www.resistenze.org - pensiero resistente - imperialismo e globalizzazione - 09-10-06
L’aggressione Usa in Medio Oriente
Samir Amin
Il progetto degli Stati Uniti, appoggiato dagli alleati europei subalternizzati (nonché da Israele per la regione specifica), consiste nel porre sotto il loro controllo militare tutto il pianeta. In questa prospettiva, il Medio Oriente è stato scelto in questa fase come obiettivo principale per quattro ragioni:
- nasconde le risorse petrolifere più abbondanti del pianeta e perciò il loro controllo diretto da parte delle forze armate statunitensi darebbe a Washington una posizione privilegiata ponendo i loro alleati - Europa e Giappone - e gli eventuali rivali (la Cina) in una scomoda situazione di dipendenza per i loro rifornimenti energetici;
- è situato nel centro del mondo antico e facilita la minaccia militare permanente contro la Cina, l’India e la Russia;
- la regione attraversa un momento di debolezza e di confusione, che permette all’aggressore di assicurarsi facilmente la vittoria, almeno nell’immediato;
- nella regione, gli Stati Uniti dispongono di un alleato di ferro, Israele, dotato di armamento nucleare.
L’aggressione ha posto i paesi situati sulla linea del fronte (Afghanistan, Iraq, Palestina, Libano, Siria, Iran) nella peculiare situazione di paesi distrutti (i primi quattro), o minacciati di distruzione (la Siria e l’Iran).
L’aggressione contro il Libano
L’aggressione di Israele contro il popolo libanese, iniziata l’11 luglio 2006, è parte integrante del piano di Washington per la regione. La cattura di due soldati israeliani sul suolo libanese e la richiesta legittima di scambiarli con i cittadini libanesi rapiti dagli israeliani, in pieno territorio libanese, è stata solo un pretesto. L’attuazione di questo progetto era stata preparata adottando una risoluzione dell’ONU che imponeva il disarmo di Hezbollah e l’abbandono del Libano da parte delle truppe siriane, in seguito all’assassinio di Rafic el Hariri, un fatto peraltro mai chiarito. Gli Stati Uniti e l’Europa ripetono che esigono l’applicazione integrale di questa risoluzione, ma si guardano bene dal ricordare che mai sono state prese misure per far rispettare la risoluzione 242, che esige l’evacuazione della Palestina occupata dal 1967. E naturalmente dimenticano anche di dover restituire il Golan alla Siria. La faccenda non è da poco.
Il progetto statunitense tende esclusivamente a porre tutta la regione sotto il controllo militare di Washington (mascherato da esportazione della “democrazia”) e a farvi regnare un ordine neoliberista a suo esclusivo profitto con la rapina del petrolio. Washinton ha anche ripreso a proprio vantaggio i fantasmi del sionismo: la frammentazione della regione in microstati basati sull’etnia o la confessione religiosa, sottomessi a una specie di “protettorato” di Israele per conto degli Stati Uniti.
L’attuazione del progetto è ormai avanzata: la Palestina, l’Iraq, l’Afghanistan sono occupati e distrutti, la Siria e l’Iran apertamente minacciati dopo il Libano. Ma il fallimento del progetto è nondimeno del tutto evidente: la resistenza dei popoli non si indebolisce, il popolo libanese sta dando una lezione di unità nella difesa dei suoi combattenti, smentendo le aspettative di Tel Aviv, di Washington e degli europei. La resistenza libanese, dotata di mezzi rudimentali, dà filo da torcere agli eserciti nemici modernamente attrezzati grazie al ponte aereo stabilito con la base americana di Diego Garcia (da qui l’utilità di queste basi nel progetto criminale mondiale di Washington). La resistenza popolare armata del Sud del Libano sta dimostrando la sua efficacia, tutti gli sforzi degli Stati Uniti e dell’Europa tendono a imporne il disarmo per permettere a Israele di avere la vittoria facile nella sua prossima aggressione. Oggi più che mai è necessario difendere il diritto imprescindibile dei popoli a preparare la loro resistenza armata contro l’aggressione imperialistica e i suoi agenti regionali.
