
In effetti le direttive del Comitato centrale del 5 gennaio, sopra citate,
erano state attuate solo in parte e, accanto ai successi conseguiti nella
collettivizzazione, si erano verificati molti errori.
Stalin individuava i principali nella violazione del principio della libera adesione al movimento kolcosiano e
nella mancata considerazione delle condizioni
diverse delle differenti regioni dell’URSS. Risultava evidente che i
grandi progressi del movimento di collettivizzazione agricola nelle regioni
cerealicole erano dovuti a vari fattori: all’esistenza di sovcos e kolcos già
consolidati, all’esperienza delle lotte contro i kulaki nelle campagne per
l’ammasso del grano ed infine alla presenza in queste regioni di quadri di
avanguardia, arrivati dai centri industriali.
In altre regioni, come quelle del Nord, consumatrici di grano, perché
produttrici di prodotti agricoli industriali (cotone, barbabietole da zucchero)
ed in quelle di comunità più arretrate non si potevano forzare i tempi di
adesione ai kolcos. In queste regioni si era invece spesso cercato di
sostituire al lavoro di preparazione e di convinzione l’organizzazione
affrettata di kolcos, esistenti solo sulla carta.
Stalin ribadiva ancora una volta che la forma principale dell’organizzazione
dei kolcos doveva essere in quella fase l’artel.
Specificava ancora una volta che questa forma cooperativa prevedeva che fossero
collettivizzati i principali mezzi di produzione, cioè quelli che servivano
alla coltura dei cereali: il lavoro, l’uso del suolo, le macchine agricole, gli
animali da tiro. Sottolineava che non doveva essere collettivizzato tutto ciò
che apparteneva alle piccole aziende individuali: i piccoli orti e frutteti, le
abitazioni, una parte del bestiame da latte, gli animali da cortile.
Ricordava che l’artel era
l’anello principale del movimento kolcosiano, “... perché è la forma più
razionale che permette di risolvere il problema dei cereali. Il problema dei
cereali è l’anello principale di tutto il
sistema dell’agricoltura perché, se non lo si risolve, è impossibile
risolvere il problema dell’allevamento (del bestiame di grande e piccola
taglia), né quello delle colture industriali e speciali che forniscono le
principali materie prime all’industria”.[26]
Su tutto ciò si basava il prototipo di statuto dei kolcos che venne pubblicato
e diffuso capillarmente.
Il Comitato centrale del partito del 15 marzo si occupò nuovamente di queste
importanti questioni, emanando direttive per la loro attuazione ed invitando a
destituire e sostituire i quadri che non sapessero o volessero metterle in
pratica.
La questione era talmente sentita dai contadini che l’articolo di Stalin sulla
“vertigine del successo” ebbe un’accoglienza entusiastica.
“La dichiarazione fu riprodotta integralmente in tutti i giornali del paese e
milioni di copie ne circolavano in opuscolo. I contadini andavano in città e
pagavano alti prezzi per l’ultima copia rimasta, per poterla sventolare in
faccia agli organizzatori locali come la carta della loro libertà. Di colpo,
Stalin divenne l’eroe di milioni di contadini, il loro difensore contro gli
eccessi compiuti localmente. Stalin frenò rapidamente questa sorta di idolatria
(...) chiarendo che: ‘il Comitato centrale non permette... azioni simili da
parte di un solo individuo’. La dichiarazione era del Comitato centrale”.[27]
Stalin ricevette ugualmente una quantità di lettere dai kolcosiani.
Nell’impossibilità di rispondere a ciascuna personalmente, decise di rendere
pubbliche - attraverso la stampa - le sue risposte ai quesiti più importanti.
Si tratta dello scritto dal titolo “Risposta ai compagni kolcosiani” (Cfr.
Stalin. Les questions du leninisme. Opera citata. pp. 501-527).
Il quesito sulle deviazioni dalla linea del partito che merita una riflessione
è il seguente: “Come tutto ciò è potuto accadere?”, per il motivo che è il
medesimo che noi stessi, militanti comunisti, ci poniamo davanti agli errori
che si commettono nella complessità e contraddittorietà di un percorso
rivoluzionario che spesso ci è stato mostrato come lineare e che invece, nel
riscontro con la realtà, si rivela tortuoso ed accidentato.
Nella situazione specifica del movimento di collettivizzazione dell’agricoltura
in Unione Sovietica, con i suoi vertiginosi successi e le sue crisi, occorre
tenere presenti tutti gli elementi in gioco. Dando per scontate le difficoltà
oggettive dovute alle forti differenziazioni della situazione economica e
culturale delle diverse regioni dello sterminato territorio sovietico,
l’elemento più importante da sottolineare è soprattutto il fatto che le classi
sociali non sono separate da muraglie cinesi, ma sono invece innervate nel
tessuto sociale dove si svolge nella realtà
il loro scontro, dove si decide “chi vincerà”.
