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- popoli resistenti - cina - 22-03-08 - n. 220
Cina: alla ricerca di nuovi diritti per il lavoro
Dal 1 gennaio 2008 è entrata in vigore la nuova Legge sul Lavoro, che nel 2010 coinvolgerà qualcosa come 797 milioni di lavoratrici e lavoratori: un passo decisivo verso lo “sviluppo armonico”.
Marcello Graziosi per L'Ernesto e Resistenze.org
L’entrata in vigore dal 1 gennaio 2008 di una nuova legislazione sul lavoro in Cina segna senza alcun dubbio un passaggio fondamentale sotto diversi aspetti, di merito come di metodo. Questa legge è stata approvata nel giugno 2007 dal Comitato Centrale del partito e dal Parlamento al termine di un iter lungo, a volte tormentato, ma certamente inusuale e interessante. Nel 2005 l’Ufficio Legislativo del Parlamento ha elaborato una prima bozza, che è stata oggetto di discussione e revisione dentro e fuori il partito e le istituzioni, coinvolgendo i “gruppi di pressione” informali degli imprenditori cinesi e stranieri, ma anche sindacati, rappresentanti dei lavoratori e cittadini. Sono state oltre 191.000 le opinioni raccolte sulla prima bozza e, dato senza alcun dubbio emblematico sul piano politico, la maggioranza dei cittadini intervistati ha espresso la volontà di modificare il testo “da sinistra”, vale a dire nel senso di potenziare ulteriormente i diritti e la qualità del lavoro, tanto da suscitare la preoccupazione delle imprese. Questo dato parla anche, ovviamente, ai vertici del partito e dello stato, a maggior ragione dopo la conclusione dei lavori del 17° Congresso del PCC e l’introduzione del concetto di “sviluppo armonico”, principio assai più profondo rispetto a “sostenibile”, ripreso dal sistema filosofico confuciano ma in grado di trovare grandi consensi nell’attuale fase della transizione cinese, dove convivono elementi di mercato e di economia capitalistica con elementi di socialismo e con un’economia statale e pubblica profondamente rinnovata rispetto al periodo maoista.
L’argomento di questo contributo – va detto con chiarezza – non riguarda la transizione cinese nel suo complesso, le sue potenzialità e le sue contraddizioni ormai strutturali, quanto piuttosto un tentativo di indagine sulle relazioni tra lavoro e prospettiva socialista nell’esperienza rivoluzionaria cinese a partire dal 1949. La metafora che di solito viene utilizzata per descrivere l’evoluzione dal periodo maoista alla lunga e non ancora conclusa fase delle riforme – che ha reso la società cinese, e con essa milioni di lavoratrici e lavoratori, non solamente più complessa e per tanti versi più ricca, ma anche meno tutelata – è quella delle “ciotole”: ciotola di ferro, vale a dire garantita, collettiva e sufficiente, fino al 1978; di argilla, più piccola, individuale e vuota nella fase successiva, dove ciascun individuo è responsabile di sé stesso, pur in presenza di uno stato in grado di intervenire nella direzione complessiva del sistema economico e di un settore pubblico ancora nelle condizioni di produrre tanta parte della ricchezza nazionale.
In questo contesto si inserisce la nuova legge sul lavoro, che ha l’obiettivo dichiarato di costruire un sistema collettivo di diritti e tutele del lavoro, in grado di coinvolgere tutti i settori dell’economia, incluse le imprese private e quell’economia “ombra” o “informale” che è si è sviluppata insieme alle riforme, migliorando il precedente testo del 1994 e portando un contributo certamente non secondario al principio di “sviluppo armonico”.
E’ del tutto evidente che questa legge segna un punto di mediazione tra le esigenze del lavoro e del sistema delle imprese considerato nella sua globalità, dal settore statale a quello pubblico, dalle aziende private a quelle straniere. La mediazione è avvenuta però su un terreno avanzato: “In tal senso – secondo l’opinione di Amedeo Tea, consulente del lavoro che ha curato la pubblicazione della legge per la Rivista della Scuola Superiore dell’Economia e delle Finanze - l’innovazione della normativa sul lavoro introdotta in Cina dovrebbe realizzare alcuni importanti obiettivi quali: la protezione dell’occupazione; la promozione dell’occupazione; la maggiore regolamentazione e stabilizzazione del lavoro; il ruolo dell’arbitrato e della conciliazione delle controversie; le retribuzioni eque e la garanzia del posto di lavoro nel lungo periodo; la maggiore trasparenza nella risoluzione delle controversie del lavoro; la maggiore protezione dei segreti commerciali”. Con le seguenti conseguenze: “sensibile incremento del costo del lavoro”; “un aumento dei salari”; “un miglioramento della produttività”; “aumento del potere sindacale”; “perdita dell’autonomia da parte del managemenet delle aziende”; “meno flessibilità del sistema produttivo”; “riduzione degli investimenti stranieri in Cina”[i].