L’Afghanistan
L’Afghanistan ha vissuto il momento migliore della sua storia moderna nel periodo della Repubblica detta “comunista”. Un regime di dispotismo illuminato e modernista, che ha dato impulso all’istruzione dei giovani dei due sessi, avversario dell’oscurantismo, e che perciò beneficiava di un sostegno decisivo da parte della società. La “riforma agraria” che aveva intrapreso era essenzialmente un insieme di misure destinate a ridurre i poteri tirannici dei capi dei clan. L’appoggio - almeno tacito - della maggioranza dei contadini garantiva il probabile successo di questa evoluzione così ben iniziata. La propaganda veicolata sia dai media occidentali che dell’Islam politico ha presentato questa esperienza come un “totalitarismo ateo e comunista” rifiutato dal popolo afgano. In realtà il regime, come quello di Ataturk a suo tempo, era ben lungi dall’essere impopolare.
Il fatto che i suoi promotori, nei due gruppi più ampi (Khalq e Parcham), si siano autodefiniti comunisti non ha nulla di sorprendente. L’esempio dei progressi ottenuti dai popoli della vicina Asia centrale sovietica (malgrado tutto ciò che si è potuto raccontare a questo proposito e malgrado le pratiche autocratiche del sistema) in confronto ai disastri sociali permanenti provocati dalla gestione imperialistica degli inglesi nei paesi vicini (India e Pakistan) aveva avuto l’effetto - qui come in altri paesi della regione - di incoraggiare i patrioti a prendere coscienza dell’ostacolo che l’imperialismo opponeva a ogni tentativo di modernizzazione. L’invito a intervenire che certe frazioni hanno indirizzato ai sovietici per sbarazzarsi dei rivali ha di certo pesato negativamente e ipotecato le possibilità del progetto nazional-populista-modernista.
Gli Stati Uniti anzitutto e i loro alleati della triade in generale sono sempre stati avversari tenaci dei modernizzatori afgani, comunisti o meno. Hanno mobilitato le forze oscurantiste dell’Islam politico di stampo pachistano (i talebani) e i signori della guerra (i capi dei clan neutralizzati dal regime cosiddetto “comunista”), li hanno addestrati e armati. Anche dopo la ritirata dei sovietici, la resistenza di cui dava prova il governo di Najibullah avrebbe probabilmente conseguito la vittoria se non fosse intervenuta l’offensiva militare pachistana in sostegno dei talebani e poi quella delle forze ricostituite dei signori della guerra, che hanno accelerato il caos.
L’Afghanistan è stato devastato dall’intervento degli Stati Uniti e dei loro agenti e alleati, islamici in particolare. L’Afghanistan non può ricostruirsi sotto il tallone del loro potere, appena mascherato dalla figura di un fantoccio senza radici nel paese, paracadutato dalla transnazionale texana di cui era dipendente. La pretesa “democrazia” nel cui nome Washington, la NATO e l’ONU chiamata alla riscossa pretendono di giustificare la loro “presenza” (di fatto, occupazione), che già in origine era una menzogna, è diventata oggi una farsa grossolana.
Non c’è che una soluzione al “problema” afgano: che tutte le forze straniere lascino il paese e che tutte le potenze siano obbligate a non finanziare e armare i rispettivi “alleati”. Alle buone coscienze che esprimono il timore che il popolo afgano possa tollerare la dittatura dei talebani (o dei signori della guerra), risponderò che la presenza straniera è stata e continua a essere il miglior sostegno di quella dittatura. E che il popolo afgano si era impegnato in un’altra direzione – potenzialmente portatrice di miglioramenti – quando l’“Occidente” era costretto a non occuparsi dei suoi affari. Al dispotismo illuminato dei “comunisti”, l’Occidente civilizzato ha sempre preferito il dispotismo oscurantista, infinitamente meno pericoloso per i suoi interessi.
L’Iraq
La diplomazia armata degli Stati Uniti si era posta l’obiettivo di distruggere letteralmente l’Iraq molto prima di averne il pretesto, in occasione dell’invasione del Kuwait nel 1990, e poi dopo l’11 settembre, che Bush ha sfruttato a questo scopo con un cinismo e delle menzogne degne di Goebbels (“ripetete una bugia mille volte, diventerà la verità”). La ragione è semplice e non ha nulla a che vedere con il discorso della “liberazione” del popolo iracheno dalla dittatura sanguinosa (e reale) di Saddam Hussein. L’Iraq possiede nel suo sottosuolo una buona parte delle migliori risorse petrolifere del pianeta; ma per di più l’Iraq è riuscito a formare quadri scientifici e tecnici capaci di sostenere, con la loro massa critica, un progetto nazionale solido. Bisognava eliminare questo “pericolo” con una “guerra preventiva” che gli Stati Uniti si sono arrogati il diritto di fare quando e dove lo vogliano, senza il minimo rispetto per il “diritto” internazionale.
