da Montly Review,
novembre 2004 - http://www.montlyreview.org/1104amin.htm
Contributo Teorico
Imperialismo
US, Europa e Medio Oriente
di Samir Amin
Le analisi qui proposte riguardano il ruolo dell'Europa e del Medio Oriente
nella strategia globale imperialista degli Stati Uniti, inserito in una visione
storica generale dell’espansione capitalista.(1) Il
capitalismo è stato sempre, fin dal suo inizio, per natura, un sistema polarizzante,
ovvero, imperialista. Questa polarizzazione- la costruzione concomitante di
centri dominanti e periferie dominate, e la loro riproduzione che aumenta in
ogni scenario - è inerente al processo di accumulazione che il capitale opera
su una scala globale.
In questa teoria dell'espansione globale del capitalismo i mutamenti
qualitativi nei sistemi di accumulazione, da una fase della storia ad un’altra,
plasmano le forme successive di polarizzazione asimmetrica centro/periferia,
che sostanziano l’imperialismo. Il sistema mondiale contemporaneo rimarrà
imperialista (polarizzato) in tutto il futuro prevedibile, finché i suoi
fondamenti logici resteranno dominati da rapporti di produzione capitalisti.
Questa teoria associa l’imperialismo al processo di accumulazione del capitale
su scala mondiale che considero come costituenti una sola realtà, le cui varie
dimensioni sono infatti non separabili. Così questa teoria differisce dalla
versione volgarizzata del teoria leninista "dell’imperialismo, fase più avanzata
del capitalismo" (come se le precedenti fasi di espansione globale del
capitalismo non fossero polarizzanti), come dalle teorie di postmoderne
contemporanee che descrivono la nuova globalizzazione come
"post-imperialista".
1)Conflitto
permanente tra Imperialismi e Imperialismo Collettivo
Nel suo spiegamento globale - dal suo inizio nel sedicesimo secolo fino al
1945- l’imperialismo fu sempre coniugato al plurale. Il conflitto permanente,
spesso violento, degli imperialismi ha occupato un posto decisivo nella
trasformazione del mondo; come lotta di classe attraverso la quale si sono
espresse le contraddizioni fondamentali del capitalismo. Il conflitto sociale e
i conflitti fra imperialismi sono strettamente articolati e questa
articolazione ha determinato il corso del capitalismo realmente esistente.
L'analisi che ho proposto a questo rispetto differisce da quella della
"successione di egemonie". (2)
La II° Guerra Mondiale finì con una notevole trasformazione nelle forme dell’imperialismo,
sostituendo alla molteplicità degli imperialismi in conflitto permanente un
imperialismo collettivo. Questo imperialismo collettivo ha rappresentato
l'insieme dei centri mondiali del sistema capitalista, o più semplicemente, la
triade: gli Stati Uniti e la loro provincia esterna canadese, l’Europa
occidentale e centrale ed il Giappone. Questa forma nuova di espansione
imperialista ha superato varie fasi di sviluppo, ma è stata presente a partire
dal 1945. Il ruolo egemonico degli Stati Uniti deve essere localizzato
all'interno di questa deriva, ed ogni esempio di questa egemonia deve essere
specificato in relazione con il nuovo ‘imperialismo collettivo’.
Gli Stati Uniti trassero enormemente profitto dalla II° Guerra Mondiale che
aveva rovinato i suoi principali contendenti - Europa, Unione sovietica, Cina,
e Giappone -. Si trovarono in condizione di esercitare la loro egemonia
economica, poiché più della metà della produzione industriale globale era
concentrata negli Stati Uniti, specialmente le tecnologie che avrebbero
plasmato lo sviluppo della seconda metà del secolo. In più, solo loro
possedevano armi nucleari - la nuova arma totale.
Tuttavia questo duplice vantaggio venne eroso in un periodo di tempo
relativamente breve (in due decenni) da duplici ricuperi: economico per
l’Europa capitalista ed il Giappone, e militare per l'Unione sovietica.
Dobbiamo ricordare che questo relativo arretramento del potere US produsse a
luogo speculazioni sulla decadenza americana, contemplando anche l'ascesa di
possibili egemonie alternative (come l'Europa, il Giappone, e più tardi la
Cina).
Il Gaullismo nacque a questo punto. Charles de Gaulle credeva che, dal 1945,
l'obiettivo degli Stati Uniti fosse di controllare l’intero Vecchio Mondo
(Eurasia). Washington si era proposta di dividere strategicamente l’Europa -
che nella prospettiva di de Gaulle andava dall'Atlantico agli Urali, includendo
la “Russia sovietica”- agitando lo spettro di un’aggressione da parte di Mosca;
spettro nel quale de Gaulle non credette mai. La sua analisi era realistica, ma
si trovò quasi da solo. All'Atlantismo promosso da Washington lui rispose con
una controstrategia fondata sulla riconciliazione franco-tedesca e sulla
costruzione di un’Europa non-americana attenta ad escludere la Gran Bretagna,
che lui correttamente giudicava essere il cavallo di Troia dell’Atlantismo.
L’Europa avrebbe poi potuto aprire la via ad un riavvicinamento con la
"Russia sovietica." Riconciliando e disegnando l’unione dei tre
grande popoli europei - francese,
tedesco e russo- avrebbe potuto porre fine al progetto americano di dominare il
mondo. Il conflitto insito nel progetto europeo può essere definito nella
scelta tra due alternative: l’Europa atlantica, in cui l’Europa è un corollario
al progetto americano, o l’Europa non-atlantica (integrando la Russia). Questo
conflitto non è ancora risolto. La fine del Gaullismo, l'ammissione della Gran
Bretagna all'Unione europea, l'espansione dell'Europa verso Est, il collasso
sovietico, sono sviluppi che hanno contribuito a viziare il progetto europeo,
con un duplice esito: economia
neoliberale globalizzata e allineamento politico-militare con Washington.
Inoltre, questi sviluppi hanno rafforzato il carattere collettivo della triade
imperialista.
2. Il progetto della classe dominante US: globalizzare la Dottrina Monroe
L’attuale progetto US, arrogante, anche folle, e criminale nelle sue
implicazioni, non scaturisce dalla testa di George W. Bush per essere
perfezionato dalla giunta di estrema destra che ha preso il potere. E’ invece
il progetto che la classe dominante US nutre incessantemente dal 1945, anche se
la sua realizzazione è passata attraverso alti e bassi e non sempre poteva
essere perseguita con la consistenza e la violenza dimostrate a partire dalla
disintegrazione dell'Unione Sovietica.
Il progetto assegna da sempre un ruolo decisivo alla dimensione militare. Gli
Stati Uniti hanno sollecitamente concepito una strategia globale militare, dividendo il pianeta in regioni e affidando
la responsabilità per il controllo di ognuna di loro ad un Comando Militare US,
con l'obiettivo non solo di circondare l'Unione Sovietica e la Cina ma anche di
assicurare la posizione di Washington come centro per la sicurezza del mondo. In altre parole, hanno esteso all’intero
pianeta la Dottrina Monroe, che dava di fatto agli Stati Uniti il diritto
esclusivo di gestire il globo intero secondo i loro interessi nazionali.
