da: IraqSolidaridad ( www.nodo50.org/iraq ) - 21-06-2005
“Siamo civili innocenti che vanno a lavorare. I cecchini statunitensi sono nascosti dappertutto e prendono di mira qualsiasi persona. Non possiamo far niente e questa situazione perdura così da mesi: cecchini, aerei, mortai, bombe …”
di Sabah Ali - Baghdad, 15 giugno 2005
I pittoreschi e gradevoli paesaggi che si succedono lungo la strada ad al-Qaim contrastano chiaramente con la tragica realtà che questa piccola città, situata a circa 400 chilometri ad ovest di Baghdad, sta vivendo da più di due anni. L’Eufrate scorre lentamente e pacificamente tra villaggi e piccole città, dei quali quasi mai si parla nei mezzi di comunicazione: Karabla, Ebeidy, Rumana, Al-Ish, tutti circondati da orti con alberi da frutta. Le case bombardate, che man mano appaiono sul cammino, incominciano già a volerci dire qualcosa... ma “[...] la realtà supera qualsiasi possibile descrizione”, come ci racconta il Dr.Hamdi al-Aalusy.
Il Dr.Hamdi non era ad al-Qaim quando arrivammo, ma venne dalla città dove si trovava per poterci incontrare. Era molto arrabbiato.
- Che farete per noi? In un'altra occasione, dopo avermi intervistato, vennero fin qui le truppe statunitensi e mi trattennero nel mio ufficio per più di quattro ore. Non mi permisero di uscire fino a che mostrai loro gli archivi ed i documenti medici pertinenti che dimostravano tutto ciò che avevo dichiarato in quell'intervista.
- Che cosa volevano?
- Mi chiesero perché avevo parlato di vittime tra donne e bambini mentre il portavoce dei militari statunitensi aveva detto che erano terroristi. Dissi loro che le vittime delle quali mi ero occupato qui erano donne e bambini e mostrai loro le cartelle mediche.
Nel seguito facemmo un giro per l'ospedale, ascoltando quanto avevano da dirci pazienti e personale. Comprendemmo perché l’ira del medico era il minimo che ci si potesse aspettare. Il Dr.Hamdi doveva lavorare, proteggere la sua equipe medica ed aiutare nelle centinaia di casi urgenti, in condizioni di estrema difficoltà, nel mezzo di una situazione quasi impossibile e senza aiuto alcuno:
"Gli eventi iniziarono il 2 maggio 2005”. Cominciò il Dr.Hamdi per descrivere la situazione. “Ci fu un combattimento feroce e l'ospedale si trasformò in un campo di battaglia. Dopo tre giorni di lotta e di bombardamenti sull'ospedale decidemmo di trasferirci in un posto alternativo nel centro della città. Lì prestammo i primi aiuti, trasfusioni di sangue, demmo soluzione a problemi di nutrizione e medicine. Riuscimmo a salvare molte vite, in circostanze molto difficili. Eravamo sotto una pressione molto forte. Le ambulanze non potevano quasi muoversi, non potevamo portare a termine molti tipi di operazioni, ma ci siamo arrangiati per salvare molti bambini. Ci fu un’infinità di vittime, la maggior parte civili, decine di cadaveri, decine di feriti. La situazione era di una grande tragedia. Lanciammo molti appelli per ricevere aiuto ad organizzazioni umanitarie ed anche alle fazioni in lotta, affinché fermassero il bagno di sangue. Grazie a Dio a quel punto la situazione non andò oltre. Chiediamo a Dio pace e sicurezza per la nostra città”.
“Però anche altre città furono sottoposte a forti bombardamenti; a Karabla e Rumana morì molta gente. Non potemmo arrivare sino a loro finché non cessarono i combattimenti. Vi consiglio di andare lì a vedere i danni, le case demolite e le vittime bruciate sotto le macerie. A decine morirono in questo modo. In una casa, ad esempio, c’erano quattro morti e sette feriti. Le bombe ed i proiettili non fanno differenza tra civili e combattenti; nemmeno distinguono bambini, anziani o donne. L'orrore era spaventoso. Molte famiglie fuggirono nel deserto, senza niente su cui poter far conto, solo la sabbia ed il cielo. Fu una tragedia umana; chiediamo a Dio che non torni a ripetersi”.