Oltre questo dato di fatto di banale evidenza, restano da esaminare alcune questioni molto serie: perché il piano di Washington ha potuto dare così facilmente l’impressione di un successo folgorante? Quale nuova situazione si è creata, che la nazione irachena deve oggi affrontare? Quali risposte le diverse componenti del popolo iracheno danno a questa sfida? Le forze democratiche e progressiste irachene, arabe e internazionali quali soluzioni possono proporre?
La disfatta di Saddam Hussein era prevedibile. Di fronte a un nemico il cui principale vantaggio consiste nella capacità di esercitare il genocidio con bombardamenti aerei impuniti (in attesa del nucleare) i popoli hanno una sola risposta possibile: fare resistenza sul loro suolo invaso, come ha dimostrato il popolo libanese. Il regime di Saddam si era impegnato a distruggere ogni mezzo di difesa a portata del suo popolo, con la distruzione sistematica di ogni organizzazione, di ogni partito politico (cominciando dal partito comunista) che ha fatto la storia dell’Iraq moderno, compreso il Baas che era stato uno degli attori principali di questa storia.
Quel che deve sorprendere in questa situazione non è che il popolo iracheno abbia subito l’invasione del paese senza combattere, e neppure che certi comportamenti (come l’apparente partecipazione alle elezioni organizzate dall’invasore o lo sfruttamento delle lotte fratricide fra curdi, sunniti e sciiti) appaiano come indicatori dell’accettazione della sconfitta (su cui Washington aveva fondato i suoi calcoli), ma al contrario che la resistenza sul terreno si rafforzi ogni giorno di più (malgrado tutte le debolezze che dimostra) e che abbia già reso impossibile l’instaurazione di un regime di lacché capace di assicurare un’apparenza di “ordine”, dimostrando così l’insuccesso del progetto di Washington. Il riconoscimento internazionale del governo fantoccio da parte delle Nazioni Unite non cambia affatto la realtà: non è legittimo né accettabile.
L’occupazione militare straniera ha peraltro creato una nuova situazione. La nazione irachena è realmente minacciata, se non altro perché il progetto di Washington - incapace di mantenere il controllo sul paese (e rapinare le risorse petrolifere, che costituisce il suo obiettivo principale) per mezzo di un governo apparentemente “nazionale” - si può realizzare solo frantumando il paese. La sua divisione in almeno tre “Stati” – curdo, sunnita e sciita – è forse stato fin dall’inizio l’obiettivo di Washington, allineato su Israele (gli archivi lo riveleranno in futuro). In ogni caso oggi la “guerra civile” è la carta giocata da Washington per mantenere e legittimare la sua occupazione. Infatti l’occupazione permanente era - e continua a essere - l’obiettivo principale: è l’unico mezzo a disposizione di Washington per garantirsi il controllo sul petrolio. Non si può di certo dare alcun credito alle “dichiarazioni” di Washington, del tipo “lasceremo il paese appena sarà ristabilito l’ordine”. Bisogna ricordare che gli inglesi hanno sempre dichiarato che la loro occupazione dell’Egitto era “provvisoria”. E’ durata dal 1882 al 1956. Naturalmente nel frattempo gli Stati Uniti distruggono ogni giorno, con ogni mezzo, compresi i più criminali, il paese con le sue scuole, le officine, le capacità scientifiche.
Di fronte a questa sfida, il popolo iracheno dà delle risposte che non sembrano - almeno nell’immediato - commisurate all’estrema gravità del momento. E’ il meno che si possa dire. Quali sono le ragioni? I media occidentali ripetono all’infinito che l’Iraq è un paese “artificiale” e che il dominio oppressivo del regime “sunnita” di Saddam su sciiti e curdi è all’origine dell’inevitabile guerra civile (che solo l’occupazione straniera permanente riuscirà a evitare). La “resistenza” sarebbe dunque limitata a qualche nucleo islamico filo-Saddam del “triangolo” sunnita. E’ difficile mettere insieme tante controverità.