Questo progetto implica che i supremi interessi nazionali degli Stati Uniti
vengano messi al di sopra di tutti gli altri principi che controllano e
regolano il comportamento politico. Questo genera la sistematica avversione
verso tutte le leggi sopranazionali. Certamente anche gli imperialismi del
passato non si comportarono in modo diverso, e chi cercasse di minimizzare e
scusare le responsabilità e il comportamento criminale delle attuali
istituzioni US, potrebbe facilmente
avvalersi di questo argomento e trovare precedenti storici.
Ma ciò è precisamente quello che ci sarebbe piaciuto veder cambiare nella
storia, a partire dal 1945. È a causa degli orrori della II° Guerra Mondiale,
prodotti da una guerra di imperialismi e dal disprezzo dei poteri fascisti per
la legge internazionale, che l'ONU è stata fondata su un nuovo principio, che proclama il carattere illegittimo di chi si
arroghi il diritto di intraprendere una guerra preventiva. Gli Stati Uniti, non
solo si sono identificati con questo nuovo principio ma sono stati fra le prime
potenze a farlo.
Questa buona iniziativa, sostenuta allora dalla popolazione del mondo intero,
rappresentò davvero un salto qualitativo ed aprì il mondo al progresso della
civiltà; ma non convinse mai la classe dominante degli Stati Uniti. Le autorità
a Washington si sentirono sempre deboli e a disagio nei confronti dell’ONU, ed
oggi proclamano brutalmente quello che furono costretti a celare fino ad ora:
che proprio non accettano il concetto di una legge internazionale superiore a
quelle che loro considerano essere le esigenze della difesa dei loro propri
interessi nazionali. Noi non possiamo accettare scuse per il ritorno a questa
visione che, sviluppata dal Nazismo, portò alla distruzione della Lega delle
Nazioni. La dichiarazione a favore della legge internazionale, sviluppata con
talento ed eleganza da Ministro degli Esteri francese Dominique de Villepin al
Consiglio di Sicurezza, non è uno sguardo nostalgico gettato al passato ma al
contrario, un monito per come deve essere il futuro. In quell'occasione furono
gli Stati Uniti a difendere un passato che ogni opinione decente aveva
proclamato definitivamente desueto. Ovviamente il progetto US passò attraverso
successive fasi di realizzazione, plasmandosi sui particolari rapporti di
potere che si andavano definendo.
Immediatamente dopo la II° Guerra Mondiale la leadership americana non solo fu
accettata ma anche sollecitata dalla borghesia in Europa e in Giappone. Anche
se la minaccia di un'invasione sovietica poteva convincere solamente degli
ottusi, la sua evocazione rese dei buoni servizi alla destra così come ai social-democratici,
inseguiti dai loro cugini-avversari comunisti. Si potrebbe quindi credere che
il carattere collettivo del nuovo imperialismo potesse dipendere solo da questo
fattore politico e che, una volta superata la loro arretratezza nei confronti degli
Stati Uniti, l’Europa ed il Giappone avrebbero cercato di liberarsi dalla
dipendenza da Washington, divenuta ingombrante quanto ormai inutile. Ma questo
non è successo. Perché?
L’argomento è inerente al sorgere dei movimenti di liberazione nazionale in
Asia e in Africa -durante i due decenni che seguirono la Conferenza di Bandung
del 1955, che generò il movimento delle nazioni non allineate - e
l'appoggio che loro godettero
dall'Unione sovietica e dalla Cina (ognuna a suo proprio modo). Da questi sviluppi
l’imperialismo fu costretto non solo ad accettare una coesistenza pacifica con
una grande area (il mondo socialista) che si era ampiamente sottratta al suo
controllo ma anche a negoziare i termini della partecipazione dei paesi
asiatici ed africani al sistema imperialista mondiale. L'allineamento
collettivo della triade sotto comando americano sembrò utile per governare le
relazioni Nord-Sud dell'epoca; per questo le nazioni non allineate si
trovarono a confrontarsi con un blocco
Occidentale praticamente indivisibile.
Il crollo dell'Unione Sovietica ed il soffocamento dei regimi nazionali
popolari nati dai movimenti di
liberazione nazionale, permisero agli Stati Uniti di mettere in atto con
estremo vigore il proprio progetto imperiale in Medio Oriente, Africa e America
Latina. Il progetto in verità rimase al servizio dell’imperialismo collettivo -
almeno sino ad un certo punto - e assunse l’espressione di governo economico
del mondo, sulla base dei principi del neo-liberismo, perfezionati dal G-7 e dalle
istituzioni al suo servizio ( WTO, Banca Mondiale, Fmi) e dei piani di
riadattamento strutturale imposti, soffocando il terzo mondo. Inizialmente,
anche a livello politico, gli europei ed il giapponesi si allinearono al
progetto US. Essi accettarono la marginalizzazione dell'ONU a beneficio della
Nato ai tempi della Guerra del Golfo del 1991 e delle guerre in Jugoslavia e in
Asia Centrale nel 2002. Questo scenario non è ancora finito, anche se la guerra
contro l'Iraq del 2003 ha rivelato delle crepe nella facciata.
La classe dominante degli Stati Uniti proclama apertamente che non tollererà la
ricostituzione di alcun potere economico e militare capace di mettere in dubbio
il suo monopolio di dominazione sul pianeta, e a questo scopo si è arrogata il
diritto di intraprendere guerre preventive, con tre potenziali avversari
principali come bersaglio:
al primo posto la Russia, il cui smembramento, dopo quello dell'URSS,
costituisce d'ora in poi un obiettivo strategico notevole per gli Stati Uniti.
La classe dirigente russa non sembra averlo ancora capito bene. Sembra convinta
che, dopo avere perso la guerra, potrebbe vincere la pace, come era stato per
la Germania ed il Giappone. Dimentica che Washington allora aveva
particolarmente bisogno del ricupero di questi due ex avversari per affrontare
la sfida sovietica. La situazione attuale è diversa; gli Stati Uniti non hanno
più un competitore credibile. La loro prima opzione è quindi di distruggere in
modo permanentemente e completo l'avversario russo. Putin capirà questo, e
inizierà a svegliare dalle sue illusioni la classe dominante russa? Al secondo
posto c’è la Cina, la crescita e il successo economico della quale preoccupano
gli US. L'obiettivo strategico americano è di smembrare questo grande paese.