- Qual’è il numero delle vittime?
- 42 morti e più di 50 feriti. Vi assicuro che la maggioranza erano civili, donne, bambini ed anziani. A Rumana abbiamo trovato sei persone morte in una casa, cinque in un’altra...
- Che cosa accadde nell'ospedale alternativo?
- Lo installammo nel diwan [grande sala o entrata per invitati] di una casa. La famiglia proprietaria ce l'offrì. Non era facile lavorarvi, ma facemmo quello che potevamo. Come diciamo noi arabi nei momenti penosi: “Al meno hai due opzioni: o resti e metti in pericolo le vite dell’equipe medica o te ne vai dalla città”. I combattimenti durarono quasi due settimane. Non dovemmo solo lavorare ad al-Qaim. Ci arrangiammo per inviare qualche aiuto medico a Karabla, ma le strade fino a Rumana erano chiuse, non potemmo aiutarli. Ci scusammo con loro attraverso alcuni canali satellitari. Andammo però a trovarli appena terminò la battaglia.
- Chi li aiutò?
- Non lo so molto bene, ma trasportarono alcuni dei feriti attraverso il deserto fino a Mosul. Installarono un ospedale alternativo ad Ebeidy e noi gli inviammo un chirurgo ed un anestesista. Fu terribile perché non potevamo trasportare i feriti all'ospedale, non potevamo far arrivare loro un'ambulanza e non sapevamo realmente che fare.
- Che cosa sta succedendo nei giorni normali, quando non ci sono operazioni militari, ci sono anche vittime?
- Certamente, abbiamo a che fare con cecchini statunitensi. Ogni giorno ci sono molte vittime. Ma, naturalmente, quando ci sono operazioni militari la cifra è molto più alta, la situazione diventa indescrivibile. Senza quasi equipaggiamento medico, con le possibilità di movimento delle ambulanze molto limitate, in condizioni di grande difficoltà... Al secondo giorno, nell'ospedale alternativo scoppiò una bomba, a soli pochi metri di distanza. In situazione di normalità abbiamo le vittime delle mine anti-uomo, dei cecchini, degli scontri. Non passa un solo giorno senza spari, vittime e famiglie che abbandonano la città.
- In questa situazione di normalità, avete sufficiente equipaggiamento medico specialmente per far fronte ai casi urgenti?
- La Mezza Luna Rossa, L'Aiuto Umanitario ed altre organizzazioni ci stanno soccorrendo, ma la situazione è molto complicata ed ovviamente abbiamo bisogno di ulteriore aiuto...
- Quali danni ha sofferto l'ospedale?
- L'ospedale fu parzialmente distrutto, perdemmo due ambulanze ed un Land Cruiser, l’impianto d’aria condizionata, la rete elettrica, le condutture dell’acqua, la strumentazione medica, parte degli edifici, ecc. Facciamo appello all'aiuto delle organizzazioni umanitarie. Nell'ospedale alternativo, potevamo portare a termine vari tipi d’interventi: trasfusioni di sangue, dare soluzione a problemi di nutrizione, chirurgia, amputazioni e paracentesi polmonare. Dovemmo scegliere tra abbandonare i feriti alla loro sorte o fare quello che potevamo per salvare le loro vite. Come medici non possiamo portarli ai nostri ambulatori privati, che ora sono chiusi. Curiamo i pazienti nelle case e per le strade...
- Per le strade?
- Sì, ci fermiamo durante il tragitto per esaminare i pazienti. I cecchini non fanno differenze tra la gente, e così i proiettili, i mortai e le bombe. Le vittime sono molte.
L'atmosfera era tesa in tutta al-Qaim. Il cartello che all'entrata principale della città diceva “Benvenuto ad al-Qaim” era scomparso. La strada commerciale principale appariva stranamente deserta; molte case ed edifici pubblici erano distrutti dalle fondamenta.
