Traduzione dallo spagnolo di FR
Russia: la via golpista al capitalismo
di Higinio Polo
Il 21 settembre 1993, il presidente russo Yeltsin, che era stato eletto nel
1991 e avrebbe finito il suo mandato nel 1996, si attribuiva tutti i poteri
dello Stato dissolvendo il potere legislativo e quello giudiziario.
Contemporaneamente, abbandonava la Costituzione vigente, arrogandosene il
diritto perché, a suo dire, scelto dal popolo. Si dimenticava di dire che in
ciò somigliava molto a Hitler: la sua decisione era in realtà un vero e proprio
colpo di Stato, che inaugurava in Russia la via golpista verso il capitalismo.
Pochi giorni dopo, le truppe eliminavano la resistenza con la forza e il
capitalismo s’imponeva.
Nasceva così la Russia capitalista. Che cosa era successo?
Non era la prima volta che Yeltsin tentava un colpo di Stato: nel 1991, aveva
distrutto l'URSS e destituito Gorbachev senza alcuna base legale, nel dicembre
del 1992, dopo la catastrofe che la terapia d'urto di Gaidar causò alla
popolazione russa, cercò di annullare le istituzioni, e volle farlo di nuovo il
20 marzo del 1993, ma vacillò, e i dubbi dei membri del suo governo gli fecero
fare marcia indietro. In quei giorni, i suoi consiglieri, decisi a farla finita
con ogni residuo del socialismo reale, si divisero: sapevano che l'interesse
della Russia era che si mantenesse l'Unione, purché fosse sotto un'altra forma
giuridica. La strategia di Washington, al contrario, lavorava in senso opposto,
e l'ambizione di Yeltsin e di una parte dei suoi consiglieri unita alla
pressione degli Stati Uniti, procurarono la divisione di ciò che era stata
l'URSS.
In seguito, nei primi giorni del 1992, nella neonata “nuova” Russia, Gaidar
faceva partire la terapia d'urto che avrebbe dovuto tirare fuori il paese dalle
difficoltà, ma in realtà distruggeva completamente la struttura industriale
sovietica e dilapidava le proprietà pubbliche ripartendole nelle clientele del
nuovo potere. Quel processo, spinto dalla squadra di Yeltsin, aveva avuto
dall’inizio tutto l'appoggio di Washington. In realtà, era da tempo che
appoggiavano il presidente russo: si ricordi che già nell’agosto del 1991,
durante il colpo di forza di Yanaev, quando Gorbachev rimase isolato in Crimea,
ancora con l'URSS, tanto la CIA che la NSA aiutano Yeltsin e l’informano dei
movimenti dei suoi avversari (i servizi segreti nordamericani controllavano i
telefoni di Dimitri Yazov, ministro della Difesa, e di Vladimir Kriuchkov,
presidente del KGB). L'ambasciata nordamericana a Mosca fornì a Yeltsin,
invece, sistemi di comunicazioni sicuri.
Durante il 1992, la delirante politica di Yeltsin e Gaidar - dai duri tratti
anticomunisti e che ebbe un costo sociale senza precedenti nel mondo, portando
letteralmente ala morte decine di migliaia di persone - finì per inimicare
Yeltsin alla maggioranza del Parlamento russo. La coalizione di Gorbachev non
esisteva più, ed un amalgama di forze, comuniste e nazionaliste, impugnava la
dura politica di riforme. In quei giorni, il principale argomento per
giustificare la dissoluzione dell'URSS era che la riforma avrebbe aumentato il
livello di vita della popolazione.
Al contrario, i risultati furono la distruzione del paese ed uno spettacolare
sprofondamento delle condizioni di vita in tutte le repubbliche. Nel 1992, la
squadra economica diretta da Gaidar, era composta di gente come Anatoli
Chubais, Guennadi Burbulis, Andrei Nechaiev ed altri. Contavano sulla
collaborazione d’esperti del FMI, di fondazioni nordamericane come la Ford, e
di specialisti come Jeffrey Sachs, dell'IHDI, Istituto di Harvard per lo
Sviluppo Internazionale, ed altri che arrivarono addirittura a redigere i
decreti del governo di Yeltsin.