Questo, mentre l’Unione Europea e diversi dei suoi stati membri - spazzati da oltre un ventennio di politiche neoliberali più o meno temperate e con un mercato del lavoro ormai solo in parte meno disarticolato rispetto a quello cinese – continuano invece a ragionare su come incrementare il livello di flessibilità e precarietà del lavoro, sfruttando la presenza di un esercito di manodopera a basso costo proveniente dai territori o dai paesi più poveri per abbattere il livello dei diritti, delle tutele e dei salari nei paesi a capitalismo avanzato, fomentando la guerra tra poveri e frammentando la classe lavoratrice. E’ evidente, e forse anche del tutto naturale, che ad ispirare la legge cinese siano state le esperienze più avanzate sperimentate in Europa nel secondo dopoguerra, ma se i processi in atto non dovessero subire decise inversioni di tendenza, tra non molti anni potrebbe essere l’Europa a dover guardare la Cina in tema di diritti del lavoro. Ultimo, non trascurabile, dato: la nuova legge interesserà qualcosa come 797 milioni di persone nel 2010, numero che si commenta da solo e da solo potrebbe chiarire l’entità della sfida che ha di fronte la Cina nei prossimi anni.
Dall’armistizio con il capitale alla “Rivoluzione Culturale”
“Oltre ad abolire i privilegi dell’imperialismo in Cina, la rivoluzione di nuova democrazia ha il compito, all’interno, di porre fine allo sfruttamento e all’oppressione esercitati dalla classe dei proprietari terrieri e dalla classe del capitalismo burocratico (la grande borghesia), di abolire i rapporti di produzione di tipo comprador e feudale e di liberare completamente le forze produttive incatenate. La piccola borghesia dello strato superiore e la media borghesia, oppresse e danneggiate dalla classe dei proprietari terrieri e dalla grande borghesia e dal loro potere di Stato, possono partecipare alla rivoluzione di nuova democrazia o restare neutrali, pur appartenendo anch’esse a classi borghesi. (…). Data l’arretratezza economica della Cina, anche dopo la vittoria della rivoluzione in tutto il paese sarà ancora necessario consentire per un lungo periodo l’esistenza di un settore capitalista dell’economia (…). Conformemente alla divisione del lavoro nell’economia nazionale, sarà ancora necessario consentire un certo sviluppo di tutti gli elementi di questo settore capitalista utili all’economia nazionale. Questo settore capitalista sarà ancora un elemento indispensabile all’economia nazionale presa nel suo complesso”[ii].
Quando i comunisti hanno conquistato il potere, la Cina contava 182 milioni di lavoratori rurali e solamente 15 milioni di operai dell’industria, quasi del tutto privi di organizzazione sindacale. Nel 1952, dato 100 il totale del reddito nazionale, le imprese statali partecipavano per il 19,1%, le imprese pubbliche per l’1,5%, le miste per un modesto 0,7%, le industrie capitaliste per il 6,9% e quelle private per ben il 71,8%[iii]. Da qui la necessità di una sorta di armistizio con il capitale e l’industria privata, protrattosi fino alla fine del 1955, utile per organizzare una prima base economica socialista e tentare di migliore l’efficienza del sistema produttivo nel suo complesso.
La situazione era, insomma, sul piano dello sviluppo delle forze produttive e dell’accumulazione di capitale, assai peggiore di quanto non fosse nella Russia del 1917, che pure era il paese più arretrato dell’Europa di allora. Se il contesto generale – interno come internazionale, dalla guerra civile al fallimento della rivoluzione in Occidente - ha condizionato non poco la successiva evoluzione dell’intera esperienza sovietica, pur senza nulla togliere alle scelte soggettive, un ragionamento non molto diverso vale anche per la Cina: un paese sterminato e arretrato, dominato da logiche feudali e letteralmente in ginocchio dopo la dura realtà del colonialismo britannico, della guerra civile e dell’occupazione giapponese. Se a Pietrogrado il processo rivoluzionario aveva visto in prima fila gli operai dell’industria, estendendosi alle masse sterminate e diseredate dei contadini poveri e dei soldati, in Cina i comunisti hanno costruito la propria vittoria nelle campagne, dopo oltre un ventennio di lotta, mobilitando i contadini e portando a termine in tempi rapidi la riforma agraria nelle zone liberate. Questo ha consentito loro di maturare una propria esperienza peculiare, autonoma, che sarebbe stata estesa a tutto il paese negli anni successivi al 1949, come durante l’intero periodo delle riforme. Per quanto concerne il modello di sviluppo industriale, invece, concentrato nei grandi e medi centri urbani, il riferimento per il PCC non poteva che essere quello staliniano, che aveva consentito all’URSS non solo di sopravvivere, ma di raggiungere una crescita economica straordinaria in condizioni quasi proibitive, pur pagando un prezzo altissimo in termini di sfruttamento del lavoro e di tenuta complessiva del sistema: sviluppo estensivo e ipertrofico dell’industria pesante rispetto a quella leggera e ai servizi; utilizzo non sempre ottimale dei surplus provenienti dall’agricoltura; scarsa produttività e qualità dei prodotti; usura dei mezzi di produzione; ideologizzazione del lavoro e mobilitazione permanente. Contraddizioni, queste, che sarebbero emerse anche in Cina dopo il fallimento del “grande balzo in avanti” (1958-1960) e, soprattutto, dopo la Rivoluzione Culturale (1966-1976), rendendo di fatto inevitabile la svolta del 1978.
