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- popoli resistenti - israele - 09-11-09 - n. 294
Traduzione dal francese per www.resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
Israele in Africa, alla ricerca di un paradiso perduto (parte 1)
La connivenza tra Israele e l’apartheid sudafricano, un handicap
di René Naba
10/10/2009
Israele ha avviato un’offensiva diplomatica in Africa per ritornare al periodo d’oro della cooperazione israelo-africana dei primi tempi dell’indipendenza africana. Ma questa operazione di seduzione sembrerebbe rientrare più in una ricerca disperata di un paradiso perduto sia per il ricordo ancora vivo nella memoria della connivenza tra Israele ed il regime dell'apartheid in Sudafrica, sia per via del suo bellicismo anti-palestinese che confina Israele in un isolamento internazionale, tanto infine per la xenofobia della nuova leadership israeliana che ostacola la sua diplomazia al punto da scoraggiare anche i più fedeli tra i suoi alleati occidentali.
Il bestiario israeliano è ricco e abbondanti sono i paragoni animaleschi contro gli arabi, al punto che alcuni non esitano a considerare che si tratti di un marchio di fabbrica dei politici israeliani. Dal primo ministro laburista Golda Meir (1969-1974) al capo del Likud Menahem Begin, che li ha definiti delle «bestie a due gambe», al capo di stato maggiore di estrema destra Raphael Eytan, che non ha esitato a qualificarli come «scarafaggi», passando per il primo ministro laburista Ehud Barak che li ha paragonati a dei «coccodrilli», i principali dirigenti israeliani hanno apportato, in totale impunità, il loro contributo a questa fraseologia xenofoba che non trova paragoni in nessun altro stato (1).
Sulla scia della sua offensiva di seduzione in America Latina, la campagna diplomatica portata avanti da Avigdor Liebermann, ministro degli esteri israeliano, all’inizio di settembre, al fine di rompere la sua quarantena e mobilitarsi nella campagna contro l’Iran, ha puntato sui paesi africani che costituiscono il tradizionale punto di approdo di Israele nel continente nero (Etiopia, Kenya, Uganda), oltre che la Nigeria e il Ghana.
L’Etiopia, paese né arabo né musulmano, spinto per di più dalla strategia neoconservatrice americana a svolgere il ruolo di gendarme dell’Africa orientale, e il Kenya, che nel 1901 doveva servire da patria ebraica nel quadro del programma Uganda del ministro delle colonie britannico Joseph Chamberlain, rappresentano per i dirigenti israeliani punti di riferimento essenziali per la sicurezza della navigazione marittima dell’oceano indiano verso il porto israeliano di Eilat, nel golfo di Akaba.
Ma questo patto tacito ha procurato a questi due paesi, perno dell’alleanza con Israele contro la penisola araba e il versante africano del mondo arabo, dei seri insuccessi e dolorosi richiami all’ordine, in particolare sul percorso che conduce alle sorgenti del Nilo (Egitto, Sudan, Somalia). Il fallimento dell’intervento etiope in Somalia, nel 2007, ha aperto la strada alla recrudescenza della guerriglia delle corti islamiche a Mogadiscio, accompagnata da uno sviluppo della pirateria marittima al largo delle coste dell’Africa orientale e dalla sistemazione di una base d’appoggio della marina iraniana in Eritrea, non lontano dall’importante base franco-americana di Gibuti.
Il Kenya invece è stato teatro di sanguinosi attentati nel 1998 a Nairobi contro l’ambasciata degli Stati Uniti, e poi direttamente contro gli interessi israeliani a Mombasa, nel 2002, che hanno provocato in totale 224 morti a Nairobi, di cui 12 americani, e 15 morti a Mombasa, di cui tre israeliani.