La teoria marxista ha più volte ribadito il concetto del periodo di transizione
dal capitalismo al comunismo, quello che chiamiamo di costruzione del
socialismo, come un periodo di lotta accanita tra il vecchio che muore – ma che
si dibatte disperatamente per non morire – ed il nuovo che nasce, pieno di
forza, ma imbrattato dal fango della vecchia società.
Di qui la conseguenza che il partito comunista può e deve (essendo questo il
suo compito) indicare la linea che reputa giusta, ma che non può controllare, o
non sempre sa o può controllare, completamente sul campo. Lenin, nel suo ultimo
intervento pubblico che abbiamo ricordato, diceva che il passaggio dalla Russia
della NEP alla Russia socialista sarebbe dipeso soprattutto dagli uomini, dalla
loro volontà di istruirsi e dalla loro capacità di attuare le decisioni.
La rete degli amministratori e dei quadri di partito nelle campagne era un
mosaico di posizioni politiche diverse, e quindi di interpretazioni della linea
del partito e delle direttive del governo altrettanto differenti, quando non
contrapposte. Si andava dalle posizioni ideologicamente assimilabili a quelle
della destra e quindi, nella pratica, conciliatorie, spesso colluse con gli
interessi degli elementi capitalisti, i kulaki, alle posizioni dei dirigenti ed
organizzatori sinceramente rivoluzionari che sostenevano le rivendicazioni più
estremiste dei contadini poveri. Come diceva Stalin: “è difficile fermare delle
persone che si lanciano in una corsa forsennata”, ma assicurava che il partito
vi sarebbe riuscito.
Questo quadro complesso fa giustizia della concezione del partito comunista
guidato da Stalin come di uno spietato regime totalitario che avrebbe obbligato
(ma come avrebbe potuto?), con il fucile puntato alla schiena, milioni di
contadini ad entrare nei kolcos.
Le calunnie di questo genere appartennero alla propaganda dei paesi
imperialisti che, negli anni Trenta, si dibattevano in una crisi economica
generale che li avrebbe condotti fatalmente alla carneficina della seconda
guerra mondiale; costituirono l’arma propagandistica con cui il nazismo preparò
l’operazione Barbarossa e coincisero con le valutazioni di Trotski sulla
collettivizzazione, secondo lui, sempre imposta dall’alto.
Come abbiamo visto, il partito era corso ai ripari mandando nelle campagne
numerose brigate di quadri comunisti, prevalentemente operai, che esercitarono
di fatto la dittatura del proletariato sulla classe dei contadini. Più tardi il
partito, come vedremo, organizzò le sezioni politiche presso le Stazioni dei
trattori, le quali portarono nozioni tecniche per mezzo di appositi corsi di
formazione, strumenti culturali, attraverso l’istituzione di biblioteche e
compagnie teatrali, aprendo ai contadini orizzonti culturali fino ad allora
sconosciuti.
Successi del primo piano quinquennale
Il XVI Congresso del partito (giugno 1930) lanciò l’indicazione del
compimento del piano in quattro anni. La sfida si basava sul successo
dell’esecuzione del piano in tutti i rami dell’industria e sulla necessità
vitale di moltiplicare gli sforzi.
Come spiega Stalin nel suo discorso su “I compiti dei dirigenti dell’industria”
del 4 febbraio 1931, che invito a leggere integralmente per il suo valore
internazionalista e di cui riporto solo alcuni stralci:
“Ci si domanda a volte se non sarebbe possibile rallentare un poco i ritmi,
frenare il movimento. No, non è possibile. Compagni! Non è possibile ridurre i
ritmi! Al contrario, nella misura delle nostre forze e delle nostre
possibilità, bisogna aumentarli. Ce lo impongono i nostri doveri verso gli
operai e i contadini dell’URSS. Ce lo impongono i nostri doveri verso la classe
operaia del mondo intero. Frenare i ritmi vuol dire essere in ritardo e i
ritardatari sono sconfitti. (...) Noi siamo in ritardo di cinquanta o cento
anni rispetto ai paesi avanzati. Noi dobbiamo coprire questa distanza in dieci
anni. O lo faremo o saremo stritolati. Ecco quello che ci impongono i nostri
doveri verso gli operai e i contadini dell’URSS.
