www.resistenze.org - popoli resistenti - afghanistan - 11-12-02

Intervista con Suraya Perlika, Presidente dell’ AAWU

- Unione di tutte le Donne Afgane -

In questo mese  ho avuto l’onore e la fortuna di conoscere e incontrare questa donna che nel suo percorso di vita, di militante e di avanguardia storica, racchiude in sé un pezzo di storia del movimento rivoluzionario e di emancipazione sociale, non solo del suo paese e del suo martoriato popolo, ma di tutti i popoli oppressi dello scorso secolo ( il tanto vituperato e dileggiato “novecento”, che, pur tra limiti, errori e contraddizioni inevitabili, per chi la storia non la scrive o pensa, ma la forgia nella fucina di tutti i giorni e con la realtà che si ritrova…non quella più ottimale o ideale. Secolo che  ha significato, comunque la si veda, percorsi di liberazione ed emancipazione sociale e umana. Cioè della misera vita di tutti i giorni per alcuni MILIARDI di oppressi e, dato che forse qualcuno scorda o trascura con troppa leggerezza, per quello che esso rappresenta per i popoli, i lavoratori e i subalterni dell’umanità: 50 anni di sostanziale PACE… ridotta ormai ad un sbiadito ricordo, in questi odierni tempi di GUERRE INFINITE ).
Un incontro che fa seguito al mio libro sull’Afghanistan, che con mia grande soddisfazione è stato apprezzato dalla stessa.
Le tappe della sua storia e della sua militanza emergono all’interno dell’intervista, che si è poi trasformata in molte ore di dialoghi, racconti, lucide analisi e dolorosi ricordi, ma sempre indirizzati verso il futuro. Nelle sue parole, nelle sue riflessioni, non vi è mai rabbia o rimpianti ( pur avendo pagato personalmente prezzi molto alti, sia come carcere che come violenze subite); ma con una serenità che affiora continuamente e un grande amore per il suo paese ed il suo sventurato popolo, oltre a un grande sentimento di speranza, fortificato da una profonda coscienza e determinazione alla lotta, con grandi rischi per la sua vita, a cui lei non accenna mai, ma che, nella situazione afgana è quotidianamente appesa ad un filo.

D.: Fino alla caduta del governo della Repubblica Democratica Afgana, Aprile 1992, ad opera dei Mujaheddin, quale era stata la sua storia?
S.P. : La mia attività comincia nel 1965, quando insieme ad altre 4 donne fondammo l’Associazione Democratica delle Donne Afgane, il primo embrione di quello che diverrà poi un vero e proprio Movimento di emancipazione delle donne che si sviluppò  negli anni seguenti in tutto il paese e alla fine degli anni’70 divenne una delle Associazioni di primo piano nel paese e che permise la candidatura di molte donne al parlamento e alcune divennero  le prime deputate della millenaria storia dell’Afghanistan. Fino alla Rivoluzione Democratica dell’ Aprile 1978, come Associazione, come militanti rivoluzionarie del PDPA e come donne in generale che si battevano, subimmo repressioni, violenze, persecuzioni, carcere e assassinii. Per molti anni sono stata Presidente dell’Associazione delle donne. All’avvento dei Mujaeddin nell’aprile 1992, ero Presidente della Mezzaluna Rossa Afgana ( n.d.r.: la Croce Rossa locale).

D.: Dal 1992 alla caduta dei Talebani avvenuta lo scorso anno, quale è stata la sua condizione e cosa ha fatto ?
S.P.: Con gli avvenimenti e le violenze di quell’Aprile 1992, la mia situazione  precipitò immediatamente, fui licenziata e la mia famiglia perseguitata e attaccata, la casa fu saccheggiata, incendiata e distrutta,  alcuni familiari non riuscirono a sfuggire alle violenze del nuovo regime e pagarono un caro prezzo, io fui condannata a morte e ricercata. Nonostante le pressioni della Mezzaluna Rossa che mi garantiva l’uscita dal paese e un rifugio all’estero, la mia decisione fu quella di entrare in clandestinità e restare nel mio paese e condividere le sorti del mio popolo. La città di Kabul fu divisa in 7 zone che rappresentavano le varie fazioni che presero il potere, a settembre gli scontri intestini tra le varie fazioni portarono al bombardamento della città, che causò migliaia di vittime civili, soprattutto donne, bambini e anziani. Nel frattempo le donne venivano sistematicamente estromesse da tutte le attività lavorative, dall’insegnamento, dalla sanità e da tutte le attività sociali. Oltre a subire continue violenze, vessazioni e rapimenti, soprattutto non esistevano più le condizioni minime per la sopravvivenza dei nuclei familiari, l’Afghanistan entrò in un tunnel di disgregazione e devastazione sociali, senza precedenti. Io decisi di indossare il burqa e restare in Kabul, iniziando così un attività di solidarietà e resistenza con le donne ma non solo, nella clandestinità, contando su una rete di contatti di fiducia e solidali, nonostante una repressione feroce e spesso selvaggia. Tutto questo è durato fino allo scorso anno.

