Menzogne americane sul Tibet e sul Dalai Lama.
Media commerciali e
ufficiali propongono incessantemente la versione americana del tormento che il
Tibet avrebbe subito dall’aggressore e sterminatore cinese. Personalmente ero
affascinato anch’io dal buddismo tibetano e dalla santità del Dalai Lama. Ero
pure addolorato per l’oppressione subita dai tibetani a causa dell’oppressione
cinese. Bhè, come diciamo nel nostro motto, ho cambiato radicalmente idea per
accordarla alla verità. Le mie conclusioni sono una profonda avversione per la
“causa tibetana” (così come ce la propone Hollywood) e per il Dalai Lama.
Come di fronte ad ogni versione ufficiale, mi sono mosso alla ricerca di una
verità alternativa. Non ero sicuro di trovarne una, ma volevo vedere se il “martirio”
del Tibet è così univoco come gli americani vorrebbero far credere. Volevo
vedere se i Cinesi possono essere considerati “aggressori” del Tibet come
ripetono incessantemente i media legati a Washington e Londra. Questa ricerca è
fatta in nome del solo principio che mi caratterizza: la ricerca della verità.
E ho trovato delle cose sconcertanti…
Secoli di aggressioni, stermini, attentati, eccidi, guerre da parte degli
occidentali al popolo cinese non fanno parte di questo articolo, ma vale la
pena almeno accennarli per puntualizzare che nessun “occidentale” può parlare
di aggressione cinese a chicchessia senza prima parlare di torture,
umiliazioni, spoliazioni, stermini da parte degli occidentali ai danni dei
“musi gialli”. Chiudiamo qui la parentesi su cui magari scriveremo un articolo
dedicato.
L’imperialismo occidentale cerca incessantemente di promuovere la secessione
del Tibet dalla Cina. Perfino una certa sinistra in buona fede si fa portavoce
(assieme agli organi di informazione dell’Impero) di questa posizione per
subalternità o mancanza di conoscenza. E veniamo ai fatti.
La sovranità cinese sul Tibet ha alle spalle secoli e secoli di storia. Il
Tibet è territorio cinese dal tempo in cui in Europa non esistevano ancora gli
Stati nazionali. I primi a mettere in discussione la sovranità cinese sul Tibet
sono stati i fautori dell’imperialismo britannico. (1)(2)
Come si legge in un manuale di storia asiatica (uno qualunque), i tentativi di
distruggere la sovranità cinese sul Tibet sono la conseguenza di una politica
volta allo “smantellamento della Cina”. (3)
Non sono soltanto i comunisti cinesi a considerare il Tibet parte della Cina.
Sun Yat-sen, primo presidente della Repubblica nata dal rovesciamento della
dinastia Manciù, ne era convinto. Quando gli inglesi gli chiesero di
partecipare attivamente alla Prima Guerra Mondiale per poter recuperare alla
Cina i territori che la Germania le aveva strappato, lui rispose: “Voi vorreste
strapparci anche il Tibet!”. (4)
Prima della guerra fredda Washington riconosceva che il Tibet era territori
cinese. Ancora nel 1949 il Dipartimento di Stato Americano pubblicò un libro
sulle relazioni USA-Cina con una mappa che mostrava tutta la Cina, Tibet
incluso dunque. (5)
Tuttavia, con l’avanzare del Partito Comunista Cinese e quindi con
l’avvicinarsi al potere di un chiaro Partito di massa antimperialista,
Washington cominciò a manipolare la realtà. Gli inizi di questa manipolazione
possono essere rintracciati in una lettera del 13 gennaio 1947 al Presidente
americano Truman da parte di Gorge R. Merrel, incaricato d’affari USA a Nuova
Dheli. La lettera riguardava la “inestimabile importanza strategica” del Tibet
e recitava: “Il Tibet può pertanto essere
considerato come un bastione contro l’espansione del comunismo in Asia o almeno
come un’isola di conservatorismo in un mare di sconvolgimenti politici”. E
aggiunse che “l’altopiano tibetano […] in epoca di guerra missilistica può
rivelarsi il territorio più importante di tutta l’Asia”.
