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- pensiero resistente - imperialismo e globalizzazione - 23-03-11 - n. 356
La Libia, la sinistra e la guerra imperialista
di Domenico Moro
23/03/2011
Fino ad ora, il movimento per la pace è rimasto praticamente senza voce di fronte alla guerra contro la Libia. Anche la sinistra non è stata all’altezza. Perché? La ragione principale sta nel fatto che chi ha scatenato la guerra, cioè gli Usa, la Gran Bretagna e la Francia, sono riusciti a mettere al centro dell’attenzione mondiale un uomo, il colonnello Gheddafi. La “storia” che si è venduta all’opinione pubblica mondiale è quella di un dittatore, al potere da ben quaranta anni, e del suo popolo, che chiede democrazia e libertà, e che per questo viene massacrato. Si è persino parlato di genocidio. L’accettazione acritica di questa versione ha disarmato la sinistra o almeno ne ha indebolito le motivazioni. Ed anche se i massacri di civili si sono rivelati, dopo un po’, perlomeno dubbi, a sinistra ci si è sentiti in imbarazzo a prendere le parti di un “dittatore”, scervellandosi su come contrastare la guerra e nello stesso tempo difendere la “rivoluzione democratica” libica.
Se la “storia” raccontata dai mass media occidentali è stata venduta così efficacemente è stato anche grazie al contesto in cui i fatti libici si sono inseriti, ovvero la cosiddetta rivoluzione democratica araba, che si sarebbe affermata in Tunisia e in Egitto. Su questo, però, bisogna fare chiarezza. In Egitto e in Tunisia non si è verificata alcuna rivoluzione. In primo luogo, la rivoluzione non è il rovesciamento di un uomo, ma di un sistema di rapporti di potere, politici ed economici. In secondo luogo, in Egitto si è solo iniziato un processo potenzialmente rivoluzionario, che corre il rischio di essere volto a favore di forze reazionarie. Come ha rilevato Samir Amin, in Egitto Mubarak è stata dimissionato dall’esercito egiziano e dagli Usa, che hanno mantenuto ben salda la loro presa sul paese africano. Anzi, l’esercito, con l’avallo Usa, ha permesso ai Fratelli musulmani e all’ex partito di Mubarak di conseguire un grosso risultato tattico con la vittoria al referendum di modifica della Costituzione, che ha segnato invece la sconfitta di tutti quelli che erano per il no, i partiti della sinistra, il movimento democratico, quello operaio e la minoranza copta, fatta oggetto di veri e propri pogrom negli ultimi mesi. La vittoria del sì apre la strada ad elezioni immediate, che la sinistra e il movimento democratico non sono in grado di affrontare, e quindi all’affermazione dell’ex partito di Mubarak e dei Fratelli musulmani. Questi ultimi, che sono finanziati dall’Arabia Saudita, sono stati per l’occasione accreditati dagli Usa come moderati, ma moderati non sono come provano le vicende relative ai copti. Sempre l’Arabia Saudita, dittatura familiare e retrograda nonché migliore alleato arabo degli Usa, ha invaso il Bahrein, reprimendone i moti popolari. Ma su questo massacro di civili la propaganda occidentale non ha avuto niente da eccepire, forse perché in Bahrein c’è la base della V flotta Usa.
Quanto accaduto in Libia nell’ultimo mese ha pochissimo a che spartire con il movimento democratico d’Egitto e Tunisia. Bocca ha affermato su “il manifesto” che i ribelli libici sono degli sconosciuti. In effetti, se facciamo attenzione sono meno sconosciuti di quanto sembri. Innanzi tutto, in Libia non c’è un movimento democratico e tanto meno un movimento operaio e partiti e sindacati di sinistra. La direzione del movimento anti Gheddafi è passata immediatamente alla rivolta armata, dando luogo ad una guerra civile. Inoltre, la dirigenza ribelle è quantomeno infarcita di elementi che hanno fatto la loro esperienza militare di combattenti jihadisti in Iraq ed in Afghanistan. Basti leggere l’articolo del Sole24ore del 22 marzo, “Noi ribelli, islamici e tolleranti”, dove si intervista il comandante ribelle di Derna, catturato nel 2002 dagli americani a Peshawar mentre era in fuga dall’Afghanistan. Solo con un grande sforzo di immaginazione si può pensare che la rivolta libica esprima valori democratici e di libertà, avendo invece radici nel separatismo tribale e nell’islamismo estremista tradizionali della Cirenaica. Secondo un documento, circolato nelle ultime settimane a Whashington, tra i combattenti jihadisti in Afghanistan i libici della Cirenaica erano uno dei gruppi nazionali maggiormente rappresentati. Non a caso alcuni settori della loro dirigenza – il segretario alla difesa Robert Gates al primo posto - sono stati scettici fin dall’inizio verso l’intervento militare.