Ma noi abbiamo anche altri doveri, più seri e più importanti. Quelli che
dobbiamo adempiere verso il proletariato mondiale. (...) Noi abbiamo vinto non
solo grazie agli sforzi della classe operaia dell’URSS, ma anche grazie al
sostegno della classe operaia mondiale. (...) In nome di che cosa il
proletariato mondiale ci sostiene? (...) E’ perché noi ci siamo gettati per
primi nella battaglia contro il capitalismo; abbiamo instaurato per primi il
potere operaio; ci siamo accinti per primi a costruire il socialismo. E’ perché
lavoriamo ad un’opera che, se avrà successo, sconvolgerà il mondo intero e
affrancherà tutta la classe operaia. (...) Noi dobbiamo marciare alla testa, in
modo che la classe operaia del mondo intero, guardando a noi, possa dire: ‘Ecco
il mio distaccamento d’avanguardia, ecco la mia brigata d’assalto, ecco il mio
potere operaio, ecco la mia patria; essi costruiscono la loro opera, la nostra
opera che ci appartiene, ed essi
lavorano bene; sosteniamoli contro i capitalisti e attizziamo la fiamma della
rivoluzione mondiale. (...)”.[28]
Il bilancio del XVI Congresso era positivo. Nell’anno economico 1929-1930 la
produzione industriale costituiva già il 53% della produzione complessiva di
tutta l’economia e la produzione agricola ne costituiva il 47%.
Il I° maggio 1930 nelle regioni cerealicole più importanti la
collettivizzazione comprendeva il 40-50% delle aziende contadine. I kolcos
avevano già seminato 36 milioni di ettari.
Nuove difficoltà nel movimento di collettivizzazione
Il raccolto del 1930 era stato eccezionale, avendo raggiunto
complessivamente 83,5 milioni di tonnellate di cereali.
Vi fu invece una forte caduta nella produzione dei cereali, che toccarono
appena i 69,5 e i 69,9 milioni di tonnellate, rispettivamente negli anni 1931 e
1932.
La crisi fu imputabile in parte alla siccità, particolarmente grave nel 1931,
ma soprattutto a deficienze nella cattiva gestione dell’organizzazione dei
kolcos e alle scarse capacità di direzione da parte dei quadri del partito.
Ciò aveva avuto una grave ripercussione nell’approvvigionamento della
popolazione ed aveva costretto il governo ad imporre un rigido regime di
razionamento.
“Da un capo all’altro del paese, senza eccezioni, ci fu scarsità e fame e un
aumento generale di mortalità come conseguenza. Ma la fame fu distribuita. In
nessun luogo si vide il caos e il panico che è richiamato alla mente dalla
parola ‘carestia’ ”.[29]
Stalin, nel suo discorso dell’11 gennaio 1933 al plenum del Comitato centrale e
della Commissione centrale di controllo, distinse le difficoltà oggettive dalle
deficienze politiche ed organizzative. Fece notare che nel 1932, a parte le
condizioni climatiche sfavorevoli, il raccolto non era stato peggiore di quello
del 1931, mentre le difficoltà nell’ammasso del grano erano state più grandi.
La prima causa che Stalin mise in evidenza fu quella dovuta alla
sottovalutazione da parte dei quadri rurali del partito degli effetti della
nuova misura che legalizzava la vendita del grano sul mercato, da parte dei
kolcos, a prezzi superiori a quelli praticati dallo Stato. Questa disposizione
legislativa avrebbe spinto la parte meno cosciente dei contadini kolcosiani a
limitare le consegne di grano all’ammasso statale per riservarsene una maggiore
quantità da vendere sul mercato (ed era questo il suo lato negativo, mentre quello positivo era di aumentare l’offerta dei
prodotti per la popolazione, nonché le entrate dei kolcos). Stalin trovava
“naturale” questa tendenza nei contadini, criticava invece aspramente i quadri
rurali del partito per non averla contrastata esercitando la loro funzione di
dirigenti, cioè per non aver curato che le vendite sul mercato si aprissero
soltanto dopo la consegna del
grano all’ammasso e la conservazione delle sementi. Stalin estese la critica
alla stessa direzione del partito e del governo per non aver sottolineato
abbastanza queste priorità nell’emanare le loro direttive.
La seconda deficienza individuata da Stalin riguardava la mancata presenza
attiva dei quadri di partito nella gestione dei kolcos, come se questi, una
volta formati, non avessero bisogno di essere consolidati, come se una grande
azienda che raggruppava centinaia e a volte migliaia di persone non avesse
bisogno di una guida esperta per la sua pianificazione. In sostanza il regime
dei kolcos richiedeva una maggiore responsabilità da parte dei rappresentanti
locali del partito e del governo per lo sviluppo dell’agricoltura, perché i
kolcos non restassero soltanto una forma
di organizzazione economica socialista, senza contenuti. Il punto era chi
dirigeva i kolcos.
Da ultimo Stalin denunciò come una grave deficienza la scarsa vigilanza sulle
nuove tattiche dei kulaki i quali, una volta sconfitti, non osavano più
attaccare i kolcos dall’esterno, ma vi si introducevano per sabotarne la
produzione e l’organizzazione. Per esemplificare, Stalin chiariva: essi non
diranno mai: “Abbasso i kolcos ma abbasso l’ammasso del grano” .
Stalin concluse la dura critica - autocritica affermando: “Noi siamo colpevoli di non aver valutato
chiaramente la nuova situazione, né compreso la nuova politica del nemico di
classe, che si serve di sotterfugi nella sua opera di disgregazione.