Ai fini di questo lavoro, gli anni che vanno dal 1949 al 1955, di convivenza tra il capitale e il lavoro, rivestono una grande importanza, dal momento che essi saranno il punto di riferimento per l’inizio delle riforme dopo la morte di Mao. Nel 1950, grazie soprattutto al Ministro del Lavoro Li Lisan e a Chen Yun[iv], è stata adottata la prima Legge sui Sindacati e si è costituita la Federazione Nazionale dei Sindacati, diretta dallo stesso Li, nel tentativo di favorire una gestione “concertata” delle fabbriche, pur se in un contesto di democratizzazione dell’intero sistema. Sono sorti a tal fine “comitati capitale-lavoro”, che poi si sono trasformati in veri e propri “comitati di gestione”, formati da rappresentanti della proprietà, della dirigenza e dei lavoratori, mentre i singoli “consigli operai” avevano una funzione consultiva[v]. Tentativo solo in parte riuscito, dal momento che i lavoratori reclamavano maggiori diritti nella gestione dei processi produttivi e incentivi salariali di fronte all’aumento dei ritmi di lavoro e della produttività. Lo scontro ha raggiunto un tale livello di intensità che lo stesso Li, accusato di anteporre gli interessi materiali (economici soprattutto) immediati dei lavoratori alla prospettiva del socialismo, è stato rimosso dalla guida dell’organizzazione sindacale, pur mantenendo l’incarico di Ministro del Lavoro. Questo conflitto, aperto e senza esclusione di colpi, richiama un nodo fondamentale delle transizioni al socialismo dello scorso secolo, vale a dire il rapporto tra liberazione del lavoro, sviluppo dei fattori produttivi e costruzione della prospettiva socialista. “Il sindacato – nota giustamente Tomba, ma questo vale non solamente in Cina -, fin dai primi mesi della sua esistenza, dovette fare i conti con la stessa contraddizione che poi avrebbe dovuto affrontare negli anni ’80, vale a dire con la necessità di rappresentare gli interessi dei lavoratori senza minare quelli – strategici per il paese – del capitale, nel tentativo di conciliare ciò che spesso era inconciliabile e di obbedire tanto alle direttive del partito quanto alle pressioni dei lavoratori”[vi].
Il quadro di convivenza capitale - lavoro avrebbe subito una drastica modifica con l’accelerazione delle nazionalizzazioni a partire dall’ottobre del 1955, con il successivo “grande balzo in avanti” e, dopo una breve parentesi a cavallo dei primi anni ’60 – nel contesto della drammatica rottura con l’URSS -, con l’affermarsi della “rivoluzione culturale”.
Il paradosso è che in tutti questi anni straordinari e drammatici la vita nelle città e nelle fabbriche ruotava intorno a un’istituzione ideata da Li e da Chen nel corso della loro esperienza a Shanghai nel 1925, vale a dire la danwei, o “unità di lavoro”, mentre nelle campagne si affermavano le “comuni agricole” o “popolari”, che riprendevano quella che era un’organizzazione millenaria e consolidata del territorio cinese, pur se in chiave rivoluzionaria.
Le danwei erano unità chiuse, direttamente finanziate dal centro, con le funzioni non solo di organizzare e fornire il lavoro all’interno del proprio ambito, ma anche di gestire le retribuzioni, razionalizzare il sistema dei consumi e soddisfare ogni esigenza dei propri lavoratori e delle rispettive famiglie (accesso ai servizi, ai beni di consumo disponibili, alla casa). La danwei era una sorta di microcosmo sociale autonomo (xiao shehui, piccola società), unico referente amministrativo per le famiglie che la componevano (tenuta dei registri anagrafici e del documento di registrazione familiare, o hukou). Il livello dei salari era tenuto volutamente basso e fortemente egualitario (“sistema dei salari bassi e razionali”), senza alcuna forma di incentivo o premio di produzione (con una sola, breve parentesi nel 1956), mentre l’accesso riservato ai servizi – pressoché inesistenti in quella forma nelle campagne – costituiva una sorta di salario aggiuntivo, di “privilegio” per la classe operaia in formazione. Il surplus così prodotto veniva direttamente reinvestito nell’industria pesante o in infrastrutture.