Nell'ospedale una moltitudine di uomini aspettava, uno di loro piangeva. Alle pareti, nelle finestre rotte, nelle ambulanze e negli impianti d’aria condizionata c'erano i segni dell’impatto di proiettili, pallottole e raffiche di mitragliatrice. Nella sala del pronto soccorso giaceva un giovane uomo, Qusai, con la testa ed il torace bendati, con un tubo per respirare nel naso ed un altro insanguinato che usciva dal polmone. Qusai aveva un negozio di scarpe nel mercato. Lo stava aprendo quando un cecchino statunitense gli sparò alla testa ed al petto.
“Come sta adesso?” – “La situazione è ancora instabile”, rispose il Dr.Laman che ci accompagnava nella visita. “Il polmone destro è sconquassato, e non sappiamo ancora come va la ferita alla testa, dobbiamo inviarlo a Baghdad perché lo esaminino a fondo, qui non abbiamo l’attrezzatura adeguata. Ieri abbiamo inviato ad un altro uomo ferito; è morto nel tragitto per Baghdad”.
Un uomo incominciò spontaneamente a parlarci:
“Cose così succedono quotidianamente. Ammazzano donne e bambini tutti i giorni. Con Qusai risultò ferito anche un bambino di nove anni, in una gioielleria, insieme ad uno dei dipendenti. Lo stesso luogo, la stessa strada, tutti i giorni. I cecchini sono da tutte le parti, occupano gli edifici alti e sparano indiscriminatamente. In un mese hanno ammazzato cinque donne, una di loro molto anziana, mentre andava in banca a ritirare la pensione, spararono contro un’automobile e quattro persone morirono sul posto, lei compresa”.
L'uomo che fuori piangeva, quando uscimmo, era il fratello di Qusai. Piangeva con amarezza, e non poteva nascondere la sua rabbia:
“Siamo civili innocenti che vanno a lavorare. I cecchini statunitensi sono nascosti dappertutto e prendono di mira qualsiasi persona. Non possiamo far niente e questa situazione perdura così da mesi: cecchini, aerei, mortai, bombe. Dio ci vendicherà di loro”.
Tutti gli abitanti di al-Qaim dicono che l'edificio della dogana, la cui facciata dà sulla strada commerciale principale, è occupato dalle truppe statunitensi ed è utilizzato come caserma: è il posto da cui i cecchini sparano sulla gente.
Di fronte a Qusai c'era un bimbo di dieci anni, Ahmad Abdullah. Aveva molti tubi connessi al naso, alle mani ed all'addome che era bendato. Ahmad ritornava a casa uscendo dalla scuola dopo aver ricevuto la sua pagella di fine di corso. Aveva ottenuto buoni voti ed era contento di poter passare al corso seguente quando un proiettile di mortaio lo raggiunse allo stomaco, al fegato ed al pancreas. Aveva mitragliate nella testa.
“Ciò che capitò è che gli lanciarono un proiettile di mortaio, Ahmad si spaventò ed incominciò a correre verso casa ed allora gli lanciarono un secondo proiettile che lo raggiunse. Non c'erano combattenti armati nei dintorni, nessun terrorista, gli statunitensi stavano sparando indiscriminatamente ed incessantemente”, spiegò suo padre.
Nella sala di pediatria, due donne stavano preparando due bambini, sofferenti di diarrea, ad uscire dall'ospedale, portando con se’ le medicine e le bottiglie contenenti la soluzione che dovevano assumere.
- Che cosa fate?
- Andiamo via; non è sicuro rimanere nell'ospedale.
Incominciarono a parlarci dei problemi che oggi ascoltiamo dalle labbra di quasi tutte le madri irachene: il latte è caro, i genitori non hanno lavoro, la vita è piena di difficoltà, ecc. La sala in se’ era poverissima, con un equipaggiamento vecchio, deteriorato e letti spogli. La sala per le donne non era meglio, e nemmeno le stanze per il parto. Il Dr.Laman ci spiegò che c'era una nuova sala per i parti, ma chiusa:
“Non abbiamo personale, né dottori, né infermiere, né anestesisti..., non vogliono lavorare qui. Pochi mesi fa ammazzarono una dottoressa ed il suo fidanzato, anch’egli medico; l'anestesista fu picchiato duramente dalle truppe statunitensi. Per un mese non volle tornare a lavorare”.