All’indomani della prima guerra mondiale la colonizzazione britannica ha fatto molta fatica a vincere la resistenza del popolo iracheno. In piena coerenza con la loro tradizione imperiale, a sostegno del proprio dominio gli inglesi hanno fabbricato una monarchia importata e una classe di proprietari latifondisti, e hanno dato una posizione privilegiata all’Islam sunnita. Ma malgrado i loro sforzi sistematici, non sono riusciti nel loro intento. Il partito comunista e il partito del Baas hanno costituito le forze politiche organizzate che hanno sconfitto la monarchia “sunnita” detestata da tutti, sunniti, sciiti e curdi. La violenta concorrenza fra queste due forze, che ha occupato il proscenio dal 1958 al 1963, è terminata con la vittoria del Baas, allora salutata con sollievo dalle potenze occidentali. Eppure il progetto comunista portava in sé il germe di una possibile evoluzione democratica, mentre quello del Baas la escludeva.
Partito nazionalista panarabo e unitario in via di principio, ammiratore del modello prussiano di costruzione dell’unità tedesca, con base nella piccola borghesia modernista laicizzante, ostile alle espressioni più oscurantiste della religione, il Baas al potere ha avuto un’evoluzione - del resto perfettamente prevedibile - verso una dittatura, il cui statalismo era solo a metà antimperialistico, nel senso che, secondo i tempi e le circostanze, poteva accettare un compromesso fra le due parti (il potere del Baas e l’imperialismo americano dominante nella regione). Questo deal ha incoraggiato le derive megalomani del leader, che ha immaginato che Washington lo avrebbe accettato come principale alleato nella regione. ha incoraggiato le derive megalomani del leader, che ha immaginato che Washington lo avrebbe accettato come principale alleato nella regione.
Il sostegno prestato dagli USA a Saddam (comprese le armi chimiche) nella guerra assurda e criminale contro l’Iran dal 1980 al 1989 sembrava dare credibilità al calcolo. Saddam non immaginava che Washington barava, che l’imperialismo non poteva accettare la modernizzazione dell’Iraq e che la decisione di distruggere il paese era già stata presa. Caduto nella trappola che gli avevano teso (Saddam aveva avuto via libera per l’annessione del Kuwait - di fatto una provincia dell’Iraq che gli imperialisti inglesi avevano staccato per farne una colonia petrolifera) - l’Iraq ha subito dieci anni di sanzioni destinate a indebolire il paese, allo scopo di facilitare la grandiosa conquista del vuoto da parte dell’esercito degli Stati Uniti.
Ai regimi del Baas, compresa l’ultima fase di decadenza sotto la direzione di Saddam, si possono rivolgere tutte le accuse tranne quella di aver fomentato il conflitto confessionale fra sunniti e sciiti. Chi è dunque responsabile degli scontri sanguinosi che oggi oppongono le due comunità? Un giorno sicuramente si verrà a sapere come la CIA (e indubbiamente il Mossad) hanno organizzato molti di questi massacri. Ma è vero che il deserto politico creato dal regime di Saddam e l’esempio che egli dava di metodi opportunistici e privi di principi hanno incoraggiato candidati al potere di ogni provenienza a intraprendere la stessa strada, spesso protetti dagli occupanti, a volte tanto ingenui da credere di potersene servire. I candidati in questione, si tratti di capi religiosi (sciiti o sunniti), di pretesi “notabili” (paratribali) o di “uomini d’affari” notoriamente corrotti esportati dagli Stati Uniti, non hanno mai avuto un reale radicamento politico nel paese; anche i capi religiosi più rispettati non avevano alcuna capacità politica che il popolo iracheno potesse giudicare accettabile. Senza il vuoto creato da Saddam, il loro nome non sarebbe mai stato pronunciato. Di fronte a questo nuovo “mondo politico” fabbricato ad hoc dall’imperialismo della mondializzazione liberale, esiste la possibilità che si ricostituiscano altre forze politiche autenticamente popolari e nazionali, eventualmente democratiche?