Questo sistema ha rischiato il tracollo dopo il fallimento del “grande balzo in avanti”, quando la crisi alimentare nelle campagne ha determinato un vasto movimento migratorio verso le città. La risposta del partito è stata articolata e, tutto sommato, abbastanza efficace, costringendo Mao sulla difensiva: rallentamento dei ritmi di produzione e impostazione più equilibrata del piano, maggiore respiro alle campagne e alle “comuni popolari”, blocco della mobilità all’interno del paese attraverso un irrigidimento del “sistema di registrazione familiare” (hukou, rurale o urbano, “agricolo” o “non agricolo”). Tanto che il processo di urbanizzazione dei contadini non solamente si è arrestato, ma negli anni della rivoluzione culturale si è addirittura invertita la tendenza, con migliaia di giovani inviati nelle campagne per il lavoro volontario.
I primi anni della “rivoluzione culturale”, un impetuoso movimento dal basso critico rispetto alla linea seguita dal partito nei primi anni ‘60, sono stati segnati dalle proteste di coloro che potrebbero essere considerati i “precari” di allora, assunti con la ristrutturazione del 1956, che chiedevano i medesimi diritti dei loro colleghi a tempo indeterminato e protetti dalle danwei. Segno evidente che il sistema era assai meno statico e bloccato di quanto non apparisse in realtà. In questo contesto, il sindacato non solamente si è trovato completamente spiazzato, ma è divenuto bersaglio delle critiche da parte di settori consistenti del mondo del lavoro, a partire da quelli meno tutelati, subendo una sconfitta drammatica, dalla quale si sarebbe risollevato solamente diversi anni dopo e con grande fatica. Con le nuove direttive del 1967, però, il partito ha ripreso il controllo della situazione, inviando l’esercito e le “guardie rosse” in diverse fabbriche.
Le riforme economiche: il lavoro e una nuova fase della transizione al socialismo
Il periodo riformatore può essere suddiviso in tre fasi, sulla scorta anche di quanto osservato da Tomba. La prima, guidata da Deng Xiaoping dopo un duro scontro interno al partito e da quella parte del gruppo dirigente messo ai margini durante la rivoluzione culturale, è partita dalle campagne, ma ha trovato nelle città una propria dimensione strategica, con un rilancio dell’industria leggera, che avrebbe garantito nel periodo successivo livelli occupazionali e di redditività assai più alti rispetto a quella pesante. Gli anni che vanno dal 1980 al 1985, grazie all’introduzione di uno strumento come i contratti familiari, hanno segnato un momento di grande sviluppo per le campagne, con il surplus individuale investito nella creazione di un sistema diffuso di industrie rurali, tanto da invertire la tendenza nella forbice dei redditi rispetto alle città. Le misure introdotte sul piano salariale e dell’organizzazione del lavoro richiamavano non solamente la precedente esperienza dei primi anni ’50, ma anche quello che era il dibattito sulla modernizzazione – e sul rapporto tra stato, economia pianificata e logiche di mercato – che, iniziato dopo la morte di Stalin, stava attraversando l’esperienza sovietica. In un contesto fortemente critico rispetto all’esperienza della rivoluzione culturale, veniva gradualmente introdotto un sistema salariale basato sul concetto di “distribuzione secondo il lavoro”, con incentivi legati alla produttività e una sorta di “cottimo” per la parte di produzione eccedente quella fissata, con una forbice di massimo il 20% tra i livelli salariali nella stessa azienda. Il risultato si è rivelato solo parzialmente positivo: le imprese avevano utilizzato spesso gli incentivi “a pioggia”, senza prestare la dovuta attenzione alla qualità della produzione, mentre il costo del lavoro e i salari erano aumentati assai più della produttività. Era il momento di approfondire la riforma delle aziende di stato, con l’obiettivo di renderle autonome e in grado di ottenere “profitti”, potenziandone gli elementi di concorrenza e di competitività tanto rispetto al settore pubblico, quanto a quello privato in via di consolidamento. Nel novembre 1981 è stato introdotto il “sistema di responsabilità economica” (maggiore responsabilità dei dirigenti sui risultati dell’azienda, utilizzo del 5% del surplus aziendale per le parti flessibili del salario), nel 1982 e 1983 il sistema dei “salari mobili” (schemi di salario fissi determinati dall’azienda, parti aggiuntive legate all’andamento complessivo dell’impresa), nel 1984 il “sistema di responsabilità del direttore”, passaggio, quest’ultimo, che ha segnato un evidente peggioramento delle condizioni di lavoro, con pressioni diffuse da parte dei vertici delle imprese pubbliche (per non parlare dei privati e delle imprese straniere) sui lavoratori, favorite dalla debolezza del movimento sindacale.