La sua incompetenza era enorme: la squadra economica ed i suoi assessori
applicavano ricette elaborate da paesi capitalisti in difficoltà, senza nessun
riguardo al fatto che l'economia sovietica non aveva quel carattere. In quel
processo, nel 1992, si produce una vertiginosa caduta della produzione,
accompagnata da una deliberata politica di deindustrializzazione del paese e di
un’inflazione che liquidò i risparmi della popolazione, mentre si
popolarizzavano i fondi d’investimento che non erano altro che “piramidi” di
truffatori: tutto ciò fece aumentare l'opposizione, tanto tra i comunisti come
in altri settori. Il caos, l'incompetenza, l'ansia di rubare la
proprietà sociale, i nuovi liberali russi la chiameranno “terapia d'urto.”
Dietro il miraggio di creare una forza sociale che sostenesse il nuovo
capitalismo banditesco, stava il deliberato proposito di Washington di
liquidare la forza economica e industriale dell’antica URSS. La coalizione di
facto antiyeltsiniana che si delineava in quel momento, contava su vecchi
alleati del presidente russo del 1991 ora scontenti del suo operato: tanto
Aleksandr Rutskoi, vicepresidente della Russia, che Ruslán Jasbulatov,
presidente del Parlamento, finiranno per essere gli uomini in vista che
resisteranno al colpo di Stato di Yeltsin del 1993. Benché non fossero gli
unici, niente affatto.
Nel dicembre del 1992, molti degli antichi seguaci di Yeltsin hanno constatato
il fallimento della sua politica e collaborano con l’opposizione. Per annullare
la resistenza al suo governo, il presidente russo pretende di instaurare una
gestione presidenzialista che urta la volontà del Parlamento. Il Congresso di
Deputati critica con durezza la terapia d'urto, annulla i poteri straordinari
che si erano concessi a Yeltsin nel 1991 e censura Gaidar. Yeltsin cerca di
annullare le funzioni del Congresso, ma fallisce e si vede obbligato a scendere
a patti col Parlamento. Risultato, un nuovo primo ministro: Víctor
Chernomirdin. È una dura sconfitta politica. A partire da quel momento, Boris
Yeltsin si dedica a preparare la rivincita. Durante i primi mesi del 1993,
tenta varie volte in modo anticostituzionale anticostituzionale, di sciogliere
il Congresso dei Deputati. Gli arbitrari decreti che promulga, vogliono
rinforzare la sua autorità, ma finiscono con l’essere impugnati dal Tribunale
Costituzionale. In quello scenario, i sostenitori di Yeltsin pensano ad una
forzatura militare per finirla con l'opposizione, fino al punto che alcuni
parlano confidenzialmente di imitare Pinochet!
Chernomirdin aveva sostituito proprio Gaidar come primo ministro nel dicembre
del 1992, una decisione che si era imposta per attutire l’enorme scontento popolare
provocato dalla “terapia d'urto”. Ma il 16 settembre 1993, Gaidar torna al
governo. Glielo hanno chiesto Yeltsin ed il primo ministro Chermomirdin per
sbloccare la situazione: nessuno può negare il disastro economico causato dai
governi di Yeltsin, e la cosa paradossale è che di nuovo appaia in scena uno
dei principali responsabili del disastro. In quei giorni di settembre, Oleg
Lóbov, viceprimer ministro, è uno dei difensori delle riforme capitaliste, ed
Anatoli Chubais è il capo del Comitato di Privatizzazione. Il ritorno di Gaidar
è interpretato da tutti come un'offensiva contro il Parlamento, dove tanto i
comunisti come i deputati di altri settori si oppongono sempre di più alle
riforme del capitalismo mafioso di Yeltsin, e esistano tra loro interessi
divergenti è una coalizione di facto.
La Russia rimane assorta. Sul piano internazionale - con gli Stati Uniti che
tutelano attivamente il processo di smantellamento dell’Unione Sovietica, e nel
momento della crisi della Somalia che finirà con l’uscita delle truppe
nordamericane -, la retrocessione dell’influenza di Mosca nel mondo è indubbia.