Perché allora nonostante tutto gli Usa hanno premuto per intervenire in Libia? L’obiettivo in tutto il Medio Oriente è, in primo luogo, eliminare qualsiasi soggetto politico indipendente o potenzialmente pericoloso per la ridefinizione di un assetto di controllo Usa ed Europeo su di un’area che vale le maggiori riserve energetiche del mondo. Se questo significa appoggiarsi ad elementi islamici, come i Fratelli musulmani e i ribelli libici, e dargli la patente di moderati, non importa. Del resto, dai talebani, usati contro l’URSS, in poi, gli Usa non si sono mai fatti scrupolo di usare l’estremismo islamico. Ad ogni modo, i rischi di un intervento in Libia sono agli occhi statunitensi ampiamente compensati non solo dal petrolio e dal gas libico sui quali mettere le mani. Soprattutto, sono compensati dal fatto che la Libia è fondamentale da un punto di vista geostrategico, perché è la porta che mette in collegamento Mediterraneo e Africa sub-sahariana. Qualcuno ricorda le guerre in Ciad degli anni ’80, nelle quali la Francia combatté contro il colonnello? Se la Francia è al primo posto nei bombardamenti è non solo perché spera di insediare le sue multinazionali petrolifere in Libia al posto dell’Eni, ma anche perché vuole rilanciare il suo ruolo nelle sue ex colonie dell’Africa sub-sahariana. L’obiettivo strategico degli Usa è, quindi, il controllo dell’Africa, che da alcuni anni è l’ultima frontiera di una rinnovata competizione per le materie prime tra le vecchie potenze colonialistiche e gli Usa, da una parte, e la Cina e l’India dall’altra. Non a caso in Africa, nel 2008, gli Usa hanno costituito il loro ultimo comando regionale, “AFRICOM”, che oggi dirige i bombardamenti sulla Libia. Obiettivo di questa guerra è eliminare il colonnello, ma solo perché è condizione necessaria per la distruzione della Libia come entità statuale indipendente.
La guerra di Libia, la sua prima guerra, è il capolavoro di Obama. Mentre Bush ha agito unilateralmente, Obama, gettando il sasso e nascondendo la mano, ha mandato avanti la Francia e la Gran Bretagna e ha ottenuto la risoluzione “storica” dell’Onu “a difesa dei civili libici”. Una risoluzione votata nel giorno in cui un aereo senza pilota Usa uccideva quaranta civili in Pakistan, notizia praticamente ignorata dai media. Del resto, al contrario di quanto promesso in campagna elettorale, Obama non ha chiuso Guantanamo, non si è ritirato dall’Iraq, nel quale mantiene 48mila soldati, ha triplicato il numero dei soldati in Afghanistan, ha bombardato 117 volte nel 2010 in territorio pakistano (815 vittime accertate) e 19 volte nel 2011 (104 morti). Ma forse bombardare i civili degli altri è permesso. Il premio Nobel per la pace non solo non ha chiuso le guerre di Bush, ma ne ha aggiunta un’altra. Una bella dimostrazione del funzionamento della “democrazia” Usa, che mantiene una sostanziale continuità di linea politica senza il bisogno di affidarsi ad alcun “dittatore”. Il fatto è che non c’è cambiamento di persona che tenga, se il sistema rimane quello che è, cioè un capitalismo finanziario decadente e pertanto sempre più fondato sulla forza militare.
Quella in atto in Libia è una guerra tipicamente imperialista, cioè una guerra per il saccheggio delle risorse mondiali. Ed è tipicamente imperialista anche perché è una guerra per la spartizione delle ricchezze mondiali tra gli imperialismi e le potenze mondiali. Infatti, a farne le spese è l’imperialismo più debole, quello italiano, che rischia di essere estromesso dalla sua principale fonte di rifornimento energetico e che, con l’Eni, ha probabilmente commesso l’errore di flirtare troppo con la Russia e con Gazprom, cui stava aprendo la via del petrolio libico. Ma debole, a proposito di imperialismo, non vuol dire meno aggressivo, come dimostra la fregola di partecipare ai bombardamenti per non farsi escludere dalla spartizione della torta.
Il punto vero col quale si scontra la capacità della sinistra di reagire correttamente a quanto avviene è la mancata comprensione dell’imperialismo come sistema economico, politico e militare, il cui obiettivo è il dominio e non la libertà. E la mancata percezione che non c’è proporzionalità tra la dittatura esercitata dal “tiranno” di volta in volta nel mirino della macchina propagandistica occidentale e la dittatura esercitata dall’imperialismo col sistematico saccheggio delle risorse mondiali e con la sua immane potenza distruttiva. Ne è dimostrazione evidente la tempesta di fuoco scaricata dalle navi e dagli aerei occidentali sulle città libiche, ben oltre il mandato dell’Onu e l’istituzione di qualunque no-flying-zone, tanto da sollevare le proteste anche della Lega Araba tutt’altro che favorevole a Gheddafi.
Del resto, il messaggio doveva essere chiaro a tutti, comprese Russia e Cina, che troppo tardi si sono accorte dell’errore dell’astensione in Consiglio di sicurezza dell’Onu. È grottesco che molti tra i “difensori della pace” nostrani non si rendano conto che in Libia i massicci bombardamenti occidentali uccidono più popolazione di quanto abbia fatto la guerra civile fino ad ora. L’imperialismo Usa ed europeo in Medio Oriente ed in Nord Africa non sta aiutando alcun “risorgimento” arabo, al contrario sta cercando di affossarlo, dall’Egitto al Bahrein, schierandosi con i regimi e le forze sociali e politiche più retrive. La guerra in Libia si inserisce in tale tendenza ed è per questo che opporsi all’intervento è fondamentale.
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