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da Cristina Carpinelli – già su: Il Calendario del popolo, novembre 2008, n. 735.
 
La lunga marcia delle donne cinesi per la conquista dei loro diritti
 
di Cristina Carpinelli
 
Le donne portano sulle loro spalle la metà del cielo e devono conquistarsela
Mao Zedong
 
1) Dalla seconda metà dell’Ottocento agli anni della prima guerra mondiale
 
I primi passi d’emancipazione femminile in Cina sono connessi alle rivolte dei Taiping (1851-1864) contro l’impero Manchu e dei Boxer (1899-1901) contro i colonizzatori occidentali. I Taiping fondarono un proprio stato indipendente, “il Regno Celeste della Grande Pace”, con capitale l’antica città imperiale di Nanchino. Si caratterizzavano come una setta (la Società degli Adoratori di Dio), che aveva elaborato una dottrina religiosa cristiana, con forti elementi sincretistici. Predicava l’egualitarismo, il monoteismo e la volontà di risollevare il prestigio e la sovranità della Cina sconvolta dalle guerre dell’oppio. Il movimento dei Taiping si sviluppò soprattutto nello Guanxi, una provincia sud-occidentale poverissima, notevolmente esposta agli influssi dell’Occidente grazie al porto di Canton. Il fondatore del movimento, Hong Xiuquan, era entrato in contatto con i missionari cristiani, e sulla base di una visione mistico-religiosa aveva fondato la nuova dinastia del Taiping Tianguo, incentrata su un sistema di vita comune e di comunione di tutti beni. Dentro questo sistema i diritti delle donne erano stati valorizzati: esse potevano scegliere liberamente il proprio sposo, girare da sole per le strade, sostenere gli esami per diventare funzionari e svolgere gli stessi lavori degli uomini a parità di retribuzione. I Taiping abolirono il bendaggio dei piedi, il concubinaggio e la tratta delle donne. Permisero a quest’ultime di entrare nell’esercito per combattere le truppe imperiali e, quando il Regno dei Taiping crollò, alcune di loro preferirono morire in battaglia piuttosto che tornare alla precedente vita di schiavitù. La promulgazione della “Legge sulla Terra”, che espropriava i grandi proprietari terrieri e che ripartiva le terre per nucleo familiare, tenuto conto del numero dei membri che lo componevano (incluse le donne), nonché l’abolizione del commercio privato, contrastavano con gli interessi dei feudatari manchu e dell’autocrazia imperiale. Questi, sostenuti dalle potenze occidentali, preoccupate a loro volta per i danni che il disordine diffusosi in Cina aveva arrecato alle loro attività commerciali, attaccarono i Taiping, soffocando così nel sangue “il Celeste Impero”. Nonostante l’eroica lotta, gli “Adoratori di Dio” non vinsero i feudatari manchu e gli interventisti stranieri, ma scossero le basi del sistema feudale su un ampio territorio della Cina e rappresentarono un’importante tappa storica della lotta antifeudale, determinando inoltre tra le masse popolari il risveglio della coscienza nazionale che sfociò poi nella rivoluzione del 1911.
 
Similmente le donne parteciparono con grande determinazione alla rivolta dei Boxer contro gli stranieri accusati di depredare la Cina, a causa della corruzione e della debolezza del governo. Le donne dei Boxer erano organizzate in reparti militari femminili suddivisi per colore in base all’età e/o allo stato civile (lanterne rosse: donne giovani e nubili; lanterne bianche: donne sposate; lanterne verdi: vedove; lanterne nere: donne anziane), ciascuno dei quali con compiti diversi: spionaggio, sabotaggio, cura dei feriti. Nel giugno del 1900, gli Yihetuan (o Boxer) si unirono all’esercito imperiale, quando l’Imperatrice Cixi dichiarò guerra ai Giapponesi e agli altri Stati occidentali. Ma l’alleanza delle otto potenze straniere, che occupavano tredici delle diciotto regioni cinesi, sconfisse l’esercito imperiale, e le conseguenze della guerra furono per il paese il pagamento di una notevole indennità, la concessione agli stati stranieri del diritto di far risiedere proprie truppe in territorio cinese e la punizione dei principali esponenti dei Boxer.
 