Walesa celebra con champagne a Varsavia l’uscita dei soldati russi dalla
Polonia, e Washington prende posizioni nelle nuove repubbliche nate della
distruzione dell’URSS, senza che niente di tutto ciò preoccupi il nuovo governo
russo: il 17 settembre, Gaidar annuncia una dura politica di stabilizzazione
finanziaria, nonostante il suo ritorno sia accolto male dal Parlamento,
dichiara che è arrivato il momento di scegliere tra “le due linee esistenti nel
governo russo.” È una dichiarazione di guerra a chi si oppone alla politica di
Yeltsin, tanto evidente e tanto grossolana che il vicepresidente Rutskoi accusa
Yeltsin di volere imporre una dittatura. Allo stesso tempo, Washington è
attenta agli indizi preoccupanti: nelle varie repubbliche che avevano fatto
parte dell'URSS fino a meno di due anni prima, ci sono tendenze di
reintegrazione con Mosca, fino al punto che Jasbulatov propone un Parlamento
comune a tutte, con un’organizzazione che sia almeno simile a quella della
Comunità Europea. Washington, e la squadra di Yeltsin, credono che sia arrivato
il momento di agire con decisione.
In un confronto sempre più duro tra Yeltsin ed il Parlamento, il presidente
russo accetta di celebrare elezioni anticipate, parlamentari e presidenziali,
per sbloccare la crisi, anche se i consiglieri di Yeltsin consiglino di
costituire un Parlamento di transizione, senza celebrare elezioni! Il 18
settembre, in un movimento che annuncia novità, Oleg Lóbov è il famoso
segretario del Consiglio di Sicurezza, ed il generale Nikolai Golushko,
ministro di Sicurezza.
Il giorno chiave è il 21 di settembre: Yeltsin dissolve i poteri legislativo e
giudiziario con un atto che non è altro che un colpo di Stato, come quello di
Fujimori in Perù nell’aprile del 1992. Il Tribunale Costituzionale dichiara
illegale il golpe ed i deputati si concentrano nell'edificio della Casa Bianca
(come avevano ribattezzato il Parlamento) per ostacolarne l’occupazione
militare. Dal 24 di settembre, il Parlamento è circondato da diecimila soldati
del Ministero dell'Interno, e rimane senza riscaldamento né elettricità. Alla
fine di settembre, Yeltsin minaccia di destituire tutti i governatori e sindaci
del paese che non si allineano sulle sue posizioni e promette elezioni
legislative per dicembre, ed elezioni presidenziali per il giugno del 1994.
Cerca di guadagnare tempo, davanti al blocco della situazione. Il 30 settembre,
si riuniscono i rappresentanti del governo di Yeltsin con rappresentanti degli
assediati: giungono all'accordo che si ristabilisca il riscaldamento,
l'elettricità e l'acqua al Parlamento, in cambio della consegna delle armi di
chi resiste all'interno.
Tuttavia, il Parlamento respinge gli accordi raggiunti dai suoi rappresentanti,
decidendo che finché non si leva l'assedio non entrerà in altre negoziazioni.
Quando incomincia il mese di ottobre, i deputati sono già da dieci giorni
assediati. Il vicepresidente Rutskoi crede che l'esercito sia con loro, e si
dirige all'ONU affinché si ostacoli “uno sbocco sanguinoso” alla crisi, mentre
il presidente russo riceve il patriarca della chiesa ortodossa, Alessio II, che
si è offerto in funzione di mediatore: le due parti in lotta l'accettano. Nel
frattempo, a Mosca, la situazione si complica: nella piazza Pushkin si
susseguono manifestazioni di protesta contro Yeltsin, e si contano tre feriti
gravi per l'azione della polizia, contemporaneamente si riuniscono i
rappresentanti di 62 territori del paese (degli 89 che integrano la Russia) che
esigono da Yeltsin la fine dell’assedio della Casa Bianca ed il ritorno alla
situazione che esisteva prima dell’illegale decreto del 21 settembre: molti
rappresentanti dei territori minacciano iniziative se Yeltsin non revoca il suo decreto. Ma il presidente
russo ed il suo circolo non sono disposti a cedere. Il deputato ed
intellettuale Serguei Stankievich, membro della Russia Democratica ed affine a
Yeltsin, afferma che le elezioni sono negoziabili, ma non la dissoluzione del Soviet
Supremo e del Congresso.
Allo stesso tempo, il piano per screditare chi resiste nel Parlamento è
eseguito con efficienza dai media russi e dalla stampa internazionale. I
giornali e le televisioni dichiarano che insieme ai deputati che stanno all'interno
della Casa Bianca, sono arrivati “un centinaio di nazisti”, con tanto di
uniformi, che salutano braccio in alto chiunque vuole fotografarli. Le catene
di televisione internazionali diffondono in tutto il mondo le immagini dei
nazisti dell'Unità Nazionale Russa, diretti da Alexandr Barkashov. L'errore che
commettono coloro che resistono rinchiusi nel Parlamento è di accettare ad ogni
tipo di “difensori”: anni dopo si saprà che Barkashov era legato al banchiere
Gusinski ed il sindaco di Mosca, Yuri Luzhkov, entrambi sostenitori di Yeltsin
ed attivi propagandisti del colpo di Stato, e che quei nazisti andranno a
lavorare col servizio di sicurezza di Yeltsin.