D.: Quando è nata la sua Associazione AAWU e quali sono i suoi programmi e obbiettivi ?
S.P.: AAWU è stata fondata nel Settembre 1992, a Kabul in clandestinità. Il primo obbiettivo in quella situazione descritta sopra, fu quello di costruire una rete di solidarietà e sostegno morale; poi cominciammo a costruire corsi di insegnamento e istruzione per donne e bambini. Col tempo iniziammo corsi di artigianato, tessitura, cucito, ricamo in modo da poter garantire forme di sostegno economico minimo, in quanto le donne erano state espulse dai posti di lavoro. L’organizzazione dell’Associazione era fondata su una rete di strutture mobili e in continuo spostamento, per sfuggire alla repressione e salvaguardare quelle di noi ricercate. Con l’arrivo dei Talebani i nostri corsi si intensificarono, grazie anche a una capacità e strutture più collaudate ed esperte, nella clandestinità. Pochi giorni dopo la caduta dei Talebani , organizzammo una manifestazione con oltre mille donne a Kabul, la prima manifestazione di donne dopo il 1992 e come potete vedere da queste foto, tenni un affollato comizio a viso scoperto. Fu un evento che stupì e colpì gli osservatori stranieri, in particolare i responsabili delle Nazioni Unite.

D.: Quali sono oggi le attività e quali incarichi ufficiali ha ricoperto in questo anno ?
S.P.: Nonostante cosa viene detto all’estero, in realtà la situazione e la condizione delle donne in Afghanistan, non è molto cambiata; quindi come AAWU abbiamo deciso di dare priorità alle fasce femminili più deboli ed emarginate della società: donne vedove o sole con figli da accudire, senza reddito o perseguitate. Il programma di sostegno prevede sempre gli stessi corsi ma ora più ampliati e numerosi, e soprattutto il tentativo di estendere la commercializzazione di ciò che viene prodotto, in modo da avere maggiori entrate per le lavoratrici. Purtroppo i soli finanziamenti che abbiamo avuto sono stati da parte delle Nazioni Unite con cui abbiamo costruito una scuola, piccola ma funzionale e da un collettivo di donne tedesche che ci sostiene, nella misura delle loro possibilità. Un corso che ritengo importante è quello che facciamo sui diritti, in quanto abbiamo una generazione di ragazze che sono cresciute in una situazione di guerra e di persecuzione, senza nemmeno conoscere un altro modo di vivere. Inoltre diffondiamo una rivista “ Il grido della donna afgana”, purtroppo con mezzi di fortuna e saltuari, ma è molto importante che riusciamo a farla girare.
 Prendendo atto dell’esistenza di AAWU e del mio ruolo di Presidente e fondatrice, delle sue attività in clandestinità, della manifestazione di piazza e del fatto che non ero scappata dal paese in tutti quegli anni (… oltre a motivi di “immagine nuova”per l’opinione pubblica internazionale) , le Nazioni Unite e gli osservatori di pace internazionali hanno quasi imposto la mia figura come unica donna all’interno della Commissione di pacificazione sotto supervisione dell’ONU, composta da 21 membri considerati influenti, con il compito di organizzare la Loya Jirga ( l’assemblea plenaria di tutto l’Afghanistan, composta dalle figure più rappresentative dal punto di vista sociale, economico, religioso, etnico e militare). Nonostante una forte ostilità da quasi tutte le componenti, sono stata eletta dalle donne consultate, a rappresentarle per garantire la presenza delle 160 donne ( su 1600 componenti) che avrebbero fatto parte dell’Assemblea. Nonostante minacce, ostacoli e ricatti, sono riuscita a ottenere anche una piccola vittoria: portando a 200 la componente di donne delegate, cercando di garantire quando ero presente, soprattutto nei campi profughi in Iran dove siamo stati, l’elezione sulla base della scelta dal basso e non imposta dai capifamiglia o capiclan. Anche questo, mal sopportato e mal accettato un po’ da tutti, ma comunque è stato ottenuto.
Terminato questo incarico, sono tornata ad occuparmi di AAWU, riprendendo le attività quotidiane a Kabul, nel quartiere dove sono sempre stata e nelle zone dove abbiamo intrapreso attività e corsi. Nei mesi scorsi abbiamo  fondato una ONG parallela a AAWU, con la presenza nel direttivo di figure straniere , anche perché il clima politico nel paese non è certo lineare e pacificato, e i rischi di atti intimidatori o peggio verso le nostre attività, o le persone che dirigono queste, sono all’ordine del giorno.