All’inizio del XX secolo si era ormai compiuto il processo di trasformazione della Cina in semi-colonia delle potenze imperialiste. Malgrado ciò, la progressiva e forzata apertura dell’Impero cinese verso l’Occidente, favorì il varo di alcune riforme politiche e sociali. Quella riguardante il sistema educativo ebbe un ruolo fondamentale nel percorso d’emancipazione femminile. Dal 1905 nel paese erano sorte numerose scuole straniere gestite da missionari, gradualmente aperte anche alle donne cinesi, per lo più ragazze appartenenti a ricche famiglie. La scuola fu per loro il campo di battaglia della rivolta femminile contro la tradizione confuciana. Questo primo movimento femminile, favorito dalla penetrazione di modelli culturali occidentali, aveva come suo epicentro la rivendicazione di alcuni diritti fondamentali: accesso all’istruzione, libera scelta del proprio sposo, possibilità d’intraprendere affari e di possedere proprietà personali, libertà di movimento, riconoscimento di un ruolo che non fosse solo quello di mogli e madri. Il contatto di queste giovani della borghesia con gli studenti oppositori del traballante Impero cinese fece sì che il piano d’emancipazione della donna fosse nel tempo sempre più intrecciato con la lotta per l’affermazione della Repubblica prefigurata da Sun Yat-sen. Molte furono all’epoca le cinesi che aderirono ad “Alleanza rivoluzionaria” (in seguito Guomindang), che svolse attività di propaganda contro l’Impero cinese essenzialmente in Giappone, dove erano emigrati molti studenti dissidenti (donne comprese). Punto di riferimento delle studentesse cinesi fu la femminista giapponese Utako Shimoda, fondatrice di una delle più antiche scuole femminili del Giappone, l’Università Jissei. Questa donna ebbe un ruolo centrale nel collegare la questione femminile con quella nazionale cinese nei primi anni del secolo XX. A tale scopo usò una serie di strategie per rendere consapevoli i cinesi del nesso cruciale tra istruzione femminile e nazionalismo. Nel 1901 fondò a Shanghai la casa editrice “Società per il Rinnovamento”, che pubblicava la rivista “Il Continente”, ampiamente letta sia a Shanghai che nelle province, dove lei stessa scrisse diversi articoli propugnando la sua filosofia pedagogica basata sulla necessità dell’istruzione e del lavoro delle donne “per migliorare non solo se stesse ma anche il paese”. La casa editrice aveva, non a caso, lo stesso nome dell’organizzazione politica rivoluzionaria, la “Società per il rinnovamento della Cina”, sorta a Honolulu nel 1894 per opera di Sun Yat-sen e che sviluppò la sua attività tra gli emigrati cinesi, dapprima ponendosi come compito prioritario l’abbattimento violento della monarchia Manchu e, solo in seguito, concentrando in Cina la lotta contro tutte le forze feudali e contro i capitalisti stranieri che sostenevano la monarchia.
 