Benché la situazione in quel momento sia bloccata, la fine si avvicina. Il
giorno 2 ottobre, ci sono decine di feriti tra i manifestanti contrari a
Yeltsin, e muore un poliziotto negli scontri per le strade di Mosca. Rustkoi
richiama alla ribellione contro il governo, e gli osservatori politici credono
che Yeltsin si stia debilitando progressivamente e che la sua precaria
situazione sia tale che non osi lanciare un attacco armato contro il
Parlamento. Quello stesso giorno si aggiorna la riunione del Consiglio Federale
- che era stato creato dal presidente russo come un contrappeso al Congresso
sciolto - fino al giorno 9: la proroga è interpretato come un'altra
dimostrazione di debolezza di Yeltsin.
Il giorno 3 ottobre, alle tre e mezza del pomeriggio, decine di migliaia di
persone riescono a rompere il cerchio imposto
dalle truppe di Yeltsin al Parlamento, e le dimostrazioni di euforia si
succedono. I manifestanti che inalberano bandiere rosse, gridano “Tutto il
potere ai soviet!” La rivolta era cominciata davanti alla statua di Lenin,
vicino al ponte di Crimea, e da lì, decine di migliaia di persone si dirigono
verso la televisione che sta informando
sugli avvenimenti: vanno disarmati, ci sono tra loro alcune decine di
uomini armati che spariranno davanti all'edificio dalla televisione, quando i
manifestanti incominciano a cadere sotto il fuoco dalle truppe di Yeltsin. Il
presidente russo che, come rivelerà dopo il maresciallo Shaposhnikov, è
ubriaco, decide di tirare fuori i carri armati per schiacciare l'insurrezione
popolare. Diverse fonti valutano che in quel momento erano molti i dubbi sull'atteggiamento
che avrebbe adottato l'esercito, che avrebbe potuto rimanere neutrale o
inclinarsi verso Yeltsin.
È il momento della verità per Yeltsin. Caso mai, nel Cremlino ha preparato un
elicottero per fuggire.. Il presidente russo decreta lo stato d’assedio, e
visita il ministro della Difesa, Grachov, che resisteva a dare le ordine di
attaccare i manifestanti, e alle undici della notte, Yeltsin invia un messaggio
al paese attraverso la televisione. Yeltsin ottiene l'accordo di Grachov in
cambio di regalie per tutti: cento mila rubli per soldato, duecento cinquanta
mila per ogni ufficiale e mezzo milione per generale. Prima di dare l’ordine,
diffidente, Grachov ordina di raccogliere il denaro nel Cremlino. Dopo,
incomincia il massacro: ci sono già quasi cinquanta morti e decine di ferite
davanti alla televisione. Ore più tardi, arriverà il turno del Parlamento. Già
all'alba, il primo ministro Chernomirdin parla per televisione dicendo che
forzi militari si dirigono verso Mosca “per intercettare i banditi e garantire
la sicurezza”, mentre decine di migliaia di manifestanti prendono le strade di
Mosca protestando contro Yeltsin. Ma non potranno ostacolare l’attuazione del
colpo di Stato.
Il messaggio di Yeltsin è letto da un annunciatore, ed da lui si viene a sapere
che “gli avventurieri vogliono imporre la guerra civile”. In un altro
comunicato, Yeltsin, feroce, parla della necessità di “spazzare la spazzatura
bolscevica." Il governo crea un “gruppo speciale d’emergenza” col generale
Konstantin Kobets che era stato già con Yeltsin nell’agosto del 1991, ed alle
10 di notte, Pavel Grachov e Nikolai Golushko, ministri di Difesa e Sicurezza,
rispettivamente danno l'ordine alle forze di élite di proteggere il Cremlino.