In Nigeria, paese in preda a una guerra intestina latente tra musulmani e cristiani, incancrenita per giunta dalla corruzione dell’ordine di 300 miliardi di dollari nel corso degli ultimi tre decenni, secondo le stime della Banca mondiale, Israele è al lavoro per equipaggiare la polizia di due motovedette per la lotta contro la guerriglia nel Delta del Niger. In questa stessa ottica, Israele ha in programma di fornire alla Guinea equatoriale, per un valore di cento milioni di dollari, veicoli corazzati e piccole navi da combattimento per la protezione del nuovo eldorado del continente nero e del suo bizzoso dittatore.
Con l’aureola derivante dall’immagine di una giovane nazione costituita dai superstiti del genocidio hitleriano, fondata sul socialismo agrario, il Kibbutz, Israele ha per molto tempo goduto di prestigio tra i dirigenti africani al punto da essere invitato a una sessione speciale della prima Conferenza di tutti i popoli africani, ad Accra nel 1958. Israele era rappresentato all’epoca da Golda Meir, ministro degli esteri.
Di dimensione modesta, poco sospetto di egemonismo, Israele ha potuto anche vedersi affidata la formazione dei primi piloti dell’aviazione dell’Uganda, del Kenya, del Congo e della Tanzania, al punto di potere vantarsi del fatto di aver spinto, con la complicità dei servizi occidentali, due dirigenti africani a capo dei loro paesi, Joseph Mobutu del Congo (ex belga) e Idi Amin Dada dell’Uganda.
Tra il 1958 e il 1973, anno della rottura collettiva delle relazioni tra Israele e l’Africa, tremila esperti israeliani, cioè i due terzi degli effettivi israeliani nel Terzo mondo, si trovavano nel continente nero, l’altro terzo erano impiegati in Asia (Thailandia, Singapore, Laos, Cambogia e Filippine). Nello stesso periodo, il 50% dei corsisti del «International Institute for development, cooperation and labour studies», un organismo israeliano incaricato della formazione di tecnici per il Terzo mondo, erano di origine africana.
Al culmine della guerra fredda sovietico-americana, la penetrazione israeliana in Africa ha beneficiato del sostegno finanziario e materiale della CIA, di cui lo Stato ebraico ha assunto per delega compiti di formazione, di inquadramento e di protezione. La centrale americana ha messo a disposizione di Israele circa 80 milioni di dollari durante il decennio 1960 per finanziare alcuni movimenti controrivoluzionari in Africa - Jonas Savimbi, presidente dell’UNITA, contro l’Angola filo sovietica e Joseph Garang, capo della regione secessionista del Darfur, nel sud del Sudan, contro il governo arabo di Khartum – accordando allo stesso tempo un sostegno officioso a Milton Obote (Uganda) e una protezione discreta a Joseph Désiré Mobutu (Congo Kinshasa), rendendo più sicura la frontiera tra la Namibia e l’Angola dalle infiltrazioni destabilizzanti contro il regime dell’apartheid (2). Un’alleanza tacita identica è stata stretta tra israeliani e francesi per contenere, nel bel mezzo della guerra d’Algeria (1954-1962), la spinta nazionalista africana stimolata dall’asse Ghana, Guinea, Mali del trittico rivoluzionario Kwamé N’krumah, Sékou Touré e Modibo Keita.
L’Africa suscita bramosie (3). Continente omogeneo con una superficie di 30 milioni di Km2, l’Africa è ricca della sua diversità. Rappresentando un mercato di 600 milioni di abitanti, di cui 350 milioni di consumatori abitano nell’Africa sub sahariana, essa è il primo esportatore mondiale di oro, platino, diamanti, bauxite e manganese. Il secondo di rame e petrolio grezzo. L’Africa è inoltre il primo produttore mondiale di cacao, tè, tabacco, il secondo di sisal e cotone. Paradossalmente, il continente nero guadagna poco dalle sue ricchezze minerarie. A tal punto che i paesi ricchi di risorse minerarie si trovano spesso nei gradini più bassi della scala dello sviluppo umano elaborata dal Programma della Nazioni Unite per lo Sviluppo (PNUD). Se l’Algeria occupa il 104° posto, la Nigeria, seppure grande esportatrice di petrolio e paese che ambisce, per la sua importanza demografica, a giocare un ruolo di primo piano nello scenario diplomatico regionale e internazionale, si trova al 158° posto e la Guinea al 160° posto. La grandezza della posta in gioco si evince dalla misura delle ambizioni, in un’epoca in cui la corsa per il controllo delle fonti di energia è raddoppiata di intensità dopo la penetrazione cinese in Africa e l’esplosione dei prezzi delle materie prime.