Come uno dei mezzi per correggere i difetti elencati, Stalin propose la
creazione delle Sezioni politiche nei sovcos e nelle Stazioni di macchine e
trattori (SMT).
Il ruolo delle Stazioni di macchine e trattori e delle Sezioni politiche
Prima di parlare dell’importante funzione svolta dalle Sezioni
politiche, vediamo brevemente come erano nate le SMT. La prima di esse fu il
frutto della creatività e dello spirito di iniziativa che animava le masse
coinvolte nel rinnovamento rivoluzionario dell’agricoltura. Citiamo la
testimonianza di Anna Louise Strong:
“Nel pieno dell’inverno andai a visitare la prima stazione di trattori, nella
regione di Odessa. Un tecnico agrario della zona, di nome Markovic, aveva escogitato
un metodo efficace ed economico per fornire le macchine alle fattorie. Invece
di vendere i trattori ai contadini, che non sapevano condurli e provvedere alla
manutenzione, Markovic teneva alcune dozzine di trattori in un unico centro,
dotato di equipaggiamento meccanico complesso, officina di riparazione e scuola
di guida. I trattori lavoravano su contratto nelle fattorie collettive della
zona, entro un raggio di 30 e più chilometri, la stazione forniva le macchine
per ogni tipo di lavoro di cui le fattorie avevano bisogno e riceveva pagamenti
in grano”.[30]
Nel settembre del 1930 il partito decise di concentrare tutti i trattori
utilizzati dai kolcos nelle Stazioni di macchine e trattori di proprietà dello
Stato per servire da 40 a 50 mila ettari di terra da arare, ciascuna di esse
con un’officina per le riparazioni. Questo sistema centralizzato dimostrò la
sua superiorità. I lavoratori delle SMT avevano lo statuto di operai
industriali. Nel 1930 furono formati 25.000 trattoristi. Nel 1931 si
organizzarono corsi per 200.000 giovani contadini e contadine che entrarono
nelle SMT, 150.000 di loro con la qualifica di trattoristi.
Le Sezioni politiche nelle SMT vennero create, come abbiamo visto, su
indicazione di Stalin.
Diamo ancora la parola ad Anna Louise Strong, giornalista sul campo:
“E, mentre due terzi di tutte le fattorie collettive erano già servite dalle
SMT, queste furono ora ampliate avviandovi ventimila lavoratori nuovi, uomini
efficienti, di un tipo che la vecchia Russia rurale non aveva ancora
conosciuto. Direttori di fabbrica, comandanti dell’esercito, professori
universitari si offersero come volontari per i politotdel
(le Sezioni politiche-n.d.r.), a lavorare come organizzatori per aumentare
l’‘efficienza’ delle campagne.
A tutto questo la stampa estera diede il nome di ‘la guerra di Stalin contro i
contadini’. La stampa sovietica la chiamò ‘la nostra battaglia per il successo
del raccolto’ ”.[31]
La razionalizzazione organizzativa
Altri provvedimenti ebbero lo scopo di ovviare alle deficienze riscontrate
nell’organizzazione del lavoro che avevano causato la disaffezione,
l’assenteismo e la mancanza di responsabilità dei kolcosiani.
“Un decreto del 28 febbraio 1933 divise i principali lavori agricoli in sette
categorie tariffarie, il cui valore, espresso in giornate lavorative, variava da 0,5 ad 1,5. Ciò significava
che il lavoro più duro e difficile veniva remunerato il triplo del lavoro
facile e leggero. Il reddito disponibile del kolcos era ripartito, alla fine
dell’anno, tra i kolcosiani a seconda delle giornate lavorative.
Infine si era trovato un equilibrio tra il lavoro collettivo e l’attività
individuale dei contadini kolcosiani. Il prototipo di statuto del kolcos,
adottato il 7 febbraio 1937, che ne fissava i principi generali, era il
risultato di cinque anni di lotte e di esperienza. Nel 1937 le superfici
coltivate sotto forma di appezzamenti individuali dei kolcosiani
rappresentavano il 3,9% delle superfici coltivate, ma i kolcosiani ne
ricavavano il 20% dei loro redditi”.[32]
Gli investimenti nell’agricoltura
Le cifre di tutte le statistiche esistenti indicano la stessa tendenza agli
immensi progressi nel campo dell’agricoltura. Non potendo riportare in questo
ambito i dati completi, mi limito a fornire, a titolo d’esempio, quelli
riguardanti la meccanizzazione, asse portante della coltivazione collettiva.
“All’inizio del 1929 la Russia rurale poteva contare su 18.000 trattori
(calcolati in unità di 15 cavalli), 700 camion e 2 (due) mietitrici. All’inizio
del 1933 il parco macchine agricole era di 148 trattori, 14.000 camion e
altrettante mietitrici. All’inizio della guerra, nel 1941, i kolcos e i sovcos
utilizzavano 684.000 trattori (sempre in unità di 15 cv), 228.000 camion e
182.000 mietitrici”.[33]
Questi progressi riflettono l’aumento costante degli investimenti a favore
dell’agricoltura. Dai 379 milioni di rubli nel 1928, essi passarono a 2.590
milioni nel 1930, a 3.645 milioni nel 1931, si mantennero allo stesso livello
per due anni, per raggiungere le punte massime nel 1934 con 4.661 milioni e nel
1935 con 4.983 milioni di rubli.