L’Europa arriva terza in questa visione globale dei nuovi padroni del mondo. Ma
qui lo stato nordamericano non appare ansioso, almeno finora. L'Atlantismo
incondizionato di alcuni (la Gran Bretagna, così come le nuove entità servili
dell'Est), la sabbie mobili del progetto europeo, gli interessi convergenti del
capitale dominante dell'imperialismo collettivo della triade, tutto
contribuisce alla cancellazione del progetto europeo. Resta l'ala europeista
del progetto US, come la diplomazia di Washington, che ha manovrato per
mantenere obbediente la Germania. La riunificazione e la conquista dell'Europa
Orientale sembrarono anche rafforzare questa alleanza. La Germania fu
incoraggiata a recuperare la sua tradizionale spinta verso l'Est; e Berlino ha
giocato la sua parte nello smembramento della Jugoslavia, nel riconoscimento
frettoloso della Slovenia e dell'indipendenza croata. Del resto, la Germania è
stata indotta a navigare sulla scia di Washington. La classe politica tedesca
appare esitante e può essere facilmente divisa qualora le sue scelte
strategiche lo richiedano. L'alternativa all'allineamento atlantico è un
rafforzamento dell'asse nascente Parigi-Berlino-Mosca, che potrebbe in seguito
diventare il pilastro più solido di un sistema europeo indipendente da
Washington.
Sono quindi da riconsiderare la natura e la forza potenziale dell'imperialismo
collettivo della triade, e le contraddizioni e le debolezze del suo comando US.
3.
Imperialismo collettivo della Triade ed egemonia degli US. Articolazione e contraddizioni
Il mondo di oggi è militarmente unipolare. Allo stesso tempo, alcune
crepe sembrano essere apparse, almeno in via teorica, tra gli Stati Uniti ed
alcuni dei paesi europei, riguardo la gestione politica di un sistema globale
unito sui principi del liberalismo. Queste crepe sono solamente provvisorie e
limitate o segnalano alcuni cambiamenti durevoli? Sarà necessario analizzare in
tutta la loro complessità le logiche della nuova fase di imperialismo
collettivo (relazioni Nord-Sud nella lingua corrente) e gli obiettivi specifici
del progetto US. Individuiamo 5 questioni:
-Riguardo
l'evoluzione del nuovo Imperialismo collettivo
La formazione del nuovo imperialismo collettivo trova la sua origine
nella trasformazione delle condizioni della competizione. Solo alcuni decenni
fa, le grandi ditte combattevano le loro battaglie essenzialmente nel mercato
nazionale, in quello degli Stati Uniti (il più grande mercato nazionale nel
mondo) o in quelli degli stati europei (la cui taglia modesta le svantaggiava rispetto agli Stati Uniti). I vincitori nei
contesti nazionali potevano operare anche sul mercato mondiale. Oggi la taglia
di mercato necessaria per raggiungere il livello superiore della competizione,
va dai 500 ai 600 milioni di consumatori potenziali. La battaglia deve quindi
essere lanciata direttamente sul mercato globale e deve essere vinta su questo
terreno. E quelli che dominano questo mercato fanno poi valere il loro potere
sui rispettivi terreni nazionali. La completa mondializzazione diviene lo
scenario primario delle attività delle grandi ditte. In altre parole, nella
coppia nazionale/globale i termini della causalità sono invertiti: prima il
potere nazionale ordinava la presenza globale; oggi è il contrario. Perciò le
ditte transnazionali, di qualunque nazionalità, hanno interessi comuni nella
gestione del mercato mondiale. Questi interessi sono sovrapposti ai vari
conflitti commerciali e definiscono tutte le forme di competizione specifiche
del capitalismo.
La solidarietà tra i settori dominanti
del capitale transnazionale di tutti i partner nella triade è reale, ed è
espressa dal loro ritrovarsi nel neoliberismo globalizzato. In questa
prospettiva, gli US sono visti come il difensore (militare se necessario) di
questi interessi comuni. Nondimeno, Washington non ha intenzione di dividere
gli utili equamente. Gli US al contrario, cercano di ridurre i loro alleati a
vassalli e sono disposti a fare solamente piccole concessioni agli alleati
inferiori della triade. Questo conflitto di interessi all'interno del
capitalismo dominante porterà allo scioglimento dell'alleanza Atlantica? Non è
impossibile, ma improbabile.
-Riguardo
al rango degli US nell’economia mondiale
E' opinione comune che il potere militare costituisca solamente la
punta dell'iceberg degli US, mentre la superiorità del paese si estende a tutte
le aree, soprattutto economiche ma anche politiche e culturali; e che perciò
sarebbe impossibile evitare la sudditanza all'egemonia che vantano.
Al contrario, penso che nel sistema di imperialismo collettivo gli Stati Uniti
non abbiano vantaggi economici decisivi. Il sistema di produzione americano è
lontano dall'essere il più efficiente del mondo. Infatti, nel mercato veramente
libero sognato dagli economisti liberali, in veramente pochi settori sarebbero
sicuri di battere la concorrenza. Il deficit commerciale US, che aumenta anno
dopo anno, è salito da 100 miliardi di dollari nel 1989, a 500 miliardi nel
2002. Inoltre, questo deficit coinvolge praticamente tutte le aree di
produzione. Anche la superiorità una volta goduta dagli Stati Uniti nell'area
dei prodotti ad alta tecnologia, che ammontavano a 35 miliardi nel 1990 ora si
è trasformata in deficit. La competizione tra i razzi Ariane e quelli della
Nasa, tra l’Airbus e il Boeing, testimoniano la vulnerabilità del vantaggio
americano. Gli US sono affrontati dalla concorrenza europea e giapponese nei
prodotti ad alta-tecnologia; da cinesi, paesi industrializzati
latino-americani, coreani e altri asiatici, nella produzione dei manufatti comuni;
e da Europa e parte meridionale dell'America Latina in agricoltura. Gli Stati
Uniti non sarebbero probabilmente in grado di vincere, se non fosse per il loro
ricorso a misure extra-economiche, cioè violando i principi del liberalismo
imposti ai loro concorrenti!
In effetti, gli Stati Uniti godono solamente una superiorità comparata nel
settore degli armamenti, precisamente perché questo settore opera grandemente
al di fuori delle regole di mercato e
gode dei benefici dell’appoggio statale. Le ricadute di questa superiorità
probabilmente portano dei benefici nella sfera civile (Internet è l'esempio più
famoso) ma provocano anche distorsioni serie che ostacolano molti settori di
produzione.
Nel sistema mondiale l’economia nordamericana vive parassitariamente, a danno
dei suoi partner. "Gli Stati Uniti dipendono per 10% del loro consumo
industriale da beni i cui costi di importazione non sono coperti dalle
esportazioni di questi stessi prodotti", come Emmanuel Todd ricorda.(3) Il mondo produce, e
gli Stati Uniti (che non hanno praticamente risparmio nazionale), consumano. Il
‘vantaggio’ degli Stati Uniti è quello di un predatore il cui deficit è coperto
da prestiti altrui, col consenso o con la forza. Washington ha usato tre mezzi
principali per compensare queste le sue deficienze: ripetute violazioni
unilaterali dei principi liberali; esportazione di armi; e ricerca di massimo
profitto dal petrolio (che presuppone un controllo sistematico della produzione
- una delle vere ragioni delle guerre in Asia Centrale ed Iraq). Il fatto è che
la parte essenziale del deficit US è coperta da contributi di capitale
dell’Europa, del Giappone e del Sud (dai paesi petroliferi e dalla classe
compradora di tutti i paesi del terzo mondo, incluso il più povero) ai quali si
aggiungono somme supplementari tratte dal ripianamento del debito al quale sono
stati costretti quasi tutti i paesi della periferia del sistema mondiale.