Ci fu un tempo in cui il partito comunista costituiva il polo di cristallizzazione del meglio che la società irachena poteva produrre. Il partito era radicato in tutte le regioni del paese e dominava il mondo degli intellettuali, spesso di origine sciita (per me la comunità sciita produce soprattutto rivoluzionari e leader religiosi, raramente burocrati o compradores). Il partito comunista era autenticamente popolare e antimperialista, poco incline alla demagogia, potenzialmente democratico. Ma dopo il massacro di migliaia dei suoi militanti migliori ad opera delle dittature del Baas, e dopo il crollo dell’Unione Sovietica (al quale non era preparato) e il comportamento degli intellettuali che hanno creduto accettabile di tornare dall’esilio sui camion dell’esercito americano, il partito è ormai destinato a sparire definitivamente dalla storia? Purtroppo non è impossibile, ma neppure “ineluttabile”. Anzi.). Il partito comunista era autenticamente popolare e antimperialista, poco incline alla demagogia, potenzialmente democratico. Ma dopo il massacro di migliaia dei suoi militanti migliori ad opera delle dittature del Baas, e dopo il crollo dell’Unione Sovietica (al quale non era preparato) e il comportamento degli intellettuali che hanno creduto accettabile di tornare dall’esilio sui camion dell’esercito americano, il partito è ormai destinato a sparire definitivamente dalla storia? Purtroppo non è impossibile, ma neppure “ineluttabile”. Anzi.
La questione “curda” è una questione reale, in Iraq come in Iran e in Turchia. Ma anche a questo proposito bisogna ricordare che le potenze occidentali hanno sempre messo in pratica con grande cinismo la regola dei due pesi e due misure. La repressione delle rivendicazioni curde in Iraq e in Iran non ha mai raggiunto il grado di violenza poliziesca e militare, politica e morale, raggiunto da Ankara. Né l’Iran né l’Iraq sono mai arrivati a negare l’esistenza stessa dei curdi. Peraltro alla Turchia si è perdonato tutto, perché fa parte della NATO, un’organizzazione di nazioni democratiche - ci ricordano i media - di cui l’eminente democratico che fu Salazar fu uno dei membri fondatori, al pari degli altrettanto democratici colonnelli greci e generali turchi.
I fronti popolari iracheni costituiti intorno al partito comunista e al Baas nei migliori momenti della sua storia tormentata, ogni volta che hanno esercitato responsabilità di potere, hanno sempre trovato un terreno di intesa con i principali partiti curdi, che sono sempre stati loro alleati.
La deriva antisciita e anticurda del regime di Saddam è certo reale: bombardamenti della regione di Bassora da parte dell’esercito di Saddam dopo la sconfitta nel Kuwait nel 1990, uso di gas contro i curdi. La deriva era una risposta alle manovre della diplomazia armata di Washington, che aveva mobilitato degli apprendisti stregoni ansiosi di cogliere l’occasione. Ciò non toglie che sia una deriva criminale, e per di più stupida, giacché il successo degli appelli di Washington è rimasto molto limitato. Ma che altro ci si può attendere da dittatori tipo Saddam?
La resistenza all’occupazione straniera, del tutto “inattesa” in queste condizioni, testimonia una forza che ha quasi del miracoloso. Ma non è questo il caso: la realtà semplice ed elementare è che il popolo iracheno nel suo complesso (arabi e curdi, sunniti e sciiti) detesta gli occupanti e ne conosce i crimini quotidiani (assassini, bombardamenti, massacri, torture). Si dovrebbe allora immaginare un Fronte unito di resistenza nazionale (chiamatelo come volete) che si proclami tale, che pubblichi nomi, liste di organizzazioni e partiti che lo costituiscono, un programma comune. Ma finora non è successo, in particolare per tutte le ragioni di distruzione del tessuto sociale e politico prodotte dalla dittatura di Saddam e da quella degli occupanti. Ma quali che ne siano le ragioni, questa debolezza rappresenta comunque uno svantaggio serio, che facilita le manovre di divisione, incoraggia gli opportunisti fino a farne dei collaboratori, provoca confusione sugli obiettivi della liberazione.
Chi riuscirà a superare questi handicap? I comunisti dovrebbero essere in grado di farlo. Già i militanti - presenti sul territorio - si sganciano dai pretesi “leader” (quelli noti solo ai media dominanti) che non sapendo che pesci pigliare tentano di dare una parvenza di legittimità al loro “allineamento” con il governo collaborazionista, affermando per di più di voler con questo completare l’azione della resistenza armata. Ma molte altre forze politiche potrebbero prendere iniziative decisive, a tempo debito, in direzione della costituzione del fronte.
