Il vertice di San Pietroburgo: è cominciata la pressione mediatica
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9 giugno 2006
Alla vigilia del vertice del G8 di San Pietroburgo, “Rete Voltaire” prende spunto dalle più recenti dichiarazioni dei dirigenti USA nei confronti della Russia, per analizzare le più significative reazioni del sistema mediatico internazionale di fronte al manifestarsi di un nuovo protagonismo della grande potenza eurasiatica.
Il 3 maggio 2006, durante la conferenza di Vilnius che riuniva i dirigenti dei paesi del Mar Baltico e del Mar Nero, il vicepresidente statunitense Dick Cheney ha dichiarato: “gli avversari delle riforme cercano di tornare indietro rispetto alle conquiste dello scorso decennio. In numerosi settori della società civile – dalla religione e dai media alle associazioni e ai partiti politici – il governo ha ingiustamente limitato i diritti del suo popolo. Altre azioni del governo russo sono state controproducenti e rischiano di intaccare le sue relazioni con altri paesi. Non esiste causa legittima che possa giustificare l’utilizzo del gas per la manipolazione delle forniture e per i tentativi di monopolizzarne il trasporto. Nessuno può giustificare azioni che intacchino l’integrità territoriale di un vicino o che ostacolino i movimenti democratici. La Russia deve fare una scelta”.
Il presidente Putin ha vivacemente reagito di fronte a queste affermazioni, che denuncerebbero gli appetiti del “compagno lupo” in cerca di prede. Esse sono state ampiamente commentate anche dai media occidentali che vi hanno visto un ritorno agli accenti della Guerra fredda.
Tale retorica riprende a grandi linee la propaganda atlantista contro la Russia che presenta l’azione di Vladimir Putin come un tentativo di “risovietizzare” un paese che la politica di Boris Eltsin aveva “democratizzato”, argomentazioni che dimenticano un po’ troppo velocemente il saccheggio dell’economia russa orchestrato negli anni 90 e l’assalto condotto contro la Duma da militari che agivano su ordine dell’ex presidente.
La dichiarazione del vicepresidente statunitense non appare isolata in seno all’amministrazione Bush. Donald Rumsfeld ha così dichiarato in un intervento dedicato alle alleanze militari largamente diffuso da Project Syndicate e dal Council on Foreign Relations: “Oggi, la nostra attenzione è concentrata sull’Iraq e l’Afghanistan. Ma nei prossimi anni le nostre priorità cambieranno. E ciò che noi saremo indotti a fare, sarà probabilmente determinato dalle scelte che opereranno altre entità. Prendiamo ad esempio la Russia (…). La Russia è il partner degli Stati Uniti in materia di sicurezza e le nostre relazioni, nell’insieme, sono eccellenti, se le confrontiamo con i tempi passati. Ma, per tanti aspetti, la Russia si è dimostrata poco cooperativa ed ha utilizzato le proprie risorse energetiche come un’arma politica, ed ha resistito ai cambiamenti politici positivi che si sono prodotti presso i suoi vicini”. Sebbene le sue affermazioni abbiano provocato molto meno scalpore di quelle di Cheney, il testo di Rumsfeld rappresenta una minaccia altrettanto chiara indirizzata al Cremlino.
La violenza delle dichiarazioni dei principali responsabili dell’amministrazione Bush denota un cambiamento nell’atteggiamento di Washington. Fino a qualche tempo fa, c’era l’abitudine di presentare i democratici statunitensi molto preoccupati per la ripresa della potenza russa e i repubblicani portati a considerare tale evoluzione come meno importante. Anche la stampa più influente sembrava preoccuparsi dei “compromessi” che George W. Bush si apprestava a realizzare con la Russia in nome della guerra al terrorismo, arrivando persino a parlare di “amicizia” tra i presidenti statunitense e russo.
Le ultime dichiarazioni di Cheney e Rumsfeld dimostrano che ormai la ripresa russa viene percepita come una minaccia pressante.
Questi propositi si manifestano nel momento in cui si sta avvicinando il vertice del G8 di San Pietroburgo, ospitato dalla Russia. Sebbene l’inizio sia previsto solo per il 3 luglio, la campagna di discredito contro la Russia è già cominciata e rivela l’inquietudine che suscita la politica di indipendenza russa.
L’analista del Washington Post, Jim Hoagland, esprime apertamente le sue paure. Egli constata che la Russia è sul punto di tirarsi fuori dal pantano ceceno, getta tutto il suo peso nei negoziati con l’Iran e utilizza le sue risorse energetiche per impedire che la NATO prenda piede in Ucraina e in Georgia. Riferendosi alle dichiarazioni di Dick Cheney a Vilnius, ritiene che si tratti di un avvertimento della Casa Bianca. Washington comprende che Mosca si trova attualmente in una posizione di forza, mentre gli USA sono sulla difensiva. L’amministrazione Bush previene il presidente Putin: non deve approfittare troppo del suo vantaggio, a rischio di vedersi opporre una risposta.
Sono rari gli analisti, come Hoagland, che pongono il problema in questi termini. La stampa occidentale più influente preferisce attaccare l’immagine della Russia e del suo presidente pubblicando interventi che mettono in discussione la sua partecipazione al G8.
Si assiste così allo sviluppo parallelo di due argomentazioni. Poiché il G8 si annuncia come il raggruppamento delle otto democrazie più sviluppate economicamente, la critica consiste sia nel negare alla Russia lo status di democrazia, che nel presentarla come un piccolo paese povero e non come una potenza sul punto di ritrovare il proprio rango.