Questi particolari sono tratti da un autore americano per decenni funzionario
della CIA. L’Autore evidenzia come il contenuto di questa lettera sia quasi
combaciante con la visione imperialistica che aveva a suo tempo l’Inghilterra
vittoriana impegnata nel “grande gioco” dell’espansione in Asia. (6)
Il separatismo tibetano diviene uno strumento dell’imperialismo americano o,
meglio, per dirla come il funzionario della CIA, diviene uno strumento degli “interessi geopolitica USA” per costringere
il nuovo governo comunista di Mao a disperdere le forze, ponendo quindi le
condizioni per un “cambiamento di regime a
Pechino”.
Per portare a compimento questi “interessi geopolitici USA”, vennero addestrati
“guerriglieri” nel Colorado e poi paracadutati in Tibet e riforniti per via
aerea di armi, munizioni, apparecchiature ricetrasmittenti, ecc. A tali
guerriglieri la CIA aggiunge la “collaborazione
dei banditi Khampa di vecchio stile”. (7)
In questo contesto si sviluppa la “rivolta tibetana” del 1959.
E’ ancora il funzionario della CIA, Knaus, a raccontare i fatti: la rivolta
faceva seguito ad un tentativo fallito da parte dei servizi segreti americani
di provocare disordini in Cina a partire dalle Filippine; come disse un
esponente della CIA, lo scatenamento della
rivolta aveva “poco a che fare con l’aiuto ai tibetani”, perché lo
scopo era quello di mettere in difficoltà i “comunisti cinesi”. Era la stessa
logica che i servizi segreti americani usavano in Indonesia per “aiutare i colonnelli ribelli indonesiani nel loro
sforzo di rovesciare Sukarno”, reo di essere troppo tollerante verso
i comunisti di quel paese. (8) Come è noto il colpo di Stato
verrà portato a termine grazie alla CIA nel 1965, col massacro di centinaia di
migliaia di comunisti o di elementi tolleranti verso i comunisti. Sarebbero
state meno feroci le forze finanziate e addestrate dalla CIA in Tibet se avesse
vinto il separatismo? (9)
Penso che sia interessante far sapere che fu un agente della CIA a organizzare
la fuga del Dalai Lama dal Tibet: questo agente visse più tardi nel Laos “in una casa decorata con una corona di orecchie
strappate dalle teste di comunisti morti”, come ci informa un
docente americano su una rivista USA. (10)
Dopo il fallimento in territorio cinese della rivolta tibetana, i servizi
segreti americani danno inizio ad una campagna mediatica in occidente.
Nonostante che il Dalai Lama fosse considerato allo stesso modo dei colonnelli
macellai indonesiani, come il capo della rivolta reazionaria anticomunista
filo-occidentale, ora viene santificato. Diventa il leader della non violenza.
Lo stesso buddismo tibetano diventa una dottrina e una tecnica spirituale
sublime. L’industria cinematografica americana si adopera per proporre
incessantemente questo falso mito.
Ma la storia ha dei precedenti. Quando agli inizi del Novecento gli inglesi e
la Russia si contendevano il Tibet, regione della Cina, correva voce che lo Zar
in persona si fosse convertito al buddismo. (11)
Oggi, invece, sono la CIA e Hollywood ad essere convertiti al buddismo. Una
conversione che ha del miracoloso se si pensa che l’Occidente ha sempre
disprezzato il buddismo tibetano come sinonimo di dispotismo orientale, con la
sua figura di Dio-Re. Basti ricordare il disprezzo dei padri della cultura
occidentale come Rousseau, Herder e Hegel. Fino ai primi anni del 1900 i lama sono considerati una “incarnazione di tutti i
vizi e di tutte le corruzioni, non già dei lama defunti”. (12)
Quando la Gran Bretagna si accinse poi alla conquista del Tibet lo fece in nome
della civiltà contro “quest’ultima roccaforte
dell’oscurantismo”, per civilizzare “questo piccolo popolo
miserabile”. (13)
Oggi la propaganda americana cerca di rimuovere l’infamia della teocrazia
tibetana. Come illustra lo stesso storico Morris, quello che era in carica agli
inizi del ‘900 “era uno dei pochi Dalai Lama
ad aver raggiunto la maggiore età, dato che la maggior parte di loro veniva
eliminata durante la fanciullezza a seconda della convenienza del Consiglio di
Reggenza”. (14)
Stando a quanto affermano Hollywood e la CIA, il buddismo tibetano è divenuto
sinonimo di pace e tolleranza, oltre che di elevata spiritualità. Seguendo
l’ideologia imperialistica anticomunista occidentale, “i tibetani sono dei superuomini e i cinesi dei
subumani”. (15)
La teocrazia oscurantista tibetana è santificata dai media commerciali
americani al servizio degli strateghi militari. La struttura castale si
manifesta anche dopo la morte: il corpo di un aristocratico viene cremato o
inumato, mentre i corpi della massa vengono dati in pasto agli avvoltoi. Poco
tempo fa era l’“International Herald Tribune” che descriveva come durante i
funerali di plebei fosse il sacerdote che staccava pezzo per pezzo la carne
dalle ossa per facilitare il compito degli avvoltoi.