La seconda fase della riforma - “economia pianificata di mercato” - ha inizio nel 1984, quando lo stato ha cominciato a limitarsi alla semplice supervisione sulla circolazione della manodopera e la ridistribuzione dei redditi, mentre nel partito si apriva un dibattito ideologico di grande portata, che andrebbe approfondito: come considerare il lavoro in questo nuovo contesto? La forza lavoro può essere acquistata e venduta al pari degli altri fattori produttivi, tramutandosi di fatto in merce? I nuovi embrioni di mercato del lavoro – concetto questo per certi versi opposto rispetto alla logica di assegnazione diretta della manodopera che aveva caratterizzato il periodo maoista -, in un primo tempo limitati a tecnici e operai specializzati, sono stati inseriti in una sorta di “mercato pianificato”, vale a dire all’interno di un meccanismo “razionale” che avrebbe dovuto sfuggire almeno in parte alle normali logiche di mercato e comunque soggetto a possibili interventi regolatori statali. “Il dibattito – ha giustamente osservato Tomba – si muove dunque tra un mercato lasciato libero di agire sulla mobilità e sulla retribuzione del lavoro e un mercato regolato e attento ai limiti posti al suo sviluppo dagli interessi generali della società. (…) il mercato continuava ad essere visto come un utile, ma problematico, strumento per migliorare la gestione del lavoro”[vii]. Un mercato del lavoro che si consolida e si diversifica, dunque, ma uno stato che non arretra.
Una mediazione difficile, questa, anche all’interno dello stesso schieramento riformatore, una sintesi avanzata tra coloro che evidenziavano i rischi sul terreno sociale come strategico nel caso di ulteriore accelerazione dell’intero processo e coloro che, al contrario, spingevano per introdurre ulteriori elementi legati alle logiche di mercato. Il cuore della seconda fase della riforma è costituito dall’introduzione della contrattazione, in un primo momento limitata al solo settore statale, a partire dal 1 ottobre 1986. Le clausole del contratto avrebbero dovuto essere discusse soprattutto a livello aziendale, ma la contrattualizzazione, pur essendo vantaggiosa per le imprese rispetto alle danwei, si sarebbe rivelata difficile da realizzare in un settore con una quantità di manodopera in eccesso stimata nel 1987 tra i 15 e 20 milioni di lavoratori[viii]. Solamente nel 1992 il numero di contratti stipulati è stato superiore al numero dei nuovi assunti, segnando un saldo positivo nell’intero processo, ufficialmente terminato nel 1999. I contratti prevedevano una sorta di diritto alla compensazione monetaria per un minore accesso ai benefici e allo stato sociale rispetto ai lavoratori inquadrati nelle danwei, quantificabile però in un 15% rispetto al salario base, con la possibilità di usufruire di parti flessibili del salario, oltre ad un fondo di disoccupazione e pensionistico costituito con la partecipazione delle imprese.
E’ del tutto evidente come l’insieme di queste riforme abbia reso dinamico l’intero sistema economico e la stessa società cinese, rendendola articolata e sempre più complessa, ma come abbia anche aperto profonde contraddizioni e reso più evanescenti le tutele per milioni di lavoratori, che dalla metà degli anni ’80 hanno trovato lavoro nei grandi centri urbani grazie alla crescita esponenziale di alcuni settori produttivi, tra i quali il tessile e le costruzioni. Tra il 1977 e il 1988, 134 milioni di contadini hanno lasciato i campi, e solo il 21% ha trovato lavoro nelle aziende di stato, mentre il 90% ha mantenuto una condizione di lavoratore temporaneo o stagionale. Dei 409 milioni di lavoratori registrati “rurali” nel 1989, 60 milioni erano impiegati in attività non agricole (32 milioni nell’industria e 15 nelle costruzioni). Sono stati questi settori, i meno tutelati della società cinese, a dare vita al movimento di protesta della primavera 1989 - in parte strumentalizzato da coloro che, all’interno del partito, erano favorevoli alla liquidazione dell’esperienza socialista e ad una rapida transizione verso il capitalismo -, scavalcando di nuovo il sindacato ufficiale, che pure aveva cominciato con fatica a riorganizzarsi, anche di fronte alle urgenze poste dal nuovo contesto. La terza fase del processo riformatore è iniziata con il XIV Congresso del PCC del 1992, con il passaggio alla guida del partito e dello stato di Jiang Zemin e con l’elaborazione del concetto di “economia socialista di mercato” (o “socialismo con caratteristiche cinesi”). “Il sistema socialista d’economia di mercato che noi vogliamo creare – ha puntualizzato Jiang nella relazione al Congresso – si propone di far giocare al mercato, sotto il controllo macroeconomico dello stato socialista, un ruolo fondamentale nella ripartizione delle risorse, in modo che le attività economiche corrispondano alle esigenze della legge del valore e si adattino alle fluttuazioni dell’offerta e della domanda. (…). Detto questo, dobbiamo prendere coscienza del fatto che il mercato ha i suoi aspetti positivi e negativi, e rafforzare e perfezionare conseguentemente il macro-controllo che lo stato deve esercitare sull’economia”.[ix]