Queste cifre confutano la teoria secondo la quale l’agricoltura sovietica è
stata ‘sfruttata’ dalle città: mai un’economia capitalista avrebbe potuto
realizzare degli investimenti altrettanto importanti nelle campagne. La parte
dell’agricoltura nell’insieme degli investimenti passò da 6,5% nel 1923-1924 al
25% e al 20% nel corso degli anni cruciali 1931 e 1932; nel 1935 la sua parte
fu del 18%”.[34]
Una vittoria del socialismo
“La collettivizzazione della campagna ha tagliato nettamente la tendenza
spontanea della piccola produzione mercantile a polarizzare la società in
ricchi e poveri, in sfruttatori e sfruttati. I kulaki, i borghesi della società
rurale, sono stati repressi ed eliminati in quanto classe sociale. Lo sviluppo
di una borghesia rurale in un paese in cui l’80% della popolazione viveva
ancora nelle campagne, avrebbe strozzato ed ucciso il socialismo sovietico.
La collettivizzazione e l’economia pianificata hanno permesso all’Unione
Sovietica di resistere all’aggressione fascista e di affrontare la guerra
totale scatenata dai nazisti tedeschi. Durante i primi anni di guerra il
consumo del grano ha dovuto essere ridotto della metà ma, grazie alla
pianificazione, le quantità disponibili furono ripartite in modo egualitario.
Le regioni occupate e devastate dai nazisti rappresentavano il 47% della
superficie delle terre coltivate. I fascisti vi distrussero 98.000 produzioni
collettive. Ma tra il 1942 e il 1944, 12 milioni di ettari di terre incolte
erano state coltivate nell’Est del paese.
Grazie al sistema socialista, nel 1948, la produzione agricola ha potuto, per
l’essenziale, raggiungere il livello del 1940”.[35]
Bettelheim osserva:
“La stragrande maggioranza dei contadini si è rivelata molto attaccata al nuovo
regime di produzione. Se ne è avuta la prova nel corso della guerra, poiché
nelle regioni occupate dalle truppe tedesche, e a dispetto degli sforzi fatti
dalle autorità naziste, la forma di produzione kolcosiana si è mantenuta”.[36]
Il “genocidio” della collettivizzazione
Ludo Martens, nel libro più volte citato, mette in luce la
contiguità tra la propaganda antibolscevica diffusa dal mondo occidentale,
negli anni Ottanta, e la guerra psicologica condotta dai nazisti per preparare
l’invasione dell’URSS. La famigerata equazione bolscevismo = nazismo non è
stata inventata negli anni più recenti.
Martens cita, ad esempio, Stefan Merl, un “ricercatore” tedesco che arriva a
giustificare l’olocausto di Auschwitz, di cui nega l’entità, come una reazione
all’ansia creata dagli stermini
della rivoluzione russa.
Sull’espressione “liquidazione dei kulaki in quanto classe”, che indicava la
decisione di porre fine ai rapporti di produzione capitalisti nell’agricoltura
e non l’eliminazione fisica dei loro rappresentanti, è stata costruita l’enorme
speculazione del “genocidio” dei kulaki.
Vediamo di ricostruire i fatti nelle condizioni reali in cui si sono svolti.
Come abbiamo visto, nel biennio 1930–31, anni cruciali del processo di
collettivizzazione, si scatenò nelle campagne dell’URSS una lotta di classe
senza esclusione di colpi, condotta dai contadini - soprattutto dai contadini
poveri - per abbattere gli ultimi vestigi del loro sfruttamento secolare, così
come si erano liberati da quello dei grandi proprietari terrieri. Potevano
contare sull’appoggio incondizionato del governo sovietico e del partito
bolscevico, non solo sulla base della storica alleanza operai - contadini, ma
in nome della necessità ineludibile dello sfruttamento collettivo della terra:
senza la collettivizzazione non vi sarebbe stato sviluppo dell’agricoltura e
senza questo non vi sarebbe stato sviluppo dell’industria, né lo Stato
sovietico sarebbe sopravvissuto.
Abbiamo anche visto che i kulaki reagirono con estrema violenza alla loro messa
fuori gioco.
In quegli anni i contadini espropriarono 381.026 kulaki e li costrinsero
all’esilio, insieme alle loro famiglie, nelle terre vergini dell’Est della
Russia.