Tra le studentesse cinesi che nel 1904 frequentarono la scuola della Shimoda, vi era Qiu Jin, che si era unita molto presto agli studenti rivoluzionari per “cacciare i mancesi, oppressori del popolo Han, e fondare la Repubblica”. Tornata in Cina, Qiu Jin, seguendo le orme del pensiero della femminista giapponese, s’impegnò a diffondere il principio che per creare una nazione forte, non sottomessa allo sfruttatore straniero, fosse necessario il contributo delle donne che dovevano studiare e lavorare. In tal modo, gli ideali rivoluzionari di miglioramento della condizione femminile sostenuti da Qiu Jin (e per questo decapitata nel 1907), divulgati tramite “Il Giornale delle donne” (da lei stessa creato), trovarono un impulso decisivo dall’unione con le forze nazionaliste. L’avvento della Repubblica nel 1911 non portò vantaggi al cammino d’emancipazione intrapreso dalle donne. Quest’ultime, ad esempio, non ottennero il diritto di voto, e per questa ragione dal 1912 si erano sviluppati movimenti femministi di carattere suffragista, che lavorarono attivamente anche in seno al Guomindang. Gli avvenimenti successivi alla prima guerra mondiale, spinsero molte di loro ad aderire in modo massiccio al “movimento del 4 maggio” (1919) nato come reazione all’accettazione da parte cinese delle “21 richieste” e al successivo accordo nipponico-americano sul riconoscimento di “speciali interessi” del Giappone in Cina. In questo periodo, una donna in particolare si distinse per il suo impegno nella lotta per i diritti femminili: l’avvocatessa Xi Liang, fondatrice sia della “Lega per la protezione dei diritti civili”, impegnata nella difesa dei perseguitati politici, sia dell’“Associazione per la Salvezza Nazionale”, che dava appoggio e supporto legale agli scioperanti nelle fabbriche. A differenza dei movimenti precedenti, le donne attiviste inserivano ora, nella sfera delle loro rivendicazioni, anche i diritti civili, pur sempre entro finalità fortemente nazionaliste.
 
            Ciò che emerse, tuttavia, come dato decisivo per le successive conquiste femminili, fu la comparsa sulla scena nazionale di un nuovo soggetto collettivo: le operaie delle industrie tessili. Negli anni della guerra l’industria nazionale si accrebbe notevolmente come conseguenza della contrazione delle importazioni delle merci europee. Molte furono le donne che entrarono in fabbrica, e per costoro il cammino d’emancipazione passò attraverso il lavoro e le lotte sindacali, soprattutto nelle zone più industrializzate e sottoposte a maggiore sfruttamento come la regione del Canton e il Sud del paese.
 
2) Il movimento di liberazione della donna nella Cina di Mao
 
L’espansione dell’industria tessile offrì alle donne cinesi un potere contrattuale e opportunità d’emancipazione senza precedenti. Nei primi decenni del secolo XX, in concomitanza con lo sviluppo del movimento operaio e dei grandi scioperi di rivendicazione salariale e di miglioramento dei ritmi e delle condizioni di lavoro (seconda metà del 1921), le cinesi scoprirono la solidarietà femminile e la lotta. In fabbrica, crearono leghe di mutuo-soccorso.
 
Il risveglio del proletariato cinese, e con esso della coscienza delle masse sfruttate, le cui lotte assunsero nel tempo carattere anche politico, favorì nel paese la diffusione dell’ideologia marxista-leninista, che proveniva dall’influenza esercitata dalla giovane Repubblica dei Soviet, e che incise energicamente sull’ulteriore processo di crescita dei movimenti rivoluzionari e di liberazione nazionale in Cina. Nel 1921 fu fondato a Shangai, in clandestinità, il Partito comunista cinese (Pcc), che divenne in seguito punto di riferimento per la lotta d’emancipazione femminile. Molte donne aderirono al partito, dopo aver fatto il loro apprendistato politico a fianco delle lotte operaie in fabbrica. Una di queste donne era la scrittrice Ding Ling, che esordì in giovane età con alcuni componimenti in prosa, tra cui Il diario della Signorina Sofia, che rappresentò il primo racconto della storia della letteratura cinese scritto da una donna per le donne.
 