L'unica sala operatoria dell'ospedale non presentava un aspetto migliore. Le finestre erano murate con mattoni perché, ogni volta che riparavano i vetri, l'onda d'urto di una nuova esplosione li rompeva. Le porte erano state distrutte a calci dai soldati o dalle esplosioni.
“Qui si fa ogni tipo di operazione”, spiegò il Dr.Laman. “Al-Qaim è una città di 200.000 abitanti. Potete immaginare la pressione, con tutti i casi di donne ferite. Ora abbiamo aggiunto un tavolo operatorio, ma il luogo, come avete visto, è molto precario”.
Le pareti erano crepate, il tavolo operatorio rotto e sostenuto da un pezzo di legno. “Questa è la nostra porta elettronica”, disse il Dr.Laman con sarcasmo, indicando una porta d’alluminio che era stato rotta e riparata molte volte.
“Distruggono tutto - dice Abu Muhammad, un infermiere ed aiutante amministrativo - le porte, la strumentazione medica, le finestre, le automobili... Dicono che qui curiamo i terroristi, ma quando ci portano un paziente, non ci mettiamo a chiedergli se è un terrorista od un soldato. Lavoro qui da 30 anni, niente di tutto ciò capitava sotto il regime di Saddam, tutta questa ingiustizia... Nessun dottore era picchiato ed umiliato. Nessun medico veniva arrestato. Ci siamo liberati di Saddam, ma è allora che è cominciata la nostra vera disgrazia. Se esaminate i fascicoli delle autopsie, sono tutti di donne e bambini. Il 50 percento della gente di al-Qaim è fuggito, nella mia zona rimangono solo tre famiglie, le case sono deserte, i negozi chiusi. Essi [gli statunitensi] hanno distrutto l'edificio della Corte di Giustizia, la stazione di gasolio, un centro d'accoglienza per celibi, la compagnia assicurativa. I cecchini sono dappertutto, occupano case ed edifici. Dicono che vogliono proteggerci dai terroristi... Ma la realtà è che un giorno qualsiasi verranno e demoliranno le nostre case”.
Abu Muhammad ci mostrò tutta la distruzione subita dall'ospedale.
Una giovane vedova, chiamata Aysha, coperta di nero dalla testa ai piedi, che lavora nell'ospedale ed era lì il 2 maggio 2005, ci rese la sua testimonianza:
“Era mezzogiorno. La sparatoria cominciò dopo che ci era stato consegnato un cadavere. Accerchiarono l'ospedale. Era pieno di uomini armati. Dissi loro che i miei tre bambini erano soli in casa e ottenni di andarmene via. Dovetti correre di angolo in angolo, sotto il fuoco. Trovai dei combattenti in casa mia. Mi dissero di rimanere, ma non potei.
“Decisi di portare i bambini a casa di mio suocero, attraversando la strada. Lanciarono un proiettile contro la porta; decisi di andarci a qualunque costo. La famiglia di mio marito uscì per vedere che cosa succedeva e lanciarono un altro proiettile contro di loro, ferendo cinque bambini e quattro donne, una di esse perse un occhio. Fuggii da al-Qaim ed andai ad Ebeidy; ma lì il combattimento era ancora più duro. Allora scappai in un villaggio chiamato al-Yasim, finché la battaglia terminò. Molta gente mi consiglia di andarmene da al-Qaim, ma dove vado? Qui ho un lavoro”.
Il padre di Aysha, un anziano di 80 anni, fu assassinato da un cecchino che gli sparò mentre usciva dalla moschea. Suo marito morì quattro mesi fa in un incidente d’auto. Il maggiore dei suoi bambini ha sei anni.