L’Africa ha conosciuto dal 1960 al 1990, i primi trent’anni della sua indipendenza, 79 colpi di stato nel corso dei quali 82 dirigenti sono stati uccisi o rovesciati (4). In paragone, il mondo arabo, nell’occhio del ciclone dopo la scoperta del petrolio, conta nello stesso periodo 18 colpi di stato.
Il continente è una delle più grandi zone minerarie del mondo, con l’Australia, il Canada e il sud America. Si posiziona come primo produttore mondiale di molti prodotti minerari, tra cui il platino, l’oro, i diamanti, i fosfati minerali e il manganese, e possiede riserve di primo ordine di bauxite e coltan – un minerale che rientra principalmente nella composizione delle smart card. Inoltre, la metà delle riserve mondiali d’oro si trova nella regione del Witwatersrand, nel Sudafrica. Il continente estrae anche rame, zinco, ferro, così come l’uranio nel Niger e il petrolio in Angola, Nigeria, Guinea equatoriale, Gabon e Camerun. Tutti questi prodotti hanno da alcuni anni visto i loro prezzi volare sui mercati internazionali, trainati dalla domanda mondiale in generale e dalla domanda industriale in particolare, specialmente quella proveniente dalla Cina. Lo sfruttamento dei minerali è un’attività dominante e rappresenta la prima voce delle esportazioni in circa la metà dei paesi africani, soprattutto in Sudafrica, Botswana, Repubblica Democratica del Congo, Mali, Guinea, Ghana, Zambia, Zimbabwe, Niger, Tanzania, Togo e Mauritania. Altri paesi come l’Angola, Sierra Leone e Namibia hanno anch’essi sviluppato un polo minerario importante.
Secondo uno studio della Comunità di Sviluppo dell’Africa australe (SADC) e dell’Unione Europea, l’Africa avrebbe anche beneficiato nel 2005 del 17% delle spese mondiali legate alle ricerche minerarie, dopo l’Australia (23%) e il Canada (19%). Le multinazionali che dominano oggi il settore minerario ricavano l’essenziale per le loro attività dal continente africano, specialmente le imprese sudafricane che hanno sede vicino a Johannesburg, e in particolare AngloGold Ashanti, frutto dell’unione tra il gruppo ganaense Ashanti e il gigante minerario AngloGold. Altre, come AngloAmerican, primo gruppo minerario mondiale oggi insediata nel Regno Unito, hanno le loro origini in questa parte dell'Africa.
Une delle sue principali controllate, De Beers, ha tuttora la sua sede centrale e controlla il commercio di diamanti nella regione e, specialmente, in Botswana, dove è azionista e amministratrice dell’unica impresa diamantifera del paese. Nonostante questi pochi casi la maggior parte delle multinazionali operanti nel continente sono australiane, canadesi, britanniche o statunitensi. Al di fuori del Sudafrica, è possibile constatare che l’Africa non ha nessun gigante minerario all’altezza di ciò che potrebbe sperare un continente così ricco di materie prime.