L’entrata dei comunisti nel Guomindang (1923) diede l’avvio alla formazione di un fronte unico nazionale antimperialista e antifeudale. Le forze rivoluzionarie avevano ora la possibilità di passare alla lotta decisiva, con l’obiettivo di sconfiggere i “signori della guerra” e unificare la Cina in un unico stato indipendente. Il fronte assicurò al movimento nazionalista il sostegno dell’Unione Sovietica, mentre il Pcc poté usufruire della rete e delle strutture già consolidate dal Guomindang. Tuttavia, l’unità durò fino al 1927, quando Jiang Jieshi, capo del Guomindang, preoccupato per la crescente diffusione di idee comuniste tra la classe operaia e il ceto medio urbano, lanciò contro il proletariato e il Pcc una violenta offensiva che si concluse con un orrendo massacro a Shanghai e con campagne di repressione su tutto il territorio da parte dell’esercito nazionalista (terrore bianco). Liquidato nelle fabbriche e nelle città, il gruppo superstite del Pcc s’insediò nelle aree rurali delle province meridionali, ponendosi alla testa delle lotte contadine e creando le “basi rosse”, embrioni di uno stato contrapposto a quello del Guomindang, che nel 1928 dominava su larga parte del territorio cinese.
 
In questi anni cruenti, le rivendicazioni economiche delle operaie si fusero con le lotte politiche di liberazione nazionale, avvicinando le lavoratrici ai movimenti femminili di lotta (studenteschi e non) già da tempo attivi sul territorio. Ma, soprattutto, la comunanza degli ideali cinesi con quelli dei “fratelli” sovietici e l’apertura di un varco reazionario - la borghesia nazionale (classe sociale egemone dentro il Guomindang), allarmata dal diffondersi dell’influenza dei comunisti, aveva deciso di compiere il passaggio dal campo della rivoluzione a quello degli imperialisti stranieri, dei feudatari cinesi e dei compradores - fecero sì che le battaglie femminili, oltre ad appellarsi al sentimento nazionale, assumessero sempre più carattere di classe. La proletarizzazione del lavoro femminile, la presenza di numerosi militanti comunisti nelle fabbriche e quasi un decennio di lotte e scioperi antimperialisti, contribuirono alla presa di coscienza di classe delle operaie, avvicinandole sempre più agli ideali del comunismo.
 
L’ingresso massiccio delle cinesi nelle fabbriche aveva, tuttavia, acuito il gap tra la condizione delle donne nelle città e quella delle donne nei villaggi. Le contadine, vivendo in un contesto dove il patriarcato feudale era radicato, non riuscivano a liberarsi dalla morsa della tradizione confuciana. Ma nel corso della Lunga Marcia, le contadine cinesi mostrarono dedizione e coraggio combattendo, compiendo atti di sabotaggio, andando di villaggio in villaggio per trovare cibo, individuare i nemici e soprattutto convincere i contadini ad unirsi a Mao Zedong. In questo frangente, le basi rivoluzionarie rurali realizzarono corsi d’istruzione gratuita per le contadine delle zone liberate. Quest’ultime lavoravano la terra, rifornendo di viveri l’esercito e le città sotto il suo controllo, aiutavano a trasportare il materiale bellico e in cambio ricevevano lezioni d’alfabetismo e i primi rudimenti di storia, filosofia e marxismo. Nel 1929 Mao sostenne che “le donne rappresentavano una forza decisiva per la vittoria o la sconfitta della rivoluzione”. Successivamente, nella base di Guanxi, in qualità di presidente della neonata Repubblica sovietica cinese, Mao lanciò un piano d’interventi nei confronti delle donne, che prevedeva la libertà di matrimonio e di divorzio e l’abolizione della distinzione fra figli legittimi e illegittimi.
 