Come al solito, quando è il momento di denigrare la Russia, si distingue in modo particolare il centro di diffusione di commenti Project Syndicate. In particolare esso ha trasmesso al Japan Times un testo dell’ex primo ministro russo Egor Gaydar. Questo ex collaboratore di Boris Eltsin a Mosca e, in seguito di John Negroponte a Baghdad, assicura che Vladimir Putin è sul punto di annientare i contropoteri democratici e che si mantiene al Cremlino, cercando di assicurare in modo abusivo che egli rappresenterebbe la sola alternativa al fascismo nel paese. Non si tratterebbe che di una menzogna, dal momento che il vero nemico del fascismo è la mobilitazione civile che dipende da una stampa libera e da un parlamento che eserciti il proprio ruolo di contropotere, precisamente ciò che il Cremlino starebbe attaccando, secondo l’autore. Questa accusa di deriva autoritaria della Russia è diventata un classico dopo la pubblicazione dell’appello di 115 atlantisti (tra cui Massimo D’Alema e Giuliano Amato, nota del traduttore) contro Vladimir Putin. Essa è anche al centro del testo del commentatore polacco Konstanty Gebert che assicura, nel Daily Star, nel Daily Times, nel Jordan Times e senza dubbio anche in altre pubblicazioni, che la natura non democratica del regime russo lo rende indegno di accogliere una riunione del G8. Questo intervento è stato pubblicato anche da Project Syndicate.
Il circolo legato a George Soros non è tuttavia solo in tale compagnia. Così, Rachel Ehrenfeld e Alyssa A. Lappen, dell’American Center for Democracy commentano nel Washington Times l’azione giudiziaria di Norex Petroleum contro l’impresa petrolifera russa Alfa Group. Emettendo già una condanna nei confronti dell’impresa accusata, esse affermano che i suoi metodi dimostrano la corruzione del sistema economico russo, accusato sia di servire in maniera disonesta gli interessi di qualche oligarca che, cosa ancor più grave, di servire la strategia politica del Cremlino che aspira ad acquisire sempre maggiore influenza nei mercati petroliferi internazionali. A guisa di conclusione, le due autrici enunciano ciò che ai loro occhi appare la cosa più grave: Alfa Group ha fatto affari con l’Iraq di Saddam Hussein e li fa oggi con Cuba.
Accanto a queste accuse sulla natura del regime russo, si trovano attacchi circa la debolezza economica del paese.
Sempre attraverso Project Syndicate, il professore di economia di Harvard e già esperto del FMI Kenneth Rogoff, assicura con ironia mordace che la Russia non è che un paese povero che non ha nulla a che fare con il G8. Nel Korea Herald e nel Daily Star, ricorda che essa non ha che un PIL equivalente a quello di Los Angeles e dintorni, che i suoi abitanti hanno sperimentato una caduta considerevole della loro speranza di vita. L’autore sostiene che Putin ha sacrificato le pensioni sull’altare dell’eccedenza di bilancio. In breve, la Russia è un piccolo paese, per nulla potente, che deve la propria posizione ai prezzi delle materie prime, malgrado l’incompetenza dei suoi dirigenti.
L’analista della Chatham House, David Wall, ritiene che, in considerazione della sua mortalità infantile, della sua degenerazione demografica e dei problemi sanitari che toccano la popolazione maschile, la Russia possa venire considerata come uno Stato in disfacimento.
Questi due modi di presentare la situazione sembrano essere dettati più dal metodo Coué che da un’analisi puntuale. Basandosi su elementi presenti fuori dal contesto, i due autori stendono in effetti un bilancio della Russia a partire dai dati attuali, senza però prendere in considerazione la sua evoluzione dopo il 1998. E’ vero che la Russia ha conosciuto un grave problema demografico, ma Vladimir Putin ne ha fatto una priorità politica aumentando gli assegni familiari. Inoltre, la Russia non ha uno dei PIL più elevati del mondo, ma la sua crescita economica è forte e si fonda su settori vitali per l’economia mondiale. E il paragone con la California inganna poiché i metodi di rilevazione statistica differiscono, in ragione del fatto che gli Stati Uniti contabilizzano la loro bolla finanziaria. Di conseguenza, Mosca non ha niente della “tigre di carta” su cui ironizzano i signori Rogoff e Wall. Del resto, nessuno di questi esperti pare convinto delle argomentazioni che propone, dal momento che entrambi sostengono le critiche di Cheney a proposito della potenza energetica russa e dell’uso che ne verrebbe fatto.
Al contrario, per l’analista siriano Taha Abdelouahed, nel giornale comunista di Damasco, An Nour, le tensioni attuali tra la Russia e gli Stati Uniti dimostrano che almeno una parte dell’amministrazione Bush desidera piegare il Cremlino poiché è preoccupata dell’influenza che sta riguadagnando grazie alla sua potenza energetica. Ma Mosca non sembra curarsene e continua ad estenderla, malgrado l’annuncio di un prossimo ritiro dell’Ucraina e della Georgia dalla CSI. Oggi, Washington non sembra disporre di alcun mezzo di pressione contro Mosca, commenta l’analista con soddisfazione contenuta.
In effetti, contrariamente alla stampa occidentale, la Russia gode di una buona immagine nella stampa araba dove viene presentata come la sola alternativa all’iperpotenza statunitense. Così, nel giornale ufficiale egiziano Al Ahram, l’editorialista Ayman El-Amir, riprende l’analisi di Taha Abdelouahed e ne conclude che il mondo ha tutto da guadagnare dalla rinascita russa.
Traduzione di Mauro Gemma per www.resistenze.org