La crescita degli anni di Clinton, esibita come il risultato di un liberalismo
cui l’Europa stava malauguratamente
resistendo, era in realtà in gran parte non vera, e in ogni modo, non
generalizzabile, dipendendo da trasferimenti di capitale che hanno significato
la stagnazione per le economie dei partner. Per tutti i settori del sistema
reale di produzione, la crescita US non era superiore a quella dell'Europa. Il
miracolo americano è stato alimentato esclusivamente da una crescita della
spesa determinata dall’aumento delle ineguaglianze sociali (servizi finanziari
e personali, legioni di avvocati, forze
di polizia private). In questo senso, il liberalismo di Clinton preparò davvero
le condizioni per l'ondata reazionaria e più tardi, per la vittoria di Bush
Junior.
Le cause dell'indebolimento del sistema di produzione US sono complesse.
Certamente non sono congiunturali e non possono essere corrette, ad esempio,
con l'adozione di un corretto corso del cambio o mettendo in essere un
equilibrio più favorevole tra salari e produttività. Le cause sono strutturali;
la mediocrità dell’istruzione generale e dei sistemi di formazione, e un
radicato pregiudizio, sistematicamente in favore del privato a detrimento dei
servizi pubblici, sono tra le ragioni principali della crisi profonda che la
società statunitense sta attraversando.
Ci si può quindi sorprendere che gli europei, invece di trarre conclusioni
dall’osservazione delle deficienze dell’economia US, si stiano attivando ad
imitarli. Anche qui, il ‘virus liberista’ non può spiegare tutto, anche se
adempie alla funzione, utile per il sistema, di paralizzare la sinistra. La
privatizzazione selvaggia e lo smantellamento dei servizi pubblici ridurranno
solamente i vantaggi comparati che ancora gode la "Vecchia Europa"
(come Bush la qualifica). Comunque, qualunque danno queste cose causeranno a
lungo termine, queste misure offrono al capitale dominante - che vive a ‘breve
termine’- l’opportunità di fare altri profitti.
-Riguardo
gli obiettivi specifici del progetto US
La strategia egemonica degli US è inserita nel quadro del nuovo imperialismo
collettivo.
Gli economisti convenzionali non hanno gli strumenti analitici necessari a
capire l'eminente importanza di questi obiettivi. Hanno sentito ripetere alla
nausea che nella nuova economia le materie prime che vengono dal terzo mondo
sono destinate a perdere la loro importanza e che per questo il terzo mondo sta
divenendo sempre più marginale nel sistema mondiale. In contrappunto a questa
argomentazione superficiale e inconsistente noi abbiamo il Mein Kampf
dell’amministrazione Bush (4), e certamente si deve
ammettere che gli US lavorano sodo per il diritto ad arraffare tutte le risorse
naturali del pianeta per soddisfare i loro bisogni di consumo. La corsa alle
materie prime (petrolio in primo luogo, ma anche altre risorse, come l’acqua)
ha già ripreso tutta la sua virulenza. Ancor più, dal momento che queste
risorse diventano tendenzialmente più scarse non solo a causa dello spreco
dovuto al consumismo Occidentale, ma anche per lo sviluppo della nuova
industrializzazione delle periferie.
Inoltre diversi paesi del Sud sono progressivamente destinati a diventare
importanti produttori industriali, sia per i loro mercati interni sia con il
loro ruolo nel mercato mondiale. Come importatori di tecnologia, di capitali e anche come concorrenti nelle esportazioni,
sono destinati a disturbare l'equilibrio economico globale. E non è solamente
una questione di alcuni paesi dell’Est asiatico (come la Corea), ma
dell’immensa Cina e, domani, dell’India e dei grandi paesi dell'America Latina.
Comunque, lungi dall'essere un fattore di stabilizzazione, l'accelerazione
dell’espansione capitalista nel Sud può essere solamente causa di violenti
conflitti - interni ed internazionali. La ragione è che, nelle condizioni
esistenti, questa espansione non può assorbire la riserva enorme di forza
lavoro che è concentrata nella periferia. In effetti, le periferie del sistema
rimangono zone tempestose. Quindi i
centri del sistema capitalista devono di esercitare il loro dominio sulle
periferie e sottoporre la popolazione del mondo alla disciplina spietata che la
soddisfazione delle loro priorità richiede.
In questa prospettiva, le istituzioni americane hanno capito perfettamente che
nel perseguire la propria egemonia, hanno tre vantaggi decisivi sui loro
concorrenti europei e giapponesi: il controllo sulle risorse naturali del
globo; il monopolio militare; il peso della cultura anglosassone, dalla quale
la dominazione ideologica del capitalismo è espressa meglio. L’uso sistematico
di questi tre vantaggi rivela molti aspetti della politica US: gli sforzi
sistematici che Washington esercita per il controllo militare del Medio Oriente
petrolifero; la loro strategia offensiva verso Cina e Corea – traendo vantaggio
dalla seconda "crisi finanziaria"; ed il loro gioco sottile che punta
a perpetuare divisioni in Europa - mobilitando l’incondizionato alleato
britannico e prevenendo ogni serio riavvicinamento tra l'Unione europea e la
Russia. A livello del controllo globale sulle risorse del pianeta, gli Stati
Uniti hanno un vantaggio decisivo su Europa e Giappone. Non solo perché gli
Stati Uniti sono la sola potenza militare internazionale, tanto che nessun
decisivo intervento nel terzo mondo può essere condotto senza di loro, ma ancor
più perché Europa (escludendo l'ex-URSS) e Giappone da soli sono largamente
privi delle risorse essenziali per la loro economia. Per esempio, la loro
dipendenza nel settore energetico, in particolare la loro dipendenza dal
petrolio dal Golfo Persico, persisterà per un tempo considerevole, anche se sta
decrescendo in termini relativi. Assumendo militarmente il controllo di questa
regione con la guerra in Iraq, i dirigenti degli Stati Uniti hanno dimostrato
che erano perfettamente consapevoli dell'utilità di questo tipo di pressione,
che hanno fatto per speculare sui loro (alleati) concorrenti. Non molto tempo
fa anche l'Unione sovietica aveva capito questa vulnerabilità dell’Europa ed
del Giappone, e con certi interventi sovietici nel terzo mondo cercarono di
ricordarglielo, così come di incitarli a negoziare su altri terreni. Era chiaro
che queste mancanze di Europa e Giappone avrebbero potuto essere superate
nell'evento di un serio riavvicinamento tra Europa e Russia (la "casa
comune" di Gorbachev). L’eventualità di questa possibile costruzione
dell’Eurasia resta l'incubo di
Washington.
-Riguardo i conflitti tra gli US ed i loro partner della Triade
Se i partner nella triade condividono interessi comuni nella gestione globale
dell’imperialismo collettivo insiti nel loro rapporto con il Sud, nondimeno
potenzialmente sono tra loro in un rapporto seriamente conflittuale.