Durante il conflitto cino-giapponese milioni di donne parteciparono attivamente alla guerra, entrando nell’esercito popolare di liberazione ed esercitando in modo diretto il potere nelle zone liberate e controllate dal partito. Quelle che non si arruolarono nell’esercito, producevano a domicilio filati e tessuti, garantendo il soddisfacimento delle ordinazioni del potere popolare. Il conflitto bellico fu particolarmente duro: le armate popolari dirette dal Pcc dovettero sopportare da un lato il peso principale della guerra contro gli invasori giapponesi, dall’altro combattere una guerra civile, scatenata dalle aggressioni delle truppe nazionaliste del Guomindang alle zone libere, che si protrasse oltre la vittoria sul Giappone sino alla capitolazione del governo antipopolare di Chiang Kai Shek. Nel 1949, all’indomani della proclamazione della Repubblica popolare cinese, dopo anni di contesa nazionale e civile, la vittoria definitiva della rivoluzione sancì l’avvio della metamorfosi del vecchio mondo. Si apriva una nuova epoca nella storia secolare dei popoli della Cina, che segnava il passaggio di questo paese alle vie della trasformazione socialista, sotto la guida del Pcc. Il problema dell’ulteriore sviluppo dell’emancipazione femminile non poteva prescindere dal contesto di questa esperienza storica. Essa costituiva di fatto un’acquisizione fondamentale, da cui le donne sarebbero dovute partire per affrontare una nuova tappa verso la loro liberazione.
 
Prendendo spunto da una celebre frase di Mao Zedong, le donne d’ora in avanti dovevano essere considerate “l’altra metà del cielo”, intendendo con ciò riconoscerne il valore e la dignità. Nel 1950 fu varata la legge sulla libertà di matrimonio. Nello stesso tempo, si procedette all’inserimento massiccio delle donne nel mondo del lavoro, poiché tutte le forze produttive, senza distinzione alcuna, dovevano essere messe in campo per costruire la nuova società socialista. La scelta di non vincolare rigidamente al piano statale il settore dell’industria, consentendo la creazione di una miriade di fabbriche di quartiere, di laboratori e cooperative, essenzialmente affidate all’iniziativa e alla conduzione delle unità di base, indicava che il partito non concepì affatto il lavoro femminile come risorsa “addizionale”. L’impiego del modello di crescita estensiva, con un minimo di decentramento produttivo, stimolò la socializzazione del lavoro domestico e la creazione di servizi - asili, scuole, mense collettive ecc. (la cui gestione era spesso affidata alle donne), richiesti dalla particolare struttura socio-economica. L’applicazione del tipo non completamente centralizzato di accumulazione socialista, espresso dal lavoro artigianale e dalle piccole unità di produzione (composte soprattutto da donne e anziani), consentì la rapida costruzione della base materiale del processo d’emancipazione femminile in Cina. Alla fine degli anni ’50, la quota di lavoratrici era del 90%. La riforma del sistema d’istruzione e quella agraria, insieme con una nuova legislazione del lavoro, portò più diritti e ulteriori possibilità d’occupazione per le donne.
 
Il paradigma di sviluppo economico scelto dai cinesi andò poi approfondendosi e chiarendosi nel corso di un’acuta lotta di classe, iniziata con il “grande balzo in avanti” e che ebbe il suo momento di punta con la “rivoluzione culturale”, durante la quale le cinesi dovettero per prima cosa battersi contro i tentativi di Liu Shaoqi di estrometterle dal lavoro produttivo e relegarle nel lavoro domestico. A Shangai, nel 1966, più della metà delle donne aveva abbandonato il lavoro di fabbrica ed era ritornata tra le mura domestiche. In seguito, quelle inserite nelle grandi fabbriche assunsero un ruolo d’avanguardia - quando il partito decise d’affrontare i nodi della divisione sociale del lavoro e della discriminazione salariale - poiché da sempre escluse dal lavoro intellettuale e dai posti di comando, e a causa dei livelli retributivi più bassi di quelli degli uomini. Nel 1969, già espulso Liu Shaoqi dal partito e poi cacciato dalla presidenza della Repubblica, durante il dodicesimo plenum dell’VIII Comitato centrale (ottobre 1968), una direttiva del partito stabilì una quota fissa del 30% (nelle situazioni più avanzate la proporzione raggiunse anche il 50%) di quadri femminili negli organi di gestione del potere di base e in quelli di direzione generali del partito e dello Stato.
 