D.: Quale è il suo giudizio riguardo ai bombardamenti e il ruolo oggi delle forze di intervento internazionali in Afghanistan. E qual è la situazione nel paese ?
S.P.:Dopo l’ 11 Settembre, si sono accorti di Bin Laden e del terrorismo, e con la scusa di “liberare” l’Afghanistan, gli americani hanno cominciato a bombardare ogni zona del paese: città, villaggi sperduti, colpendo strutture civili e uccidendo migliaia di innocenti in maggioranza donne e bambini. Tutto questo in realtà per portare un governo a loro amico, formato fuori dell’Afghanistan e che faccia i loro interessi strategici; con i suoi componenti stabiliti a tavolino con accordi stipulati sulla base di interessi di fazioni, non certo del popolo afgano. Va comunque detto che molte persone avevano preso i bombardamenti e l’intervento esterno, con la speranza che portassero alla fine di vessazioni, violenze, disperazione e riaprissero uno spiraglio di speranza e di pace, ed un futuro vivibile e di cambiamenti.
La situazione nel paese non è assolutamente pacificata o normalizzata; in realtà solo a Kabul esiste un livello di vivibilità sotto controllo, e anche qui solo in parte e costantemente a rischio; nel resto del paese tutto è come sempre negli ultimi dieci anni, il territorio è spartito in zone di influenza di varie fazioni e lì, vige la legge del signorotto locale, i cui nomi conoscete tutti, e l’attuale governo non ha nessun potere, tantomeno la legge e il diritto. 
Sbaglia chi crede che la guerra sia finita, in realtà la guerra e la violenza possono durare ancora a lungo, anche per l’incontrollabilità della gran parte del paese e dei diversi interessi che ciascuno ha, tra i componenti di questo governo, rappresentante solamente di questi e assolutamente estraneo alle condizioni ed aspettative della grande maggioranza del popolo afgano. Dal punto di vista degli aiuti internazionali, va sottolineato che in realtà sono molto più apparenti che concreti e soprattutto non sono indirizzati tanto alla ricostruzione di infrastrutture quanto a forme di finanziamenti indirizzati, che spesso si “diluiscono” in mille rivoli e non incidono nella realtà concreta della popolazione.

D
.: Quali sono, secondo lei, le direttrici prioritarie su cui si devono muovere le figure più vicine agli interessi del popolo afgano e indipendenti da influenze “esterne”, in questa fase ? 
S.P.: Io credo che ci siano alcune condizioni basilari assolutamente prioritarie e necessarie, per indirizzarci verso una prospettiva di pace e futuro :
- Cessazione delle interferenze di forze esterne e straniere
- Costruzione di un governo realmente rappresentante degli interessi popolari, al di là di fazioni o imposizioni e ripristino di un processo democratico che garantisca la legalizzazione dei partiti
- Costruzione di un esercito nazionale centralizzato con il compito primario di ripristinare il controllo del territorio e garantire la sicurezza nazionale verso l’esterno e all’interno per i cittadini
- Disarmo di tutti gli armati e ritiro delle armi
- La necessità di ricollocare al loro posto ogni tipo di specialisti, tecnici, esperti di ogni campo, su una base di meritocrazia e di effettiva competenza, e non per appartenenza a  fazioni o schieramenti: questo per poter ricostruire dalle fondamenta un sistema sociale oggi totalmente inesistente: dalle fabbriche agli uffici, dallo stato alla scuola, dalla sanità alla funzione pubblica, dall’assistenza sociale alla campagna.
- Esiste in Afghanistan un problema legato al mondo contadino nella sua maggioranza: ed è quello dei campi coltivati ad oppio e del suo commercio, uno dei motivi di spartizione del territorio tra le varie fazioni. Questa è una situazione drammatica e molto influente su destini futuri del mio paese, perché attorno a questo problema si sviluppano interessi e strategie anche delle forze esterne al paese, che usando questa carta, determinano alleanze e schieramenti delle varie milizie armate, che prosperano su questa contraddizione, che attanaglia la vita delle famiglie contadine, negandogli la possibilità di un futuro dignitoso. Io penso che questo problema dovrebbe avere un carattere addirittura strategico nella ricerca di una soluzione, che deve tener conto degli interessi del mondo contadino e che fintanto  non lo si affronta, impedirà qualsiasi tipo di processo e di sviluppo all’Afghanistan.
- Io credo anche che qualsiasi tipo di processo evolutivo e di cambiamento, non potrà avvenire senza la partecipazione e un ruolo influente da parte delle donne afgane, che in questi decenni hanno sopportato e sostenuto il fardello più grande, per cercare di delimitare e rallentare il disfacimento e la devastazione sociale, prodotti da una quantità di guerra e violenza, che forse non sono nemmeno narrabili per chi non l’ha vissute. E sempre con una estraneità di colpe verso di esse quasi completa. Esse sono una parte sana per il futuro di questo paese, si tratta di fargli prendere coscienza e responsabilità. Solo allora, insieme a chi crede nel progresso e alla pace si potrà ricostruire un paese che oggi non esiste quasi. Perché io credo che la questione della donna non sia un problema femminile, ma un problema sociale e in questo ambito vada affrontato e risolto.
Purtroppo ritengo che tutto quanto indicato sopra, non sia al momento all’orizzonte; si tratta di lavorare in questa direzione riunendo tutti coloro che in qualche modo, anche differentemente credono comunque nella pace e negli interessi del popolo prima di tutto, e per fortuna ce ne sono.