La realtà è che malgrado tutte le sue “debolezze” la resistenza del popolo iracheno ha già sconfitto (sul piano politico, se non ancora militare) il progetto di Washington. Precisamente questo inquieta gli atlantisti dell’Unione Europea, che sono i suoi fedeli alleati. I soci subalterni degli Stati Uniti oggi ne temono la disfatta perché si rafforzerebbe la capacità dei popoli del Sud di costringere il capitale transnazionale mondializzato della triade imperialista a rispettare gli interessi delle nazioni e dei popoli d’Asia, d’Africa e d’America Latina.
La resistenza irachena ha avanzato delle proposte che permetterebbero di uscire dal vicolo cieco e di aiutare gli Stati Uniti ad abbandonare il ginepraio. Le proposte sono: (1) instaurare un’autorità amministrativa di transizione con il supporto del Consiglio di Sicurezza; (2) cessare immediatamente le azioni di resistenza e gli interventi militari e polizieschi degli eserciti di occupazione; (3) ritirare tutte le autorità militari e civili straniere nel giro di sei mesi. I dettagli delle proposte sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista araba “Al Mustaqbal Al Arabi”, che si pubblica a Beirut, nel numero di gennaio del 2006.
Il silenzio assoluto che i media europei hanno opposto alla diffusione del messaggio testimonia la solidarietà dei partner imperialisti. Le forze democratiche e progressiste europee hanno il dovere di scostarsi da questa politica della triade imperialista e di sostenere le proposte della resistenza irachena. Lasciare solo il popolo iracheno nella sua lotta contro l’avversario non è una scelta che si possa accettare; essa corrobora l’idea pericolosa che non ci si può attendere nulla di buono dall’Occidente e dai suoi popoli e spinge certi movimenti di resistenza verso pratiche inaccettabili, se non addirittura criminali.
Più rapidamente le truppe d’occupazione lasceranno il paese, più forte sarà il sostegno delle forze democratiche nel mondo e in Europa al popolo iracheno, maggiori saranno le possibilità di un futuro migliore per questo popolo martire. Più a lungo durerà l’occupazione, più oscuro sarà il domani che giungerà comunque dopo che essa sarà inevitabilmente terminata.
La Palestina
Dai tempi della dichiarazione di Balfour durante la prima guerra mondiale, il popolo palestinese è vittima di un progetto di colonizzazione con ripopolamento da parte di stranieri, che riserva loro la sorte degli indiani di America, lo si confessi o si finga di ignorarlo. Tale progetto è sempre stato sostenuto senza condizioni dalle potenze imperialiste dominanti nella regione (prima la Gran Bretagna, oggi gli Stati Uniti), perché lo Stato straniero così costituito può essere solo l’alleato a sua volta senza condizioni degli interventi necessari per subordinare il Medio Oriente al dominio del capitalismo imperialistico.
La cosa è addirittura banale nella sua semplicità per tutti i popoli d’Africa e d’Asia. Perciò sui due continenti, l’affermazione e la difesa dei diritti del popolo palestinese sono motivo di unione spontanea. Invece in Europa la “questione palestinese” provoca divisioni prodotte dalla confusione seminata dall’ideologia sionista, che trova spesso eco favorevole.
Oggi più che mai, dando corso al progetto americano del “grande Medio Oriente”, i diritti del popolo palestinese sono stati aboliti. Eppure l’OLP aveva accettato i piani di Oslo e di Madrid e la “Road Map” predisposta da Washington. E’ stato Israele a rifiutarsi apertamente di firmare, per attuare un piano di espansione ancor più ambizioso. L’OLP è stata così indebolita: l’opinione pubblica può rimproverarle giustamente l’ingenuità di aver creduto che gli avversari fossero sinceri. L’appoggio prestato dalle autorità dell’occupazione al suo avversario islamico (Hamas) - almeno in un primo tempo - la crescente corruzione dell’amministrazione palestinese (sulla quale chi presta le sovvenzioni - la Banca mondiale, l’Europa, le ONG - tace, seppure non è parte in causa) dovevano portare - era prevedibile e forse anche auspicato - alla vittoria elettorale di Hamas, pretesto ulteriore invocato immediatamente per giustificare l’allineamento senza condizioni sulla politica di Israele, “senza se e senza ma”.