Nel corso dell’esperimento maoista vi furono anche degli eccessi. La retorica dell’uguaglianza tese ad omologare la compagna-lavoratrice con il compagno-lavoratore. Attraverso i film o le riviste si possono ancora oggi vedere le sagome asessuate delle lavoratrici cinesi nelle loro tenute da lavoro (giacche e pantaloni scuri) impegnate a rifare le strade, a guidare trattori o a lavorare nei cantieri ecc. Simbolicamente esse dovevano rappresentare la parte femminile dell’avanguardia della classe operaia e contadina del paese, con lo scopo di rafforzare il tema dell’egemonia del proletariato. La socializzazione dell’educazione dei figli - nata sulla giusta spinta dell’annullamento della storica separazione tra sfera pubblica e privata – svuotò, tuttavia, la famiglia di qualsiasi ruolo. Durante la “rivoluzione culturale”, le decisioni sul matrimonio e il divorzio o su come crescere i figli furono sovente assunte nel corso delle sessioni di critica e auto-critica dei comitati di partito o delle brigate di lavoro. Infine, con i processi condotti dalle Guardie rosse, per l’epurazione degli “elementi borghesi”, molte intellettuali furono ingiustamente confinate nei campi di lavoro.
 
3) L’era del postmaoismo: le donne nell’economia socialista di mercato
 
Con la morte di Mao Zedong si aprì una nuova fase della storia cinese contrassegnata da una politica di demaoizzazione e modernizzazione. Chiuso il breve periodo di transizione neomaoista (1976-1978), Deng Xiaoping, riconosciuto come il legittimo successore del Grande Timoniere, durante il terzo plenum dell’XI Comitato centrale del Pcc (dicembre 1978) impose un nuovo corso economico caratterizzato dal contemporaneo perseguimento della strategia del riaggiustamento e delle riforme economiche. Il riaggiustamento doveva porre rimedio ai difetti di un sistema economico che, avendo fatto riferimento al modello sovietico, non corrispondeva precisamente alle necessità cinesi.
 
Il sistema vigente di pianificazione fu reso più elastico con la decentralizzazione e con la reintroduzione, ai margini del sistema, di un mercato libero e di un piccolo settore di economia individuale. Le riforme economiche (partite inizialmente nelle campagne) portarono tra il 1978 e il 1984, alla decollettivizzazione progressiva del settore agricolo e al rilancio del settore industriale ed urbano, attraverso la liberalizzazione dei prezzi e delle imprese, e la creazione delle infrastrutture necessarie per far funzionare un’economia di mercato, conseguendo ritmi sbalorditivi di crescita. Il boom industriale del 1984/85 testimoniò le immense capacità d’impresa e di sviluppo industriale della società cinese. L’apertura della Cina ai prodotti, alle tecniche e ai capitali stranieri dimostrò anche il desiderio di questo paese di coniugare modernizzazione interna e inserimento nell’economia mondiale. I dirigenti cinesi, che rivendicavano una certa continuità politica e ideologica con i predecessori, ritenevano il paese avviato sulla strada dell’attuazione del “socialismo alla cinese”, dove coesisteva un’economia mista, che nelle condizioni oggettive dell’economia internazionale era considerata l’unica strada realisticamente percorribile, in opposizione all’idealismo del “grande balzo in avanti” e agli eccessi della “rivoluzione culturale”.
 