La superpotenza americana si sostiene con il flusso di capitali che alimenta il
parassitismo della sua economia e società. Questa vulnerabilità degli Stati Uniti
costituisce, perciò, una minaccia seria per il progetto di Washington.
L'Europa in particolare ed il resto del mondo in generale dovranno optare per
una delle due seguenti scelte strategiche: o investire l'eccedenza del loro
capitale (ovvero i risparmi) così da provvedere a continuare a finanziare il
deficit americano ( consumi, investimenti e spese militari) o conservare e
investire questa eccedenza in casa propria.
Gli economisti convenzionali ignorando il problema, hanno fatto l'ipotesi
assurda che, siccome la globalizzazione ha abolito apparentemente lo
stato-nazione, i fattori economici primari (risparmio ed investimento) non
possono più essere gestiti a livello nazionale. E’ comunque folle che la
concezione che sia uguale risparmiare e investire a livello mondiale, sia
davvero utile a giustificare e
promuovere il finanziamento del deficit US da parte di altri. Tale nonsenso è
un esempio eccellente di ragionamento tautologico, dove le conclusioni alle
quali si desidera arrivare sono già implicite nella premessa.
Ma perché tale assurdità viene accettata? Senza dubbio, le squadre di dotti
economisti che circolano tra le classi politiche europee (e anche russe e
cinesi), della destra come della sinistra elettorale, sono vittime di
un’alienazione economica, di un ‘virus liberista’. Inoltre, questa opzione
esprime il giudizio politico del grande capitale transnazionale, che i vantaggi
ottenuti dalla gestione del sistema globale dagli US in favore
dell’imperialismo collettivo prevalgano sugli svantaggi - in sostanza un
tributo che deve essere pagato a Washington per assicurare la stabilità. Alla
fine, in questione è un tributo e non un investimento con un buon
ritorno garantito. Vi sono paesi qualificati come paesi indebitati e poveri che
sono costretti a tenere sempre sotto controllo il loro debito a qualsiasi
costo. Ma c'è anche un paese indebitato e potente che ha i mezzi per svalutare
il suo debito se lo considera necessario.
L'altra scelta per l'Europa (e per il resto del mondo) consisterebbe nel porre
fine a questa trasfusione in favore degli US; l'eccedenza potrebbe essere usata
localmente per rivitalizzare l'economia. La trasfusione costringe invece gli
europei a sottoporsi a ‘politiche deflattive’, stagnazioniste, cedendo
l'eccedenza di riserva esportabile. E rende la ripresa - sempre mediocre- in
Europa, dipendente dal sostegno artificiale dagli US. Mentre la movimentazione
di questa eccedenza per il lavoro locale, in Europa, permetterebbe una ripresa
simultanea dei consumi (ricostruendo la dimensione sociale della gestione
economica devastata dal virus liberista), degli investimenti (particolarmente
in nuove tecnologie e ricerca), e anche delle spese militari (ponendo fine alla
supremazia degli US in questo campo). Scegliere questa risposta implicherebbe
un riequilibrio dei rapporti sociali a favore della classe lavoratrice; in
Europa questa rimane una scelta possibile per il capitale. Il contrasto tra US
ed Europa non va fondamentalmente contro gli interessi dei settori che dominano
i loro rispettivi capitali. È soprattutto il risultato di differenti culture
politiche.
-Riguardo
a questioni teoriche suggerite dalle riflessioni precedenti
Tre osservazioni in merito alla complicità/competizione tra i
partner dell’imperialismo collettivo per il controllo del Sud del mondo ( cioè
rapina delle risorse naturali e sottomissione della popolazione): I) l’attuale
sistema mondiale di imperialismo collettivo non è meno imperialista di quelli
precedenti; non è un "Impero" di natura "post-capitalista."
II) una corretta lettura della storia del capitalismo è centrata sulla
distinzione tra le diverse fasi di imperialismo, di rapporti centro/periferia
III) internazionalizzazione non è sinonimo di unificazione, attraverso
l'apertura deregolamentata dei mercati, del sistema economico; che nelle sue
forme storiche successive (la libertà di commercio ieri, la libertà produttiva
oggi), ha sempre costituito solo il progetto del capitale dominante del tempo.
In realtà questo progetto è stato quasi sempre costretto ad adattarsi ad
esigenze che non riguardano esclusivamente la sua specifica logica interna. Ne
potrebbe essere realizzato se non per dei brevi periodi di storia. Il “libero
scambio” promosso dalle principali potenze industriali del tempo in Gran
Bretagna, fu effettivo solamente durante due decenni (1860-1880) e fu seguito
da un secolo (1880-1980) caratterizzato dal conflitto tra imperialisti, paesi
socialisti fortemente scollegati e paesi nazionali popolari (un po’meno
scollegati nell'era di Bandung, dal 1955 al 1975). L’attuale fase di
riunificazione del mercato mondiale, introdotta dal neoliberismo dal 1980,
estesasi all’intero pianeta con il collasso sovietico, non è destinata
probabilmente ad avere una sorte migliore. Il caos che ha generato testimonia
il suo carattere di "utopia permanente del capitale", definizione con
la quale io definisco questo sistema dal 1990.
4.Il Medio Oriente nel sistema imperialista. Dominio regionale US dopo la
caduta dell'URSS
Il Medio Oriente, che d'ora innanzi deve essere considerato insieme
alle aree confinanti del Caucaso e dell'Asia Centrale ex-sovietica, occupa una
posizione di particolare importanza nel progetto geostrategico, geopolitico e
soprattutto egemonico dell’imperialismo US. E deve questa sua posizione
particolarmente a tre fattori: la sua ricchezza di petrolio; la sua posizione
geografica nel cuore del Vecchio Mondo; ed il fatto che costituisce il ventre
molle del sistema mondiale.
L'accesso al petrolio a un costo relativamente conveniente è vitale per
l'economia della triade dominante ed il miglior mezzo per procurarsi questo
accesso garantito consiste nell'assicurarsi il controllo politico dell'area.
Ma la regione detiene importanza anche per la sua posizione geografica, essendo
al centro del Vecchio Mondo, equidistante da Parigi, Pechino, Singapore, e
Johannesburg. Anticamente il controllo su questo crocevia obbligato diede al
Califfato il privilegio di trarre il maggior beneficio dai commerci a lunga
percorrenza di quell'epoca. Dopo la II° Guerra Mondiale la regione localizzata
sul lato meridionale dell'Unione Sovietica divenne cruciale per la strategia
militare di accerchiamento del potere sovietico. E la regione non perse la sua
importanza con il crollo dell'avversario sovietico. Il dominio US nella regione
riduce a sudditanza l’Europa, che dipende dal Medio Oriente per il suo
approvvigionamento energetico. Una volta soggiogata la Russia, anche la Cina e
l'India sono sottoposte a ricatto permanente per l’energia. Il controllo sul
Medio Oriente permetterebbe così un’estensione della Dottrina Monroe al Vecchio
Mondo, obiettivo del progetto egemoniaco degli US. Ma i continui sforzi fatti da Washington dal 1945 per
assicurarsi il controllo sulla regione, escludendo gli inglesi e i francesi,
non è stato finora incoronato da successo: ricordiamo il fallimento del
tentativo di legare la regione alla Nato attraverso il Patto di Bagdad, e il
tramonto di uno dei loro alleati più fedeli, lo Scià dell'Iran.