Le cancellerie e la stampa occidentale creano la cornice adeguata per far sì
che l'opinione pubblica accetti il colpo di Stato yeltsiniano: i giornali
occidentali arrivano ad affermare che i manifestanti che protestano, assaltando
la sede della televisione, stanno metteno in moto un colpo di Stato! Tutti i
grandi mezzi informativi occidentali parlano della “paura del ritorno del
comunismo” e sottolineano la presenza di nazisti tra i resistenti. L'incoerenza
della tesi è evidente, ma la confusione serve per agitare lo spauracchio di
un’inesistente coalizione rossobruna: si serve all'opinione pubblica la falsità
che contro i veri democratici - cioè, i golpisti di Yeltsin - combattono i loro
vecchi nemici, i comunisti ed i nazisti. Tutto incastrava. In Spagna, per
esempio, il quotidiano El Pais che disponeva di informazione sulla repressione
sfrenata di Yeltsin, parlava nella sua casa editrice, al contrario, di
“ribellione nazional – comunista”, in un interessato linguaggio che equiparava
i manifestanti di Mosca col nazional - socialismo hitleriano. Il proprio
Yeltsin, ben consigliato, abbona quella versione: parla della “sanguinante
battaglia in cui il paese viene sommerso dalle forze staliniste e fasciste.”
Nella scena internazionale, tutti gli attori si mobilitano. Il presidente
nordamericano Clinton convoca, lo stesso giorno 3, in sessione di emergenza, il
suo Consiglio Nazionale di Sicurezza, per seguire la situazione in Russia.
Clinton - che non aveva pronunciato una sola parola di condanna davanti
all'illegale dissoluzione del Parlamento da parte di Yelstin - afferma ora che
la violenza è responsabilità di chi si oppone al presidente russo, ed accusa
l'opposizione di “manovre per destabilizzare la situazione.” Secondo il
presidente nordamericano, in Russia, la maggioranza del paese sta con Yeltsin,
e deve appoggiarsi il “processo che condurrà ad elezioni libere e pulite”.
Clinton lo dice, sapendo che non succederà niente di ciò. Da parte sua, Strobe
Talbott, ambasciatore speciale di Clinton in Russia, afferma che gli Stati
Uniti sono sicuri che “Yeltsin farà la cosa necessaria per evitare un gran
bagno di sangue.” Lo dice, anche, sapendo che a Mosca il massacro è già
cominciato.
Clinton dichiara che è vitale che Stati Uniti e la “comunità internazionale”
appoggino Yeltsin. I suoi diplomatici pressano, e le decisioni sono immediate.
Il governo dell’Ucraina, consigliato da Washington, esprime il suo appoggio a
Yeltsin. I governi occidentali faranno la stessa cosa: il governo tedesco di
Helmut Kohl, ”non vede nessuna ragione per ritirare il suo appoggio a Yeltsin e
alle riforme”. La Francia di Mitterrand mantiene la stessa opinione di Kohl.
Durante il giorno 4 ottobre, mentre i carri armati stanno bombardando il
Parlamento russo, in una dimostrazione di indifferenza davanti al massacro, la
Comunità Europea appoggia Yeltsin, all'unanimità del Consiglio dei Ministri
degli Affari Esteri che si è riunito. Javier Solana, il ministro spagnolo, è
presente. Il ministro belga attribuisce la responsabilità degli avvenimenti ai
comunisti. Anche Vaclav Hável, il presidente ceco, appoggia Yeltsin. Tra le
potenze mondiali, solo Cina esprime la sua preoccupazione per il bagno di
sangue che ha luogo a Mosca. In Spagna, unicamente il Partito Comunista
condanna il colpo di Stato. Julio Anguita, il suo segretario generale, davanti
all'appoggio europeo e nordamericano al massacro, afferma con semplicità: “..l’
Occidente si è macchiato le mani di sangue."
Il sipario sta per scendere. Yeltsin consulta Clinton per l'assalto al
Parlamento, ed il presidente nordamericano dà luce verde. Alle sette della
mattina del 4 ottobre, Yeltsin ordina di iniziare l'attacco; i carri armati
bombardano il Parlamento. L'assalto alla Casa Bianca è feroce. Yeltsin mobilita
trenta mila soldati ed unità aerotrasportate. L'operazione di attacco al Parlamento
è guidata dalla divisione corazzata Tamanskaya, la divisione Dzherzhinski, i
paracadutisti, e truppe di intervento speciale. Non era successo qualcosa di
simile in Europa dalla Seconda Guerra Mondiale. Yeltsin parla per televisione
per annunciare l'immediato schiacciamento della “la rivolta fascista e
comunista”, denunciando che i ribelli pretendevano “di ristabilire una
sanguinante dittatura”, e dichiara l'illegalità di 14 organizzazioni, tra di
esse il Partito Comunista russo, il controllo delle sue sedi ed il congelamento
dei suoi conti. Il giornale comunista Pravda è chiuso.