Il progetto coloniale sionista è sempre stato una minaccia, oltre che per la Palestina, per i popoli arabi vicini. Le sue ambizioni di annettersi il Sinai egiziano e l’effettiva annessione del Golan siriano ne sono ampia testimonianza. Nel progetto del “grande Medio Oriente” viene dato un posto particolare a Israele, al suo monopolio regionale dell’armamento nucleare e al suo ruolo di “partner obbligato” (con il pretesto, peraltro sbagliato, che solo Israele avrebbe “competenze tecnologiche” di cui nessun popolo arabo è capace! Razzismo “oblige”))
Non è nostra intenzione proporre qui delle analisi sulle complesse interazioni fra le lotte di resistenza all’espansione coloniale sionista e i diversi conflitti e opzioni politiche in Libano e in Siria. I regimi del Baas in Siria hanno resistito a modo loro alle pretese delle potenze imperialiste e di Israele. E’ certo che la resistenza è servita anche a legittimare ambizioni più discutibili (il controllo del Libano). D’altra parte la Siria ha sempre scelto con molta cura i suoi alleati fra i “meno pericolosi” per il Libano. E’ noto che la resistenza alle incursioni israeliane nel Libano meridionale era stata organizzata dal partito comunista libanese. I governi della Siria, del Libano e dell’Iran hanno cooperato strettamente per distruggere questa “base pericolosa” e sostituirvi quella di Hezbollah.
L’uccisione di Rafic el Hariri - sulla quale non è mai stata fatta luce - ha dato l’occasione alle potenze imperialistiche (gli Stati Uniti in testa, e dietro la Francia) di intervenire con un duplice obiettivo: costringere Damasco ad accettare un allineamento definitivo con il gruppo degli Stati arabi resi vassalli (Egitto, Arabia Saudita) o, in alternativa, almeno liquidare le vestigia del potere baasista degenerato e smantellare quel che resta della capacità di resistenza alle incursioni israeliane (esigendo il “disarmo” di Hezbollah). In questo contesto si può sempre invocare la retorica sulla “democrazia”, che è tanto utile.
Oggi tutti i democratici del mondo intero hanno il dovere imperioso di difendere i diritti inalienabili del popolo palestinese. La Palestina è il fulcro dei conflitti più importanti del nostro tempo. Accettare il piano israeliano di distruzione totale della Palestina e del suo popolo significa accettare la negazione del diritto primario di ogni popolo: quello di esistere. Accusare di “antisemitismo” coloro che si oppongono a questo progetto è assolutamente inaccettabile.
L’Iran
Anche qui non abbiamo alcuna intenzione di sviluppare le analisi che la “rivoluzione islamica” richiederebbe. Essa era - come si è autoproclamata e come la si vede così spesso sia nell’Islam politico che presso gli “osservatori stranieri” - l’annuncio e il punto di partenza di un’evoluzione destinata a coinvolgere tutta la regione, cioè l’insieme del mondo musulmano, ribattezzato per l’occasione come “umma” (nazione), cioè quel che non è mai stato? Oppure era un avvenimento isolato, appunto perché risultante dalla combinazione fra le interpretazioni dell’Islam sciita e l’espressione del nazionalismo iraniano?
Dal punto di vista che ci interessa qui farò soltanto due osservazioni. La prima è che il regime dell’Islam politico in Iran non è per sua natura incompatibile con l’integrazione del paese nel sistema capitalistico mondializzato di oggi (i principi di fondo del regime trovano posto in una visione della gestione “liberale” dell’economia). La seconda è che la nazione iraniana in quanto tale è una nazione “forte”, cioè le sue principali componenti se non tutte – classi popolari e classi dirigenti – non accettano che il loro paese venga inserito nel sistema mondializzato con una posizione subordinata. Naturalmente ci sono contraddizioni fra queste due dimensioni della realtà iraniana e la seconda giustifica gli orientamenti della politica estera di Teheran, che testimoniano la volontà di resistere ai diktat stranieri.
