LETTONIA:
Tra integrazione europea e “apartheid”
a cura di Mauro Gemma
La Lettonia, con i suoi circa 65.000 Kmq e 2,3 milioni
di abitanti, rappresenta lo stato intermedio tra i tre già facenti parte
dell’URSS, che si affacciano sul Mar Baltico. Solo il 57% della popolazione è
costituito da lettoni, che parlano una lingua appartenente al gruppo baltico.
Oltre il 33% è rappresentato da russi e “russofoni”, e circa l’8% da altre
componenti slave (bielorussi, ucraini) che, nel periodo sovietico, in generale
hanno sempre considerato il russo come loro prima lingua.
La Lettonia, costituitasi stato indipendente nel 1918 alla caduta dell’impero
zarista, alla vigilia dell’invasione nazista dell’URSS, nel 1940, venne
occupata dall’ “Armata Rossa” e proclamata repubblica sovietica. Dal 1941 al
1944 il paese fu sottoposto all’occupazione nazista, che si manifestò con
particolare ferocia nei confronti della resistenza e nelle operazioni di
sterminio degli ebrei, che portarono all’eliminazione fisica di oltre 90.000 persone
di religione israelita. Nelle loro azioni, i nazisti erano affiancati da
consistenti gruppi di collaborazionisti lettoni, inquadrati nei reparti delle
SS, che, al momento dell’arruolamento, dovevano prestare giuramento
direttamente a Hitler. Queste formazioni, note agli storici della resistenza
per la loro ferocia, si resero protagoniste di massacri inenarrabili, che
avevano come obiettivo, oltre agli ebrei, i militanti comunisti e gli
appartenenti alle minoranze.
In seguito alla liberazione del paese da parte dell’ “Armata Rossa”, molti
fascisti cercarono rifugio nelle folte foreste che coprono il territorio della
Lettonia, proclamandosi “fratelli dei boschi”, e, con l’aiuto dei proprietari
terrieri e di settori della popolazione contadina (una vera e propria
“Vandea”), cercarono di opporre una disperata resistenza, che si manifestava in
attentati terroristici e in uccisioni individuali: centinaia di comunisti,
impegnati nella costruzione del potere sovietico, vennero così massacrati nei
primi anni del dopoguerra, fino a quando il movimento terroristico fascista (a
cui non sono certo attribuibili le caratteristiche di “movimento di liberazione
nazionale” sbandierate dalle attuali autorità, impegnate in una preoccupante
operazione di riabilitazione storica del collaborazionismo lettone) venne
definitivamente represso.
Seguirono, in epoca staliniana, una serie di misure particolarmente severe che
comportarono la deportazione in altre repubbliche di circa 200.000 persone e
l’immigrazione massiccia in Lettonia di russi, bielorussi e ucraini, che
andarono a costituire il nerbo del locale proletariato industriale. Anche se, a
partire dagli anni ’60, la situazione parve normalizzarsi, attraverso un deciso
rilancio dell’economia e del settore industriale ed un significativo
innalzamento del livello di vita e delle prestazioni sociali, le tensioni
postbelliche non arrivarono mai ad una definitiva composizione. Così quando,
con la “perestrojka”, i fermenti nazionalisti e anticomunisti affiorarono in
superficie, le tendenze “revansciste” e separatiste, guidate dal cosiddetto
“Fronte popolare”, ripresero vigore, fino ad invocare l’indipendenza,
attraverso la proclamazione della sovranità nel maggio del 1989 e la definitiva
divisione dall’URSS, avvenuta nell’agosto del 1991.
Da quel momento, la Lettonia, subito riconosciuta dall’Occidente, e guidata
allora dal movimento moderato nazionalista “Via Lettone”, si incamminò sulla
strada delle riforme capitalistiche, rompendo i legami con il mercato
sovietico, che le avevano permesso di diventare, insieme all’Estonia, la più
prospera repubblica dell’Unione Sovietica, e ad avviare trasformazioni
strutturali in senso liberista, che dovevano portare in breve tempo
all’esplodere di una crisi economica di vaste proporzioni.
A pagarne le conseguenze è stata in primo luogo la classe operaia, che ha
assistito allo smantellamento di un apparato produttivo, che aveva perso i
tradizionali mercati di sbocco. E, dal momento che il proletariato è
rappresentato in larga parte da cittadini russi o “russofoni”, la “questione
sociale” è venuta così mescolandosi con la “questione nazionale”.