Si trattava di 1.803.392 persone. Al 1° gennaio 1932 nei nuovi insediamenti ne
furono censite 1.317.022. La differenza era di circa 486.000, che non coincide
con la loro eliminazione fisica. Data la disorganizzazione dell’epoca, bisogna
mettere in conto che un numero imprecisato di deportati riusciva a fuggire
durante il viaggio. Fenomeno frequente, confermato dal fatto che di quel
1.317.000 censiti nei nuovi insediamenti, 207.010 riuscirono a fuggire nel 1932
(Ludo Martens, opera citata).
Altri, dopo la revisione del loro caso, poterono tornare nei luoghi d’origine.
Il 30 gennaio 1930 il Comitato centrale del partito prese alcune decisioni per
dirigere la dekulakizzazione spontanea con una risoluzione dal titolo: “A
proposito delle misure per l’eliminazione delle fattorie dei kulaki nei
distretti di collettivizzazione avanzata”. I kulaki vennero suddivisi in tre
categorie.
“La prima categoria comprendeva i controrivoluzionari attivi. La GPU doveva
determinare se un kulak apparteneva a questa categoria. La risoluzione
prevedeva un limite di 63.000 famiglie in tutta l’URSS. I loro mezzi di
produzione e le loro proprietà personali dovevano essere confiscati. I
capifamiglia sarebbero stati imprigionati o chiusi in campi di lavoro. Gli
organizzatori di atti terroristici, di dimostrazioni contro-rivoluzionarie e di
movimenti insurrezionali potevano essere condannati a morte. I membri delle
loro famiglie dovevano essere esiliati, come le persone appartenenti alla
seconda categoria.
Questa categoria comprendeva gli altri kulaki politicamente attivi, soprattutto
i più ricchi e i vecchi proprietari terrieri. Questa categoria ‘manifestava una
minore opposizione attiva allo Stato sovietico, ma era costituita da
super-sfruttatori che sostenevano naturalmente la contro-rivoluzione’. Le liste
di quelli inclusi in questa categoria dovevano essere preparate dai soviet del
distretto ed approvate dal villaggio sulla base di decisioni prese dalle
assemblee di coltivatori di fattorie collettive o da gruppi di contadini poveri
e di operai agricoli. Il loro numero, per tutta l’URSS, era previsto intorno a
150.000. La maggior parte dei mezzi di produzione ed una parte delle loro
proprietà private dovevano essere confiscate. Essi potevano conservare una
certa quantità di alimenti ed una somma in denaro; dovevano essere esiliati in Siberia,
nel Kazakhstan o negli Urali.
Nella terza categoria si trovava la maggioranza dei kulaki che potevano essere
inseriti nel potere sovietico. Questa categoria comprendeva dalle 396.000 alle
852.000 famiglie. Solo una parte dei loro mezzi di produzione veniva confiscata
ed esse venivano insediate su terre vergini del loro distretto”.[37]
Ciò non toglie che le deportazioni ebbero effetti drammatici. Lo ammette il
rapporto, redatto il 20 dicembre 1931 dal responsabile di un campo di lavoro a
Novossibirks:
“La forte mortalità relativa ai convogli, dal n° 18 al 23, provenienti dal
Caucaso del Nord - 2.421 persone sulle 10.086 alla partenza - si può imputare
alle cause seguenti:
1. un approccio negligente, criminale, nella selezione dei contingenti alla
partenza, tra i quali figuravano numerosi bambini, vecchi di età superiore ai
sessantacinque anni e ammalati;
2. l’inosservanza delle disposizioni concernenti il diritto dei deportati di
portare con sé provviste per due mesi di viaggio;
3. l’assenza di acqua bollita che ha obbligato i deportati a bere acqua
inquinata. Molti sono morti di dissenteria e per altre epidemie”.[38]
Martens osserva che tutte queste morti sono attribuite ai “crimini staliniani”
mentre dal rapporto si evince che almeno due cause erano dovute
all’inosservanza delle direttive del partito e la terza alle condizioni e alle
abitudini sanitarie disastrose nell’intero paese.
Per farsi un’idea del contesto in cui si inseriscono questi profondi
sconvolgimenti nella struttura della società sovietica, bisogna ricordare che
uno dei più importanti risultati dell’economia pianificata fu il trasferimento
del centro di gravità industriale verso Est. Si sviluppò così, per fare un
esempio, la seconda base carbonifera dell’URSS nel bacino di Kuznietsk. Anche
le sterminate terre vergini dell’Est e del Nord vennero coltivate. Ma per
raggiungere queste terre inesplorate e trasportarvi uomini e materiali
occorreva aprire strade al posto di piste sterrate, posare chilometri e
chilometri di binari su terreni coperti di fango o sepolti nella neve. Le
condizioni in cui operavano le brigate dei lavoratori d’assalto, gli stakhanovisti, i contadini udarniki e migliaia e migliaia di
proletari - i comunisti e i giovani del Komsomol in prima fila - che profusero
sforzi sovrumani per costruire un paese che finalmente gli apparteneva, non
erano migliori di quelle dei deportati e dei prigionieri rinchiusi nei campi di
lavoro, che quel paese volevano distruggere. Molti di loro morirono per le
epidemie, per la fatica e per i disagi e la salute di molti ne fu segnata per
sempre.