La descrizione era minuziosa e seguita da uno studioso che spiegava il tutto in
chiave “ecologica”. (16) Lo studioso non chiariva però
perché all’equilibrio ecologico doveva contribuire solo il corpo dei plebei.
Vorrei chiarire la mia posizione: io non condanno queste pratiche disumane
perché potrei rimanere vittima della mia cultura italiana; dovrei essere un
tibetano per condannarle; ad ognuno la sua cultura. Io condanno il fatto che
gli occidentali imperialisti appoggino pratiche così disumane per noi,
sostengano movimenti sanguinari come il buddismo tibetano e siano pronti ad
inventarsi ogni peggiore frottola (molto meno disumana) su falsi crimini di
Cuba, di Saddam, di Pechino e di tutti gli avversari, salvo santificare la
reazione più assoluta.
La Rivoluzione Culturale maoista si era scagliata contro la pratica castale,
discriminatrice e violenta. Nel Tibet precedente alla Rivoluzione la teocrazia
riduceva in schiavitù o servaggio la stragrande maggioranza della popolazione.
Come scrisse uno scrittore radicalmente anticomunista, le riforme realizzate dal 1951 hanno “abolito feudalesimo e servaggio”.
(17) La Rivoluzione abolì anche la teocrazia incarnata nel
Dio-Re che pretendeva e pretende ancor oggi di essere il Dalai Lama. Fu attuata
la separazione tra potere religioso e potere civile.
La Rivoluzione ha significato per i tibetani l’accesso a diritti umani prima
del tutto sconosciuti, un miglioramento del tenore di vita e un sensibile
prolungamento della vita media. E ciò è malgrado i media universalmente
riconosciuto da tutti gli esperti analisti della regione.
La Cina di oggi garantisce alla Regione Autonoma Tibetana libertà che non ha
mai conosciuto in tutta la sua storia passata e recente. La regione tibetana,
oltre ad avere il bilinguismo con prima
lingua il tibetano, vede garantiti altri diritti nazionali quali la preferenza a favore dei tibetani e delle altre
minoranze nazionali per quanto riguarda l’ammissione all’università, la
carriera pubblica, ecc. (18)
Il santificato Dalai Lama viene insignito del Premio Nobel. Ma cosa chiede
questo personaggio che si proclama Dio-Re? “Esige
la creazione di un Grande Tibet, il quale includerebbe non solo il territorio
che ha costituito il Tibet politico in età contemporanea, ma anche aree
tibetane nella Cina occidentale, in larghissima parte perse dal Tibet già nel
diciottesimo secolo”. (19) E poi esistono
tibetani in Bhutan, Nepal, India. Tutti i loro territori dovrebbero far parte
del Grande Tibet. Si tratta della pretesta di Hitler di riunificate nello lo
stesso Stato tutti i territori che erano abitati da maggioranza tedesca. Il
principio “nazionale” del Dalai Lama è quello di Hitler, con la sola differenza
che del nazional-socialismo il Dalai Lama non ha neppure un briciolo di
“socialismo”. E’ solo puro nazionalismo esasperato ai massimi livelli.
Ora, questa santità, Premio Nobel per la Pace, odia profondamente gli uomini
che hanno la pelle gialla e parlano il cinese. Un odio viscerale, razzista,
tanto che, quando l’India procedette al riarmo nucleare, trovò il suo più fiero
sostenitore nel Premio Nobel, il Dalai Lama.