Fin dal 1991, i governi che si sono succeduti hanno praticato una politica che,
non solo ha teso ad impedire la riorganizzazione di un forte movimento operaio
(attraverso, innanzitutto, la messa al bando del Partito Comunista e
l’incarcerazione dei suoi massimi dirigenti, costretti a lunghi anni di
detenzione e spesso condannati retroattivamente per la loro partecipazione alla
repressione del collaborazionismo locale nell’immediato dopoguerra: tanto da
sollevare l’indignazione dello stesso presidente russo Putin, che ha definito questi anziani partigiani
“valorosi combattenti della Grande Guerra Patriottica”), ma che ha puntato (tra
le proteste di alcune organizzazioni umanitarie, ma nella sostanziale
indifferenza delle istituzioni internazionali) alla realizzazione di una vera e
propria “pulizia etnica”.
Dopo il 1991, in Lettonia oltre mezzo milione di cittadini appartenenti alle
minoranze nazionali è stato privato dei
diritti civili. Costoro non beneficiano né del diritto di voto, né del diritto
di impiego nella funzione pubblica. Non godono della pensione e vengono
discriminati nelle richieste di affitto e di lavoro. Sul loro passaporto figura
addirittura la dicitura “non cittadino”. Il governo è arrivato al punto di
adottare una legge che viola il diritto fondamentale all’insegnamento nella
propria lingua madre. Secondo la nuova legislazione, solamente le scuole che
insegnano in lingua lettone verranno sovvenzionate.
Ci troviamo di fronte ad un vero e proprio regime di “apartheid”, a cui
l’Unione Europea (ma, dispiace affermarlo, la stessa sinistra del continente,
con l’eccezione dei comunisti greci e di alcune componenti comuniste italiane e
belghe) non hanno saputo rispondere se non con qualche timida reprimenda.
Tutto ciò non ha impedito che la Lettonia venisse accolta nel “salotto buono”
del mondo occidentale, attraverso il suo inserimento nelle strutture sia della
NATO che dell’Unione Europea. Così, tra il novembre del 2002 e la fine del
2003, la Lettonia, che ha pagato il suo ingresso nel consesso occidentale con
costi sociali inauditi (ad esempio, il sistema agricolo rischia il collasso con
l’entrata in vigore dei vincoli europei), si è ritrovata tra i paesi legati al
carro delle avventure americane nel mondo, con l’obbligo di destinare cifre
ingenti del suo bilancio alle spese militari e ad inviare truppe in giro per il
mondo, in caso di richiesta (un piccolo contingente lettone è presente in Iraq).
Né il presidente della repubblica Vaira Vike-Freiberga, né i governi che si
sono succeduti in questi 12 anni non si sono mai opposti a tale corso della
politica nazionale. E, più di tutti, l’ultimo di centro-destra che, dopo le
elezioni dell’ottobre 2002, è diretto da Einars Repse ed esprime una coalizione
formata al Saeima (parlamento) da “Nuova Era” ( con il 23,9%, partito di
maggioranza relativa), dal “Primo partito di Lettonia” (9,6%) e da altre
formazioni minori di orientamento conservatore. Anche in occasione del
referendum per l’adesione all’Unione Europea, salutato dalla retorica
“europeista” come espressione della volontà popolare lettone, è stato impedito
ad oltre il 20% degli abitanti di votare.
Al contrario delle altre repubbliche baltiche, in Lettonia i comunisti
(fuorilegge, anche dopo l’ingresso nell’UE) hanno cercato di riorganizzarsi,
attraverso nuove coperture legali. Nel gennaio del 1994 è stato così fondato il
Partito Socialista di Lettonia (LSP), alla cui guida, dopo una lunga detenzione,
è stato eletto Alfred Rubiks, leader del Partito Comunista di Lettonia fino
all’agosto 1991. Il Partito Socialista, decisamente contrario all’integrazione
nel sistema occidentale di alleanze, si pronuncia per la creazione di un
sistema “protetto socialmente sulla base della teoria marxista” e intende
difendere “gli interessi politici e sociali del popolo lavoratore”. Il Partito
Socialista è particolarmente attivo nella lotta in difesa dei valori
antifascisti e contro il regime di “apartheid”, attraverso l’organizzazione di
incisive lotte, che hanno mobilitato decine di migliaia di persone, ottenendo
anche qualche parziale risultato.
Il Partito Socialista è la più importante tra le forze di sinistra ( le altre
sono il “Partito della concordia del popolo”, difensore dei diritti civili, e
il “Movimento per l’uguaglianza”, in rappresentanza della minoranza russa) che
hanno dato vita alla coalizione “Per i diritti dell’uomo in una Lettonia
unita”, che, nelle ultime elezioni, è diventata la seconda forza politica con
il 19,1% dei voti (rispetto al 14,2% della precedente consultazione). La
coalizione ha preso parte, in veste di osservatore, alla riunione di Berlino in
cui è nato il “Partito della Sinistra Europea”, decidendo di non aderirvi.