“E’ proprio questa la difficoltà! Soltanto noi due, Potoskin ed io, sappiamo
che costruire in queste condizioni da cani, con una simile attrezzatura e con
questa scarsità di mano d’opera, è impossibile. Però noi tutti sappiamo che
anche non costruire è impossibile. Ecco perché ho potuto dire: ‘Se non moriremo
assiderati, ce la faremo’. Lo vedete anche voi, è già il secondo mese che stiamo
scavando in questo posto, già quattro turni si sono alternati nel lavoro, ma la
maggior parte dei ragazzi è qui dall’inizio e riescono a resistere facendo
affidamento sulla loro giovinezza. Metà sono ammalati. Fa male al cuore
guardare quei ragazzi. Sono eroici, e più d’uno ci lascerà la pelle in questo
buco maledetto.
Il troncone della ferrovia già completato finiva ad un chilometro dalla
stazione...”.[39]
Ma degli uomini, indegni del titolo di
giornalisti, scrittori e ricercatori, per odio contro il comunismo, chiudevano
gli occhi e la mente davanti a questi prodigi e, al contrario, gonfiavano le
cifre riguardanti le presunte vittime, inventavano false testimonianze sul
“genocidio” dei controrivoluzionari.
Merl afferma che 100.000 capifamiglia kulaki della prima categoria morirono
assassinati. Ma il partito aveva classificato, come abbiamo visto, nella prima
categoria 63.000 kulaki e soltanto quelli colpevoli di assassini ed atti terroristici
furono giustiziati. Ai primi, senza alcuna prova, aggiunge 100.000 persone che
hanno “probabilmente perso la vita per l’espulsione dalle loro case” ed altre
100.000 morte nelle regioni di deportazione.
Tuttavia, le sue stime sono “prudenti” in confronto a quelle dell’autore
filo-fascista Conquest che ha “calcolato” che 6.550.000 kulaki sono stati
massacrati durante la collettivizzazione, 3.500.000 dei quali nei campi di
lavoro.[40]
Ma il numero totale dei kulaki deportati nei campi di lavoro non ha mai
superato 1.317.022!
In conclusione di questo paragrafo della mia relazione, che tratta un argomento
considerato “indifendibile” dalle anime belle di una certa sinistra, timorose
della verità, faccio alcune riflessioni e avanzo delle proposte.
Diamo per scontata la guerra ideologica che la classe borghese, immersa nella
sua ignoranza superstiziosa, conduce con sempre maggiore accanimento
autoconvincendosi delle menzogne che propaga: è il suo mestiere, il suo modo di
esorcizzare la sorte di tutte le classi che hanno esaurito la loro funzione
storica nel progresso dell’umanità.
Ma credo che gli anatemi del tipo: “Stalin mai più” non si addicano, né
convincano i comunisti che per ideologia ed etica dovrebbero essere alieni dalle
medioevali cacce alle streghe e dalle sentenze dell’Inquisizione. Queste
sbrigative condanne si addicono ancor meno ai proletari, ai lavoratori le cui
condizioni di vita e di lavoro, sempre più insostenibili, richiedono
imperiosamente un cambiamento radicale nei rapporti di produzione e sociali.
Non si addicono neppure alle migliaia di giovani, o almeno alla parte più
avanzata e cosciente dei movimenti di protesta che hanno manifestato nelle
piazze nel nostro paese e nel mondo intero la loro opposizione alle guerre e
alle politiche dei governi imperialisti.
Perché i loro sogni siano durevoli, perché i loro desideri si tramutino in
volontà di realizzarli ed il loro slogan “un altro mondo è possibile” diventi
una prospettiva reale, occorre che queste aspirazioni trovino un aggancio con
il passato. Occorre che i giovani che giustamente si ribellano allo stato di
cose presenti e vogliono cambiarlo, sappiano che un altro mondo senza sfruttati
né sfruttatori è esistito realmente per lunghi periodi di tempo e in molte
parti del mondo e che in altre si lotta duramente per preservare le conquiste
sociali acquisite.
Il nostro dovere di militanti comunisti, il compito che come intellettuali
dobbiamo adempiere nel campo della ricerca storica è quello di restituire loro
la memoria - liberata dal fango che tenta di seppellirla - dei percorsi del
movimento comunista nelle sue lotte rivoluzionarie e battendo strade del tutto
inesplorate per la realizzazione della società del futuro: la società
comunista.
Per farlo, e mi auguro che sarà lo scopo del Centro studi che stiamo per
formare, dobbiamo dedicarci a riscrivere un’altra
storia basata sullo studio rigoroso di fonti attendibili. Non possiamo servirci
di quelle, purtroppo rivisitate, di “esperti”, anche illustri, che in passato
si erano guadagnati la nostra stima, data la loro propensione a ribaltamenti di
180° e ad adattamenti opportunistici alle mode e agli interessi di bassa
politica del presente. Gli esempi non mancano in Italia ed altrove.
