LITUANIA:
Tra integrazione europea e “apartheid”
a cura di Mauro Gemma
La Lituania, con una superficie di 65.200 Kmq e una
popolazione di 3,5 milioni di abitanti, è la più meridionale delle repubbliche
baltiche ex sovietiche. A differenza di Lettonia ed Estonia, in questa
repubblica oltre l’80% della popolazione è costituita da lituani (8,7% di russi
e 7% di polacchi), in gran parte cattolici, che parlano una lingua del gruppo
baltico.
Annessa alla Russia alla fine del 1700, occupata dai tedeschi durante la prima
guerra mondiale, la Lituania riconquistò l’indipendenza nel 1918. Governata, a
partire dal 1926 dal regime autoritario di Antanas Smetona, la Lituania adottò
una costituzione di tipo corporativo (fascista) nel 1938.
Dopo l’accordo sovietico-tedesco, la Lituania, come le altre repubbliche
baltiche, fu inclusa nell’Unione Sovietica, dopo avere ottenuto la restituzione
dell’attuale capitale Vilnius, fino ad allora sotto controllo polacco.
L’occupazione nazista (1941-1944), appoggiata dalle feroci formazioni fasciste
locali (si distinse il padre di Vytautas Landsbergis, il leader più conosciuto
del movimento indipendentista che riconquistò l’indipendenza nel 1991), si rese
responsabile, fra l’altro, del massacro e della deportazione nei campi di sterminio
di oltre 240.000 ebrei, che costituivano una delle più significative comunità
israelitiche europee.
Il periodo postbellico di potere sovietico, caratterizzato da un rilevante
afflusso di investimenti e di risorse energetiche, nonostante un livello di industrializzazione
meno elevato che in Lettonia ed Estonia, ha favorito una significativa crescita
dell’economia, in particolare del settore agro-industriale (l’agricoltura
lituana era tra le più produttive dell’URSS), ponendo la Lituania ai primi
posti per livelli di benessere tra le repubbliche sovietiche. La
“sovietizzazione” comportò una fase particolarmente dura di repressione dei
fermenti nazionalistici, caratterizzato anche da deportazioni di cittadini
lituani. Il processo di “russificazione” fu però meno rilevante che negli altri
paesi del Baltico.
Per questa ragione la Lituania, in cui un ruolo di particolare rilievo nella
conservazione delle tradizioni nazionali è stato svolto dalla locale Chiesa
cattolica, è stato il primo paese a proclamare l’indipendenza, confermata
dall’adesione quasi plebiscitaria (90%) alla richiesta di distacco da Mosca nel
referendum del marzo 1991. Solo il collasso dell’URSS ha però portato al
riconoscimento internazionale del nuovo stato, alla cui guida si è trovato, nell’agosto
’91, il movimento nazionalista di destra (Sajudis) di Vytautas Landsbergis.
Fu subito avviato un processo di restaurazione capitalistica, improntato al
liberismo più sfrenato, da cui sono presto derivati gravissimi squilibri
economici e sociali. L’inflazione galoppante, la penuria di combustibile
(dovuta alla brusca interruzione delle relazioni economiche con il mercato ex
sovietico), che arrivò addirittura a provocare la totale mancanza di
riscaldamento, e la crisi del settore agricolo, seguita al riassetto
proprietario dopo la privatizzazione delle terre, alimentarono un vasto
malcontento popolare, che portò, nel 1992, alla clamorosa disfatta del
“Sajudis” e alla vittoria degli ex comunisti di Algirdas Brazauskas (“Partito
democratico del lavoro”, negli anni seguenti, trasformatosi in “Partito
socialdemocratico lituano”, aderente all’Internazionale Socialista, che insieme
ad altre forze minori, tra cui l’ “Unione lituano-russa” in rappresentanza
della minoranza russofona, ha dato vita alla cosiddetta “Coalizione
socialdemocratica”) favorevoli a riforme più caute e graduali.
Nel corso degli anni ’90, che hanno visto l’alternarsi di governi di
centro-destra e di centro-sinistra, la linea predominante di politica estera è
stata la ricerca dell’integrazione della Lituania nell’ambito delle alleanze
occidentali. Sono proprio i governi “socialdemocratici”, del resto, quelli che
più si sono attivati (trovando sostegno nella stessa “Internazionale
Socialista”) per avvicinare il paese all’Unione Europea e alla NATO. Lo stesso
Brazauskas ha fatto della “vocazione europea e occidentale” della Lituania uno
dei suoi “cavalli di battaglia” e, dal 2001, in seguito alla vittoria
elettorale nelle elezioni dell’ottobre 2000, è alla guida del governo di
coalizione tra i “socialdemocratici” e la “Nuova Unione dei social-liberali”,
che ha sancito l’ingresso formale ( tra il 2002 e il 2003) della repubblica
baltica nel sistema di alleanze dell’Occidente.
Durante il premierato di Brazauskas, nel gennaio del 2003, al ballottaggio,
Rolandas Pauskas, del Partito liberaldemocratico lettone, batteva il presidente
della repubblica uscente Valdas Adamkus, facoltoso emigrato negli USA, eletto a
sorpresa nel 1998. Il nuovo presidente della repubblica si è trovato ben presto
al centro di un clamoroso scandalo, per i suoi legami con ambienti della mafia
russa, e, nell’ultimo scorcio del 2003, in seguito a grandi manifestazioni
popolari, ha dovuto subire l’avvio delle procedure di “impeachment”.
In Lituania, anche per una più limitata presenza della componente russa che, in
generale, rappresentava il nucleo operaio delle strutture comuniste, quando le
repubbliche baltiche facevano parte dell’URSS, la sinistra è oggi
elettoralmente rappresentata in modo quasi esclusivo dal “Partito socialdemocratico
lituano”. Il Partito Comunista Lituano (PCL), messo brutalmente fuorilegge
all’indomani dell’indipendenza, non ha più riacquistato una veste legale (il
piccolo Partito Socialista di Lituania, costituito da alcuni militanti
comunisti e presieduto da Mindaugas Stakvilevicius, svolge un ruolo molto
marginale).
Molti militanti comunisti, costretti alla più assoluta clandestinità, sono
stati sottoposti a persecuzioni di ogni tipo, purtroppo passate inosservate
persino alla gran parte della sinistra antagonista europea. Dirigenti del
PCL sono stati sottoposti a torture e
maltrattamenti, ed altri, nei primi anni ’90, sono stati persino rapiti in
Bielorussia, dove si erano rifugiati, in conseguenza di un blitz, effettuato
dai servizi segreti lituani.
Solo negli ultimi mesi del 2003, grazie all’iniziativa del Partito Comunista di
Grecia (l’unico che, in sede europea, si è finora battuto con vigore e coerenza
contro le ricorrenti violazioni dei diritti umani nei paesi ex socialisti del
nostro continente), Stratis Korakas, parlamentare europeo di questo partito ha
potuto fare visita agli anziani leader del PCL (Mikolas Burakiavitsious e
Giuozas Kuolialis), tuttora detenuti nelle carceri di Vilnius, chiedendone il
rilascio immediato e sollecitando l’interessamento degli organismi competenti
europei, che, naturalmente, è ancora una volta venuto meno.