D
.: Cosa possiamo fare concretamente per la vostra battaglia ?
S.P.: Noi in questo momento abbiamo bisogno praticamente di tutto, ma soprattutto il fatto di sapere di non essere soli, di avere amici anche lontani vicini alla nostra causa, dà forza e fiducia, in particolar modo alle nostre giovani che hanno bisogno di uscire da una condizione anche umana, non solo sociale, di isolamento e solitudine spaventose. Sono sicura che ci saranno modi per costruire qualcosa di possibile insieme, con persone come voi. La nostra Associazione in questo momento non ha contatti fuori dal paese se non con il collettivo di donne tedesche, che finora ci ha aiutato e sostenuto, per cui il nostro incontro di questi giorni, è per me un inaspettato e importante evento che, per la nostra Associazione rappresenta un passo avanti significativo. Una cosa per noi molto importante sarebbe quella di far circolare la nostra attività, il nostro punto di vista, le nostre proposte e posizioni; i nostri appelli e qualche piccola vittoria acquisita nell’interesse delle donne afgane e del nostro popolo in generale. Se ritenete di poterlo fare vi ringrazio fino da ora: sareste il nostro referente e punto di riferimento su cui poter contare, che comunque ci farebbe sentire parte di un mondo che ha ancora nella giustizia sociale, nella lotta per la pace e nella solidarietà, valori per cui vale la pena vivere e lottare. Vi ringrazio per l’attenzione datami.

Prima di tutto sono io, a doverla ringraziare sia per la disponibilità che per la profonda umanità che ci ha donato con le sue parole vissute, oltrechè per l’apprezzamento del mio modesto libro sull’Afghanistan. Questo anche a nome di coloro in questo paese, che insieme a me condividono la sua storia, le sue lotte, la sua esemplare vita di donna protagonista della storia del suo popolo e del suo paese, ma anche rappresentante di quella grande parte di una umanità sottomessa e violata, da un sistema di sopraffazione e oppressione, qual’è  quello vigente in questa epoca, e che il suo popolo conosce a fondo, attraverso gli spaventosi prezzi pagati negli ultimi 15 anni.
Detto questo, in qualità di rappresentante dell’Associazione di Solidarietà Internazionalista di Torino, una piccola ma attiva struttura che in questi anni ha cercato di fare la sua modesta parte, a fianco di quei popoli e quelle forze resistenti e renitenti che hanno coraggiosamente lottato per difendere la propria indipendenza, la propria sovranità e la propria dignità nazionali, attaccate e aggredite con ogni mezzo dall’imperialismo e dalle forze del liberismo selvaggio. Prendo l’impegno di costruire un gemellaggio tra l’ASI di Torino e l’AAWU , che recepisce e fa nostre la vostra richiesta e le vostre scelte, pertanto le formalizzo la nostra disponibilità, nella misura dei nostri mezzi e possibilità, di sostenere la vostra richiesta. Cercando di coinvolgere anche chiunque altro, sia associazioni che singoli in Italia, ritenga e senta propria la sua battaglia.

Pertanto il nostro impegno consisterà come primi atti :
- Un lavoro di informazione in Italia: tramite riviste, giornali, radio e Internet che saranno disponibili e con cui già collaboriamo, per una minima pubblicizzazione dei vostri materiali, documenti, appelli e richieste.
- La fornitura di un computer, come da vostra indicazione di necessità prioritaria, con relativi strumenti accessori.
- In seguito ci atterremo, di volta in volta, a vostre indicazioni di bisogni primari, su cui apriremo campagne di solidarietà

Questo sancisce il primo passo, modesto ma concreto per affermare una Solidarietà Internazionalista materiale e consapevole, come prassi di lavoro.
( Prima parte )

Torino, Novembre 2002 -        A cura di Enrico Vigna