Nel Parlamento muoiono più di cento persone, ma le cifre esatte sono ancora
oggi un segreto di Stato. In un mondo “alla rovescia”, per giustificare il
massacro il presidente russo dichiara che “quelli che agitano bandiere rosse
sono tornati ad irrigare la Russia col sangue”, e il proprio Clinton afferma
dopo che l’assalto al Parlamento era “inevitabile per garantire l'ordine.”
Dodici ore dopo avere cominciato il bombardamento chi resiste nel Parlamento -
in fiamme, distrutto, insanguinato, con decine di cadaveri abbandonati
dappertutto, con centinaia di feriti - si arrende. Il colpo di Stato aveva
trionfato, e la via golpista al capitalismo confermava che niente poteva i suoi
ispiratori, a Mosca o a Washington.
Il 5 ottobre, Mosca è completamente controllata dalle forze di Yeltsin. Tutto il paese ha la prova che il governo
non retrocederà davanti a nulla, e che è disposto a schiacciare qualunque
protesta; ha, inoltre, il completo appoggio degli Stati Uniti e della Comunità
Europea. Si parla di 127 morti e di 600 feriti: non ci sono precedenti di un
massacro simile in Europa dal 1945. Ma non c'è tempo da perdere, e gli
avvenimenti precipitano. Yeltsin destituisce governatori, imprigiona centinaia
di detenuti in un stadio, chiude giornali, stabilisce la censura precauzionale,
ed incominciano ad arrivare notizie di torture ai detenuti. L'agenzia ufficiale
parla di mille cinquecento detenuti. In scene che ricordavano le strade di Santiago
del Cile nel 1973, varie persone erano state fucilate in un stadio vicino al
Parlamento. Il Tribunale Costituzionale smette di funzionare perché decide di
sospendere le sue attività: gli uomini di Yeltsin avevano voluto la dimissione
di Valeri Zorkin, presidente del Tribunale, minacciandolo di processarlo come
golpista! Quando la situazione è ormai sotto controllo, Yeltsin, la cui rozzezza non nasconde la sua
gratitudine, telefona a Clinton per ringraziarlo, come informerà lo stesso
governo russo.
Il giorno 6, con un gesto significativo, la guardia d’onore del mausoleo di
Lenin è soppressa, e Yeltsin parla di nuovo in televisione, affermando che
l'opposizione preparava “una dittatura sanguinante della svastica e della falce
e martello.” Zorkin non resiste alle pressioni e presenta le dimissioni, che
porterà il giorno seguente alla sospensione dello stesso Tribunale
Costituzionale con un decreto di Yeltsin. Mentre, il presidente russo prolunga
la validità dei vaglia di privatizzazione fino a Luglio del 1994. Le operazioni
di repressione sono sistematiche: nella seconda notte a Mosca sono fermate
1.700 persone per “essere uscite in strada senza autorizzazione”, ed altre 900
per altre cause. Nella terza notte, cinque civili sono feriti con armi da fuoco
e 3.500 persone sono fermate. Il giorno 8, sono fermate più di 5.000 persone.
L'attività delle organizzazioni politiche si limita: si annuncia che i partiti
che vogliano presentarsi alle elezioni dovranno raccogliere 100.000 firme in
differenti distretti del paese, ed il giorno 8 Yeltsin dichiara illegale il
Partito Comunista Russo durante lo stato d’assedio, intanto Serguei Filatov,
capo del gabinetto di Yeltsin, dichiara che non deve permettere al Partito
Comunista di partecipare alle elezioni.
La riorganizzazione dei comunisti aveva passato momenti molto difficili: dopo
aver reso illegale il partito nel 1991, il Tribunale Costituzionale aveva
decretato, nell'autunno del 1992, la legittimità delle organizzazioni di base
del PCUS, invalidando parzialmente la decisione di Yeltsin di proibirlo. Quella
fu una delle vie per la riorganizzazione, senza mezzi, del Partito Comunista
Russo.