Tuttavia, nel dare corso all’economia socialista di mercato, la Cina si era imbattuta in non pochi problemi determinati dalle liberalizzazioni economiche. Ad esempio, nelle campagne, la liberalizzazione aveva favorito il ritorno dell’impresa familiare, che andava a sostituire le piccole unità di produzione o di lavoro (composte soprattutto da donne e anziani) già ben integrate nella vita economica e sociale dei villaggi. Ciò aveva comportato il declino del ruolo delle donne. Afferma la sinologa francese Marie-Claire Bergère: “Le mogli, le figlie delle famiglie contadine lavorano ormai all’interno del nucleo familiare e sono sottoposte all’autorità del capofamiglia, che è anche il capo dell’impresa. Il padre o il marito si è sostituito al capo della squadra per la distribuzione dei compiti. Nessun punto-lavoro viene a mettere in risalto il contributo individuale delle donne ai redditi familiari: la retribuzione è in certi casi indivisa o nulla. La riforma tende a resuscitare un’autorità patriarcale. (…) Le donne della campagna hanno anche molto da perdere per il venir meno delle istituzioni mediche e di aiuto sociale, fino a questo momento finanziate con i fondi delle unità collettive. (…) Il rinnovamento dell’impresa familiare valorizza il ruolo del figlio: è il suo lavoro che permette di mantenere e sviluppare la produzione. (…) La madre che partorisce solo figlie è sempre stata disapprovata dalla società tradizionale. Ma nella Cina di Deng Xiaoping la combinazione di una riforma rurale che esalta l’impresa familiare, e di una pianificazione demografica, che si sforza d’imporre la necessità del figlio unico, dà una forza nuova all’antica maledizione”. La riforma economica tendeva nuovamente a confinare nell’ambito familiare il lavoro femminile, privato di riconoscimento sociale e, di conseguenza, svalutato. La politica del figlio unico, introdotta nel 1978, era principalmente ricaduta sulla popolazione femminile delle aree rurali, dove un numero elevato di figli significava manodopera su cui poter contare e, al contrario, “un solo figlio” voleva dire poter disporre di risorse produttive quasi nulle. Il ritorno a credenze e pratiche tradizionali e la ripresa delle reti informali di solidarietà (per lo più confinate a parenti ed amici), come forte contraccolpo all’aumento delle disuguaglianze e alla perdita del supporto sociale pubblico, avevano ridato vigore ai clan familiari. E con la complicità della propria cerchia familiare, le donne, per sfuggire alla politica del figlio unico - afferma ancora Marie-Claire Bergère - “…fanno appello a medici non autorizzati o a chirurghi occasionali pagati a mercato nero per procedere clandestinamente alla rimozione di sterilets (…) e fuggono nei villaggi vicini per partorirvi di nascosto”. La riluttanza della popolazione rurale di fronte alla limitazione delle nascite fu combattuta dalle autorità anche con metodi brutali. Ma la posta in gioco era troppo alta: se la crescita demografica nelle campagne non fosse stata controllata, la scommessa delle Quattro Modernizzazioni (agricoltura, industria, difesa, ricerca scientifica e tecnologica) sarebbe stata perduta. La pianificazione familiare era la prima e la più urgente di tutte le priorità nazionali.
 
Nonostante la legge sul matrimonio proibisse il maltrattamento o l’uccisione delle bambine e delle loro madri, la nuova politica demografica aveva favorito l’aumento esponenziale degli infanticidi femminili (con la pratica degli aborti selettivi) e la non registrazione delle bambine alla nascita, creando nelle zone rurali più povere impressionanti squilibri demografici fra i sessi. Alessandra Aresu, docente di Istituzioni di cultura cinese, sostiene che ancora oggi “Nelle aree rurali in pochi hanno potuto beneficiare dei vantaggi prodotti dalle riforme economiche dell’ultimo trentennio e in molti soffrono della privatizzazione del sistema sanitario nazionale in corso, che ha reso la salute dell’individuo un bene ancor più prezioso per chi, come i contadini, non dispongono dei mezzi per garantirsi le cure mediche necessarie in caso di malattia. Ed ecco che la qualità dell’individuo, quella che la Politica del figlio unico avrebbe dovuto favorire, resta un obiettivo lontano per le famiglie cinesi meno abbienti”.
 