E’ in questa fase che, nonostante un deciso tentativo di stabilizzazione e di intervento statale, si sono approfondite alcune dinamiche innescate dalle scelte compiute in precedenza e le contraddizioni hanno assunto carattere strutturale, a partire dal mercato del lavoro. Dal 1983 esistevano in Cina agenzie (o aziende) che si occupavano di incrociare domanda e offerta di manodopera, originariamente limitate alle fasce alte del mercato del lavoro (“centri per la mobilità dei talenti”) e successivamente estese ai lavoratori privi di specializzazione (“uffici del lavoro”), molte delle quali gestite da grandi aziende o da organizzazioni di massa quali i sindacati e le associazioni di donne, con un coordinamento centrale presso il Ministero per il Personale. Questo elemento, unito ad una crescita economica vorticosa e in alcuni casi difficilmente controllabile, ha favorito l’emergere di settori “informali”, con le fasce meno tutelate della classe lavoratrice sfruttate nei cantieri o nelle aziende private e straniere. Dalla fine degli anni ’80 esiste in Cina una “popolazione fluttuante” (liudong renkou), stimata allora tra l’11 e il 27% della popolazione rurale, che ha abbandonato più o meno temporaneamente le campagne senza mai ottenere un cambio del proprio registro familiare (chi, invece, ha ottenuto tale cambiamento di registrazione anagrafica è divenuto “emigrante”, qianyi). Non sempre tale migrazione è stata “disordinata” o “disperata”, spesso ha mantenuto un forte legame con il territorio di origine, ma le condizioni di lavoro e di reddito sono state e sono assai pesanti[x]. Nonostante gli sforzi profusi – approvazione nel 1992 di una Legge sulla rappresentanza sindacale e nel 1994 di una nuova legislazione sul lavoro – la situazione è rimasta assai problematica, anche se, al contrario di quanto avviene negli Stati Uniti e negli altri paesi occidentali, dove pure esistono sacche di economia e lavoro “informali” e una grande quantità di manodopera di riserva, lo stato ha tentato almeno in parte di giocare un ruolo attivo e positivo: “il ruolo dello stato, pur nelle trasformazioni che ne hanno indebolito la capacità di intervento non è, peraltro, affatto tramontato, ma ha assunto forme e modalità differenti”[xi].
Nuova legge e ricerca di diritti universali
Da qui la necessità di una nuova legge, al centro della quale – “per proteggere i legittimi diritti e interessi dei lavoratori, e per costruire e sviluppare rapporti di lavoro duraturi e armoniosi” (Articolo 1) – vi è il sistema contrattuale, che vincola al rispetto entrambe le parti contraenti e si basa sui principi di “legalità, equità, uguaglianza, libera volontà, mutuo consenso e buona fede” (Articolo 2). La legge riconosce, tra le disposizioni generali, una sorta di “meccanismo tripartito” – autorità amministrative e di governo ai diversi livelli, rappresentanze delle imprese e sindacati – per il coordinamento delle relazioni di lavoro, vanificando ogni arbitrio da parte dei datori di lavoro nella redazione di norme e regolamenti interni alle singole aziende, mentre affida al sindacato – passaggio questo centrale e destinato a modificare in profondità il “sistema lavoro” (laodong xitong) – il dovere di “istituire un meccanismo di contrattazione collettiva con il datore di lavoro al fine di tutelare i diritti dei lavoratori” (Articolo 6).
I contratti possono essere a tempo indeterminato, determinato o a progetto. In caso di rinnovi di contratti già in essere, l’articolo 14 individua una serie di ipotesi – a tutela dei lavoratori più anziani – che obbligano il datore di lavoro alla stabilizzazione del lavoratore, tra le quali il terzo rinnovo consecutivo di un contratto a tempo determinato. Riguardo al periodo di prova, proporzionale alla durata del contratto, la legge fissa un livello retributivo minimo legato all’azienda e al territorio, mentre per quanto concerne la formazione professionale, il datore di lavoro può richiedere al lavoratore una durata minima del contratto ma, nel caso il lavoratore decida di interrompere il rapporto di lavoro prima della scadenza, “l’ammontare del risarcimento non può superare la porzione del costo di formazione corrispondente al periodo di prova non eseguito” (Articolo 22).