La ragione abbastanza semplice è che il progetto arabo (e iraniano) di
nazionalismo popolare è entrato presto in conflitto con gli obiettivi egemonici
US. Questo progetto auspicava di portare le Grandi Potenze a riconoscere
l'indipendenza del mondo arabo. Il movimento dei non allineati, formulato nel
1955 a Bandung dall'insieme dei movimenti di liberazione asiatici e africani
era la più forte tendenza del tempo. I sovietici lo capirono e diedero
prontamente il loro sostegno a questo progetto, con il quale avrebbero potuto
frenare i piani aggressivi di Washington.
Quest’epoca si esaurì, in primo luogo perché il progetto nazionalista popolare
del mondo arabo bruciò rapidamente suo potenziale di trasformazione, ed i
poteri nazionalisti affondarono in dittature prive di speranza o di piani per
il cambiamento. Il vuoto creato da questo corso aprì la via all’Islam politico
e agli autocrati oscurantisti del Golfo Persico, alleati preferiti di
Washington. La regione è diventata uno dei centri del sistema globale,
vulnerabile ad interventi esterni (anche militari) che i regimi correnti, per
mancanza di autorevolezza, sono incapaci di contenere o dissuadere. La regione
costituì, e continua a costituire per il Pentagono, una zona di prioritaria
importanza (come i Caraibi) all'interno della divisione geostartegica del
pianeta, una zona dove gli US si sono accordati il "diritto" di
intervento militare. Dal 1990, loro non si privano di nulla!
Gli Stati Uniti operano in Medio Oriente in stretta cooperazione con due loro
incondizionati alleati, Turchia e Israele. L’Europa è tenuta lontana dalla
regione, forzata ad accettare che gli US stiano difendendo gli interessi vitali
e globali della triade, cioè l’approvvigionamento di petrolio. Nonostante
segnali di ovvia irritazione dopo la guerra in Iraq, in questa regione gli
europei continuano a navigare sulla
scia di Washington.
Il ruolo
di Israele e la Resistenza palestinese
L'espansionismo coloniale di Israele costituisce una vera sfida.
Israele è l'unico paese nel mondo che rifiuta di riconoscere confini definiti
(e per questa ragione non dovrebbe
avere diritto ad essere membro delle Nazioni Unite), come gli Stati Uniti nel
diciannovesimo secolo, rivendica il diritto di conquistare aree nuove per
l'espansione della sua colonizzazione e di trattare la popolazione che aveva
vissuto là per secoli, come "pellerossa". Israele è l'unico paese che
si dichiara apertamente senza confine nelle risoluzioni ONU.
La guerra di 1967 (progettata insieme a Washington nel 1965) perseguiva diversi
obiettivi: produrre la caduta dei regimi nazionalisti popolari; rompere la loro
alleanza con l'Unione Sovietica; costringerli a riposizionarsi nei confronti
degli US; aprire a nuovi territori la colonizzazione sionista. Nei territori
conquistati nel 1967, Israele instaurò un sistema di segregazione razziale
inspirato a quello del Sud Africa (di allora).
Qui gli interessi del capitale dominante si unirono con quelli del sionismo. Un
mondo arabo ricco, potente e moderno potrebbe mettere in questione il diritto
dell'Occidente di depredare le sue risorse di petrolio, utilizzate per la
continuazione dello spreco e dell’accumulazione capitalista. Perciò, i poteri
politici nei paesi della triade - servitori fedeli del capitale transnazionale
dominante - non vogliono un mondo arabo modernizzato potente.
L'alleanza tra le potenze Occidentali ed Israele è fondata sulla solida base
dei loro interessi comuni. Questa alleanza non è né il prodotto dei sentimenti
di colpa europei per l’antisemitismo e i crimini nazisti, né dell'abilità della
lobby ebraica nello sfruttare questo sentimento. Senza dubbio, se le Potenze
pensassero che i loro interessi fossero danneggiati dall'espansionismo
coloniale sionista, troverebbero rapidamente i mezzi per superare il loro
complesso di colpa e per neutralizzare questa lobby. Taluni ingenuamente credono
che l’opinione pubblica nei paesi democratici, in quanto tale, possa imporre la
sua visione su questi Poteri; sappiamo che anche l’opinione pubblica è
costruita. Israele sarebbe incapace di resistere per più di pochi giorni a
medie misure di blocco, del genere di quelli che i poteri forti Occidentali
inflissero in Jugoslavia, Iraq e Cuba. Non sarebbe dunque così difficile
portare Israele alla ragionevolezza e creare le condizioni di una vera pace se
ci fosse la volontà; il che non è.
Poco dopo sconfitta nella guerra del 1967, il Presidente egiziano Anwar Sadat
affermò che, siccome gli Stati Uniti avevano ottenuto il "90% delle
schede" (sua espressione), era necessario rompere con l'Unione sovietica e
reintegrarsi nel campo Occidentale. E disse che, così facendo, si sarebbe
potuto incitare Washington ad
esercitare pressioni sufficienti su Israele per portarlo alla ragione.
Dietro simili idee strategiche, tipiche di Sadat- la cui incoerenza è stata provata dagli eventi- l’opinione pubblica
araba è rimasta ampiamente incapace di comprendere le dinamiche dell'espansione
globale del capitalismo, ed ancor meno capace di identificare le sue vere
contraddizioni e debolezze. Non è
ancora detto che "un giorno o l'altro l'Ovest non capisca che alla lunga
il suo interesse è di mantenere buone relazioni con duecento milioni di arabi e
che scelga di non sacrificare queste relazioni per appoggiare
incondizionatamente Israele". Questo è il pensiero inespresso
dall’"Ovest" in questione, che è il centro imperiale del capitale che
si augura un mondo arabo modernizzato e sviluppato piuttosto di volerlo
mantenere nell’impotenza. Per la qual cosa sostenere Israele è manifestamente
inutile.
La scelta fatta dai governi arabi - con l'eccezione di Siria e Libano- che li
ha condotti, sulla via dei negoziati di Madrid ed Oslo (1993), a sottoscrivere
il piano US della così detta pace definitiva, non poteva produrre altro
risultato di quelli che ha prodotto: incoraggiare Israele a concretizzare il
suo progetto espansionista. Oggi, rifiutando apertamente i termini del trattato
di Oslo, Ariel Sharon dimostra soltanto quello che era già chiaro- che non era
in questione un progetto per la pace definitiva ma l’apertura di una nuova fase
di espansione coloniale sionista.
Israele ed i poteri Occidentali che sostengono il suo progetto hanno imposto
uno stato di guerra permanente nella regione. A sua volta, questo stato di
guerra permanente rinforza i regimi arabi autocratici. Questo blocco ad ogni
possibile evoluzione democratica indebolisce le opportunità di una ripresa
araba, e così rafforza l'alleanza del capitale dominante con la strategia
egemonica degli Stati Uniti. Il cerchio è chiuso: l'alleanza
israelo-statunitense serve perfettamente gli interessi dei due partner.