Altrettanto complesso era lo scenario negli insediamenti urbani, dove le politiche di trasformazione delle imprese pubbliche avevano causato licenziamenti su larga scala. Secondo i dati riferiti dall’antropologa Elisabeth Croll all’inizio degli anni Novanta le donne costituivano il 70% dei lavoratori “dismessi”. D’altro canto, la legge varata nel 1988 per la protezione del lavoro femminile, che imponeva alle aziende alti costi sociali per la maternità, si era di fatto ritorta contro le donne nel momento in cui si assisteva al disimpegno progressivo dello Stato nei confronti delle imprese e alla sostituzione del principio dell’incremento del reddito come funzione del solo incremento dell’occupazione con quello dell’incremento del reddito in relazione all’aumento dell’efficienza e della produttività. Ciò ebbe come effetto lo spostamento di gran parte della manodopera femminile nelle piccole ditte (meno controllate), in quelle a partecipazione straniera dove prevaleva il rapporto di lavoro informale o, infine, nei settori manifatturieri delle zone economiche speciali (create per attrarre maggiori investimenti stranieri e dove le attività economiche erano principalmente regolate dal sistema del mercato), in cui si lavorava per lo più senza contratto, senza orario e con miseri salari: in sostanza, con bassi costi di gestione e grosse quantità impiegate di forza-lavoro.
 
A questi problemi si aggiungevano le lacerazioni di un esodo massiccio dalle campagne, nonostante la realizzazione da parte delle autorità di un piano di ristrutturazione dello spazio rurale (lo sviluppo di piccoli paesi, nei quali potersi dedicare ad attività artigianali e industriali), per evitare gli effetti della destabilizzazione sociale. Questa migrazione, conseguenza dello scioglimento definitivo delle comuni agricole che, insieme con le unità di lavoro, costituivano le cellule di base della produzione, aveva riguardato molte giovani donne cinesi in cerca di un lavoro nelle grandi città come cameriere, commesse od operaie nelle industrie tessili ed alimentari. Oggi la maggior parte di queste sono occupate nel terziario (commercio e settore dei servizi), anche se alcune di loro cadono vittime del racket della prostituzione o sono rapite per essere poi rivendute come mogli. La pratica del “guaimai” (rapimento e vendita) è un vero e proprio commercio della schiavitù diffuso nel periodo pre-rivoluzionario e ricomparso dalla fine degli anni ‘70 in tutta la Cina. L’immiserimento, in particolare nelle zone rurali, aveva incoraggiato il traffico delle mogli, che era un espediente utilizzato per salvare i propri nuclei familiari dalla fame.
 
Nel 1992, con lo scopo di proteggere e migliorare la posizione delle donne, fu approvata una legge sulla tutela dei loro diritti e interessi, e la Federazione nazionale delle donne cinesi, impegnata a promuovere la parità tra uomo e donna, diffuse sul territorio un programma schematizzato nella “Dichiarazione delle quattro auto-referenzialità” (rispettare se stesse; avere fiducia in se stesse; fare affidamento su se stesse; migliorare se stesse), i cui punti confluirono nelle dichiarazioni governative della Quarta Conferenza sulle Donne organizzata dall’Onu e tenutasi a Pechino nel 1995. Con l’elezione a presidente della Repubblica popolare cinese di Hu Jintao (2006) si apriva una fase, il cui obiettivo era far uscire la Cina da una politica di sviluppo economico a tutti i costi, favorendo un’economia equilibrata che tenesse conto delle sperequazioni sociali, dei danni ambientali e della condizione della donna. A quest’ultimo proposito, il governo di Pechino lanciava il nuovo piano “Aiuto alle ragazze”, per creare un ambiente a loro favorevole, promuovere l’uguaglianza tra i sessi e correggere lo squilibrio nelle nascite, con l’elargizione d’incentivi economici e sociali alle famiglie con figlie. E in un paese dove il welfare era sempre più privatizzato, ciò era la conferma che la penuria di donne era ora avvertita dalle autorità come una delle maggiori preoccupazioni del paese.