Di particolare interesse è anche la parte relativa alla possibilità, per i vertici o i tecnici di alto livello delle imprese, di inserire nel contratto vincoli – con durata non superiore a un biennio e con una chiara indicazione delle forme e dell’estensione territoriale - relativi alla riservatezza in materia di segreti commerciali, quantificabile in un apposito corrispettivo mensile e con l’impegno da parte del lavoratore (con relativo risarcimento danni se inadempiente) a non fare concorrenza al datore di lavoro.
“E’ vietato inserire clausole contrattuali che comportino una responsabilità per danni a carico del lavoratore” (Articolo 25). Il lavoro straordinario deve essere assolutamente volontario e retribuito, mentre in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro la legge sancisce il diritto del lavoratore a denunciare alle competenti autorità ogni violazione o situazione potenzialmente rischiosa e impedisce al datore di lavoro di recedere dal contratto nei casi di contrazione di malattie professionali o infortuni, principio che per le lavoratrici si allarga alle fasi di gravidanza, puerperio e allattamento (Articoli 32 e 42).
La legge individua poi una serie di situazioni che consentono al datore di lavoro di procedere alla rescissione dei contratti, dopo aver coinvolto il sindacato e le competenti autorità territoriali, ma “nella scelta dei lavoratori da non licenziare, i datori di lavoro devono considerare: a) lavoratori con contratto a tempo determinato dal termine lungo; b) lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato; c) lavoratori che siano la sola fonte di reddito della propria famiglia all’interno della quale siano presenti una persona anziana o un minore incapaci di provvedere a sé stessi” (Articolo 41). Se, entro sei mesi, il datore di lavoro procede a nuove assunzioni, ai lavoratori licenziati viene riconosciuto una sorta di diritto di prelazione.
In materia di contrattazione collettiva, al termine del confronto tra lavoratori e datori di lavoro, la bozza finale del contratto deve essere approvata dall’assemblea dei rappresentanti dei dipendenti o da parte di tutti i dipendenti – un esempio di democrazia diretta sempre meno applicato anche in Italia -, per poi essere sottoposta al vaglio dell’autorità amministrativa competente. Possono essere stipulati contratti collettivi “settoriali” o “territoriali” nei settori dell’edilizia, servizi di ristorazione ed estrazione mineraria pur se all’interno di aree con una dimensione infraprovinciale (Articoli 51 – 56).
La legge passa poi a disciplinare i contratti di lavoro tramite agenzia, che per poter svolgere regolarmente la propria funzione di incrocio tra domanda e offerta di lavoro deve possedere un capitale sociale di almeno 500.000 yuan. L’agenzia non può sottoscrivere con i lavoratori in missione contratti della durata inferiore a 2 anni ed è tenuta a riconoscere loro una remunerazione mensile anche nei periodi nei quali essi rimangono in attesa di assegnazione, salario che corrisponde alla retribuzione minima prevista nel territorio di riferimento. I contratti per la fornitura di manodopera devono essere trasparenti e noti al lavoratore: le condizioni sono quelle in vigore nel territorio dove ha sede l’impresa utilizzatrice, che ha una serie di oneri da rispettare, oltre a non poter inviare tali lavoratori in missione presso altre imprese. A tale proposito, la legge contiene un passaggio fondamentale, teso ad unire i lavoratori e limitare il più possibile i processi di frammentazione e “informalità”, assai più avanzato rispetto a tanti paesi europei: “I lavoratori in missione hanno il diritto di ricevere la stessa retribuzione dei dipendenti dell’impresa utilizzatrice per le mansioni equivalenti (…)” (articolo 63, corsivo mio).
Per quanto concerne il lavoro a tempo parziale, la retribuzione viene calcolata principalmente su base oraria, ma il dipendente non può lavorare più di 4 ore giornaliere e 24 settimanali per la medesima impresa. “La retribuzione oraria per il lavoro a tempo parziale non può essere inferiore alla retribuzione oraria minima prescritta dal governo popolare del territorio in cui ha sede l’impresa (…)” (Articolo 72).
L’ultima parte della legge disciplina le diverse autorità di controllo - amministrative, sanitarie, edilizie - a partire dalla consapevolezza che la differenza tra il successo e l’insuccesso dell’intero percorso si giocherà proprio sul terreno della corretta e articolata applicazione della nuova legge, estesa all’intero paese. L’aver predisposto un buon testo iniziale, per certi versi all’avanguardia soprattutto (ma non solo, ormai) rispetto a tanti altri paesi in via di prepotente sviluppo economico, non costituisce certamente un punto di partenza trascurabile e denota già di per sé la consapevolezza da parte del gruppo dirigente dell’importanza della posta in gioco.
[i] La Rivista è edita a cura del Centro Ricerche Documentazione Economica e Finanziaria (Ce.R.D.E.F.). La versione integrale della legge tradotta in italiano si trova sul sito http://rivista.ssef.it/site.php?page=20080115131826446
[ii] Mao Tse-Tung, La situazione attuale e i nostri compiti (25 dicembre 1947), in: Opere Complete, Edizione Rapporti Sociali, Milano 1992, volume 10, pp. 117-118. Lo stesso Mao sarebbe ritornato più volte e con forza sull’argomento nel corso dell’anno successivo.