Inizialmente il sistema di segregazione razziale dispiegato dopo il 1967, diede
l'impressione di riuscire al suo scopo: la gestione della vita di ogni giorno
nei territori occupati da parte di élite terribili e della borghesia
commerciale, con l'apparente accettazione delle popolo palestinese. Dal suo
esilio remoto a Tunisi l’OLP, rimosso dalla regione dopo l'invasione del Libano
dell'esercito israeliano (1982), non sembrò più in grado di mettere in
questione le richieste di annessione sioniste.
La prima Intifada esplose nel Dicembre 1987. Fu espressione dell’improvviso
insorgere delle classi popolari e in particolare dei suoi settori più poveri,
confinati nei campi profughi. L'Intifada azzoppò il potere israeliano con
un'organizzazione sistematica della disubbidienza civile. Israele reagì con
brutalità, ma non lavorò né per ripristinare un suo potere di polizia effettivo
né per rimettere la tremenda classe media palestinese in sella. Al contrario,
l'Intifada chiese il ritorno in massa delle forze politiche esiliate, la costituzione
di nuove forme locali di organizzazione e la partecipazione della borghesia ad
un impegno di lotta per la liberazione. L'Intifada fu provocata dai giovani, chebab al
Intifada, inizialmente non organizzati nelle reti formali dell’OLP
ma senza nessuna concorrenza ostile a loro. I quattro componenti dell’OLP
(Fatah, devota al suo capo Yasser Arafat, il Fronte Democratico per la
Liberazione della Palestina, il Fronte Popolare per la Liberazione della
Palestina, ed il Partito Comunista) si gettarono nell'Intifada e per questa
ragione guadagnarono la comprensione della maggior parte del chebab.
La Fratellanza Musulmana, marginalizzata dalla sua inattività durante gli anni
precedenti, nonostante alcune azioni della Jihad islamica (che apparve nel
1980), diede luogo ad una nuova espressione di lotta, Hamas, costituita nel
1988.
Quando, dopo due anni, la prima Intifada diede segni di perdere fiato e la
repressione israeliana divenne più violenta (con l'uso di armi da fuoco contro
bambini e chiudendo la linea verde per rendere quasi impraticabile l'unica
fonte di reddito per i lavoratori palestinesi), la scena fu pronta per
"negoziare." L'iniziativa fu presa dagli Stati Uniti, e portò
al’incontro di Madrid prima (1991), e poi ai così detti Accordi di Pace, di
Oslo (1993). Questi accordi permisero il ritorno dell’OLP ai territori occupati
e la sua trasformazione in una Autorità palestinese.
Gli accordi di Oslo immaginarono la trasformazione dei territori occupati in
uno o più Bantustan, integrati definitivamente nella regione israeliana.
All'interno di questa struttura, l'Autorità palestinese doveva essere solamente
uno pseudo stato - come quello dei Bantustan - e di fatto essere la cintura di
trasmissione dell'ordine sionista.
Ritornando in Palestina, l’OLP- ora Autorità Palestinese- lavorò per stabilire
il suo ordine, non senza delle ambiguità. L'autorità assorbì nelle sue nuove
strutture la maggior parte di chebab che aveva coordinato l'Intifada.
Ottenne legittimazione con la consultazione elettorale del 1996, alla quale i
palestinesi parteciparono in massa (80%); una maggioranza schiacciante elesse
Arafat presidente dell'autorità.
Ciononostante l'autorità rimase in una posizione ambigua: avrebbe accettato di
adempiere alle funzioni che Israele, US ed Europa le assegnavano - quelle di
governo di un Bantustan- o si sarebbe schierata con il popolo palestinese che
rifiutava di sottomettersi?
Come il popolo palestinese rifiutò il progetto “del Bantustan”, Israele decise
di denunciare l'accordo di Oslo e sostituì l'uso della violenza militare pura e
semplice. La provocazione ai luoghi santi di Gerusalemme innescò la guerra
criminale di Sharon nel 1998, con l’elezione trionfale di costui alla testa del
governo israeliano (e la collaborazione di colombe come di Simon Perez al suo
governo). Scaturì la seconda Intifada, che è in corso.
Riuscirà questa a liberare il popolo palestinese dalla sottomissione e dalla
segregazione razziale sionista? Presto per dirlo. In tutti i casi, il popolo
palestinese ora ha un vero movimento di liberazione nazionale. Ha le sue
proprie specificità. Non segue lo stile monopartitico omologato (sebbene la
realtà di stati con un singolo partito sia sempre più complessa), ha componenti
che conservano la loro propria personalità, la propria visione del futuro,
inclusi gli ideologi, i militanti, le clientele ma che sembrano sapere come
cooperare nel condurre la lotta.
Il
progetto americano per il Medio Oriente
L'erosione dei regimi del nazionalismo popolare e la scomparsa
dell’appoggio sovietico hanno dato agli US l'opportunità di perfezionare il
loro progetto per l'area.
Il controllo del Medio Oriente certamente è una pietra miliare del progetto di
egemonia globale di Washington. Come immaginano gli US di assicurarsi poi il
controllo? E’ già una decennio da quando Washington prese l'iniziativa di
avanzare un "Mercato Comune del Medio Oriente", curioso progetto, in
cui dei paesi del Golfo Persico avrebbero provvisto il capitale, mentre altri
paesi arabi provvedevano lavoro a basso costo, e ad Israele era riservato il
controllo tecnologico e le funzioni privilegiate di intermediario. Accettato
dai paesi del Golfo e dall'Egitto, il progetto si scontrò col rifiuto di Siria,
Iraq e Iran. Così per far avanzare il progetto, sarebbe stato necessario buttare
giù questi tre regimi. Ora per quello dell'Iraq è stato provveduto.
La domanda quindi è quale tipo di regime politico deve essere messo in piedi
per riuscire a sostenere il progetto. I discorsi propagandistici di Washington
parlano di "democrazie." Nei fatti, Washington è occupata a non far
nulla se non sostituire le così dette autocrazie oscurantiste islamiche con le
autocrazie consunte del populismo antiquato (coprendo l'operazione con
vaniloqui sul loro rispetto per la specificità culturale delle comunità). La
rinnovata alleanza con il così detto Islam politicamente moderato (quello
capace di controllare la situazione con sufficiente efficacia nel proibire la
spinta terrorista - definendo "terrorista" la minaccia diretta
contro, e solo contro, gli US) ora costituisce l'asse della scelta politica di
Washington. È all'interno di questa prospettiva che sarà cercata una
riconciliazione con l'autocrazia antiquata del sistema sociale mediorientale.
A confronto con il dispiegarsi del progetto americano, gli europei hanno
inventato il loro proprio progetto, battezzato
"Euro-Mediterraneo-partnership”. Un progetto decisamente codardo -
ingombro di parole incoerenti, tra le quali, naturalmente, anche proposte di
riconciliazione tra i paesi arabi e Israele. Escludendo i paesi del Golfo dal
dialogo Euro-Mediterraneo, è stato concessa la gestione e il controllo di
questi paesi all’esclusiva responsabilità di Washington.