Il 9 ottobre, Yeltsin decide di prorogare lo stato d’assedio che aveva imposto
il 4. Il presidente russo firma un
decreto che smonta il sistema statale dei soviet che già erano orfani del
Soviet Supremo. Il decreto sospende le funzioni di tutti i deputati a tutti i
livelli, dai quartieri fino ai paesi, e le funzioni passano ad essere assunte
dalla amministrazione locale. Alcuni voci parlano di fare “una transizione
civilizzata” che eviti nuovi bagni di sangue, e Gorbachev si offre per
“salvare” il paese. Sono voci nel vuoto: ha trionfato il via golpista al
capitalismo.
Dopo, una notizia ed una antidemocratica costituzione sarà imposta alla Russia:
i risultati raggiunti in tutte le regioni del paese non furono mai resi
pubblici, e si elaborò una nuova legge elettorale. L'alcolizzato Yeltsin
approfitta della via golpista al capitalismo, e le elezioni presidenziali del
1996 saranno rubate al popolo: la vittoria sarà sottratta al candidato del
Partito Comunista, Guennadi Ziuganov, in una sporca operazione diretta dai nuovi oligarchi e dall’ambiente di
Yeltsin. La stessa cosa succederà nelle elezioni dell'anno 2000, vinte ufficialmente
da Putin, a dispetto delle denunce di mostruose irregolarità, che non sono mai
state indagate.
Gaidar l'aveva detto con chiarezza: “I russi non impareranno a lavorare fino a
che non saranno passati dalla dura scuola della disoccupazione.” Sembra impossibile,
ma la sua delirante politica cercava di aumentare la disoccupazione, sicuro che
l'instaurazione del capitalismo lo richiedeva, in un contesto internazionale in
cui - come se fosse un mondo alla rovescia, - la stampa mondiale presentava i
liberali estremisti di Yeltsin come persone democratiche e progressiste, e
quelli che impugnavano le riforme del capitalismo, come conservatori. Influenti
analisti del momento, come Andronik Migranian, affermavano che la Russia non
poteva permettersi una democrazia parlamentare, e che, al di sopra di qualunque
altra considerazione, doveva introdursi l'economia di mercato. Più tardi, si
sarebbe costruita già una “vera democrazia”, che dieci anni dopo ancora non è
arrivata. Non si possono smettere di ricordare le parole di Aleksandr Zinoviev,
antico dissidente, che aveva affermato che il proposito di Occidente non era la
democrazia, bensì la distruzione della Russia.
Oggi, la difficile situazione che soffre la popolazione delle distinte
repubbliche sovietiche non è ilprodotto della “eredità comunista”, come
continuano ripetere i propagandisti del liberalismo, bensì conseguenza diretta
di una riforma capitalista che è stato uno dei fallimenti più clamorosi di chi
ha governato il territorio dell’antica URSS, e dei suoi mentori politici. A
dieci anni di distanza, riscuote stupore il fatto che, a differenza del golpe
dell’agosto del 1991 - che fu condannato immediatamente da Washington, e che
causò pochissime vittime -, il colpo di Stato del 1993 che causò un terribile massacro,
venne difeso dagli Stati Uniti fin al primo momento. Più di una decade dopo la
sparizione dell’URSS, i laboratori ideologici del liberalismo continuano a
parlare improvvisamente del tentativo di golpe del 1991 contro Gorbachev, ma
non parlano mai del colpo di Stato di Yeltsin del 1993 che inaugura la via
golpista al capitalismo.
Una malinconica constatazione finale: non c'è dubbio che, a dispetto del suo
conclamato amore della libertà e della democrazia, il capitalismo convive con
le istituzioni democratiche mentre le forze sociali di sinistra non mettono in
pericolo il sistema di economia di mercato; ma se il suo dominio viene
impedito, le forze che difendono il capitalismo ricorrono alla forza: nella
Spagna del 1936, nell'Indonesia di 1965, nel Cile del 1973 o in qualunque altro
paese. È nuovamente successo dieci anni fa, per imporre la transizione al
capitalismo. I russi l’hanno provato. Dopo il golpe di Yeltsin, alla Russia
spettava, come nel verso di Boris Pasternak, un’alba più asfissiante ancora.
Cari
compagni, ho saputo che avete pubblicato il mio articolo su Rostropovich, mi fa
piacere e vi ringrazio. Se può esservi utile vi mando questo mio articolo (ben
più lungo) sul colpo di stato di Eltsin, ripreso in Spagna e nell'America
Latina da vari organi di stampa.
Higinio Polo