[iii] G. Regis (a cura di), La Cina in cifre, Il Mercato Internazionale Editrice, Milano 1960, p. 47. Già nel 1955, anno precedente la nazionalizzazione dell’industria, dato 100 il totale del reddito nazionale, il settore pubblico contribuiva per oltre il 42% (28% statale e 14,1% pubblico), contro il 51,6% delle industrie private e il 3,6 di quelle capitalistiche.
[iv] Li Lisan, annoverabile tra i fondatori del PCC, ha preso parte alla rivolta di Nanchang nel 1927 dopo la rottura dell’alleanza con il Kuomintang, contribuendo alla formazione dell’esercito rosso e raggiungendo i vertici del partito grazie al sostegno del Segretario Xiang Zhongfa. Sostenitore di una linea tesa ad estendere le azioni militari alle maggiori città della Cina, Li è entrato in contrasto con settori consistenti del partito e con lo stesso Comintern. Dopo un periodo trascorso in URSS, Li è stato nominato nel CC del partito a partire dal 1946. Imprigionato nel corso della Rivoluzione Culturale, Li è morto suicida nel 1967.
La figura di Chen Yun (1905-1995) meriterebbe un lungo approfondimento, impossibile in questa sede. Quadro operaio, componente del CC dal 1931 al 1987, è considerato tra gli “otto immortali” nella storia del PCC, al quale si è unito a partire dal 1924. Responsabile del lavoro clandestino nelle aree controllate dal Kuomintang, ha preso parte alla prima fase della Lunga Marcia e dal novembre 1937 è divenuto Responsabile Organizzativo del partito. A partire dai primi anni ’50 Chen è divenuto Ministro dell’Industria Pesante e responsabile della Commissione Economia e Finanze, sostenendo la linea di compromesso con il capitale e criticando poi apertamente la politica di Mao nella fase del “Grande Balzo in avanti” (1958-1960). Rientrato in gioco nei primi anni ’60, è stato di nuovo messo ai margini durante la Rivoluzione Culturale. Tra gli ispiratori della politica di “riforme e apertura” di Deng, egli ne ha criticato l’evoluzione a partire dal 1984, in particolare nelle città, collocandosi nella sinistra dello schieramento riformatore e sostenendo la rimozione di Zhao dalla guida del PCC nel 1989 come la nomina di Jiang ai vertici del partito. La sua concezione del ruolo dirigente del partito ha ispirato senza dubbio la parte corrispondente della Teoria delle Tre Rappresentanze elaborata da quest’ultimo.
[v] Su tutti questi aspetti, il testo di riferimento è L. Tomba, Lavoro e società nella Cina popolare (con un saggio di Enrica Collotti Pischel), Franco Angeli, Milano 2001. Tale volume, che giunge a conclusioni a volte assai discutibili ma che si è rivelato importante anche ai fini di questo lavoro, costituisce uno dei pochi tentativi seri di ricostruire le politiche del lavoro nella Cina popolare e il dibattito intorno alle riforme, con una ricca bibliografia anche in lingua originale. Altri testi significativi per la parte precedente il 1978 sono M. Dinucci, Economia e organizzazione del lavoro in Cina, Gabriele Mazzotta Editore, Milano 1976; V. Marrama, A. Pera, P. Puccinelli, Rapporto economico sulla Cina. Prezzi e redditi, Boringhieri, Torino 1979; con un taglio maggiormente descrittivo E. Snow (lo stesso autore di quella straordinaria epopea che è Stella Rossa sulla Cina), L’altra riva del fiume. La Cina oggi, Einaudi, Torino 1966.
Sull’evoluzione più recente del sistema economico e sociale cinese vale la pena segnalare F. Lemoine, L’economia cinese, Il Mulino, Bologna 2005, che contiene diversi dati interessanti.
[vi] Tomba, op. cit., p. 53.
[vii] Tomba, op. cit. p. 99 e p. 100.
[ix] Jiang Zemin, Amplifier la réforme et l’ouverture sur l’extérieur et activer la modernisation en vue de plus grandes victories de la cause du socialisme a la chinoise. Rapporta u XIV congrès du Parti comuniste chinois, in “Beijing Information”, n. 43, 1992.
[x] Su questo, Tomba, op. cit., pp. 106-113, che riporta il caso degli “insediamenti etnici”, a partire dal villaggio di Zhejiang, nel cuore di Pechino, dove si concentra la “popolazione fluttuante” proveniente dall’area di Wenzhou, con forti legami culturali rispetto alla provincia di origine, occupata nei laboratori tessili che costituiscono la caratteristica saliente del quartiere.