Il netto contrasto tra la sfrontatezza del progetto americano e la debolezza
del progetto europeo è un buon indicatore di come nell’Atlantismo in realtà non
ci sia posto per una condivisione di responsabilità e una socializzazione nel
prendere decisioni, che metterebbero gli US e l'Europa sullo stesso piano. Tony
Blair, che si è fatto paladino della costruzione di un mondo unipolare, pensa
di poter giustificare ciò in quanto l’Atlantismo sarebbe fondato proprio su una
supposta divisione. L'arroganza di Washington rivela ogni giorno che questa
speranza è illusoria, se non che c’è stato fin dall'inizio un tentativo in
malafede di imbrogliare l’opinione europea. Il realismo dell'asserzione di
Stalin che il nazismo non "ha saputo fermarsi dove era necessario" è
ora perfettamente applicabile a quelli che dirigono gli US. Blair fa appello
alla speranza di essere simile a Mussolini nelle supposte capacità, a lui
attribuite, di temperare Hitler.
E’ possibile un'altra scelta europea? Ha cominciato prendere forma? Le parole
di Chirac, che si oppone al mondo "unipolare Atlantico" (che lui
sembra capire bene essere sinonimo dell'egemonia unilaterale degli Stati Uniti)
annunciano la costruzione di un mondo multipolare e la fine dell’Atlantismo?
Perché queste possibilità diventino una realtà, sarebbe prima necessario per
l'Europa, di liberarsi dalle sabbie mobili nelle quale scivola ed affonda.
5. Il
progetto europeo, affondato nelle sabbie mobili del liberismo
Tutti i governi degli stati europei sono stati conquistati dalle
tesi del liberismo. Questa irreggimentazione degli stati europei non significa
altro che la cancellatura del progetto europeo, doppiamente vanificato,
economicamente (i vantaggi dell'unione economica europea sono dissolti nella
globalizzazione economica) e politicamente (l'autonomia politica e militare
europea scompare). Non c'è, allo stato attuale, alcun progetto europeo: un
progetto nordatlantico o eventualmente della triade, sotto comando US, si è
sostituito ad esso.
Dopo la II° Guerra Mondiale, l’Europa Occidentale riuscì ad appianare la sua
arretratezza economica e tecnologica nei confronti degli Stati Uniti. Dopo il
1989, la minaccia sovietica non c’era più, così come i violenti contrasti che
avevano segnato la storia europea per un secolo e mezzo: i tre maggiori paesi
del continente, Francia, Germania e Russia, erano riconciliati. Tutti questi
sviluppi, positivi e ricchi di crescente potenzialità, certamente si sono
sovrapposti ad una base economica ristrutturata dai principi del liberalismo.
Anche se questo liberalismo fu temprato fino agli anni ‘80 dal compromesso
storico socialdemocratico, che costrinse il capitale ad adattarsi alle
richieste di giustizia sociale espresse dalle classi lavoratrici. In seguito
l’evoluzione è continuata in un nuovo quadro sociale, inspirato allo stile
americano, di liberismo antisociale.
Quest’ultima svolta ha precipitato le società europee in una crisi a più
dimensioni. Essenzialmente è, né più e né meno, la crisi economica insita nella
scelta liberale. La crisi è stata aggravata dai paesi europei che si sono
allineati alle richieste economiche degli US: un’Europa per ora consenziente
a finanziare il loro debito a scapito
del suo stesso interesse. C'è poi una crisi sociale, accentuata dal sorgere di
resistenze e lotte delle classi popolari, che si oppongono alle conseguenze
fatali della scelta liberista. Infine c'è l'inizio di un crisi politica sul
rifiuto dell’allineamento incondizionato alla richiesta US di una guerra senza
fine contro il Sud.
Le guerre ‘made in USA’ hanno certamente agitato l’opinione pubblica (l'ultima
guerra in Iraq ha avuto questo effetto ovunque) ed anche certi governi, a
partire da quello della Francia, poi quelli della Germania, Russia, e anche
Cina. Resta il fatto che questi stessi governi non hanno messo in questione il
loro fedele allineamento sulle necessità del liberismo. Questa contraddizione
principale dovrà essere superata in un modo o nell’altro, o con la loro
sottomissione alle richiesta di Washington o con una vera rottura che metta
fine all’Atlantismo.
La conclusione politica è che l’Europa non può superare l’Atlantismo finché le
alleanze politiche che definiscono i blocchi di potere rimangono centrate sul
capitale transnazionale dominante. Solo se lotte sociali e politiche riescono a
cambiare il contenuto di questi blocchi e imporre nuovi compromessi storici tra capitale e lavoro, l’Europa sarebbe
capace di allontanarsi da Washington permettendo la possibile ripresa di un
progetto europeo. In queste condizioni l'Europa potrebbe- e anche
dovrebbe- occuparsi a livello internazionale
delle sue relazioni con l'Est ed il Sud, su un percorso diverso da quello
tracciato dalle richieste escludenti dell’imperialismo collettivo. In una tale
prospettiva, comincerebbe la sua partecipazione alla lunga marcia oltre il
capitalismo. In altre parole, l’Europa sarà di sinistra, sinistra nella seria
accezione della parola, o non sarà affatto.
Note
1. Samir Amin, Class and Nation (New York: NYU Press, 1981); Samir Amin,
Eurocentrism
(New York: Montly Review Press, 1989); Samir Amin, Obsolescent Capitalism (Londra: Zed Books, 2003); Samir
Amin, The
Liberal Virus (New York, Montly Review Press,
2004).
2. La "successione di egemonie" ha una lettura
"occidentale-centrica", nel senso che considera che le trasformazioni
che avvengono nel cuore del sistema ordinino l'evoluzione globale del sistema
in maniera decisiva e quasi esclusiva. Invece non dovrebbero essere
sottovalutate le reazioni allo spiegamento imperialista dei popoli delle
periferie. L'indipendenza delle Americhe, le grandi rivoluzioni fatte in nome
del socialismo (Russia e Cina), la riconquista dell'indipendenza dei paesi
asiatici ed africani, sono state provocazioni al sistema fatte dalle periferie.
Non credo che si possa raccontare la storia del capitalismo mondiale senza dare
conto delle rettifiche che queste trasformazioni hanno imposto anche allo
stesso capitalismo centrale. Anche perché credo che la storia dell’imperialismo
sia stata plasmata più attraverso il conflitto degli imperialismi che dal tipo
di ordine che le egemonie successive hanno imposto. Chiari periodi di egemonia
sono stati sempre estremamente corti; e la presunta egemonia molto relativa.
3). Emmanuel Todd, After the
Empire.The Breakdown of the American Order (New York: Columbia
Università Stampa, 2003).
4). Ufficio della Casa Bianca, The National Security Strategy of the US,
Settembre 2002. http://www.whitehouse.gov/nsc/nss.html.
Traduzione dall’inglese Bf