Ma, ci domandiamo, almeno il multimiliardario Dalai Lama rappresenta il popolo
tibetano? Risposta: nemmeno per sogno! E’ perfino il “Libro Nero del Comunismo”
a riconoscere che un’elementare analisi
storica “distrugge il mito unanimista alimentato dai partigiani del Dalai
Lama”. (20)
Alla liberazione pacifica del Tibet nel 1951, che portò alla caduta del regime
teocratico, vi fu una resistenza accanita dei gruppi più reazionari e delle
classi dei privilegiati, ma i comunisti poterono contare sull’appoggio della
stragrande maggioranza della popolazione civile. Gli autori più anticomunisti e
anticinesi del pianeta-Occidente si scagliano così contro la plebe tibetana,
colpevole di “essersi collegata subito col regime comunista”; anche i monaci
sono dei farabutti che “non esitano ad
augurarsi che ‘presto sia liberato’ il Tibet” e che commettono il
crimine di fraternizzare con i comunisti e l’esercito Popolare di Liberazione.
Per questi autori è inconcepibile come il Dalai Lama sia disprezzato non solo
dalla maggior parte del popolo, ma anche da ampi settori religiosi tibetani.
Ancora nel 1992, nel corso di un suo viaggio a Londra il Dalai Lama è oggetto di manifestazioni ostili da parte
della più grande organizzazione buddista in Gran Bretagna, che lo accusa di
essere un “dittatore spietato” e un “oppressore della libertà religiosa”.
(21)
Oggi il Dalai Lama continua a sperare in una disintegrazione della Cina come è
avvenuto nella tragedia che ha caratterizzato l’URSS. (22)
Michele – Risiko
NOTE:
Le informazioni di questo articolo sono ricavate da Domenico Losurdo, “La
sinistra, la Cina e l’imperialismo”, ed. La città del Sole, Napoli.
La sua opera di informazione è indispensabile sull’argomento.
(1) Owen Lattimore, 1970, “La frontiera. Popoli e imperialismi
alla frontiera tra Cina e Russia”, Einaudi, Torino.
(2) Jacques Fernet, 1978, “Il mondo cinese. Dalle prime civiltà alla Repubblica
Popolare”, Einaudi, Torino.
(3) Jan Romein, 1969, “Il secolo dell’Asia. Imperialismo occidentale e
rivoluzione asiatica nel secolo XX”, Einaudi, Torino.
(4) Sun Yat-sen, 1976, “L’imperialismo dei bianchi e l’imperialismo dei
gialli”, in “I tre principi del popolo”, Einaudi, Torino.
(5) Herbert Aptheker, 1977, “America Foreign Policy and The Cold War”
(1962), Krauss Reprint Millwood, N.Y.
(6) Jhon Kenneth Knaus, 1999, “Orphans of the Cold War. American and the
Tibetan Struggle for Survival”, PublicAffairs, N.Y.
(7) Come sopra.
(8) Come sopra.
(9) Domenico Losurdo, 1999, “La sinistra, la Cina e l’imperialismo”, La città
del Sole, Napoli.
(10) Daniel Wikler, 1999, “The Dalai Lama and the
CIA”, in “The New York Review of Books”, 23 settembre.
(11) James Morris, 1992, “Pax Britannica”, The Folio Society, London.
(12) Donald S. Lopez Jr., 1998, “Prisoners of Shangri – La. Tibetan Buddhism
and the West”, University of Chicago Press, Chicago and London.
(13) Vedi nota 11.
(14) Come sopra.
(15) Vedi nota 12.
(16) Seth Faison, 1999, “In Tibean ‘Sky Burials’, Vultures Dispose of the
Dead”, in “International Herald Tribune, 6 luglio.
(17) Melvyn C. Goldstein, 1998, “The Dalai Lama’s Dilemma”, il “foreign
Affairs”, gennaio-febbraio.
(18) Seth Faison, 1999, “for Tibetans in Sichuan, Life in the Shadow of
Intollerance”, in “International Herald Tribune”, 1 settembre.
(19) Vedi nota 17.
(20) Courtois et al., 1998, « Il Libro Nero del Comunismo »,
Mondaori, Milano.
(21) Vedi nota 12.
(22) Vedi nota 17.