I diamanti costituiscono, con le armi, il principale di richiamo di expertise israeliana in Africa. Alcuni osservatori sostengono che Israele abbia intenzione di investire massicciamente nel campo dell’informatica per rimediare alla mancanza di infrastrutture (5), in particolare sul piano della telefonia mobile. Attualmente, una decina di grandi società israeliane (Solel Bonet, Koor Industries, Meir Brothers, Agridno) sono presenti nell’economia africana attraverso investimenti diretti e prestiti erogati dalla «Banca Leumi» e dalla «Japhet Bank». Esse operano in una ventina di stati africani nei settori dell’edilizia, dell’estrazione, del commercio dei diamanti e dei metalli preziosi, specialmente l’oro zairese. Nella Repubblica Democratica del Congo, precisamente, l’azienda israeliana DGI (Dan Gertler Investment), sta per investire, tramite la sua società Oriental Iron, sette miliardi di dollari in un giacimento di ferro valutato di oltre 700 milioni di tonnellate di minerale. Il ferro, elemento centrale dei prossimi decenni per la produzione di acciaio, è oggetto di una feroce battaglia tra i due giganti BHP Billiton e Rio Tinto, in via di fusione. Presente in più paesi africani, europei e americani, il gruppo Dan Gertler ha attività nei settori dell’estrazione e della gestione di diamanti, ferro, cobalto, rame, nel settore immobiliare, nell’agricoltura e anche nei biocarburanti.
Note
1- Avigdor Liebermann si distinguerà per i suoi eccessi verbali al punto da concepire il primato del sionismo sulla democrazia, così come una soluzione finale alla questione dei prigionieri palestinesi mediante l’annegamento, ispirandosi direttamente ai procedimenti dei torturatori degli ebrei. «L’idea che vorrei vedere qui è la difesa dello Stato ebraico e sionista. Sono molto favorevole alla democrazia, ma quando c’è una contraddizione tra i valori democratici e i valori ebraici, i valori ebraici e sionisti sono i più importanti». («The vision I would like to see here is the entrenching of the Jewish and the Zionist state. I very much favor democracy, but when there is a contradiction between democratic and Jewish values, the Jewish and Zionist values are more important» Avigdor Liebermann, interview a un journal israélien reprise par le Scotsman, 23/10/2006). A luglio 2003, durante il dibattito alla Knesset, Liebermann, allora Ministro dei Trasporti, ha proposto di fornire dei bus per trasportare i prigionieri palestinesi liberati da Israele «verso un luogo senza ritorno», precisando poi che si potrebbe «annegarli nel mar Morto»
2-«The tacit alliance» E. Crosbie /Princeton University Press 1974.
3- «La spécificité du Mali sur l’échiquier africain» di Salif Mandela Djiré. Tesi di Dottorato (Antropologia), moderata da Pierre Philippe Rey - UFR territoire, environnement, société – Université Paris VIII Saint Denis - Data della discussione: 12 marzo 2009 Et Cf. Jeune Afrique 30 luglio 2006, «Ces richesses que l’Afrique laisse échapper» di Frédéric Maury
4- Recensione di Antoine Glaser e Stephen Smith nella loro opera «Comment la France a perdu l’Afrique» Ed. Calmann-Lévy 2005
5- Cfr. New York Times 8 agosto 2009 “With Cable, Laying a Basis for Growth in Africa”, di Cat Contiguglia. Secondo il quotidiano, l’apertura di un cavo a fibra ottica per permettere l’accesso a Internet a milioni di persone dell’Africa del sud e dell’est riflette un ambizioso piano di estensione dell’accesso al Web nel continente nero per favorire lo sviluppo dell’economia e dell’industria. Fabbricato da Seacom, un consorzio composto per il 75% da investitori stranieri, il cavo è la prima di una serie di 10 nuove connessioni sottomarine per l’Africa dell’est che saranno ultimate entro metà 2010. L’espansione della rete, che costerà un totale di 2,4 miliardi di dollari (circa 1,7 miliardi di euro), aiuterà a connettere l’Africa all’Europa, all’Asia e ad alcune parti del Medio Oriente a una velocità più elevata e a metà costo. Fino ad ora l’Africa aveva solamente un cavo a fibra ottica sottomarino: il meno efficace SAT-3 in Africa occidentale. Coloro che non avevano accesso a questo cavo erano obbligati a utilizzare una connessione via satellite cara e lenta.