E’ sempre il nazionalismo iraniano - che è assai potente e a mio parere del tutto positivo - che spiega il successo della “modernizzazione” delle capacità scientifiche, industriali, tecnologiche e militari, intrapresa dai regimi successivi dello Scia e di Khomeini. L’Iran è uno dei pochi Stati del Sud (con la Cina, l’India, la Corea, il Brasile e forse qualcun altro, ma non molti) che ha un progetto “borghese nazionale”. Che a lungo termine la realizzazione del progetto sia possibile o meno (e a mio parere non lo è) non è oggetto della nostra discussione qui. Oggi questo progetto esiste; e cercano di attuarlo.
Dato precisamente che l’Iran costituisce una massa critica in grado di tentare di imporsi come partner rispettato, gli Stati Uniti hanno deciso di distruggere il paese con una nuova “guerra preventiva”. Il “conflitto” si pone, come è noto, sul terreno delle capacità nucleari che l’Iran sta sviluppando. Perché questo paese - come tutti gli altri - non ne avrebbe il diritto, fino a diventare una potenza militare nucleare? Quale diritto possono arrogarsi le potenze imperialistiche e il loro fantoccio israeliano per accordarsi il monopolio delle armi di distruzione di massa? Si può dare credito al discorso per cui le nazioni “democratiche” non ne faranno mai uso come potrebbero farne gli Stati “canaglia”? Quando si riflette che le nazioni “democratiche” in questione sono responsabili dei peggiori genocidi dei tempi moderni, compreso quello degli ebrei, e che gli Stati Uniti hanno già usato l’arma atomica e rifiutano di accettare il divieto assoluto e generale del suo uso? Disgraziatamente gli Europei sono ormai allineati anch’essi sul progetto di Washington per aggredire l’Iran.
Conclusione
Oggi i “conflitti politici” nella regione oppongono tre insiemi di forze: quelle che rivendicano il passato nazionalista (ma non sono in realtà che eredi degeneri e corrotti delle burocrazie dell’epoca nazional-populista), quelle che si rifanno all’Islam politico e quelle che tentano di emergere intorno a una rivendicazione “democratica” compatibile con la gestione economica liberale. Una sinistra attenta agli interessi delle classi popolari e a quelli della nazione non può accettare nessuna delle tre. Di fatto, con queste tre “tendenze” si esprimono gli interessi delle classi di compradores, affiliate al sistema imperialistico esistente. Infatti la diplomazia degli Stati Uniti tiene in caldo questi tre ferri, adoperandosi a giostrarne i conflitti a proprio beneficio. Tentare di “inserirsi” in questi conflitti con alleanze con gli uni o gli altri (preferire il regime esistente per evitare il peggio - l’Islam politico; o al contrario cercare di allearsi a questo per eliminare i regimi) significa votarsi alla sconfitta., affiliate al sistema imperialistico esistente. Infatti la diplomazia degli Stati Uniti tiene in caldo questi tre ferri, adoperandosi a giostrarne i conflitti a proprio beneficio. Tentare di “inserirsi” in questi conflitti con alleanze con gli uni o gli altri (preferire il regime esistente per evitare il peggio - l’Islam politico; o al contrario cercare di allearsi a questo per eliminare i regimi) significa votarsi alla sconfitta.
La sinistra deve affermarsi sferrando le sue lotte sul terreno su cui trovano il loro posto naturale: la difesa degli interessi politici e sociali delle classi popolari, della democrazia e dell’affermazione della sovranità nazionale, intese come indissociabili. Tutti i democratici del mondo devono sostenere queste forze e anzitutto condannare senza alcuna limitazione ogni intervento degli Stati Uniti, della NATO, di Israele, delle Nazioni Unite addomesticate e dei rispettivi alleati nella regione.
La regione del “grande Medio Oriente” è oggi al centro del conflitto che oppone il leader imperialista e i popoli del mondo intero. Sgominare il progetto di Washington costituisce la condizione per permettere qualche possibilità di progresso in qualche parte del mondo. Altrimenti ogni passo avanti resterà vulnerabile all’estremo. Ciò non significa sottovalutare le lotte che si sono ingaggiate in altre regioni del mondo - in Europa, in America Latina o altrove. Significa soltanto che esse devono inscriversi in una prospettiva globale che contribuisca a sconfiggere Washington nella regione che ha scelto per la sua prima offensiva criminale.
Agosto 2006
Traduzione di Nunzia Augeri