Teniamo presente che non c’è realtà che non si possa indagare in tutti i suoi
risvolti. Ricordiamoci che al sistema cosiddetto “gulag”, troppo spesso
paragonato ai lager nazisti, cioè ai campi di lavoro e riabilitazione in URSS,
apparteneva anche la colonia Gorki, la cui esperienza è raccontata nel Poema pedagogico di Makarenko.
Per concludere, impegniamoci per: uno studio scientifico basato sul metodo del
materialismo storico; rigore e scrupolo nella scelta delle fonti; analisi
comparata delle idee e della loro applicazione pratica nella costruzione del
socialismo nei vari paesi socialisti (ad esempio, per quanto riguarda
l’argomento di questa relazione, confronto con la collettivizzazione
dell’agricoltura ed il movimento delle comuni popolari in Cina); analisi degli
errori, di quelli evitabili e di quelli inevitabili nel loro contesto storico;
ripubblicazione delle opere teoriche dei maggiori protagonisti del movimento
comunista ed infine ripubblicazione della vasta letteratura, in particolare di
quella che costituisce una testimonianza viva dell’epoca rivoluzionaria nella
sua complessità. Tutte pubblicazioni preziose, definite “fuori catalogo”, cioè
fuori dal circuito commerciale, dalla maggioranza (con le meritevoli eccezioni
che speriamo di moltiplicare) delle case editrici che hanno aderito alla
controriforma borghese della cultura (variante “civile” dei roghi di libri
hitleriani).
Il nostro compito è di contribuire, con modestia ma con determinazione, alla
costruzione di una cultura proletaria, affrancata dall’ideologia borghese di
destra e di sedicente sinistra.
------
Note
1
Stalin. Opere complete. Edizioni Rinascita, Roma 1952, VI volume, pp. 67-68.
2
Ibidem, p. 68.
3
Lenin. Opere. Editori Riuniti, Roma 1967, Vol. 32, pp. 347-348.
4
Ibidem, p. 322.
5
Lenin. Opere. Editori Riuniti, Roma 1967, Vol. 33, p. 263.
6
Ibidem, p. 254.
7
Ibidem, p. 257.
8
Ibidem, p. 275.
9
Ibidem, p. 407.
10 Ibidem, p. 407.
11 Stalin. Opere scelte. Edizioni
movimento studentesco, Milano 1973, p. 597.
12
Anna Louise Strong. L’era di Stalin. Parenti Editore, Firenze 1958, p. 51.
13
Stalin. Opere scelte. Edizioni movimento studentesco, Milano 1973, p. 249.
[14]
Stalin. Storia del PC(b) dell’URSS. Edizioni Servire il Popolo, 1970, p. 312.
[15]
Ludo Martens. Un autre regard sur Staline. Editions EPO, Bruxelles 1994, p. 62.
[16] Ibidem, p. 64.
[17]
Ibidem, pp. 62-63.
[18]
Anna Louise Strong. L’era di Stalin. Parenti Editore, Firenze 1958, p. 52.
[19]
Stalin. Les questions du leninisme. Edizioni in lingue estere, Pechino
1977, p. 418.
[20]
Ibidem, p. 321.
[21] Ibidem, p. 446.
[22]
Ludo Martens. Opera citata, p. 85.
[23]
Stalin. Opera citata, pp. 480-481.
[24]
Citato in Ted Grant. Russia. Dalla rivoluzione alla controrivoluzione. A.C.
Editoriale Coop, Milano 1998, p. 129.
[25]
Kostas Mavrakis. Trotskismo: teoria e storia. Gabriele Mazzotta Editore, Milano
1972, p. 82.
[26]
Stalin. Opera citata, p. 498.
[27]
Anna Louise Strong. Opera citata,pp. 59-60.
[28]
Stalin. Opera citata, pp. 539 - 540.
[29]
Anna Louise Strong. Opera citata, p. 67.
[30]
Ibidem, pp. 56 - 57.
[31] Ibidem, p. 68.
[32]
Bettelheim. L’economie soviétique, citato in Ludo Martens. Opera citata, p. 98.
[33] Ibidem, p. 100.
[34] Ibidem, p. 101.
[35] Ibidem, p. 102.
[36] Ibidem, p. 102.
[37]
Davis, citato in Ludo Martens. Opera citata,pp. 88-89.
[38]
Werth, citato in Ludo Martens. Opera citata, p. 106.
[39]
N. Ostrovsky. Come fu temprato l’acciaio. Edizioni Servire il Popolo, Milano
1971, p. 244.
[40]
Conquest. Citato da Ludo Martens. Opera citata, pp. 106-107.
Centro Culturale La Città del Sole
Via dei Tribunali, 362 - 80138 Napoli – Tel.: 081/299215